A pranzo con Lukács

Aldo Rosselli

Edizioni Theoria, 1986

Telefonò un amico, di parecchi anni più anziano di me. Uomo affabile, filologo di primo rango e anche, a tempo perso, traduttore dall’ungherese, U.A. mi informò che a Firenze si trovava per una breve visita György Lukács, e voleva che io lo incontrassi.

Buttando giù il telefono mi sentii quasi incredulo. Il più grande filosofo marxista del ventesimo secolo, il Commissario del popolo sotto Béla Kun nel 1921, l’autore de L’anima e le forme, dell’ormai mitica Storia e coscienza di classe, tornava a Firenze, da lui conosciuta a fondo agli inizi del secolo. Correva l’inverno del 1956, a metà di un decennio da tutti definito grigio e opaco, in cui Firenze era spazzata dalla tramontana e pareva chiudersi su se stessa come un riccio, lasciando allo sbando quelli che pur avrebbero voluto crearsi una coscienza, rispettare, o addirittura inseguire, quei pochi indizi di un’esistenza non priva di senso.

Forse non mi rendevo conto che Lukács potesse essere ancora vivo; d’altronde il discusso autore della ponderosa Distruzione della ragione – così, almeno, io ragionavo – non poteva essere un sopravvissuto. Caso mai, pur anziano, viaggiava come ambasciatore di una cultura elitaria, aperta ai pochi capaci di arrampicarsi sui nevosi picchi della conoscenza. Nella timorosa eccitazione seguita alla telefonata dell’amico mi guardai intorno per capire dov’era che stavo trascorrendo il mio ventunesimo anno. Le stanze si confondevano tra loro, le une nelle altre. Un vasto giardino, pieno del cupore di grandi lecci e querce, trasportava verso di me un vago odore di marciume e di selvatico. Quella che da alcuni veniva definita «decadenza» aveva da tempo invaso i vasti spazi entro cui scuri mobili secenteschi campeggiavano come un discorso frammentario e minaccioso. I lunghi e praticamente ininterrotti scaffali di libri esilavano un sentore di marcescenza stranamente parallelo a quello del giardino. Per un istante un’oscura soffocazione mi attanagliò alla gola. Poi tutto tornò al suo posto, restituendo significato alle ben ordinate stratificazioni che la Storia – quella mia? quella di decenni o di secoli precedenti a me? – imponeva agli spazi che mi erano cosi ben noti.

***

La tavola era imbandita come per le feste, o le occasioni importanti (ormai cosi drasticamente diradate), e insieme con i vari membri di famiglia, tra cui mia madre vestita di nero e con un filo di perle austeramente allacciato intorno al collo, stava l’invitato di riguardo Professor György Lukács, con la piccola moglie, mite e silenziosa, seduta accanto a lui. La conversazione (che dovette adottare il tedesco come lingua comune) fu vivace, pur essendo il mio tedesco, di fresca acquisizione, titubante e impreciso. Tuttavia non ricordo quasi nulla di ciò che fu detto, quasi che queste parole, proferite in diversi toni e livelli di padronanza, si fossero disperse nell’aria, attratte dalla lieve muffa dell’ambiente e insieme dai profumi di quelle piante esotiche che ancora sopravvivevano all’incuria dell’anziano giardiniere.

Il marxista Lukács, il rivoluzionario, il Commissario del popolo con Béla Kun, ma anche il tenace dialettico, l’indagatore dell’estetica, parlava con una certa pesantezza misurata e dolce. Si mostrava attento ai fatti quotidiani, alle quisquilie di un mondo che affondava in un’esasperante incertezza; e la sua tolleranza era qua e là divertita, come fosse materia di piccola ironia il fatto che il mondo non riuscisse che ad essere uguale a se stesso. Facevo fatica a cogliere il senso delle lunghe frasi inanellate tra loro, insaporite di un lieve accento esotico, e in preda a una certa fastidiosa tensione attendevo la parola incisiva, o addirittura definitiva. Forse le eccellenti maniere del filosofo, da «grande borghese», non permettevano pronunziamenti troppo squillanti, o forse egli semplicemente aveva davanti agli occhi un’altra Firenze, di molti decenni prima, e lasciava che la nostalgia compisse il suo gioco. Sta di fatto che infine prevalse il tintinnio dei bicchieri e il sordo rumore di coltelli e forchette che andavano all’assalto di cotolette e fresche foglie d’insalata.

I miei studi non erano particolarmente brillanti, e le letture, che pure si susseguivano con esasperante regolarità, non pervenivano a un approdo. Un amico, che si prodigava a fornirmi testi un po’ «diversi», mi aveva prestato un’edizione di Storia e coscienza di classe. L’opera era voluminosa e in qualche modo minacciosa, e oltre tutto era in tedesco. Avevo tuttavia capito che si trattava di un testo «fondamentale», anche se ignoto ai più. Ne avevo letto intere parti, mentre altre erano rimaste in ombra, sommerse da certe difficoltà che non riuscivo a dirimere. Mi ero comunque accorto che, al di là delle argomentazioni pressantemente dialettiche, ero stato colpito da alcune brevi dichiarazioni, o costatazioni. Ad esempio: «La scienza borghese considera i fenomeni della società – consapevolmente o meno, in modo ingenuo o sublimato – sempre dal punto di vista dell’individuo. E da questo punto di vista non si può pervenire ad alcuna totalità; al massimo si perviene ad aspetti di un campo parziale, ma per lo più soltanto a qualcosa di frammentario: “fatti” al di fuori di un contesto o leggi parziali astratte». Leggevo questi brani seduto su una poltrona di vimini in fondo al giardino, sotto gli ampi rami di un pino la cui cima, alta e svettante, minacciava di troncarsi. Era bel tempo e una lieve brezza giungeva fino a me, accarezzandomi il viso con inatteso languore.

Leggendo il testo di Lukács, ero colto da un improvviso senso di colpa – e mi pareva infatti di arrossire in viso –, come se la mia giovane vita, calata negli ambigui comforts di una borghesia ottusa e ciarliera, riuscisse soltanto a vivere una lunga e ininterrotta bugia, in mezzo ai piccoli flirts e a tutti gli altri minuti inganni che mi cullavano nell’illusione di vivere in attesa di qualcosa di diverso, di illuminante. Ma vagamente capivo come, non essendomi sino in fondo dedicato alla dialettica del marxismo, o al sostegno della lotta operaia, era impossibile che la mia voce fosse in sintonia con il movimento che sottintendeva la Rivoluzione, o entrasse in dialogo con la vasta inquietudine che preparava la totale trasformazione, nonché distruzione, dei resti del detestabile ancien régime. Spesso, continuando a leggere in questo caotico infittirsi di impressioni e idee, ero costretto a togliere, con un brusco movimento della mano, gli aghi di pino che oscuravano i caratteri tipografici della carta.

 ***

Arrivati al dolce, il Professor Lukács aveva assunto un’aria particolarmente amabile. Era giunto – forse per compiacere mia madre – a rammentare gli anni in cui, nel corso del primo decennio del secolo, era vissuto a Firenze, in una pensioncina qualunque, intento agli studi e preda di una costante meraviglia per le bellezze della città. Non sembrava tanto che rimpiangesse la giovinezza – anzi, per qualche ragione mi sembrava impossibile immaginarlo giovane – , quanto che vedesse in quegli anni spogli e austeri, per lo più spesi nelle vaste e silenziose sale delle biblioteche, il senso di una dura disciplina congiunta alle forme ineffabili della Bellezza, delle anatomie di Donatello o dei profili botticelliani.

Con la frutta, improvvisamente, il viso di Lukács si oscurò, come se invece di avere davanti a sé noi, improvvisati interlocutori, fosse ripiombato nell’angoscia – forse un breve miraggio – delle antiche lotte in cui, spesso vincitore, aveva però alcune volte dovuto chinare amaramente il capo, dichiararsi pentito, accettare la censura. Il viso arguto, coi capelli radi color argento, si era distanziato. Avrei voluto chiedergli molte cose, ma tacqui. Nella mia mente si agitavano citazioni, punti dialettici particolarmente ardui, ma tutto quanto formava infine un magma indistinto, quasi un turbinio in cui la Storia, gli ideali, la Rivoluzione finivano per accorparsi assurdamente con le note sagome di un salotto borghese, con quella finissima polvere che si accumula su mobili e soprammobili. Premevo coi miei ventun anni per pronunciare almeno una parola significativa, problematica. Le finestre erano aperte, ed entrava, quasi a strati, un’aria molle, pesante. Come sempre, la mia mutezza era in rapporto all’atmosfera avvolgente che mi circondava, e pareva ridicolizzare un intervento, o finanche una semplice battuta. Il Professore giunto da Budapest scambiava convenevoli con mia madre e per un istante sembrava fosse proprio lui ad aver scritto quei grossi tomi citati con rispetto in certe discussioni tra studenti o intellettuali particolarmente «impegnati». Lui aveva un’aria assai amabile e, con le sue maniere compunte, sembrava voler suggerire che del trambusto della Rivoluzione era meglio tacere, rimandare fino a un’occasione più propizia, fino ai distanti orizzonti che, visti dalla tavola da pranzo, erano delle linee purpuree appena tracciate, confinanti con un’inquietante invisibilità. Ci alzammo tutti da tavola, passando in salotto; parlando del più e del meno trascorse forse un’altra mezz’ora.

***

Nei giorni successivi studiai meno del solito. Era stato, è vero, preso un appuntamento con Lukács e sua moglie perché io li portassi in macchina e li accompagnassi a rivedere, dopo tanto tempo, quella Siena che per lui era sopra ogni altra città incomparabile.

Intanto, trascurati i testi per gli esami, avevo ripreso a leggere La montagna incantata di Thomas Mann. Ora convulsamente, ora con fiacca, perseguivo le nobili ma mistificanti vicende del giovane Hans Castorp. Leggevo per il piacere di leggere, ma sotto sotto andavo ricercando qualcosa di particolare, nascosto tra le righe. Avevo tra le mani, per cosi dire, un indizio. Qualcuno, amico o professore, mi aveva detto che uno dei personaggi di spicco del romanzo, Naphta, era stato ispirato da György Lukács.

Mi riusciva difficile capire come il piccolo professore da me conosciuto, stretto nei suoi grigi abiti borghesi, potesse essere stato immischiato nel mondo particolare e appartato del tubercolosario, della neve scintillante e degli obliqui discorsi dei personaggi rarefatti nella vasta parentesi, morbosa e febbrile, della malattia.

«Un giovanotto di aspetto semplice e comune era partito in piena estate da Amburgo, sua città natale, diretto a Davos, nel Cantone dei Grigioni, dove contava di rimanere tre settimane in visita presso un suo parente». Era appena l’inizio del libro, ma mi ci ero soffermato a lungo, certamente più del dovuto, in una specie di dormiveglia interrotto da vaghi presentimenti intorno all’andamento del racconto, a quel suo catastrofismo misto a chiacchiere e riti spesso non ben precisati.

Accomodandomi meglio sul letto, con ben tre cuscini a sostenere la testa, presi a sfogliare il volume a caso, saltando interi capitoli e cogliendo qua e là alcune parole particolarmente preziose. Un testo che, pur prolisso e misterioso, era straordinariamente preciso nelle allocuzioni e anche, si capisce, nelle quasi fotografiche descrizioni dei personaggi, ogni tanto deformati da una qualche bizzarria. Mentre in me si trasformava in un opaco paesaggio percorso da invisibili omuncoli votati all’inanità, oppure a un inesprimibile disastro. Senza volerlo, mentre saltavo interi capitoli a pie pari, arrivai a quella parte «segreta» della narrazione in cui compariva questo Naphta. Ma che nome era Naphta, entro quale classificazione poteva entrare? Quasi subito, però, trovai un punto cui aggrapparmi: «Poiché… (Naphta amava in modo particolare questa congiunzione; nella sua bocca essa assumeva qualcosa tra il trionfante e l’inesorabile, e dietro le lenti degli occhiali i suoi occhi mandavano lampi ogni volta che egli poteva intercalarla nei suoi discorsi)».

Era già un indizio, una labile idea entro cui tracciare lo schema di un personaggio. La voce di Naphta ispirato a Lukács risaliva, per me, a qualche anno prima. Non ne ero affatto certo, ma mi pareva di ricordare che me lo avesse suggerito anche mia nonna, durante uno di quegli interminabili crepuscoli in cui, chissà perché, lei rifiutava di accendere le luci, e la conversazione combatteva, per cosi dire, coi suoi guizzi e i suoi lampi, contro l’inquietudine dell’oscurità. D’altronde mia nonna aveva conosciuto Frau Mann, oltre alla figlia Elizabeth, ed aveva trascorso qualche pomeriggio – come anch’io, del resto – alla villa dei Mann lungo le pendici di Fiesole. Li sotto gli archi, davanti alle aiuole di fiori e ai cipressi, stavo più che altro zitto, ascoltando i discorsi degli adulti, aspettando forse che in mezzo al soffocante verde mi giungesse qualche citazione di Tonio Kröger, il racconto che per primo mi aveva fatto intuire come, al di là del chiacchiericcio familiare, c’era un mondo di dolore e nostalgia corrispondente per l’autore, ma anche per me lettore adolescente, a un’aura di nobiltà.

E anche adesso, semi-disteso, pur avendo letto tanti libri, mi ritornava dinanzi l’immagine di Hans e Ingeborg, e quel miscuglio di sentimenti e desiderio che mi aveva costretto per lunghe ore da solo, nella stanza, a contemplare qualcosa che finiva sempre per sfuggirmi, come se stessi camminando in un paesaggio su cui fosse scesa una nebbia fittissima. E poi, nonostante il piacevole smarrimento, la messa a fuoco di certe parole, o frasi («… e improvvisamente un tale scotimento di nostalgia scosse il suo petto che involontariamente si ritirò ulteriormente nel buio affinché nessuno potesse vedere le contrazioni del suo viso»), saliva in me l’insoddisfazione come una turba inarrestabile, in questa mia stanza dall’aria sempre più soffocante.

Per me lo scrittore doveva avere i lineamenti severi di Thomas Mann, la sua religione della severità e del distacco. Mi era venuto in mente da tempo – fin dalla mia prima adolescenza – che non valesse la pena di scrivere a meno che non si potesse guardare il mondo da dietro una paratia di vetro opaco. Qualcosa come un rito, ma non esattamente, piuttosto come un sacrificio nascosto, una profonda e dolente invidia della vita per la quale, appunto, nessun tratto del viso doveva mostrare la minima deformazione. Il mio problema, naturalmente, era che non potevo mai essere sicuro se questi sentimenti che mi sembrava di provare fossero davvero miei o se invece fossero soltanto di riporto, ricalcando certi giri preziosi di frase, o immedesimandosi in certi improvvisi punti esclamativi dei grandi autori. Essere studenti comportava la confusione delle fonti, quella pigra indecisione intorno ai significati, al nocciolo dell’esistenza.

Il pomeriggio, col suo andamento lentissimo, procedeva allo stesso modo di un pomeriggio del 1911 (data di pubblicazione di Tonio Kröger) o di qualsiasi altro anno precedente la mia nascita. La mia presenza non sembrava differenziarlo; e i mobili e i quadri che avevo davanti agli occhi potevano appartenere a una qualsiasi età, nulla, proprio nulla, etichettandoli in un senso o nell’altro. La mia vita di pigro lettore era resa possibile da questa generale indifferenziazione, entro cui avvenivano movimenti minimi, o anche previsioni di sentimenti, cosi vaghi, però, da non scalfire il guscio estetico entro cui si agitavano gli informi bacilli dell’esistenza.

«Qui nella sua stanza era calmo e buio. Ma da sotto arrivò tenuamente ai suoi orecchi il ritmo di waltzer, ottundente e triviale, della vita». Lukács era parte di questa vita, di questo colpevole estetismo borghese, ma insieme ne era il più fiero nemico. A vederlo seduto a tavola, e mangiare di buon appetito, appariva tutt’al più un professore universitario in pensione, uno di quegli uomini per i quali la cultura è un fatto di decoro, o anche di dignitoso rigore. Una cultura che, sia pure con qualche minimo attrito, era adatta al velluto dei salotti, al loro dolciastro calarsi nel consenso di un doveroso benessere. Ma chiaramente l’aspetto ingannava, sul viso del Professore doveva essersi sovrapposta una maschera, un invisibile sdoppiamento. La Rivoluzione, la lotta clandestina, l’avanzamento della classe operaia, il complesso tessuto dialettico del marxismo, mal si adattavano a certi riti borghesi. Erano parte di un altro atto della commedia, anzi, erano una commedia del tutto diversa che avveniva sullo stesso palcoscenico.

Mi ero alzato dal letto, avvicinandomi alla finestra aperta sul giardino. In Filosofia dell’arte, imprestatomi di recente, avevo sottolineato una frase: «La realtà dell’arte, infatti, implica che essa sia prodotta dalla volontà umana ricercante l’opera e che con la realtà dell’esperienza vissuta abbia in comune l’immediatezza dell’essere stimolato». Sarebbe stato inesatto dire che avevo riflettuto a lungo su questo pensiero di Lukács. Piuttosto vi avevo riconosciuto un nocciolo di difficoltà che mi stimolava a ricercare gli strati ulteriori. La prospettiva di cui godevo dalla finestra, smussata in una serie di verdi, contorniati da un colore smorto e tendente al viola, sembravano delineare questa difficoltà di capire; ma anche, in modo ambiguo, parevano suggerire l’inutilità della ricerca, la preferibilità di attestarsi su una zona neutra, fuori dei contrasti che poi, un po’ scioccamente, lasciavano ansimanti, dolorosamente perplessi, fissati irrimediabilmente su un punto irrisolvibile.

In casa, in quei giorni, non si nominò neppure una volta il Professor Lukács. Era sottinteso che fosse un uomo fuori del comune, ma quel brillio troppo intenso degli occhi, la lieve sciatteria degli abiti, il suo rifiutarsi, nonostante la bonomia, alla conversazione da salotto, ovvero alla quotidianità, destavano una certa inquietudine, o forse soltanto una certa qual perplessità. Anche per me era difficile parlarne: nella mia ottica il Professore portava dalla strada, o anche dalla steppa (ma in questo caso forse la mia immaginazione correva troppo…), un sentore di piccoli e maleodoranti scantinati, concitate discussioni notturne, sottili lame dialettiche fendenti l’aria di una città dell’impero austro-ungarico che per un eccesso di intelligenza, o di remore, stava sprofondando nei miasmi del nulla. Ma da quel nulla la voce di Lukács, misurata e compunta, quanto agghiacciante per la sicumera di un futuro pianificato in ogni suo minimo dettaglio, sibilava sopra ogni altra voce, o suono, umano. Col suo linguaggio complesso, che però non lasciava nulla al caso, sigillava, per cosi dire, ogni diatriba. L’ordine del giorno, i dettami delle strategie, erano siglati da un uomo di bassa statura, dall’aria dimessa, fasciato da un doppiopetto grigio. Non alzava mai la voce, ma sembrava essere dappertutto, instancabilmente, in ogni riunione nelle parti più diverse della città assediata dai primi vasti cretti della disgregazione.

La mia realtà, invece, di una Firenze raggrumata nel suo silenzio astioso, di un grigiore che voleva essere aristocratico ma che spesso invece rassomigliava piuttosto a una grisaglia di piccolo impiegato, consisteva nella difficoltà di far slittare le ore. I pasti, le letture, i lunghi sonni, le pacate conversazioni con pochi amici fidati, facevano parte di una musica sommessa, monocroma, tendente alla cantilena ripetitiva e soporífica. Alcune settimane fa avevo incontrato una ragazza, Brigida, e avevamo preso a fare delle lunghe passeggiate insieme, raccontandoci di qualche libro letto, o confrontando qualche disco. Ero attratto da lei, ma non sembrava mai presentarsi la parola giusta; stavamo da parti opposte di una sottile parete. E poi, cosa forse molto fiorentina, si faceva sentire un forte rammarico ancor prima che fosse avvenuto qualcosa. Lei mi guardava come se aspettasse, dai resoconti delle mie letture, un fatto che la riguardasse da vicino, una comunicazione oltre il testo che potesse avvicinarci. Ma quella leggera nebbiolina che occultava tra loro i ponti dell’Arno ci teneva discosti, pieni soltanto di quelle parole che servono a ripararsi l’uno dall’altro.

È probabile che abbia parlato anche a Brigida di Lukács, spiegandole in poche parole l’onore che avevo avuto di ricevere in casa il leggendario filosofo del marxismo, oltre che il celebre rivoluzionario. Forse lei reagì come avrebbe fatto nei confronti di una citazione dotta. Non insistetti sull’argomento del mio ospite. Ricordo di lei il suo perbenismo, la sua ferma volontà di non essere sorpresa nei suoi sentimenti.

«Probabilmente ancora ricordi, Lisabeta, che mi avevi chiamato un bourgeois, un bourgeois manqué. Mi avevi chiamato cosi in una circostanza in cui, trascinato da altre confessioni che mi ero precedentemente lasciato sfuggire, ti avevo confessato il mio amore per la vita, o ciò che io chiamo vita». Era stata una lettura a frammenti, nella rabbia di cadere nella sublime narcosi manniana, ma anche di dover tenere conto della sua celebre ironia, che mi mandava sottili fitte di gelo giù per la schiena. Se io avevo qualcosa a che fare con la «nobiltà dello spirito» era solo per la mia scontrosità, il mio testardo mutismo, la neghittosità per tutto quanto non avesse a che fare con quei testi azzurri e marroni asserragliati sul comodino accanto al letto, somiglianti più che altro a una testa di ponte.

Lukács, invece, mi faceva paura. Via via che trascorrevano i pochi giorni che mi separavano dal nuovo incontro con lui mi rendevo sempre più conto della mia insufficienza. Avevo pranzato di fronte a un uomo di cui non sapevo niente, e per conoscere il quale non potevo affidarmi all’intuizione. Nel suo doppiopetto grigio egli aveva meditato, nei lunghi decenni poveri e «invisibili», per poi dire cose non più replicabili intorno alla borghesia di cui anch’io, nonostante tutto, facevo parte. Cose terrificanti, circondate dai meccanismi di un hegelismo rivisitato, e di un Marx armato, bellicoso. Stentavo a leggere le parole, a ogni passo in avanti che credevo di compiere venivo fermato dall’aura della sottigliezza e dell’ineffabilità. «Il superamento dell’idea logico-metafisica di bellezza, senza abbandonare il terreno filosofico e senza cadere in un puro e semplice storicismo o psicologismo, è stato possibile solo uscendo dalla sua astratta trascendenza». Pareva di essere alle soglie di qualcosa di fondamentale, ma intanto s’impadroniva di me un fastidioso formicolio che mi costringeva ad alzarmi, a fare due passi per la stanza. Inevitabilmente pensavo alle mani nodose, cosparse di grandi vene in forte rilievo, del Professor Lukács, al loro armeggiare con coltello e forchetta. Era – secondo il modo con cui il ricordo si stagliava nella memoria – come se quelle mani compissero dei gesti autonomi, che non avevano niente a che fare col tagliare il cibo e portarselo alla bocca. Attraverso quelle mani si ricostruivano certe nottate a Budapest, il loro stringere altre mani in piccole sale appartate, piene di una concitazione diffusa, o il loro compiere gesti autorevoli, a braccia alzate, girando per l’aria tra il fitto fumo delle sigarette per persuadere un uditorio che già stentava a disciplinarsi per l’entusiasmo. Era più difficile, pensando a quelle mani, immaginare che avessero accarezzato una donna, o un bambino piccolo a malapena ritto sulle gambette. Poi, chissà perché, mi ricordavo lo sforzo quasi esasperato che le mani del Professore compivano su coltello e forchetta per ritagliarsi una fettina di bistecca. Una vera e propria lotta, temperata dalle buone maniere. Si notava nelle dita uno sforzo tale che si sarebbe detto che il Professore stesse esercitandosi a un’opera manuale, proprio – eh sì, non c’era possibilità di equivocare – da operaio intento, insieme a milioni di altri, a impadronirsi dei mezzi di produzione.

 ***

Mi ero dato appuntamento con Brigida, ben deciso a fare qualche passo avanti, a impedire comunque quella stasi che poi, a letto, mi faceva rigirare senza fine, in preda a un inutile tormento. Mi fermai di fronte a lei, notando la sua sorpresa. – Le letture – le dissi, fissando lo sguardo nei suoi occhi di pallidissimo azzurro – non sono fini a se stesse. Sono un nutrimento, anzi, entrano nel nostro sangue –. Notai che quegli occhi si stavano schiarendo ancora di più. Pur circospetta, Brigida aveva l’aria delusa. – Per esempio – continuai –, questo Naphta, ispirato al Professore che è stato a pranzo da noi, è del tutto particolare, non lo potresti mai incontrare in questa Firenze di villini e viali alberati. Ascolta – le presi, per la prima volta, la mano nella mia, per garantirle qualcosa che anche in me era, tutt’al più, un magma viscido, imprendibile. – Naphta era avvolto in un soprabito nero, lungo fino ai piedi e abbottonato fino al mento, foderato di pelliccia della quale però, al di fuori, non si vedeva traccia –. Brigida continuò a camminare, senza voltarsi. Disse soltanto: – È una descrizione come un’altra. Di Naphta, a parte il soprabito, ne so quanto prima.

La mia lettura era cosi recente che avevo davanti agli occhi l’ebreo ex-gesuita Naphta, in fitto colloquio col razionalista Settembrini, e le più brevi considerazioni di signori che si chiamavano Wehsal e Ferge. Un colloquio in cui, almeno come descrittore, o sostenitore, interveniva pesantemente l’autore. «Ah, naturalmente» – egli scriveva – «Naphta intendeva trattenere l’umanità nella sua posizione irrazionale di fronte ai fatti biologici, egli sosteneva il gradino religioso primitivo in cui la morte era ancora uno spavento, ed appariva avvolta in un’atmosfera di tremore, di specie cosi misteriosa, da non permettere allo sguardo della chiara ragione di rivolgersi a quel fenomeno. Quale barbarie!». Era chiaro che già solo l’idea di questo Naphta ripugnava a Brigida. Probabilmente le sembrava un’aberrazione interrompere il nostro colloquio con l’allusione a personaggi cosi inutilmente bizzarri. Adesso c’era tra noi il silenzio, mentre la magistrale traccia lasciata dall’apparizione di Naphta sembrava aleggiare nell’aria, garantire, insomma, una presenza non soltanto letteraria o filosofica.

Continuando la passeggiata su per il viale dei Colli, sentendo sotto i piedi le foglie viscide e marcescenti, mentre sugli alberi ne sopravviveva ancora qualcuna di colore squillante, arancione o gialla, continuavo ad avere pensieri confusi, rintuzzati, per cosi dire, dal fatto che Brigida sempre più si mostrava noncurante, e quasi preoccupata nei miei confronti che io volessi continuare a parlare di questi poco plausibili signori, né del tutto letterari, né del tutto appartenenti alla vita, ma piuttosto ridicolmente sospesi in una non meglio definita terra di nessuno.

Era un autunno insidioso, umido e spento sovrastato da un cielo che mostrava subitanei squarci di azzurro. Il tempo sembrava rallentato, ma per uno studente si trattava soltanto di un prolungato momento di attesa. Firenze, come città, non era né amica né nemica; se ne stava là, acquattata nella sua pietra grigia, nei suoi stretti vicoli che circolavano intorno a un centro inesistente, piena di rumori sordi di botteghe artigiane, suggeritrice di promesse che svanivano nell’aria cruda di commerci e richiami.

A qualche passo di distanza da Brigida tornavo dentro di me al lungo implausibile scambio tra Settembrini e Naphta. Per Settembrini, fautore della ragionevolezza, «la malattia significava una superaccentuazione dell’elemento corporeo: essa additava, per cosi dire, all’uomo il suo corpo e lo riconduceva, lo respingeva ad esso, pregiudicando la dignità umana fino a diventare soltanto corpo». Ci trovavamo sotto i grandi platani del viale, e Brigida aveva assunto l’atteggiamento inconfondibile della donna abbandonata. Non faceva che accomodarsi i capelli, girando la testa a destra e a sinistra per guardare cose che per me non erano distinguibili, ma che forse, al di là dei tronchi degli alberi, erano i vasti campi ancora sopravvissuti all’avanzare della città, certi casolari giallognoli e, ancora più in là, la grigia fumosità di una Firenze i cui campanili e tetti erano appiattiti nell’indistinto.

Dalla lettura di quei giorni si stagliava con allarmante vivezza un Naphta per il quale «in ogni modo l’uomo era essenzialmente malato, ciò che appunto lo rendeva uomo, e chi lo voleva risanare, chi voleva fargli fare pace con la natura, “ricondurlo alla natura” (mentre non era mai stato naturale), tutto ciò che blateravano in tono profetico i rigeneratori, i fautori dell’alimentazione di cibi a base di carne cruda, della vita all’aria aperta, dei bagni di sole, ogni specie di Rousseau insomma, non otteneva che il risultato di privarlo della sua umanità, di imbestialirlo». Non osavo più estrinsecare a Brigida questi colloqui che per me, di notte, erano stati cosi vivificanti. Ed era anche probabile che lei avesse ragione a non volerli sentire, dato che innegabilmente mi eccitavano in modo innaturale, facendomi nutrire il grande sogno di essere scomparso dai conteggi bottegai della città fervente e indifferente, e di essermi trasferito, anch’io, sui pendii nevosi che avrebbero ospitato le punte più ispide, eccitanti, e forse anche proibite, della fitta dialettica attraverso cui si liberava l’aria e per la prima volta si scoprivano le punte candide sotto le quali le basi di poderosa roccia frammentata prestavano una tonalità solenne, di realtà ineludibile. Ma forse era soltanto un sogno, uno di quei sogni, appunto, che Brigida temeva come indizio di un mio continuo alibi.

Era proprio in quei momenti che prendevo sotto braccio Brigida, conducendola con quel tanto di decisione da farle pensare che fossimo diretti in un luogo preciso. Può sembrare strano, ma nella Firenze del 1956 non c’era esattamente dove andare. Si, il gelato da Rivoire, o alla Loggia, oppure i panini tartufati in via Tornabuoni. Luoghi che riempivano una parte del pomeriggio e facevano dimenticare, per qualche istante, che ovunque si andasse si cozzava contro quei dialoghi, o quelle descrizioni, che la stampa dei libri che compravamo coi nostri risparmi indicava come perentori. E in particolare in quell’autunno grigio, o color seppia, del 1956, i posti in cui, quasi ad apertura di libro, ci trovavamo senza che neppure lo volessimo, erano innumerevoli. Parigi, Praga, Budapest, New York erano soltanto alcuni puntini sulla mappa geografica che andava continuamente ampliandosi. E adesso Davos, stazione sciistica fra le più rinomate, ma anche punto di raduno di vasti convalescenziari.

D’altronde era ripugnante l’invenzione in tutto ciò, il sospetto che questi luoghi potessero anche non esistere, o che fossero intercambiabili. Per questo, e non per altro, la presenza del Professor Lukács e della sua deliziosa moglie un po’ scimmiesca, a pranzo a casa mia, costituiva un punto fermo. Era della massima importanza che Brigida potesse capire come il pranzo si era svolto, in ogni suo particolare. Certo, un pranzo qualsiasi, con un menu adeguato e ben servito, ma anche straordinariamente diverso. Infatti Lukács, che si era comportato esattamente come richiedeva la situazione, era anche l’ambasciatore occulto di situazioni e accadimenti che entravano nelle pagine su cui mi soffermavo particolarmente.

Brigida assentiva sempre, con un particolare movimento della testa, assumendo un’aria compresa. Non si prendeva la briga di commentare, ma con la mano mi stringeva il polso, complice delle mie storie, forse commossa che io cercassi di renderle reale ciò che a malapena si distingueva da una notizia di cronaca avvolta in quell’«aura» che contrassegnava tutto ciò che raccontavo. Ma poi, quando io ero già sicuro dell’effetto della mia narrazione, Brigida domandava: – Chi è questo Lukács? – Allora non hai seguito niente – le rimproveravo – . Non sei neppure stata attenta alla genesi della Rivoluzione, alle armi della Dialettica, alla faticosa cospirazione nei caffè e nelle modeste case messe a disposizione. Allora, chiaramente, non sai situare neppure Storia e coscienza di classe o l’Estetica di Heidelberg. Tutto svaporato nel nulla, come una favola piccolo-borghese…

Pensavo che nel rapporto tra Brigida e me non ci fosse futuro. Esisteva, certo, l’attrazione, una mia pulsione stranamente più forte al cospetto di un suo particolare cappottino blu. Ma le parole giravano intorno a se stesse, simulando comprensione, o vicinanza; ed erano poche, misurate, quasi avare, come se il parlare avrebbe annullato il ritmo sempre uguale che prendevamo per le nostre passeggiate, soprattutto su per il viale Michelangelo, dove la salita appena accentuata costringeva a un minimo di concentrazione fisica. Thomas Mann, Lenin, Bucharin, Rilke, Schnitzler, restavano dei fantasmi rispetto alle mete che abitualmente ci prefiggevamo, ad esempio il caffè Belvedere, dove, a detta di molti, la cioccolata con panna era la migliore della città.

II

Avevo saputo, sempre dall’amico U.A., che Lukács aveva accettato di fare una chiacchierata informale nel salotto di certi ricchi fiorentini. L’amico stesso si era incaricato di fare da interprete dal tedesco. Era stato improvvisato un podio, dietro il quale Lukács scompariva quasi completamente. Il pubblico era un misto di studiosi, nobili e signore del bel mondo. Al solito – cosi almeno mi fu riferito – Lukács, avendo anche lui visto un bel po’ di mondo, volle fare il diplomatico. Ebbe sperticate lodi per Firenze, dicendo che era l’unica città al mondo in cui, pur essendo poverissimi, si poteva essere felici. Tornò sul soggetto delle pensioncine, dei musei gratuiti e delle tante volte che si era rifugiato al Bargello, diviso dall’ammirazione per il Davide di Donatello e i bassorilievi di Luca della Robbia. Le passeggiate di ore e ore su per i colli, il prosciutto e un bicchiere di vino. E lentamente, in questo contesto unico, la genesi dei suoi pensieri di quegli anni, agli albori del secolo. I punti seminali de L’anima e le forme, gli appunti presi nel freddo della stanza della pensione. La tesi di quell’opera era che le forme letterarie sono l’espressione di certi contenuti mentali, certi modi di vedere e sentire la vita, e che appartiene al critico collegare ogni forma al suo contenuto corrispondente. Un linguaggio neo-kantiano, irto di espressioni idealistiche.

Immaginavo, anche se non me l’avevano riferito, le mani nodose di Lukács che si tormentavano sopra lo scranno. La sua voce, paziente ed erudita, mi fece sapere U.A., aveva avuto qua e là delle note più stridule. Pareva quasi che stesse parlando d’altro, di anni più agitati, della spinta all’azione che si lasciava dietro la perfezione neokantiana, e le sicurezze accademiche. Spesso, al di là dei fatti, del tutto trasparenti, Lukács parlava per allusioni. Non era chiaro che cosa queste allusioni dovessero proteggere o nascondere: forse le diatribe interne alla rivoluzione ungherese del 1919, oppure, parecchi anni più tardi, le nequizie di Stalin e le terribili purghe che falcidiarono i più begli ingegni che stavano allora germogliando. Alle allusioni corrispondeva un movimento simmetrico della testa di Lukács, da destra a sinistra e quindi al contrario. Il pubblico era estremamente attento, e pareva portare rispetto a un uomo cosi immerso nella Storia. Mancava, tuttavia, ogni segno di partecipazione, come se il rispetto impedisse di parteggiare o, a maggior ragione, di appassionarsi. A Firenze, negli anni Cinquanta, contava soprattutto atteggiarsi in modo giusto, indossare quella maschera di annoiata benevolenza che costituiva la chiave d’accesso a qualsiasi accadimento.

D’altronde il senso di bellezza classica che, almeno con vaghezza idealistica, si attagliava anche al più incanaglito borghese fiorentino, sembrava, sia pure attraverso le mediazioni di Hegel o di Engels, corrispondere a un anelito del bello che fremeva sotto la pelle giallognola del vecchio Lukács cosi come gli aveva fatto battere il cuore nei giovani anni, quando l’Europa aveva mantenuto la sua forma essenziale, prima di sgretolarsi sotto i colpi brutali della Grande Guerra.

Dovetti subito ammettere, da studente un po’ svogliato quale io ero, che L’anima e le forme ed Estetica di Heidelberg risultavano testi troppo ardui per la mia preparazione approssimativa. Coglievo qua e là, in quegli scritti sontuosi e cifrati, delle folgorazioni, o anche soltanto delle intuizioni che per qualche istante mi facevano sognare di una misteriosa pregnanza della cultura. Goethe, Kant e Marx danzavano entro un vortice di concetti che mi stordivano, anche se piacevolmente, mentre la piccola pila di libri sul mio comodino si andava accrescendo di altri tomi, fino a rappresentare per me, assonnato ma anche stimolato, eccitato, dall’imponente costruzione del Pensiero, una mostruosa scultura babelica, che lentamente mi cullava, rassicurandomi sugli interrogativi che le mie giornate andavano sempre più spalancando.

Per me la bellezza, limitatamente ai parametri della grande casa avita, era gli squarci sulla vite americana che pendeva già rossiccia dai muri esterni del giardino, o anche un attimo di «percezione particolare», che Brigida, chissà perché, persisteva nel chiamare «estasi». Ma tutto ciò mi sembrava sempre troppo confuso, velleitario. Tra i libri che cosi generosamente U.A. mi aveva fatto pervenire, avevo scovato una considerazione lukacsiana sulla bellezza, contenuta in Parametri di storia della letteratura tedesca moderna, che sembrava appagarmi, particolarmente in quei momenti di coscienza alternata che precedevano il sonno: «… è precisamente l’unità della veracità brutale con la bellezza che riassume il realmente classico in contrapposizione col classicistico e l’accademico. In generale, le contraddizioni sociali si manifestano troppo bruscamente o rimangono troppo sottosviluppate perché le relazioni tra gli uomini appaiano secondo profili chiari, espressivi, belli. Nella storia, dunque, è stato possibile realizzare la bellezza e preservare un’invincibile verità artistica solo in circostanze brevi ed eccezionali».

Queste parole, che qualche volta mi risuonavano dentro frammentariamente anche di giorno, finivano per mescolarsi con esperienze le più diverse. Disponevo di una modestissima collezione di dischi a 78 giri. Tra questi forse il più suonato era la Sonata in Si Bemolle Maggiore, Opera Postuma, D 960, di Schubert. Il primo movimento (molto moderato) l’avevo imparato quasi a memoria. Era composto di passaggi sommessi, impliciti, funerei in quel modo che partecipa di una finale allegria. Sulla copertina del disco campeggiava il viso meditabondo di Arthur Rubinstein, naso aquilino, bocca amara, una perla sulla cravatta scura, e nella forma di quella testa severa la garanzia di una melanconia cui la tecnica magistrale imprestava la straordinaria mutazione del suono, che senza ragione alcuna intimava che ciò con cui si era alle prese era la Musica stessa, priva di sbavature o risonanze inutili. E adesso anche questa sublime essenzialità, che comicamente conviveva coi gracidii del disco, era per me rapportata – senza che in questo ci fosse alcuna fondatezza – alla risonanza «postuma» che il brevilineo Lukács trasmetteva attraverso la sua imperiosa dialettica, tuttavia intervallata da alcuni inattesi toni elegiaci. Del resto avevo sempre l’idea, guardando Lukács portare il boccone alla bocca con la forchetta su cui erano incise le cifre dei miei bisnonni paterni, che Lukács presentisse il fallimento della Rivoluzione. E che la sua «parola armata» stesse proprio a sostegno della segreta delusione con la quale egli anticipava gli eventi. Mangiava un po’ distrattamente, trangugiando il cibo come se lo possedesse una lieve ansia di immagazzinare cibarie anche per il futuro, in cui persecuzioni e fughe avrebbero reso problematica la consumazione di pasti normali. Inoltre – se i miei occhi di studente non mi tradivano – egli masticava con una sorta di strana rassegnazione. E il suo sguardo, generalmente vivissimo, si perdeva in una lontananza che sicuramente racchiudeva in sé segmenti di passato mai del tutto digeriti.

***

Decidemmo con Brigida di andare al cinema. La sala era gelida e ci tenemmo addosso i cappotti. C’erano pochi spettatori, persi in una specie di narcosi che li rendeva rigidi nei loro singoli sedili. L’attesa del western era interminabile. Non riuscivo a non pensare a Naphta e alle sue possibili collusioni con Lukács. Avevo spesso l’impressione che Thomas Mann forzasse la mano. La sua, certamente, era una scrittura autoriale, fatta di sublimi preconcetti e di benevolenze immotivate. Ma sembrava che non fosse possibile intervenire diversamente sui capricciosi personaggi che a ogni pie sospinto avrebbero voluto approfittare di una velleitaria libertà di movimento e anche, con ogni probabilità, di pronunciamento. E infatti, alludendo allo scontro verbale tra Settembrini e Naphta, Mann dice che «la discussione era un po’ confusa». E poi, con una quasi impercettibile punta di divertimento: «I partecipanti alla disputa non soltanto si contraddicevano l’un l’altro, ma si mettevano anche in contraddizione con se stessi». Il personaggio Naphta, o Naphta tout court, veniva costruito in ogni suo dettaglio, definito in ogni atteggiamento o pensiero; ma anche, e forse soprattutto, lasciato dall’impareggiabile Mann in uno stato embrionale di ambiguità.

Era passato il venditore dei coni di gelato. Brigida aveva detto: – Ne vorrei uno, ma qui costano il doppio che fuori. Quando finisce il film passiamo in gelateria. Che ne pensi? –. Risposi che ero d’accordo; Brigida si accostò a me e prese la mia mano nella sua. Il discorso sul gelato aveva acceso in lei uno stimolo tutto particolare. La capivo, e astrattamente partecipavo al suo bisogno. Ma la sagoma di Naphta prendeva il sopravvento. I terrazzi del grande tubercolosario, la neve granulosa, l’aria di festa del tutto inspiegabile nel contesto del paesaggio reso lugubre dalla nascente oscurità.

Si erano spente le luci nella sala, e sullo schermo danzavano le sagome imprecise della pubblicità. Calati nel rito dello schermo, Brigida e io, la mano nella mano, viaggiavamo pateticamente sicuri verso le vicende traballanti del western. Il bianco e nero, i primi piani, il treno che passava sbuffante nella notte, siglavano la nostra appartenenza ai due sedili accanto, alle nostre due appropriate solitudini che stemperavano quell’indistinto caos che rendeva Firenze un intrico di itinerari senza meta.

Uno dei punti della lettura su cui mi ero soffermato era quello in cui Settembrini, perplesso e offeso, si diceva spaventato dal «libertinaggio religioso del soldatesco Naphta che mescolava Dio e diavolo, santità e misfatto, genio e malattia e non conosceva né attribuzione di valore, né giudizio di intelletto, né volontà». La lettura mi risultava faticosa, e i caratteri tipografici mi danzavano davanti agli occhi; in certi momenti i personaggi, generalmente cosi vivi, erano diventati didascalici. Saltava fuori, come sempre, l’occhio gelido di Thomas Mann che controllava ogni pur minimo dettaglio, la sua scrittura che costruiva un mondo rassomigliante a un pianeta morto, salvo poi che la vita, l’agognata vita, riusciva a rientrare sulla scena per una calibrata perizia del pennino dello scrittore. Il quale, come sempre sensibile allo scenario entro il quale si agitavano le parole, o le idee, tornava costantemente a un giudizio generale intorno all’accaduto, come per diminuire l’impatto delle aggressioni reciproche, di quell’odio acuminato che pareva distruggere l’umanità dei personaggi messi in scena. «Era un viluppo, un incrocio generale, una grande confusione e Giovanni Castorp credeva di capire che gli avversari sarebbero stati meno inaspriti se tale confusione non avesse oppresso, durante la discussione, la loro stessa anima».

A me importava, al di là dell’importanza di un «incontro ai vertici», dell’acutezza delle schermaglie dialettiche, di cercare per lo meno l’impronta dell’antefatto, cioè dello sguardo quanto meno impressionato, o finanche turbato, del grande scrittore borghese dall’inflessibile rivoluzionario, ma anche pensatore rigoroso e mai scisso dalla verifica della Grande Storia. D’altronde, come avevo anche intuito da poche parole dette da Lukács al pranzo a casa mia, i due si sarebbero visti due o tre volte al massimo. E, nonostante l’ammirazione reciproca, era da immaginarsi che l’impaccio sarebbe stato grande, anzi più che un incontro disteso uno scrutarsi attento, quasi diffidente, con quella ritrosia che sono costretti a provare tra di loro i grandi spiriti. E immagino, anche, che avranno potuto parlare di alcuni dei loro grandi modelli, da Balzac a Goethe a Heine, in un susseguirsi di agnizioni reciproche, quasi di inchini dell’intelletto. E il fatto di trovarsi da parti opposte della barricata, deve aver confermato in loro la non deperibilità di certi valori. Anche se, certo, l’abito dell’austero Thomas Mann sarà stato più impeccabile, quasi dandy, rispetto al vestito da accademico passato alle barricate di György Lukács, pur tenendo conto che suo padre, ricco uomo d’affari ebreo, era stato insignito dallo Stato di una onorificenza nobiliare. Ma non erano i sarti, o i patrimoni, presenti o passati, a entrare in gioco; piuttosto i reciproci sguardi, fermi nelle loro visioni esclusive, ambivano a cogliere due mondi probabilmente incompatibili, anche se la nostalgia comune per certe opere, o voci, poteva indirizzarsi a una tacita intesa.

Il western era quasi finito. Un uomo era entrato in una casupola di legno in mezzo alla prateria e una donna, in attesa da chissà quanto tempo, era corsa verso di lui per abbracciarlo. Un abbraccio apparentemente senza fine, che cancellava di colpo le amarezze e le paure di un periodo interminabile. Il regista aveva alternato le fasi di questo abbraccio con larghi squarci di cielo, nuvolaglia e l’infinito spazio che aleggiava sulla prateria di cui campi e boscaglia annunziavano col loro tenero verde germogliante l’arrivo della primavera. L’uomo raccontava alcune cose, con voce profonda, alla donna, la quale assentiva ripetutamente e si metteva a ridere con un lungo suono modulato di gratificazione.

Brigida, mentre i titoli di testa attraversavano pigramente lo schermo, mi domandò: – Ti è piaciuto? –. Al che, io: – Sì. – Ma se non guardavi mai… Dimmi almeno a che cosa stavi pensando – . Uscendo ci accorgemmo che pioveva: pareva che l’intera città fosse immersa nell’uggiosa acquerugiola. Dovemmo per forza aspettare che spiovesse.

Mentre ero a letto continuava a piovere. Era una pioggia che giungeva attutita sulle aiuole del giardino, con una lieve insistenza che mi suonava nelle orecchie come certe parti della Sonata Postuma di Schubert. Ed era come se l’interprete – ma non stavo affatto pensando a Rubinstein – avesse acquisito nel suo sordo battere sulla tastiera una ripetitività ossessiva e fine a se stessa, assai al di là delle leggi musicali. Sdraiato a letto, la lampada illuminava con nettezza la pagina. Per me la lettura stava diventando la ricerca di una via d’uscita da questa Firenze costantemente battuta da una pioggia infima. Non ancora una fuga, ma un decoroso defilarsi da una situazione di scacco matto verso cui tutto ormai convergeva: le letture, la ragazza, la ricerca di miti evanescenti, umbratili, le aspirazioni lievi come il respiro. Eppure continuavo a leggere, isolato in una notte né amica né ostile, col pensiero fisso a certe spiagge anseatiche, o ai vicoli tortuosi di alcune città slave, sicuro di una sicurezza infantile che da quei paesaggi sarebbe venuta la liberazione dalle soffocanti geometrie di una Firenze la quale, più che amare o odiare, imprimeva sulla mia duttilità ancora adolescenziale la griglia dei suoi severi disegni labirintici. Una pesante ipoteca, nei suoi grigi sapientemente smorzati, sulla mia vita di ragazzo, frustrato e ferito per la logica senz’uscita che emanava da ogni poro dei bugnati dei grandi palazzi quattrocenteschi, o dal selciato delle grandi piazze in cui, essendo diventato – almeno nel giovane sguardo delle possibilità – impossibile ogni attraversamento, rimaneva solo la tentazione dolce-amara della pura contemplazione.

«Si dimostra quindi ancora una volta che queste “leggi eterne della natura”» – (che era un punto sul quale, quasi di nascosto, batteva la mia aspirazione di ricerca, in un ingenuo moto di allontanamento dai pranzi, dai concerti, o dalle passeggiate di verifica di ciò che Firenze tra cronaca e Storia era sempre stata fin nell’aguzzo disegno delle sue pietre) – «valgono soltanto per una determinata epoca dello sviluppo: esse non sono soltanto la forma fenomenica della legalità dello sviluppo sociale in rapporto ad un determinato tipo sociologico (al predominio economico già incontestato di una classe), ma anche quella della specifica forma capitalistica di dominio all’interno di questo tipo». Intorpidito da un sonno che tardava a venire, scivolavo, mio malgrado, in un’equivalenza musicale dei pensieri, o della dialettica, che per il mio stato di conoscenze non riusciva a giungere a fruizione. E vedevo, ad esempio (mentre la mia testa era scomodamente schiacciata contro il cuscino), ciò che con vaghezza estrema poteva far coincidere le «leggi eterne della natura» all’Andante sostenuto della Sonata in Si Bemolle Maggiore di Schubert. Quell’andirivieni sonoro, le funebri cadute seguite da uno spiraglio di ottimismo, l’accelerazione di ottave, le terzine scandite sugli alti registri, la ripresa della tematica principale con leggera esagerazione di risonanza: tutto ciò in corrispondenza con le fitte parole di una dialettica storica, con la speranza d’ascesa della classe operaia, la ciarliera utopia degli studi d’archivio che si scontravano con i tumulti di piazza.

Ciò che era scomodo, e quasi indecoroso, era che i miti di cui ornavo le mie nottate sparpagliate di letture, e magari di rimpianti per una parola non detta a Brigida, sceglievano di tanto in tanto, e senza preavviso alcuno, di piombare tra i miei libri di studente, per di più in un autunno che nel suo umido e nebbioso grigiore aveva portato alla contraddizione estrema lo sforzo di uscire dal mio «io» suffragato da idealistiche letture.

György Lukács, caduto da altezze siderali nelle rimozioni storiche che io rimproveravo a un mondo chiuso nella sua armatura di gesso, era stato sottoposto alle mie verifiche nel corso di un lungo pranzo borghese in cui, senza forzare eccessivamente la metafora, avevo assistito al perfetto stile di inabissamento nelle istituzioni che un vecchio signore ex rivoluzionario sceglieva (con chissà quanta ironia…) di compiere, purché fosse salvo l’aplomb, la facciata esterna di un groviglio che il chiacchiericcio punteggiato dal tintinnio dei bicchieri e dall’accorto uso del tovagliolo per togliersi una macchia di sugo agli angoli della bocca mettevano in grottesco risalto dialettico.

Ma era davvero cosi? Oppure avevo sforzato il senso delle mie letture, scambiando gli eroi con le sfavillanti punte della dialettica? E, poiché il senso ultimo di ciò che leggevo nelle ineccepibili edizioni Mondadori o Utet, o anche nelle ancora antiquate serie Laterza, con quella ineguagliabile carta giallastra, giungeva alla mia coscienza negli istanti in cui il sonno incipiente divorava la realtà ancora emergente, non era possibile – o anche probabile – che in quella precipitosa corsa verso l’inconscio fossi costretto a confondere ogni livello di discorso, e di mitologica attesa, per attribuire alle lunghe frasi contorte dei miei personaggi d’elezione un’impossibile quanto luminosa parola finale, immersa in una distante e cotonosa coltre onirica?

III

Come al solito fu l’amico U.A. ad avvertirmi che il Professor Lukács, e la signora, avrebbero desiderato confermare la gita negli ameni dintorni toscani. Anzi, se fosse stato possibile avrebbero voluto spingersi proprio fino a Siena, anche se lui l’aveva già visitata in quei solitari anni precedenti la prima guerra mondiale. Feci subito sapere di essere disposto, anche se la mia automobile era soltanto una Topolino. Si combinò per l’indomani. Lì andai a prendere di buon’ora nella piccola pensione centrale dove il celebre Lukács aveva scelto di trascorrere la sua vacanza fiorentina come un qualsiasi turista tedesco o svizzero.

Dopo poco avevamo infilato l’antica via Cassia, ai cui lati si aprivano vasti vigneti, scorci di casolari, filari di cipressi che portavano a una villa, magari nascosta se non per una loggia che accoglieva i deboli raggi di sole. Il Professor Lukács, cosi come la signora, volevano costantemente essere informati sui punti salienti del paesaggio, oppure sulle statistiche intorno all’agricoltura. Io non facevo che scusarmi della pochezza della mia cultura, ma gli anziani coniugi sembravano ugualmente estasiati di tutto ciò che vedevano dai minuscoli finestrini della Topolino, come del mio scarno commento. Inoltre il Professore prese a interessarsi ai miei studi, e in particolar modo gli sembrò importante capire quanto fosse solido il mio latino. Questa materia, in special modo, costituiva un mio punto debole, e gli rispondevo quindi timidamente, alternando lunghi silenzi a qualche informazione su questioni che nella mia mente erano ormai da tempo cadute in uno stato nebuloso, di nessuna attendibilità.

Arrivammo a Siena sull’ora di pranzo, e fortunatamente trovammo subito una trattoria dignitosa, di piacevole sapore locale. Il Professore si ravvivò, mostrando un appetito notevole. Continuò ad informarsi della mia vita in quel suo tedesco dal lievissimo accento forestiero, ma si teneva sulle generali, avendo capito, in qualche modo, che la mia vita da studente attraversava un momento di vaghezze difficilmente definibili.

Appena finito il pranzo ci mettemmo in cammino, salendo attraverso i vicoli stretti e stranamente deserti fino al Duomo, che era, almeno al momento, il nostro principale obiettivo. Lukács era più agile e resistente di quanto non avessi pensato, e procedeva a piccoli passi, ma senza tentennamenti, mentre sua moglie rimaneva costantemente indietro, lamentandosi alquanto della salita e della lunghezza del tragitto.

Trovandoci all’improvviso, attraversato il largo spiazzo antistante, davanti alla facciata del Duomo, tacemmo tutti e tre. La memoria di Lukács, puntigliosa e circostanziata, aveva ritenuto tutto delle antiche impressioni di quarant’anni prima. Disse soltanto: – Sono contento di trovarmi ancora una volta qui. Molte volte, in questi anni, ho dubitato che ce l’avrei fatta –. La vasta superficie di marmo bianco, attraversata da pezzi di verdescuro o di rosso, si apriva sui tre portali sormontati da timpani gotici. Mentre eravamo fermi, in basso, ad ammirare ciò che migliaia di guide hanno descritto in ogni più minuto dettaglio, un lieve vento, piuttosto pungente, pareva ricordarci che anche la contemplazione estetica poteva esigere un suo piccolo, quasi ironico, prezzo. Lukács e la moglie si scambiarono alcune parole che a me non giunsero e che probabilmente facevano parte di quegli accertamenti che avvengono tra coniugi cui pesano molti decenni di vita comune alle spalle. Rimbrotti, parlottii, borborigmi: qualcosa dell’imponente facciata doveva avere scatenato in loro lontane memorie, acide punte di nostalgia, inutili – ma forse affettuose – messe a punto.

Senza scambiarci una parola entrammo nella basilica. Si rinnovò il miracolo del pavimento a strisce bianche e verdi, un prato marmoreo mosso dalle cangianti rifrazioni di luce. Non c’era nessuno. Lukács avanzò deciso, coi suoi piccoli passi guerreschi. Io seguivo, frastornato dalla ricchezza dei colonnati, e da quel senso, pur essendo in una struttura finita, di trovarmi in un paesaggio vivente e sotto un cielo aperto. Una piccola figura – non poteva essere che il parroco – avanzò verso di noi, con un’affabilità di maniera.

Il parroco ci chiese se volevamo vedere qualcosa in particolare. Lukács si fermò direttamente di fronte al parroco. Rispose in un latino classico, perfetto, quale nessun mio professore di liceo era stato capace d’insegnarmi. Il parroco, preso alla sprovvista, si senti costretto anche lui a rispondere in latino. Ma era un latino, il suo, insinuante, gorgheggiante, tutto un fiorire di blande inesattezze. Il tipico latino maccheronico del basso clero.

Non riuscivo a muovermi, come se fossi stato inchiodato nel punto in cui mi trovavo al momento dell’incontro dei due personaggi cosi antitetici. Ma ero immobile anche per una nascente intuizione che m’aveva folgorato, senza che riuscissi li per li ad indagarne tutta la portata. Adesso, mi rendevo ben conto, pagavo lo scotto per essere stato un cosi mediocre studente di latino. I due latini, cosi abissalmente diversi, di Lukács e del parroco, mi colpivano come due babelici flussi che si riversassero in alvei paralleli, senza che una sola goccia d’acqua d’uno dei due torrenti potesse entrare nell’alveo dell’altro.

Sbalordito, guardando le due piccole figure parlottare tra loro, mi resi conto – come per una folgorazione (una parola che era giocoforza ripetere!) – che lo spettacolo cui stavo assistendo era quello, magistrale, inscenato da Thomas Mann, manipolatore principe, tra due ombre che lui aveva deciso di incarnare: Settembrini e Naphta. E Naphta, adesso, a decenni di distanza, in circostanze cosi straordinariamente diverse, si stava cimentando con l’affabilità e la tolleranza di un insignificante parroco del Duomo di Siena.

Era per questo che, più dei dialoghi direttamente a nome di Naphta, mi tornavano in mente le parole di Mann a proposito di questa sua straordinaria creatura : «Naphta confermò che la virtù e la salute non erano uno stato religioso. Molto si sarebbe guadagnato, disse, se si fosse dimostrato che la religione non aveva in generale nulla a che vedere con la ragione e la moralità».

Ed era anche per questo, allora, che l’osservare l’ex-gesuita Naphta, cosi pericolosamente ispirato al vero Professor Lukács, con tanto di stato anagrafico, sprezzantemente sgretolare, dall’alto del suo aristocratico latino, il miserabile parroco (uso, tutt’al più, alle minime occasioni quotidiane che la religione offre), faceva venire uno strano tremolio.

Da studente pigro qual ero, mi era capitato di assistere a una singolare reincarnazione! Un fatto momentaneo, si dirà, ma di quelli di cui nei miei libri di testo, o anche in generale nelle mie letture, non si serbava alcuna traccia. Per cui nella mia generica ricerca del bello e del vero non avevo alcun sospetto che la vita nascondesse trasformazioni atte a turbare chiunque, senza escludere il giovane accompagnatore di un’attempata coppia per il quale la lunga scampagnata, seguita dal piccolo turismo estetico in una città-gioiello come Siena, avrebbe dovuto lasciare soltanto tracce di una soddisfazione comune, anche se certamente acuite dallo status mitico del piccolo e ciarliero Professor Lukács. D’altronde ogni mio sentimento circa quanto stava avvenendo davanti ai miei occhi era reso confuso, e forse attutito, dalla casualità con cui, addentrandomi nelle ambigue avventure del giovane Hans Castorp, mi ero imbattuto nell’indefinibile, ma certo aggressivo e pericoloso, Naphta. Il quale, in quel momento, era e non era simile a una di quelle mie letture che blandivano gli indefinibili istanti che mi trasportavano dalla veglia al sonno. Mentre con l’arrivo – anch’esso estemporaneo – di György Lukács sulla grigia e marcescente scena fiorentina di quegli anni Cinquanta che sembravano non voler mai finire, mi era parso di aprire davvero gli occhi, come se i caratteri tipografici fossero balzati verso di me con una potenza fino ad allora mai sospettata.

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