Il testo iniziale è di Cesare Cases. Il carteggio è stato pubblicato in C. Cases Su Lukács. Vicende di un’interpretazione, Einaudi, Torino 1985. A seguire sarà riportata una lettera
inedita di L. a C., pubblicata in spagnolo in Testamento político y otros escritos sobre política y filosofia. Textos inéditos en castellano, a cura di A. Infranca e M. Vedda, Ediciones Herramienta, Buenos Aires, 2003.
Un carteggio
Questi due gruppi di lettere scambiate tra me e Lukács risalgono rispettivamente al 1958 e al 1964 (con una lettera del 1965). In buona parte esse erano già uscite in «Belfagor» (a. XL, 31 gennaio 1985, pp. 55-74),ma qui sono arricchite da quattro mie lettere conservate nell’Archivio Lukács di Budapest e cortesemente fornitemi in fotocopia dal suo direttore, László Sziklai, che sentitamente ringrazio insieme al direttore di «Belfagor», Carlo Ferdinando Russo.
Nel primo gruppo di lettere prevalgono le mie, sia a causa dell’argomento (la letteratura italiana) sia perché Lukács, come ripete più volte, era impegnato nella stesura della grande Estetica e aveva poco tempo per la corrispondenza. Nella divisione del lavoro che egli più o meno espressamente stabiliva tra i suoi allievi e ammiratori, a me sarebbe spettato il compito di applicare il suo metodo (che ovviamente identificava con il metodo marxista) alla letteratura italiana. Il carteggio del 1958 dimostra la mia buona volontà in proposito. Non ero certo uno specialista di letteratura italiana e il divario tra me e Lukács in questo campo non era forse grande quanto egli credeva, poiché pur ignorando la nostra lingua (a Firenze tra il 1911 e il 1912 era vissuto senza contatti con italiani) aveva letto moltissimo in traduzione e per esempio fu lui a trasmettermi l’entusiasmo per Menzogna e sortilegio della Morante, che conosceva nella (cattiva) versione tedesca. Ma il compito che intendeva assegnarmi in fondo mi allettava. Un indubbio interesse per le «patrie lettere» lo avevo, e a quel periodo risale la maggior parte degli articoli poi raccolti con questo titolo (Liviana, Padova 1973). Inoltre, i critici italiani di sinistra mi parevano marxisti troppo tiepidi e critici troppo empirici ed ero convinto che bisognasse dar loro una mano armata di un’estetica rigorosa.
Tuttavia l’insistenza di Lukács perché io scrivessi di più, abbandonassi i modi polemici e mi dedicassi appunto a fare per la letteratura italiana quello che aveva fatto lui per la tedesca e l’ungherese, considerandole come lotta tra «progresso» e «reazione», finiva per ottenere l’effetto contrario e per ribadirmi nelle mie qualità e nei miei vizi. Difficile trovare un padre spirituale meno autoritario e più rispettoso della personalità altrui: l’ottimo rapporto che aveva avuto con suo padre si rifletteva in quello che istituiva con i suoi discepoli, che infatti gli furono e restarono molto grati. Ma c’era la questione della divisione del lavoro. La differenza tra Lukács e suo padre era che costui non era comunista e che la libertà che gli lasciava non era condizionata alla subordinazione a un lavoro collettivo. Lukács trovava – e disse a Delio Cantimori – che io ero un vero temperamento di critico, e aggiungeva che questi temperamenti sono rarissimi e vanno coltivati ad ogni costo, mentre i professori sono legione. Disapprovava perciò le mie tentazioni accademiche (allora puramente velleitarie) e da István Mészáros so che al ritorno dal viaggio in Italia, nel breve fervore che precedette la rivolta ungherese del 1956, progettò in una riunione una rivista internazionale di critica letteraria marxista di cui avrebbe voluto affidare a me la direzione! Era sintomatico sia che mi gettasse sulla sua scacchiera senza aver consultato il pezzo, solo in base all’idea che se ne era fatta in un incontro e alla lettura di un solo articolo, sia che mi imponesse ai suoi collaboratori che apprendevano per la prima volta la mia esistenza. Nessuno avrà mosso ciglio; era impossibile che la ragione, incarnata da un uomo così mite, potesse sbagliarsi. Tuttavia l’essere umano è cosiffatto che si rassegna più facilmente all’imposizione irrazionale che a quella ragionevole, come tristemente apprendono tutti gli educatori, ed è giusto che sia così, perché ciò mette in evidenza la contraddizione essenziale tra le pretese della ragione e i suoi aspetti intimidatori. In fondo anche su di me Lukács probabilmente aveva ragione, e io glielo riconoscevo, maile sueinsistenze, come si è detto, ebbero l’effetto opposto. Quando nel 1967 scrissi alcune pagine di omaggio a Hans Mayer1, lo contrapposi a Lukács perché a differenza di questi non mi esortava a scrivere e mi prendeva per quel che ero: nella carta geografica di Mayer – scrivevo – erano segnati anche deserti abitati dai non-scrittori.
A Lukács scrivevo molto volentieri, lusingato che mi avesse accolto nel novero degli amici con cui corrispondeva, ma la rivolta contro il padre, che nel 1958 non era assolutamente di carattere ideologico, si tradiva in un certo risentimento che spiega l’ostinatezza con cui talvolta cercavo di non dargli ragione e che non sfuggi alla moglie Gertrud, che una volta mi sgridò in proposito. Con lei intrattenevo infatti una corrispondenza parallela, più personale e non priva di sfumature erotiche – nonostante la venerabile età le restavano tracce dell’antica bellezza – secondo la migliore tradizione degli Edipi intellettuali.
Con tutto ciò, e con tutti gli aggiustamenti di tiro che cercavo di imporre alle Schnellhypothesen del maestro, da questa discussione appare chiaro che io accettavo sostanzialmente la linea divisoria tra «progresso» e «reazione» in letteratura, così come accettavo la teoria del realismo e la condanna globale dell’avanguardia, che per Lukács e per me comprendeva pressoché tutto il Novecento. I giudizi risultanti da questa impostazione sono oggi spesso difficilmente sottoscrivibili, anche da me, ma per capirli bisogna rifarsi a un periodo in cui il critico si sentiva deputato a spianare strade al futuro abbattendo taluni cippi e restaurandone e incoronandone altri; operazione alquanto dubbia ma che aveva il pregio di costringere a quell’impegno che prima di essere politico era morale. Lukács esagerava certamente la «responsabilità dell’intellettuale», ciò che era legato alla cattiva coscienza sulla certezza dei fini per cui invocava tale responsabilità; tuttavia è bene che non tanto l’intellettuale quanto l’uomo in generale si senta responsabile di qualche cosa d’altro che di procacciar cibo ai suoi piccoli finché non gli sarà segato l’albero su cui si è costruito il nido. Tra gli intellettuali già di sinistra oggi solo Franco Fortini e pochi altri sembrano ricordarsi della verità che «omnis determinatio est negatio» e che l’uomo si definisce solo scegliendo e scartando. Il rischio di sbagliare c’è sempre, ma è meno grave di quello di perdersi nella melma dell’accettazione universale.
Il secondo gruppo di lettere appartiene a un periodo di raffreddamento dei rapporti in seguito a un’evoluzione politica e ideologica che mi aveva portato su posizioni diverse, emerse durante il viaggio a Budapest compiuto insieme a Renato Solmi e sua moglie nella primavera del ’63. Allora questo dissenso non si manifestò direttamente se non nello scarso entusiasmo con cui accogliemmo la lettura, che egli ci fece personalmente con la sua esile voce, del saggio Sul dibattito tra Cina e Unione Sovietica,che aveva appena terminato di scrivere, e più tardi in allusioni epistolari a proposito di quello dell’anno seguente, Problemi della coesistenza culturale2. Oltre al timore reverenziale che continuavo a nutrire per lui giocava il fatto che il viaggio a Budapest avvenne poco dopo la morte della moglie Gertrud, che gli aveva inflitto un colpo gravissimo da cui si rimise solo gradualmente. Ma con maggiore libertà mi espressi per corrispondenza, o a voce in occasione di loro viaggi in Italia, con i discepoli di Lukács e con il suo figliastro Ferenc Jánossy, sicché qualcosa deve essergli giunto alle orecchie. Le lettere che ci scambiammo nel 1964 gravitano dapprima sul tema Musil, affrontato a proposito di un mio articolo che gli avevo spedito, e si estendono a tutta la questione della letteratura austriaca, per cui egli nutriva una diffidenza da vecchio suddito imperial-regio che ha sempre guardato alla Germania come paese culturalmente più vivace. Di fronte a lui io sembro più filoaustriaco, anche per influsso del libro di Claudio Magris sul mito absburgico, che peraltro interpretavo (forse allora a ragione) in senso antiabsburgico. Anch’io però seguivo Lukács nel considerare Thomas Mann come la figura alternativa, l’unica veramente democratica, che bastava a redimere la Germania contro cento austriaci, e ciò benché in una lettera accenni discretamente all’assurdità per cui la superiorità tedesca si doveva fondare sull’evoluzione di un uomo solo contra Toscana tutta (per gli altri antifascisti tedeschi, Brecht compreso, è noto che Lukács non aveva molta simpatia).
A partire dalla mia lettera del 3 agosto 1964, dalla discussione letteraria si passa al motivo politico, che emerge in primo piano nelle lettere seguenti fino a quella lunghissima del 26 dicembre 1964 in cui mi decidevo a vuotare il sacco. Come si vedrà, anche qui restavo a mezza strada, cercando di limitare il dissenso alla politica e vedendo nell’epoca attuale una strozzatura temporanea che dava ragione a Kafka e a Beckett, e superata la quale (grazie alla rivoluzione mondiale e al disarmo atomico) si sarebbe potuto tornare agli orizzonti progressisti e al realismo critico e socialista. Non so fino a che punto condividessi davvero questa prospettiva (che è anche quella della prefazione al Romanzo storico) o fingessi di crederci per non aggravare la rottura. O forse semplicemente dovevo aggrapparmi alle sue vecchie certezze perché non me la sentivo ancora di passare ad Adorno o (come risulta dalla lettera) a Günther Anders. Quel che è certo è che mi premeva anzitutto precisare il dissenso politico: la sfiducia nella coesistenza pacifica, la speranza in una ripresa rivoluzionaria di cui la Cina pareva allora essere garante, l’identificazione del nemico con l’imperialismo americano (e la conseguente sottovalutazione di quello sovietico). Nelle sue lettere è quindi Lukács ad argomentare contro di me e a cercare di recuperarmi al suo punto di vista. E in certi casi (per esempio sul pericolo rappresentato da una possibile elezione di Goldwater a presidente degli Stati Uniti) aveva ragione lui nel criticare il mio panico. Egli manifestava anche una sorprendente sensibilità ai nuovi fenomeni sociali del mondo capitalistico. Sulla sua fiducia nel trionfo della ragione «in ultima istanza» e sul motivo marxiano che l’umanità si pone soltanto problemi che è in grado di risolvere (motivo che io ripetevo, ma definendolo fideistico) temo invece che gli anni trascorsi gli abbiano dato sempre più torto. Ma anche nei suoi errori aveva sempre quella dirittura e quell’acutezza per cui glieli si perdonava volentieri3.
Salvo qualche lettera isolata prima e dopo, la mia corrispondenza con Lukács durò dal 1957 al 1968 al ritmo di poche lettere all’anno, con un’intensificazione tra il 1961 e il 1964. Si trattava tuttavia quasi sempre di lettere brevi e puramente informative; i due gruppi qui pubblicati sono un’eccezione. Essi confermano che il tardo Lukács come epistolografo era molto più vivace e spregiudicato dello scrittore. Il fatto che scrivesse le sue lettere nei ritagli di tempo, e per lo più le dettasse, lo spingeva a una maggiore concentrazione, che le distingue anche dalle non meno vivaci conversazioni registrate, insidiate dal solito pericolo della prolissità, per cui (come spiega nella lettera del 23 luglio 1958) aveva bisogno di un addetto alle forbici. L’organetto di Barberia socialista cui lo si vuole oggi ridurre appare qui molto di rado. Ernst Bloch, particolarmente impietoso verso il vecchio amico negli ultimi anni, in occasione dell’ottantesimo compleanno (che compiva pochi mesi prima di Bloch stesso) gli scrisse che nonostante tutte le divergenze erano uniti nella frase di Babel per cui «la controrivoluzione è la banalità». Era una perfidia, perché Bloch non perdonava appunto a Lukács di avere scelto deliberatamente la banalità per amore della rivoluzione (o di ciò che egli riteneva tale). Lukács rispose dignitosamente: «La frase di Babel potrebbe portare a un certo accordo se solo ci si potesse accordare su che cosa è la banalità»4. Aveva capito l’antifona e non rinnegava il suo bagno nella banalità, Ma eia questo bagno molto si è salvato, e il centenario sarà un’occasione per parlarne.
Le traduzioni delle lettere sono mie. Ho omesso esordi e chiuse e tutto quanto aveva carattere privato o di affari (questioni editoriali o altre incombenze affidatemi da Lukács). I tagli sono indicati da puntini tra parentesi quadre.
(1985)
I.
Cases a Lukács
Pisa, 12 maggio 1958
[…]. Lei ha certo ragione di sottolineare che l’oscillazione tra capolavori e letteratura amena non è specifica solo della letteratura italiana, adducendo l’esempio di Conrad (lo stesso, se non erro, l’ha affermato una volta a proposito di Fontane). In effetti mi capita spesso di restare fissato sulla situazione italiana e di soffrire, per così dire, di complessi nazionali (un fenomeno non insolito in paesi a evoluzione storica infelice, poiché perfino Gramsci non ne era esente), quindi quello che talora Le si rimprovera come difetto, cioè che l’elemento nazionale in Lei non emerge abbastanza in primo piano, è invece un utile ausilio per liberarsi da questi complessi o almeno per motivarli oggettivamente là dove è possibile. Nella questione che ci interessa si tratta a mio parere di un più o meno, cioè il fenomeno è internazionale ma da noi si fa sentire di più, già nello scorso secolo. Con una grossolana semplificazione (che non oserei enunciare qui da noi, ma Lei è più indulgente) direi che l’Italia è il paese classico delle forme di transizione dell’epos, così come è il paese classico del protocapitalismo. Lo sviluppo infelice, la mancata realizzazione dell’unità nazionale e quel processo che i nostri marxisti chiamano di «rifeudalizzazione» hanno mantenuto questa situazione fino al Settecento: c’erano forme di dissoluzione dell’epopea, novelLe ma niente romanzi. Anche l’illuminismo si fa strada attraverso queste forme tradizionali (per es. nei poemi satirici del Casti, ma anche Il Giorno del Parini vi rientra parzialmente). I promessi sposi non sono solo il primo grande romanzo, ma in generale il primo romanzo (altrimenti si citano solo due opere anteriori, le Notti romane di Alessandro Verri – un polpettone indigeribile – e lo Jacopo Ortis del Foscolo, che è soltanto un’imitazione, sia pure geniale, del Werther). In seguito si scrissero anche romanzi ottimi, ma il genere stesso non potè mai prender piede saldamente, sicché mancava sempre una produzione media. Accanto ai capolavori c’era il puro nulla, anche all’interno dell’opera di uno stesso autore. Verga e Fogazzaro oltre ai loro capolavori hanno scritto romanzi di bassa lega. Il caso Verga (che scrisse i suoi due romanzi importanti solo alla fine della sua carriera) non lo si può spiegare con il fatto che ha dovuto prima imparare il mestiere, come per es. Balzac prima dei trent’anni, perché anche del mestiere non c’è traccia nelle prime opere, mentre esso arrivò da sé quando egli trovò il giusto contenuto.
L’esempio più crasso è però il romanzo di Nievo Confessioni di un italiano, la cui prima parte è uno dei migliori romanzi di sviluppo della letteratura mondiale, mentre la seconda è un cattivo romanzo d’appendice. È come se si rilegassero insieme un volume di Gottfried Keller e uno di Karl May5, solo che i due volumi sono della stessa mano, sono scritti di un solo getto e costituiscono un’unità. Certo in questo caso si potrebbero addurre motivi obiettivi, immanenti alla materia stessa, che possono spiegare la cattiva riuscita della seconda parte. La prima descrive infatti, sulla scorta delle vicende del giovane Carlino, la dissoluzione dei rapporti feudali in una zona di confine della repubblica veneta fino alla Rivoluzione francese e la trasformazione di Carlino in un patriota rivoluzionario (quindi un processo unitario assai convincente dal punto di vista sia sociale che umano), mentre la seconda parte ha per oggetto un’epoca molto più complessa (la delusione dopo che Bonaparte cede Venezia all’Austria; le congiure antiaustriache; le prime lotte di liberazione, le loro sconfitte e la ripresa della guerra fino all’unificazione) di cui non si possono delineare i tratti fondamentali, e al contempo il destino del protagonista scade a un’insignificante storia di matrimonio, famiglia e adulterio, che deve essere riempita di ogni sorta di incredibili colpi di scena per poter interessare in qualche modo il lettore. Purtuttavia è assai strano che un talento letterario così eccezionale abbia proceduto in modo tanto inconsulto nella scelta della materia e non abbia capito che aveva già detto tutto l’essenziale nella prima parte e che non era affatto necessario fare approdare l’Italia all’unificazione e l’eroe agli ottant’anni. Sembra che qui si manifesti qualcosa di più profondo che non difetti individuali, cioè la mancanza di quei criteri oggettivi per l’elaborazione di una materia romanzesca che può fornire la presenza di una società nazionale unitaria. Così il contatto con i nessi sociali più profondi si stabilisce per così dire mediante un geniale corto circuito, mentre altrimenti l’opera scade nell’insignificante. In questo ha grande importanza l’incapacità di superare l’elemento provinciale: il corto circuito ha luogo là dove si è trovato un argomento che si nutre della concreta situazione locale ma si muove nel senso della prospettiva nazionale (come nei grandi romanzi di Verga, nella prima parte di quello del Nievo e nel notevole romanzo di Federico De Roberto, I viceré, oggi purtroppo quasi caduto in oblio): se manca questo argomento, il romanzo acquisisce o un orizzonte angustamente provinciale oppure una falsa problematica spesso attinta da modelli stranieri e che ha poco a che vedere con la realtà italiana (come in molti romanzi di Fogazzaro), e in entrambi i casi il livello scende molto in basso. Il rapporto tra provinciale e nazionale mi sembra diverso che in Germania. La Lubecca di Thomas Mann affonda le sue radici in determinate tradizioni anseatiche, ma il processo di capitalistizzazione che distrugge queste tradizioni investe tutta la Germania. Da noi il capitalismo non ha potuto compenetrare l’intera vita nazionale, soprattutto nell’Italia centrale e meridionale; quindi anche la problematica della capitalistizzazione di per sé non può acquisire un’importanza nazionale e costituire una valida base generale per il romanzo (è significativo che tentativi di riflettere questo fenomeno si diano solo a Milano negli ultimi decenni dell’Ottocento, con Emilio De Marchi). D’altro canto la mancanza di un livellamento capitalistico permette la sopravvivenza di forze sociali non consumate fino ai tempi più recenti. I pochi romanzi che colgono esattamente questo processo sono perciò molto più forti della maggior parte della letteratura dell’Europa occidentale, benché continuino a essere eccezioni e non abbiano dietro di sé una produzione media. […].
Cases a Lukács
Pisa, 26 giugno 1958
La ringrazio della Sua lettera del 2 corr. e delle Sue considerazioni sull’evoluzione italiana nell’Ottocento. Sono lieto che Lei concordi con la mia analisi del romanzo di Nievo. Non direi però che i punti deboli di Nievo siano primariamente da ricondurre a una valutazione acritica del periodo dell’emancipazione. Proprio le sue notazioni di carattere politico sono molto interessanti (anche nella seconda parte del romanzo, letterariamente debole) e testimoniano una straordinaria sensibilità per gli aspetti problematici del movimento di liberazione. Del resto nelle lettere andava assai oltre, rivelandosi come uno dei pochi italiani del Nord che capiva la grande importanza della questione contadina per la nascita di un’Italia democratica (anche qui gioca un certo ruolo il fatto che proveniva da una zona «sottosviluppata», come oggi si direbbe, rispetto al resto dell’Italia settentrionale). La fiducia del Manzoni nello sviluppo borghese-liberale sembra essere stata al confronto molto più salda. I realisti meridionali (Verga, De Roberto) per parte loro grazie al « trionfo del realismo » (poiché personalmente erano convinti sostenitori del compromesso monarchico) non potevano ignorare lo scarso entusiasmo del popolo per i «piemontesi», il suo sostanziale rifiuto del nuovo Stato. Essi sapevano che Garibaldi aveva fatto fucilare i contadini ribelli e che l’unificazione per il popolo meridionale significava solo nuove some (dissoluzione di certe situazioni patriarcali mantenendo immutati i rapporti di proprietà, riduzione dell’Italia del Sud a mercato per l’industria del Nord ecc.), ciò che si rese visibile nel brigantaggio. Non si può quindi dire che la letteratura italiana nel suo insieme assumesse una posizione acritica di fronte al Risorgimento. Però bisogna vedere se le è riuscito di utilizzare queste critiche come fondamento di un romanzo. Sembra che questo sia riuscito meglio a Verga e a De Roberto che a Nievo, probabilmente proprio per il fatto che nell’Italia meridionale il fallimento del Risorgimento era molto più visibile che nell’Italia del Nord, dove tutte le riserve, per gravi che fossero, restavano al margine e non erano in grado di collegarsi con la fede nella giustezza fondamentale dello sviluppo in modo da formare una concezione unitaria. Ci si può addirittura chiedere se la capacità del liberalismo manzoniano di ignorare beatamente tali problemi non abbia avuto ripercussioni favorevoli sulla sua opera, che del resto si situa all’inizio di tale evoluzione (questa potrebbe essere anche una delle ragioni del silenzio quasi quarantennale del Manzoni: Lei ha risolto egregiamente la questione del perché il Manzoni abbia scritto un solo romanzo storico6, ma perché non ha affrontato un tema moderno come Nievo o Fogazzaro?) Anche dopo il 1848 Manzoni restò fedele alla sua concezione moderata dell’unificazione italiana, e proprio il compromesso del 1859-61 gli andò a pennello: scrisse perfino delle «osservazioni comparative» su La rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859, dove intendeva dare la palma a quest’ultima perché aveva proceduto in modo più pacifico e meno radicale! Questo liberalismo astratto, che era diventato un’apologia del compromesso, gli permise tuttavia di assumere una posizione assai progressista su certi punti (per esempio nella questione della lingua nazionale), proprio perché le sue aspirazioni nazionali non erano turbate dalla consapevolezza delle difficoltà legate all’unificazione (accanto e dopo di lui si è formata una tendenza pseudoprogressista di esaltazione dei dialetti come espressione della resistenza contro l’unificazione «dall’alto», tendenza che ancor oggi conduce a ogni sorta di deformazioni patologiche). Ma per la sua opera letteraria questo attenersi a un liberalismo consapevolmente rassegnato (in cui la rassegnazione combina elementi cristiani con l’economia classica) significò l’impossibilità di configurare il processo del presente. Donde forse la sua «rinuncia» letteraria. […]
Lukács a Cases
Budapest, 23 luglio 1958
Oggi scrivo molto più rapidamente del solito perché sono immerso nella revisione e nella dettatura delle parti già terminate dell’Estetica, ciò che mi consuma tempo e nervi. Penso spesso con invidia a Thomas Mann, la cui figlia Erika gli recava grande aiuto nel cancellare parti superflue. Per questo ci vuole un talento particolare. Il mio giovane amico che ha subito quella disavventura due anni fa7 costituiva per me un aiuto del genere. Non so cosa succederà adesso. Personalmente in queste cose non sono troppo dotato. Naturalmente non si tratterebbe solo di tagli, ma anche che al posto di qualche pagina ci vorrebbe un’unica frase, ecc.
Mi hanno molto interessato i Suoi nuovi appunti sulla letteratura italiana. Lei ha certo ragione contro di me nella faccenda Nievo. La mia osservazione era, come solevamo dire da giovani, un’ipotesi fatta alla svelta (Schnellhypothese). Comunque le Sue considerazioni mostrano che ho trascurato mediazioni importanti. Poiché è molto interessante che proprio secondo quanto Lei dice è chiarissimo che in ultima istanza – certo solo in ultima istanza – l’atteggiamento verso il Risorgimento e il modo in cui è stata unificata l’Italia è stato determinante per la letteratura italiana di un intero periodo. Sviluppare questo tema sarebbe un compito importante per Lei e qui io posso soltanto ripetere il mio ceterum censeo già spesso espresso.
Vorrei aggiungere in proposito ancora un’osservazione, sempre dal punto di vista di un osservatore esterno: nella letteratura tedesca il 1890 rappresenta una cesura già per il solo fatto che da allora il periodo della guerra di liberazione 1870-71 non ha più quel ruolo centrale che ebbe nell’evoluzione di Raabe, Storm, Fontane, ecc. Se Lei pensa a Gerhart Hauptmann, Thomas e Heinrich Mann ecc., questo risulta senz’altro chiaro. Sarebbe interessante studiare se nella letteratura italiana c’è una cesura simile. (Naturalmente questo spartiacque coincide con l’imperialismo, ma paesi che hanno avuto un altro sviluppo, per esempio la Francia, mostrano reazioni assai diverse. Anche questa è un’«ipotesi fatta alla svelta», per esprimersi con prudenza. Mi interesserebbe sapere come Lei giudica questa questione).
Cases a Lukács
Pisa, 6 settembre 1958
Ritorno sulla Sua lettera del 23 luglio. […]. Si possono ben capire le Sue difficoltà nel rivedere le parti già compiute della Sua Estetica. Come Lei dice, l’arte del cancellare è un dono del tutto speciale che non possediamo noi stessi. In Lei le «parti superflue» probabilmente superflue non sono, bensì costituiscono magari il rovescio del «non è qui il luogo»8: mediazioni, trapassi, esemplificazioni che di per sé hanno un loro valore dovrebbero essere soppressi affinché non turbino la chiarezza della dimostrazione. In me è pericolosa la grande quantità di battute, lazzi, giochi di parole, insomma i fuochi d’artificio intellettuali, benché nel mio caso abbiano il merito di nascondere la povertà delle idee, sicché non avrei mai potuto scrivere per esempio il pamphlet contro i neopositivisti9 senza questi fuochi d’artificio. Come critico sono molto lineare, ciò che appunto dimostra che i fuochi d’artificio appaiono là dove non sono in grado di venire a capo dei massimi problemi.
La mia conoscenza della nostra letteratura è troppo lacunosa per poter verificare la Sua «ipotesi fatta alla svelta» sullo spartiacque nella letteratura italiana dell’Ottocento. Probabilmente quell’ipotesi è giusta: bisognerebbe solo esaminare meglio le condizioni concrete, che dovrebbero offrire un quadro più complicato rispetto all’evoluzione tedesca, soprattutto per via dello scambio dei ruoli tra l’Italia settentrionale e meridionale. L’ingresso dell’Italia nella fase imperialista ha luogo verso il 1880 (nel 1878 c’è la caduta della «destra storica», cioè della borghesia liberale, per lo più agraria, che aveva creato l’unità e che viene ora sostituita da una «sinistra» più dinamica e assetata di potere – nel 1882 cominciano le avventure coloniali ecc.). Anche qui si può constatare un’«epoca di ferro» della letteratura come in Germania, almeno nell’area del romanzo (come poeta è importante il Carducci) tra il 1870 e il 1890. Non è un caso che il De Sanctis poco prima della sua morte (1882), pur muovendogli parecchie obiezioni, raccomandasse Zola e il naturalismo come modelli per l’esangue letteratura italiana, riconoscendo che il Manzoni era più grande di tutti gli Zola ma apparteneva a un’epoca trascorsa. I grandi scrittori meridionali posteriori al 1890 (Verga, De Roberto) si appoggiarono effettivamente al naturalismo, benché in seguito a una situazione del tutto diversa non scrivessero romanzi naturalisti bensì veramente realisti. Anche il trapasso dalla questione nazionale a quella sociale non è così liscio come in Germania, proprio perché nell’Italia meridionale la situazione sociale non si poteva separare dalla soluzione non democratica della questione nazionale. Solo nell’Italia del Nord si può decisamente prescindere da tale questione e ad esempio affrontare come De Marchi i problemi del pauperismo nella grande città capitalistica (Milano) come se si trattasse di Parigi. Le cose cambiano intorno alla svolta del secolo, cioè dopo le grandi rivolte sociali a Milano e in Sicilia e l’avvento al governo di Giolitti, che rappresenta una politica più assennata nei confronti del proletariato. Adesso la questione nazionale passa in secondo piano anche nell’Italia meridionale (per es. nei primi romanzi e racconti di Pirandello). Questo però significa che anche in Italia si manifesta quell’oscillazione tra entusiasmo astratto per la «questione sociale» e problematica della decadenza che era di casa in Germania. Ciò risulta chiaramente nell’evoluzione di Pirandello ma soprattutto in D’Annunzio, i cui primi racconti sono scritti con gli occhi interamente rivolti alla «questione sociale» (anche se già con effetti barocchi), mentre ben presto egli fece scendere il romanzo italiano a un livello estremamente basso, e per molto tempo (solo scrittori che vivevano in luoghi periferici, come il triestino Italo Svevo, poterono sottrarsi al fatale influsso della moda dannunziana). Queste sono solo osservazioni marginali sull’«ipotesi fatta alla svelta». Varrebbe la pena di studiare a fondo l’intera questione, ciò che come ho già detto esigerebbe una migliore conoscenza di questi ed altri scrittori (per es. Matilde Serao e Capuana, che non conosco affatto). […].
Lukács a Cases
Budapest, 11 ottobre 1958
[…]. Per quanto concerne l’«ipotesi fatta alla svelta» sulla letteratura italiana moderna, credo che le Sue osservazioni si muovano sulla via giusta. Certo l’Italia è economicamente e socialmente meno unitaria di quanto lo fosse la Germania alla stessa epoca. Naturalmente questo non è da prendere in modo statico, ma credo che questo punto di partenza ineguale abbia prodotto conseguenze ineguali. Quanto forti fossero in confronto alla Germania le ripercussioni del periodo di preparazione, io non sono in grado di valutarlo. Molto dipende da come debba essere considerato il Carducci… e qui io non posso nemmeno esibirmi in «ipotesi fatte alla svelta». Mi sembra invece essenziale un’altra osservazione: è un fatto vistoso che solo in Italia l’avanguardia marcia in testa alla reazione. Pensi a D’Annunzio e prenda un po’ i suoi contemporanei. Oscar Wilde ha scritto addirittura un saggio sull’anima dell’uomo nel socialismo. Hofmannsthal e Rilke erano sostanzialmente apolitici, e se Stefan George in certo senso ha anticipato l’ideologia fascista, è però andato in esilio dopo l’avvento al potere di Hitler. Il fenomeno risalta ancor più in Marinetti e nei futuristi. In Russia Majakovskij si mise a capo del movimento rivoluzionario. Gli espressionisti tedeschi, se non sono apolitici, sono decisamente collocati a sinistra. (L’adesione di alcuni espressionisti al fascismo è un fenomeno tardo, in un periodo in cui il movimento come tale era finito da un pezzo). Anche nell’avanguardia francese la situazione è analoga. Pensi soltanto a Aragon, Éluard ecc. Certo bisognerebbe esaminare anche l’evoluzione di Malraux e di altri ma non credo che anche così si troverebbe un’analogia con Marinetti. È dunque Suo compito in primo luogo verificare se il fenomeno che ho schizzato qui è davvero un fenomeno o esiste solo nella mia immaginazione, e in secondo luogo, se il fenomeno è vero, dove si devono cercarne le cause. Anche questo è un compito Suo. Io mi attengo al mio ceterum censeo, e cioè che Lei prima o dopo deve affrontare questo problema. […].
Cases a Lukács
Pisa, 21 novembre 1958
[…] Quanto alla letteratura italiana moderna, la Sua osservazione sul carattere reazionario dell’avanguardia italiana è giusta nel senso che questa in effetti fece causa comune con il fascismo. Questo vale del resto anche per le tendenze legate alla tradizione, sicché a differenza che in Germania in pratica tutti gli scrittori capitolarono di fronte al fascismo, anche se talvolta non totalmente e non senza scrupoli (per es. Pirandello). I Quaderni del carcere di Gramsci contengono una grossa resa dei conti con questa generale debolezza morale. Bisogna pur dire che nonostante molte oscillazioni l’influsso di Croce costituì l’unico o quasi l’unico centro di resistenza spirituale, sicché l’opposizione nelle università, anche se certo non molto forte anch’essa, era maggiore che non nei circoli degli scrittori. (Un’altra differenza rispetto alla Germania). Ma temo che Lei prenda troppo sul serio i miei compatrioti quando sostiene che questo atteggiamento reazionario era presente fin da principio. Se nel 1922 avesse vinto il socialismo anziché il fascismo, gli scrittori sarebbero passati tutti in campo socialista, con D’Annunzio in testa. Quasi tutti avrebbero potuto trovare degli appigli nel loro passato. Lei confronta D’Annunzio con Oscar Wilde e Hofmannsthal ecc. Ma anche la posizione di D’Annunzio non fu sempre univoca. Quando nel 1905 (se non erro) fu nominato deputato, dichiarò solennemente che avrebbe preso posto a sinistra perché «a sinistra è la vita». Non era altro che un gesto teatrale alla D’Annunzio, ma è sintomatico che anche dopo la prima guerra mondiale non volesse rompere con la sinistra e tentasse ripetutamente di conquistarla alla sua impresa fiumana. Negli ultimi anni non sono mancati tentativi di ex dannunziani di scagionarlo dall’accusa di fascismo. Costoro citano volentieri un detto (vero o presunto?) di Lenin, che avrebbe affermato che D’Annunzio era l’unica persona capace di fare la rivoluzione in Italia. In tutti i momenti decisivi D’Annunzio si rivelò per quel che era, e se era ostile a Mussolini e si dichiarò a suo favore solo per forza, era perché voleva essere lui a fare la parte principale. Ma i contrasti di classe erano così forti in Italia che una tiepida adesione al «socialismo» e al «popolo» rientrava nei requisiti inevitabili della popolarità, indipendentemente dalla contraddizionecon lo spirito aristocratico e nietzscheano. I futuristi erano certo fin da principio reazionari al 90 per cento, ma neanche loro volevano rompere completamente con il «popolo». Quando Trockij si entusiasmava per il futurismo si rivolse a Gramsci perché lo informasse sulla posizione politica dei futuristi italiani. Gramsci non gli poté naturalmente comunicare molto di edificante, ma ricordò che degli operai torinesi avevano organizzato una mostra di arte futurista che fu inaugurata da Marinetti in persona. Questo strizzar l’occhio al «popolo», che ha tratti ora populisti e anarchici, ora cattolico-paternalistici, spiega anche il fatto che la diffidenza aristocratica verso il fascismo, come si riscontra in George ecc., da noi fu un fenomeno estremamente raro. Le poche eccezioni si trovano significativamente nelle città dell’Italia del Nord. Altrimenti gli scrittori potevano infierire contro gli operai organizzati senza rischiare di perdere il contatto con il «popolo», cioè con strati borghesi decaduti o proletariato straccione.
Questo vale anche per il comportamento personale della maggioranza degli scrittori. Da un punto di vista oggettivo, a partire dalle opere, l’opposizione da Lei riscontrata nei confronti della letteratura moderna in altri paesi è pienamente valida. Un’adesione consapevole al progresso, sia pure confusa, ma comunque non solo istintiva o semplicemente retorica e demagogica, del genere che si trova spesso all’estero, da noi non c’è stata. In quanto questi scrittori avevano una concezione del mondo, questa era reazionaria. Nei primi tempi dopo l’unificazione il repubblicanesimo mazziniano aveva ancora una grande funzione come ideologia della borghesia radicale. Carducci, che si rifaceva a Heine e Auguste Barbier, era il cantore di questo radicalismo, e anche se più tardi si converti alla monarchia e celebrò la grandezza di Roma con falso pathos classicistico (un trapasso che dopo il 1878 era quasi inevitabile sul terreno della borghesia), anche questa retorica porta ancora molte tracce dello spirito del Risorgimento. In Pascoli la situazione è già del tutto diversa. L’opposizione all’esistente non era già più la repubblica, bensì il socialismo o l’anarchia. In gioventù Pascoli era vicino agli anarchici e fini anche in prigione. Ma una volta passata questa fase si rifugiò in un pessimismo cosmico corretto dalla fraternità francescana e si ridestò alla politica solo poco prima della morte, quando nel 1911 salutò con entusiasmo la guerra imperialista contro i turchi. Perfino D’Annunzio non cominciò come reazionario dichiarato. Le Novelle della Pescara sono per contenuto populiste e naturaliste e stanno sotto l’influsso del Verga, sia pure con deformazioni barocche. Ma questo non durò a lungo e ben presto D’Annunzio abbandonò il Verga a favore di Nietzsche e di Wagner. Se il cuore di questi poeti pulsava per il progresso, il loro spirito li spingeva presto nelle braccia della reazione. O la loro mancanza di spirito, poiché il processo non assunse nemmeno quelle forme di consapevolezza che appaiono per esempio in Paul Ernst. Questa mancanza di un’ossatura ideologica, che ha un grande ruolo anche nel pietoso fallimento di scrittori socialisti (per es. Leonida Repaci) di fronte al fascismo, ha peraltro anche il suo rovescio positivo. Poiché in tempi di forti rivolgimenti politici (in parte già durante il fascismo, ma soprattutto sotto l’impressione del movimento di resistenza) quel vago populismo ad onta della manchevole coscienza politica e ideologica potè trasformarsi in un rapporto vivo e produrre buoni frutti. La «vittoria del realismo» ha luogo in Levi o in Moravia o nella Morante tanto più facilmente quanto meno profonda è la concezione del mondo. Gli italiani si lasciano facilmente trascinare dalla corrente. Ma se la corrente è buona, diventano buoni anche loro. […].
Lukács a Cases
Budapest, 13 dicembre 1958
Rispondo con ritardo alla Sua interessante lettera del 21 novembre. Ma sono troppo occupato con le difficoltà del XIV capitolo [dell’Estetica] per potermi concentrare su problemi che stanno molto al di fuori. (Probabilmente questo è il capitolo più difficile di tutto il libro). Perciò risponderò solo sommariamente alle Sue interessanti osservazioni. Credo che conti poco che per esempio D’Annunzio in gioventù abbia avuto velleità di sinistra. Quand’ero giovane circolava la battuta di Werner Sombart: chi non è socialista prima dei trent’anni è un cretino senza speranze; chi resta tale dopo i trenta lo è a maggior ragione. Alla letteratura tedesca questa battuta si può spesso applicare indipendentemente da ogni giudizio di valore. Né conta molto che questo o quello scrittore parli del «popolo», un caso frequente nelle tendenze reazionarie alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo. Più importante mi sembra quel che scrive di Croce. Poiché ad esempio in Germania il liberalismo è completamente inerme di fronte agli attacchi fascisti. Se si pensa a chi ha opposto resistenza al fascismo, vediamo che ideologi borghesi come Ossietzky e Niekisch non erano certamente letterati, per non parlare del circolo Barth-Niemöller. Certo si può difficilmente prendere la situazione francece come termine di confronto, poiché là il fascismo era rappresentato da una potenza straniera e perciò parteciparono alla resistenza anche persone che avrebbero eventualmente simpatizzato con un fascismo fatto in casa. Non ho un alto concetto della filosofia di Croce, ma i fondamenti di questo suo influsso [antifascista] dovrebbero essere esaminati meglio, tenendo naturalmente presente il suo vecchio rapporto con correnti italiane di sinistra di epoca anteriore. Non posso purtroppo addentrarmi ora su queste questioni. Ma Lei non dovrebbe cessare di mantenere questo intero complesso all’ordine del giorno – anche della nostra corrispondenza – poiché ci sono qui problemi importanti e irrisolti e io resto del parere che sarebbe Suo compito chiarirli. Abbiamo ricevuto il Suo opuscolo10. Con le mie attuali difficoltà (e la mia ignoranza della lingua italiana) è Gertrud a riferirmi regolarmente sulla sua lettura. Ciò che ho sentito finora mi ha divertito molto. Certo tutta la faccenda è estremamente seria. Poiché dopo il crollo definitivo dell’idealismo oggettivo, e dopo che il crollo dell’hitlerismo ha reso impossibile un irrazionalismo in grande (già per il solo fatto che la demagogia ha perso la sua forza d’attrazione), il positivismo resta l’ideologia dominante della borghesia reazionaria. Che potesse fare il suo ingresso anche nel marxismo come ideologia ortodossa dominante, sia pure su scala locale, è naturalmente una farsa senza pari nella storia universale. La comicità è oggettivamente così travolgente che ritengo del tutto legittimo che per distruggere questa ideologia Lei evochi l’ombra di Karl Kraus. Ma ora non si potrà certo annientarla, poiché il suo dominio ha radici in una situazione oggettiva – che peraltro a parer mio è effimera – e spero che «questo breve periodo di trapasso» non richiederà decenni. In ogni caso era molto giusto che Lei attaccasse battaglia. […].
Cases a Lukács
Pisa, 9 gennaio 1959
Molte grazie della Sua lettera del 13 dicembre, che a causa del sovraccarico delle poste a fine anno mi è giunta solo dopo Natale.
Per quel che riguarda D’Annunzio ecc. anch’io non attribuisco naturalmente nessun significato a queste velleità «di sinistra». Mi interessava sottolineare che l’avanguardia italiana non può essere definita senz’altro reazionaria. D’Annunzio era più intimamente legato alla reazione di Hofmannsthal, e la differenza tra Marinetti e Majakovskij e gli espressionisti tedeschi e i surrealisti francesi è colossale. Ma è significativo che nonostante questa disponibilità alla collaborazione che caratterizzava sia D’Annunzio (nonostante i suoi attriti personali con Mussolini) sia Marinetti e che si mise chiaramente in luce al tempo della guerra d’Abissinia (Marinetti scrisse un Poema etiopico e D’Annunzio compose lunghi panegirici sull’impresa mussoliniana), il fascismo nel suo insieme si comportò nei confronti dell’avanguardia quasi così negativamente come il nazionalsocialismo, mutatis mutandis, cioè senza roghi di libri e con applausi occasionali quando i «precursori» alla D’Annunzio o Marinetti esigevano un tributo di riconoscenza. Cioè D’Annunzio e Marinetti potevano essere considerati tanto poco esponenti ufficiali della letteratura fascista quanto George da una parte e per esempio Bronnen dall’altra in Germania; ad onta della loro lealtà non ebbero mai un ruolo importante, mentre il fascismo si appoggiava molto di più alla letteratura legata alla tradizione (Bacchelli, Panzini, Baldini, ecc.). In realtà il ruolo di scrittori come D’Annunzio e Marinetti già nei primi anni del fascismo era praticamente esaurito e la nuova avanguardia che faceva la sua comparsa in quel periodo aveva un carattere affatto diverso. Non cantava più la «bella vita» di D’Annunzio o il trionfo marinettiano della tecnica, bensì l’estrema delusione e rassegnazione. Il principale rappresentante di questa corrente, Montale, certo un grande poeta lirico, proveniva dai circoli antifascisti intorno a Piero Gobetti e non vi è dubbio che la « poesia ermetica » da lui fondata ebbe una funzione antifascista, anche se il fascismo a ragione non si preoccupò molto di questa «emigrazione interna»11 e solo dopo il 1938 cercò di allettarla con la corruzione (ciò che riusci nella maggior parte dei casi). Un ruolo simile a quello della poesia ermetica ebbe la cosiddetta «prosa d’arte» di quegli scrittori che aggiravano la retorica fascista fabbricando su spunti minimi eleganti articoletti tra il saggio e la meditazione (un po’ secondo la ricetta di certi scrittori viennesi o di Robert Walser), ma la capitolazione di costoro davanti al fascismo cominciò ancora prima che tra gli ermetici. Per tutta questa avanguardia Marinetti non significava più nulla, e D’Annunzio solo per certi scritti (Poema paradisiaco, Notturno)che eccezionalmente rappresentavano quella stanchezza di vivere che è il rovescio del suo turgore nietzscheano. Si era dunque, per usare una Sua espressione, al mercoledì delle ceneri dell’avanguardia italiana dopo il carnevale12. Una terza fase si ebbe negli ultimi anni del fascismo, quando alcuni scrittori stimolati dalla scoperta del romanzo americano (soprattutto Pavese e Vittorini) presero a scrivere romanzi di contenuto chiaramente antifascista. Prendendo in considerazione questa intera evoluzione, è difficile dire, a mio parere, che l’avanguardia italiana nel suo insieme era chiaramente reazionaria. Gli appunti di Gramsci dal carcere sono quasi tutti diretti non contro l’avanguardia ma contro gli scrittori legati alla tradizione, che costituivano la spina dorsale letteraria del regime, proprio perché gli importava soprattutto l’atteggiamento politico immediato, che nell’avanguardia era molto più complicato e ambiguo. Gramsci mori nel 1937 e solo negli ultimi anni di guerra ebbe luogo in proposito, per influsso della cosiddetta «sinistra» fascista, un mutamento decisivo: il ministro della cultura «di sinistra» Bottai fondò nel 1940 (se non erro) una rivista di nome «Primato» che riunì intorno a sé tutta l’avanguardia (e in aggiunta i filosofi esistenzialisti). Era un tentativo di lasciar cadere i vecchi profittatori del regime per attirare i giovani intellettuali insoddisfatti. Il tentativo riusci, perché pochi poterono trovare il coraggio di resistere alla libertà apparente e ai buoni compensi di «Primato», ma era venuto troppo tardi: alcuni collaboratori della rivista erano già segretamente comunisti, altri lo diventarono più tardi (un processo assai comune tra i giovani fascisti «di sinistra») o presero parte al movimento di resistenza. La interesserà forse per inciso che il nostro amico Della Volpe pubblicò in «Primato» un articolo con lo strano titolo L’estetica del carro armato.
In molti scrittori d’avanguardia che ebbero questa evoluzione verso il progresso l’influsso di Croce ebbe una parte importante. Il caso Croce è anch’esso molto complesso. Ciò che Lei dice di lui all’inizio della Distruzione della ragione è in sé e per sé esatto e importante, perché sottolinea il rapporto, da noi spesso ignorato, tra Croce e l’irrazionalismo europeo13. Ma con questo non si esaurisce tutto il complesso delle questioni. Croce rifiutò sempre il tardo irrazionalismo tedesco. Egli affermava che Windelband e Rickert erano stati gli ultimi filosofi e scrisse contro Spengler e Gundolf. La stessa cosa in campo artistico, dove respinse in toto l’avanguardia di Pascoli, Mallarmé, D’Annunzio, benché proprio la poesia moderna potesse richiamarsi alla sua dottrina estetica. Lo stesso ritrarsi davanti alle ultime conseguenze si rivela in politica. Il suo irrazionalismo storico si manifestò nel modo più evidente nella prima guerra mondiale, che accettò incondizionatamente, ma non in senso nazionalistico (al contrario di Simmel, Sombart ecc. egli combatté contro la svalutazione delle tradizioni culturali del nemico), ma perché queste «prove di forza» sono volute dal «destino» e bisogna combattere per mandare avanti la causa dello Spirito del mondo, da qualsiasi parte si combatta. Perciò si distanziò dai tentativi di Romain Rolland. Egli era «au dessus de la mêlée» con Kant, Hegel e Goethe, ma la guerra era qualche cosa di necessario. Queste idee di «Realpolitik», che ricordano Treitschke (da lui molto ammirato) e qualche volta addirittura De Maistre, di solito sono in lui annacquate in un conservatorismo liberale. Da principio approvò il fascismo come baluardo contro il comunismo, ma cambiò idea dopo la presa del potere e nel 1925 dopo l’affare Matteotti divenne il capo degli intellettuali antifascisti. È stato spesso notato (tra gli altri anche da Togliatti) che il fascismo lo lasciò fare, perché la sua opposizione 1) non aveva nessuna importanza pratica e poteva influenzare solo gli intellettuali e 2) era rivolta contro il comunismo molto più che contro il fascismo, dunque in ultima istanza preservava l’intelligencija dal contagio comunista. Che ci fosse questo tacito accordo tra Croce e il potere fascista è certo vero, ma questo non toglie nulla al fatto che Croce costituiva l’unico centro di un’opposizione intellettuale consapevole,e una volta che l’opposizione diventa consapevole può facilmente andare al di là del suo punto di partenza. Molti importanti esponenti del Pci (Sereni, Alleata, Amendola) provengono dalla cerchia di Croce e passarono al comunismo già dopo il 1930. Si aggiunga che Croce dovette certo risparmiare il fascismo in politica, ma spesso combatté le sue manifestazioni spirituali nella letteratura e filosofia con l’irriguardosa franchezza che gli era propria e che da noi è estremamente rara. Se penso a quegli anni in cui attraversavo l’adolescenza nell’atmosfera asfittica del fascismo, mi vengono in mente solo gli scritti di Croce da cui potessi respirare qualche cosa di simile a uno spirito d’opposizione. Questo bisogna pur concederlo, anche se oggi non sono in grado di leggere un suo libro fino in fondo. Come filosofo era un fenomeno marginale nel campo della filosofia imperialistica, ma come potenza spirituale non mancava di grandezza sia nel bene che nel male. Lo si può paragonare a un proprietario terriero feudale (del resto lo era) che partecipa di una forza originaria, dispotica, che è andata perduta in paesi capitalisticamente più sviluppati. Nei suoi scritti scende spesso al livello di un pulcinella napoletano (per tutta la vita non riusci a pronunciare correttamente l’italiano), ma in compenso gli restò sempre estranea la limitatezza di un professore tedesco (e forse del resto anche la scrupolosità relativa). […].
II.
Lukács a Cases
Budapest, 15 maggio 1964.
Rispondo con qualche ritardo alla Sua cartolina. Ma la colpa è Sua, perché il Suo articoletto su Musil14 mi ha interessato moltissimo e dovevo rispondere più diffusamente. Trovo che è un gran peccato che Lei abbia inserito le Sue idee sul romanzo di Musil in poche pagine (soprattutto a pp. 272-73) nel contesto di una polemica ironica. Perché trovo che Lei qui ha finalmente trovato il punto centrale di questa questione e Le scrivo principalmente per spronarLa a scrivere un saggio esauriente su questo tema. Che la Sua idea fondamentale sia straordinariamente semplice depone a favore della sua verità. Ciò che in Musil si è generalmente interpretato come crisi del vecchio romanzo è appunto la crisi interna dello scrittore Musil, la sua incapacità di venire a capo di un grande tema attuale. E credo anche che Lei qui abbia trovato la chiave giusta. L’impostazione originaria è una critica dell’Austria prima della prima guerra mondiale. Per questo Musil aveva esperienze dirette e indubbie capacità, e di per sé sarebbe stato possibile che uscisse fuori un equivalente austriaco della Montagna incantata. E Lei ha ragione di ritenere che è stato il fascismo a fare uscire Musil da questo binario. Di qui è sorta l’insolubile problematica nella costruzione del romanzo. Se questo caos ha un vero equivalente letterario, esso è – ed è anch’esso un fenomeno austriaco – l’ammutolire di Karl Kraus all’avvento di Hitler. Solo che in Kraus questo è stato un gesto univoco, anche se certo non facilmente decifrabile, mentre in Musil è rimasto un mucchio di rovine. Il punto interessante, cui accenna anche Lei, è che qui si è creata una biforcazione tra un antifascismo teorico e pubblicistico e una svolta verso l’interiorità senza fondo.
Fin qui le Sue idee, a mio parere importanti. Si tratterebbe solo di comprendere la questione non soltanto come crollo dello scrittore Musil ma anche come fenomeno austriaco. Al primo aspetto ho accennato nella mia Estetica là dove cito una confessione di Musil a proposito della sua incapacità di vera rappresentazione15. (Naturalmente questa incapacità viene interpretata dalla teoria letteraria oggi dominante come pregio, sintomo del nuovo, dello spirito pionieristico.) Vorrei solo accennare un paio di idee sparse sull’elemento specificamente austriaco, e mi interesserebbe sapere qual è la Sua posizione in proposito. Il primo punto è la simpatia ancor oggi prevalente tra gli intellettuali austriaci per il cosiddetto giuseppinismo: questa simpatia non superata almeno nell’inconscio la si può constatare perfino in marxisti austriaci come Ernst Fischer, pensi per esempio al suo atteggiamento del tutto acritico verso Grillparzer. In modo sotterraneo questa simpatia vive anche in Musil, ad onta di ogni ironia verso l’Austria, e io credo che la si potrebbe riscontrare perfino in Karl Kraus. Di qui proviene un particolare rispetto per l’esistente, un comportamento non rivoluzionario verso di esso. Al tedesco Thomas Mann fu possibile superare interiormente dopo la prima guerra mondiale il suo prussianesimo fridericiano, poiché il suo legame con esso era stato più violento, più romantico e meno «organico». L’altro punto è il neopositivismo. Non è certo un caso che l’Austria sia stata la terra d’origine del neopositivismo, da Mach a Carnap e Wittgenstein. Anche lo stesso Musil fu in larga misura neopositivista. Certo con la particolare sfumatura – che si può trovare anche nel Tractatus di Wittgenstein – di una mescolanza polare di neopositivismo e di misticismo. Questa posizione separa nettamente Musil dall’irrazionalismo tedesco, pensi per esempio alla sua resa aspramente ironica della figura di Klages. Ma ne scaturisce una mancanza di vie d’uscita ancora maggiore e più disperata. E io in questo vedo una chiave per capire perché Musil all’avvento del fascismo abbia dovuto rifugiarsi in una «mistica esatta».
Mi interesserebbe molto sapere che cosa pensa di queste questioni e se avrebbe voglia di trattare il problema Musil in un saggio d’insieme. […].
Cases a Lukács
Roma, 20 giugno 1964
[…]. La ringrazio delle Sue osservazioni su Musil. Il mio articolo perseguiva uno scopo polemico e probabilmente non scriverò più nulla in proposito (purtroppo sono fatto in modo che posso scrivere solo se mi eccito contro qualcuno). Ma Lei ha certamente ragione nelle idee che desume dalle mie tenui supposizioni. È sintomatico per Musil (e ciò emerge anche dal passo da Lei citato nell’Estetica) che egli, a differenza di altri grandi rappresentanti dell’avanguardia, non parta primariamente da una teoria affermativa della letteratura moderna, ma semplicemente faccia di necessità virtù. D’altra parte Musil non nuota «controcorrente», come Lei afferma di Thomas Mann. In fondo egli è sempre partito da esperienze personali e occasionali e all’inizio non pensava nemmeno di scrivere un romanzo oggettivo sull’epoca. Ancora nel 1920 non gli era ancora venuta in mente l’idea dell’«azione parallela», allora pensava semplicemente a un’azione qualsiasi che tenesse insieme il tutto, per es. a un «congresso ecumenico mondiale». Questo mi ricorda quanto Lei scrisse una volta di Fontane, e cioè che esitò a lungo prima di decidersi a far svolgere Schach von Wuthenow prima e non dopo la battaglia di Jena16. In Musil questa incertezza è naturalmente molto più profonda, essa investe tutto il significato non psicologico del romanzo, il quale viene pensato dapprima come un’aggiunta esteriore che avrebbe potuto essere anche un’azione puramente meccanica, priva d’importanza. È un fatto, però, che approdò all’idea giusta, e qui l’elemento cacanico adempì alla sua grande funzione. Quel che Lei dice su tale funzione mi sembra del tutto persuasivo. Non avevo pensato al parallelo con Karl Kraus. Si ha l’impressione che questi austriaci coscientemente o meno potessero trovare negli aspetti cattolico-feudali del regno asburgico un (preteso) appoggio contro la «distruzione della ragione». Questa era la loro forza e insieme la loro debolezza. Poiché questo impediva loro di pervenire a un vero atteggiamento democratico, come Lei chiarisce attraverso il confronto con Thomas Mann. D’altra parte questo li rendeva più facilmente dei tedeschi immuni dalle tentazioni dell’irrazionalismo nelle sue forme estreme, poiché in fondo Thomas Mann fu un’eccezione in mezzo agli scrittori tedeschi che non avevano abbandonato le posizioni borghesi, mentre Kraus, Musil, Roth, Broch, perfino Hofmannsthal e un irrazionalista così convinto come Friedell a modo loro si mantengono fedeli alla causa dell’umanità. Il nazionalsocialismo doveva mostrare la labilità di questo sostegno e portare a una crisi che ha esiti diversi nei diversi scrittori. I più diventano ancora più conservatori e si aggrappano al passato: Kraus appoggia Dollfuss, Roth trasfigura la vecchia Austria, Broch elabora una variante austriaca dell’anticapitalismo romantico. Musil prende parte al congresso antifascista del 1935 ed è certo quello che ha le idee più chiare sul fascismo. In compenso il suo romanzo entra in un vicolo cieco. […].
Cases a Lukács
Roma, 3 agosto 1964
Grazie della Sua lettera del 5 luglio. Mi fa piacere che Lei sia d’accordo con le mie osservazioni improvvisate sulla questione della letteratura austriaca. Su questo c’è un libro ricco di materiale e assai ben scritto di un giovane italiano, Claudio Magris, che Einaudi ha pubblicato l’anno scorso. Si chiama Ilmito asburgico nella letteratura tedesca moderna e tratta la formazione e la diffusione di questo mito dagli ultimi decenni del Settecento fino ai giorni nostri. A mio parere il libro ha questo limite, che Magris considera il suo oggetto isolatamente, senza prendere in considerazione l’evoluzione tedesca come rovescio della medaglia. Quindi per lui il mito asburgico è in ogni tempo senz’altro conservatore o reazionario (forse perché da buon triestino ha un’avversione di fondo per tutto quello che è imperial-regio). Credo che la cosa andrebbe affrontata da un altro lato, cioè appunto in rapporto con l’evoluzione tedesca. Finché questa poteva ancora mostrare dei tratti progressivi, l’Austria sembrava essere il paese più retrivo, irrigiditosi nel feudalesimo. Questa consapevolezza appare ancora in larga misura in Hebbel, questo tedesco del nord trapiantato a Vienna, per es. nell’insistenza sul Protestantesimo in letteratura17. Ma già qui questa consapevolezza comincia a essere ingiustificata. Le parodie di Nestroy contro Hebbel e Wagner18 centrano il nocciolo della cattiva evoluzione tedesca già nelle sue prime manifestazioni. Naturalmente c’è anche una reazione specificamente austriaca dopo il 1848, ma ha una diversa fisionomia e il capitalismo tedesco con la sua sete di potere le rimane estraneo. Hebbel ha ragione contro Stifter19, ma Nestroy ha ragione contro Hebbel. Da allora l’idealizzazione della monarchia absburgica ha avuto almeno il vantaggio che gli scrittori austriaci per lo più tennero fede a un minimo di umanismo.
[…]. So da Ferko20 che Le ha riferito della mia insoddisfazione per i Suoi ultimi articoli. Speriamo di poterne discutere a fondo in occasione di una visita a Budapest. […]. Ma se apro Hans Mayer o Ernst Fischer mi accorgo che la mia apostasia dalle Sue idee non va così lontano come le loro, perché si esaurisce quasi completamente in politicis. Del resto Lei ne aveva già avuto sentore e temo che se esponessi diffusamente le mie opinioni soccomberei miseramente di fronte alla Sua dialettica. […].
Lukács a Cases
Budapest, 15 agosto 1964
[…]. La piccola osservazione che Lei è in procinto di superare il gusto della pura polemica nel Suo modo di scrivere mi rende molto ottimista. Da questo punto di vista non ha importanza che Lei ora scriva il Suo saggio musiliano o qualcosa d’altro. Io naturalmente sarei molto lieto nel primo caso.
Le Sue osservazioni sulla letteratura austriaca sono molto interessanti e giuste. La contrapposizione con la Germania è certo un punto di vista decisivo e Lei coglie nel segno dicendo che Nestroy ha avuto ragione contro Hebbel e Hebbel contro Stifter. I motivi di questo rapporto complesso, ineguale e contraddittorio tra l’evoluzione tedesca e quella austriaca sono assai vari. Vorrei rimandare di nuovo alla tradizione giuseppina in Austria, in antitesi a quella prussiana. Si aggiunga la particolarità del sistema austriaco di governo: assolutismo temperato dalla rilassatezza (Schlamperei),come si soleva dire a quei tempi. Si aggiunga infine che Vienna era veramente una grande città, mentre in Germania non c’era niente di simile prima dello sviluppo di Berlino a partire dalla guerra franco-tedesca. La conseguenza è che in Germania ogni atteggiamento popolare ha un sapore provinciale, mentre in Austria sono possibili figure come Nestroy.
Sulle nostre divergenze d’idee spero che potremo intrattenerci presto a viva voce. Vorrei solo insistere che esse non hanno rapporti con quelle tra me e Ernst Fischer o Hans Mayer, neanche nel senso di un più o di un meno di quantità. Costoro fanno maggiori o minori concessioni a odierne ideologie borghesi e quindi si allontanano dalla metodologia del marxismo; Fischer certo meno di Mayer. Nelle nostre divergenze si tratta di una controversia di famiglia all’interno del metodo marxista, controversia che spesso deriva da una diversa valutazione di fatti concreti. Per esempio io ho meno paura di Lei delle bombe atomiche di Goldwater. In primo luogo Goldwater non è stato ancora eletto, sebbene io non creda che la sua elezione sia assolutamente esclusa. In secondo luogo (ciò che è ancora più importante) Goldwater sarà costretto a versare molta acqua nel suo vino radicale. Questo si rivela già adesso. Il retroscena mi sembra essere da una parte che il capitalismo sudoccidentale degli Usa non aspira al dominio assoluto, non essendone economicamente in grado, bensì a un equilibrio per esso favorevole con il capitalismo monopolistico orientale che finora governava da solo. D’altra parte una vittoria elettorale è in America una questione economico-sociale enormemente importante: posti direttivi, potere nelle lobbies ecc. Goldwater sarà costretto, se vuole guadagnare i voti repubblicani orientali, a fare grandi concessioni in queste questioni. I sintomi sono già visibili. Certo non sostengo che l’elezione di Goldwater non significherebbe un regresso, un aumento dell’insicurezza in politica estera ed eventualmente un rafforzamento delle tendenze settarie nei paesi socialisti. In questo contesto leggo oggi con sentimenti di vivo rincrescimento le notizie sulla grave malattia di Togliatti. La nostra divergenza consiste in fondo nel fatto che io sono fermamente convinto che le tendenze economiche del nostro tempo in ultima istanza si imporranno sia da una parte che dall’altra. […].
Lukács a Cases
Budapest, 5 settembre 1964
[…]. Ho provato un piacere senza residui leggendo l’espressione del Suo sano odio e della Sua sana diffidenza nei confronti del capitalismo. È qualcosa di estremamente importante che purtroppo manca a molti marxisti, da noi e fuori. Per quel che mi concerne personalmente, è stato sempre questo odio a darmi un sicuro appiglio nei momenti più difficili. Quindi in questa questione non ci sono divergenze tra noi. Non ce n’è di sostanziali neanche sull’ultimo scritto di Togliatti. Io l’ho letto con grande attenzione e profonda simpatia. L’unico punto in cui sento la mancanza di qualcosa è che parlando del superamento dello stalinismo non pone un accento sufficiente sul necessario rinnovamento teorico del marxismo. Purtroppo su queste questioni oggi perfino un Togliatti è un politico troppo pratico: il tipo Lenin sembra essersi estinto. Per quel che riguarda la «transizione pacifica» al socialismo, non credo che le nostre opinioni differiscano quanto sembra. Marx e Engels hanno preso già in considerazione questa possibilità come caso limite, e perfino Lenin ha considerato questa questione come una possibilità transitoria nel settembre 1917. Riterrei catastrofico che il movimento operaio si orientasse esclusivamente verso questa prospettiva, anche nelle condizioni della coesistenza così come la concepisco io. Il passaggio pacifico è una possibilità tra molte, che è possibile a certe determinate condizioni, ma soltanto possibile. Un approfondimento adeguato è difficilmente possibile per lettera. Speriamo di poter discutere anche di questa questione tra non molto. Quanto al pessimismo di Togliatti (e la questione Goldwater), anche questo è un campo troppo vasto. Non credo – con tutto l’odio e la diffidenza per il capitalismo – che questo prepari sul serio un suicidio atomico dell’umanità. Quello che hanno fatto i nazisti è stato di fatto un suicidio della Germania, ma non certo un suicidio voluto. Anche i nazisti hanno usato armi ecc. in cui credevano di avere la superiorità. Che questo per i bombardamenti aerei fosse un’illusione non cambia niente a questo fatto. Posso raccontarLe un aneddoto della seconda guerra mondiale? Tutti ricevemmo quasi immediatamente maschere antigas, e io diedi subito la borsa della mia a Gertrud21 perché la potesse usare per le sue compere tanto ero sicuro che dato l’equilibrio tecnologico della guerra chimica non ci sarebbero stati attacchi coi gas. Una sicurezza simile la provo nella faccenda della guerra atomica. Naturalmente una vittoria di Goldwater può avere conseguenze altamente sgradevoli, ma esse sarebbero temporanee. Molte cose in cui Togliatti è pessimista io le giudico in modo del tutto diverso: si tratta spesso proprio di fenomeni di dissoluzione che dipendono dalla scomparsa del pericolo acuto di guerra. Poiché proprio per questo ci si può permettere qua e là, in politica interna ed estera, molte cose che dieci anni fa sarebbero state impossibili per la paura della guerra. […].
Cases a Lukács
Roma, 26 dicembre 1964
[…]. Mi fa piacere che Lei approvi il mio «sano odio e sana diffidenza nei confronti del capitalismo» e non ho mai dubitato che questo odio sia in Lei sempre vivissimo (tutt’al più temo che le condizioni di vita nei paesi socialisti smussino un po’ la sensibilità per le assurdità e i distorcimenti che provengono dal capitalismo). Per quel che concerne la «transizione pacifica» sono completamente d’accordo con Lei che è una possibilità tra le altre che non può essere respinta a priori così come non può essere assunta a priori come unica possibilità. Ma bisogna pure che ci siano motivi che giustificano questa prospettiva. Marx pensava alla possibilità di un passaggio pacifico al socialismo in paesi come la Gran Bretagna e l’America perché laggiù nelle condizioni di allora l’apparato burocratico-militare che si trattava di spezzare non era ancora abbastanza sviluppato e centralizzato. Oggi queste condizioni non si trovano da nessuna parte. Quindi se da noi si parla di un simile trapasso pacifico in seguito a una vittoria elettorale o a una collaborazione con i cattolici, questo è un sogno vuoto che non ha nulla a che vedere con i fatti. Certo la possibilità della transizione pacifica può sorgere anche là dove l’apparato burocratico-militare è fortemente indebolito per es. a causa di una guerra perduta. Lenin pensava a questa possibilità nel settembre 1917 e non è escluso che una situazione del genere possa verificarsi in certi paesi, speriamo non dopo una nuova guerra mondiale ma per es. in un momento di esitazione delle classi dirigenti di fronte alla prospettiva di una nuova guerra mondiale. La possibilità continua dunque a sussistere, ma solo come caso limite, mai come prospettiva da adottare per le direttive politiche, come accadeva anche a Togliatti. Mi sembra che centri bene la questione il detto di Castro a proposito della transizione pacifica: «Beh, perché non ci dovrebbe essere? Quello che possiamo dire è solo che finora non c’è mai stata e che il socialismo è sorto solo mediante una rivoluzione».
Sulla questione del pessimismo di Togliatti. Non credo che si tratti di un’opposizione astratta tra pessimismo e ottimismo. Per le ragioni suaccennate noi possiamo forse in parecchie questioni esprimere giudizi più pessimistici dei Suoi e qualche volta può essere Lei ad avere ragione (come è successo nel caso di Goldwater). Ma personalmente in complesso potrei essere tanto ottimista quanto Lei, in primo luogo in modo del tutto fideistico, in quanto credo che l’umanità si ponga solo problemi che è in grado di risolvere ecc. ecc., e in secondo luogo, un po’ più concretamente, perché mi posso ripromettere questa soluzione da una rivoluzione mondiale, da una crisi interna del sistema capitalistico in rapporto con la rivolta del mondo coloniale ecc., così come Lei se la ripromette dalla coesistenza pacifica e dalla concorrenza tra capitalismo e socialismo nella questione del tempo libero. In altre parole: tutti e due abbiamo delle soluzioni, per diverse che siano, in cui grazie a Dio si fa a meno della bomba e si permette all’umanità di continuare a vivere. La divergenza comincia nella valutazione del pericolo, e di li proviene anche la differenza delle soluzioni. Lei sostiene che la bomba atomica ha reso impossibile la guerra come mezzo per risolvere i contrasti politici e di qui elabora la Sua teoria della coesistenza pacifica. L’aneddoto della borsa per la maschera antigas da Lei data a Sua moglie per le compere evidenzia bene il Suo punto di vista: se i due avversari sono tecnicamente progrediti nella stessa misura non ricorreranno a mezzi che provocherebbero una rappresaglia di uguale entità. Mi permetta di dire che il paragone zoppica un po’ di più di quanto succede abitualmente ai paragoni. In primo luogo il rapporto Urss-Usa nell’armamento atomico è all’incirca di 1 a 5, dunque è paragonabile piuttosto alla superiorità dell’aviazione tedesca all’inizio della prima guerra mondiale, che Lei menziona come esempio in contrario. Ma questo non è tanto importante. Più importante è il fatto che le armi atomiche rappresentano qualcosa di qualitativamente nuovo che non si può confrontare con nessun’altra specie di armi. Quando si legge che oggi sono state già costruite tante bombe che a ogni uomo vivente corrisponde una tonnellata di tritolo (e non bisogna dimenticare che questo potenziale cresce ogni giorno), si deve dire che, se è vero che la guerra nel senso tradizionale della parola è divenuta «impossibile», la possibilità di una distruzione totale è estremamente concreta e aumenta di giorno in giorno. Il gas per sterminare tutta l’umanità andrebbe fabbricato apposta: le bombe per farlo ci sono già. Errori, distrazioni, generali o piloti impazziti, come se ne incontra nei film o nei romanzi di fantascienza, rientrano nel campo del calcolo delle probabilità. Si può sperare che non ce ne sarà mai, ma questa speranza è tanto motivata o immotivata come quella che con la mia auto ben lubrificata non mi capiti in viaggio nessuna panne. Come è noto, qualche anno fa precipitò un aereo americano dotato di una bomba da venti megatoni e si constatò che su sette dispositivi di sicurezza solo due avevano funzionato. La fine di una gran parte dell’umanità «per sbaglio» è dunque una possibilità concreta. E siccome il riarmo atomico è e resta il migliore affare del capitalismo, questo pericolo può sparire solo con la fine del capitalismo stesso. Una coesistenza pacifica a lunga portata con concorrenza tra i due sistemi ecc. sarebbe possibile solo se l’umanità avesse molto tempo davanti a sé, ma ne ha molto poco. La speranza che i circoli capitalistici diventino consapevoli, mettano giudizio e si accingano seriamente a disarmare è così piccola che se ne può praticamente prescindere. Certo Kennedy aveva tentato soprattutto all’inizio di fare qualche passo in questa direzione, ma la sua era una politica puramente personale che non aveva dietro di sé dei circoli capitalistici influenti. Ho l’impressione che l’oscura consapevolezza che la coesistenza pacifica era una faccenda puramente unilaterale non sia stata estranea agli ultimi avvenimenti in Urss22.
Con ciò non voglio aggregarmi al coro di coloro che rendono lo sviluppo della tecnica responsabile di questa allegra prospettiva. Il limite di pensatori come Günther Anders che hanno meditato sulla questione è che essi, influenzati come sono dalla tradizione dell’anticapitalismo romantico tedesco, considerano la bomba atomica come l’ultima conseguenza di una hybris umana cui non si può porre rimedio. Considerando come un male il dominio totale della natura, essi non scorgono in fondo nessuna via d’uscita al di fuori magari di una vita accompagnata da un eterno tremare dell’uomo davanti a se stesso, sicché Anders può giungere alla conseguenza (in fondo reazionaria) che si deve rinfrescare il senso dell’attesa dell’apocalisse, andato perduto nell’età moderna. Nello stesso senso Anders sostiene che Faust è morto, perché l’assoluto è già stato raggiunto e si tratta proprio di scuotere da sé .la sua soma. Di fronte a queste idee io spero di restare sempre marxista, perché il dominio assoluto della natura non mi spaventa affatto, anzi mi sembra essere il fine della storia. È un fine oggi tanto vicino che è interessante vedere il ruolo che svolge questo motivo nella pubblicistica progressista degli Stati Uniti (penso soprattutto alla «Monthly Review», che apprezzo molto). Laggiù il processo di automazione è tanto avanzato che la terra promessa, la liberazione dell’uomo dal lavoro in quanto tale prevista da Marx nel terzo libro del Capitale, appare già come un fine a portata di mano e i pensatori progressisti pensano già a un passaggio diretto al comunismo senza stadi intermedi. Ma è un fatto che l’evoluzione dell’umanità è rimasta addietro rispetto a quella della tecnica, non nel senso generico che si riscontra per es. in un sincero pensatore borghese come Einstein per cui l’uomo non è ancora abbastanza «buono dal punto di vista morale», ma nel senso del tutto concreto che il capitalismo è ancora estremamente forte in un’epoca in cui i fondamenti tecnologici del comunismo sono già dati almeno in alcuni paesi. Dato che il dominio assoluto della natura consente anche il suo assoluto annientamento, ci troviamo all’incrocio tra due (per così dire) possibilità filosofico-storiche: la realizzazione dell’uomo o la fine dell’umanità. Voglio credere che la prima possibilità è più probabile, perché credo nella ragione nonché nell’umanità come portatrice, nel suo insieme, della ragione stessa, ma non posso assolutamente escludere la seconda.
Da ciò scaturiscono delle conseguenze anche nella vexata quaestio del rapporto Lukács-avanguardia nonché di quello Lukács-Brecht. Anche qui non mi sento d’accordo con le obiezioni consuete. OpporLe una generica «modernità» in cui tutte le vacche sono nere, come fa per es. Hans Mayer, mi sembra molto poco marxista. Sono sempre del parere che la Sua teoria della decadenza ideologica dopo il 1848 come fondamento delle tendenze decadentistiche sia inoppugnabile. E credo che per es. la Sua analisi di Kafka sia molto più esatta di quella dei suoi esaltatori. Ma quello che Lei non spiega è come mai i rappresentanti dell’avanguardia sono spesso così grandi. Lei riconosce tale grandezza per es. appunto nel caso di Kafka, ma essa è in netto contrasto con la Sua teoria e questa contraddizione resta inspiegata. Poiché se Kafka esprimesse davvero solo la disperazione di alcuni strati borghesi che hanno perso ogni prospettiva, non si capirebbe l’universalità delle sue opere. Questa critica è naturalmente (non solo su questo punto, ma in tutte le questioni abbordate in questa lettera) anche un’autocritica. Finché potevo credere che l’apocalisse era una proiezione di contenuti psico-sociologici, seguivo le Sue idee e non mi curavo della contraddizione. Ma da quando è diventato chiaro che essa è una concreta possibilità filosofico-storica, comincio a capire che l’universalità di Kafka poggia proprio su questa base. Cioè la prospettiva nichilistica di Kafka, benché sia da spiegare geneticamente solo con la mancanza di prospettive della borghesia, acquista oggettività e quindi anche universalità in quanto coincide con questa possibilità filosofico-storica. Lei dice nel Suo saggio su Solženicyn23 che la legittimità relativa di Kafka sta nell’aver previsto gli orrori del periodo nazista, mentre Beckett non può addurre una simile giustificazione. Questo è in rapporto con la Sua valutazione ottimistica della situazione. Da quel che ho detto prima risulta chiaramente che io qui non posso fare differenze tra Kafka e Beckett, perché per me gli orrori del fascismo sono solo una frazione del destino che è possibile si prepari per l’umanità. Credo che questo destino sia evitabile, ma non lo era anche il fascismo?
Con questo non voglio certo «riabilitare» il nichilismo, l’avanguardia, la distruzione della ragione ecc. Poiché la soluzione offerta da queste tendenze è sempre sbagliata, spesso reazionaria, ciò che deriva dall’impossibilità di andare al di là degli orizzonti della decadenza borghese. Voglio soltanto dire che nel pessimismo culturale c’è un nucleo giusto, cioè la coscienza che la fine della borghesia non concerne solo questa classe ma può mettere in pericolo l’intera umanità, e che il movimento rivoluzionario deve far propria questa coscienza se vuole uscire vittorioso dalla lotta e non vuole abbandonarsi a un ottimismo pericoloso. (Perciò ho detto a Ferko che le spacconate cinesi per cui una guerra atomica annienterebbe bensì una gran parte dell’umanità, ma permetterebbe ai sopravvissuti di andare incontro a un radioso avvenire socialista, sono certo del tutto ridicole come prospettiva concreta, ma soggettivamente rivelano un atteggiamento molto più giusto e realistico di quello dei loro antagonisti, che semplicemente reprimono questi problemi o pretendono di risolverli con accordi internazionali). In questo contesto diventa per me particolarmente importante l’unico (o quasi, perché in fondo c’è anche Majakovskij) rappresentante dell’avanguardia che ha assunto una posizione rivoluzionaria dopo aver vissuto profondamente l’esperienza del nichilismo, cioè Brecht. Anche qui devo fare dell’autocritica. Quel che mi respingeva in Brecht era la povertà della sua immagine della storia: che ci siano stati sempre oppressi ed oppressori, che i «grandi uomini» fossero sempre al servizio delle classi dominanti e in fondo fossero grandi delinquenti e via dicendo, queste mi parevano verità da un soldo, quindi in fondo non-verità. Questa concezione era in ultima istanza una proiezione rivoluzionaria della separazione avanguardistica (espressionistica) tra apparenza ed essenza, e qui c’era qualcosa di profondamente antidialettico che colpiva stranamente in un adepto della dialettica qual era Brecht. Sono sempre del parere che questa concezione di per sé sia sbagliata e non possa condurre a una vera comprensione della storia. Ma ora capisco che si adatta bene a caratterizzare la situazione attuale. Poiché questo continuo insistere sull’alternativa tra il mondo dell’umano e dell’inumano, della crudeltà e dell’amichevolezza, del senso e del nonsenso, se non è utilizzabile come parametro della storia, si rivela giusta in una situazione che per l’appunto si esaspera nel senso di questa alternativa (parlavo prima di due possibilità filosofico-storiche). Al congresso degli scrittori antifascisti del 1935 Brecht fu l’unico a opporsi allo spirito del fronte popolare; egli esortò i presenti a pensare al «cambiamento dei rapporti di proprietà», perché non si poteva combattere la barbarie senza cambiare i rapporti di proprietà in cui essa affonda le sue radici24. Questo allora suonava molto inattuale e in realtà era probabilmente sbagliato dal punto di vista politico. Come Lei ha scritto una volta25, spesso il conflitto storico mondiale tra capitalismo e socialismo non viene combattuto direttamente, ma gli si sovrappongono altre forme di apparizione (Erscheinungsformen) (fascismo e antifascismo, lotta per la pace). Brecht si atteneva al conflitto storico universale e questo allora era sbagliato almeno al 70 per cento (dico al 70 per cento perché anche la politica del fronte popolare non era senza ombre, ma non è questo il luogo…) Oggi però mi sembra che il monito di Brecht sia pienamente valido, poiché diventa sempre più chiaro che la lotta per la pace non può più essere separata dal cambiamento dei rapporti di proprietà e che questo cambiamento rappresenta l’unica possibilità di salvezza, cosicché la forma particolare di apparizione (Erscheinungsform)torna a coincidere immediatamente con il conflitto storico universale.
Come vede, la mia apostasia è solo relativa e condizionata dai tempi. Non cambierei neanche una riga alle Sue opere – al massimo aggiungerei qua e là qualche cosa per sottolineare meglio la «legittimità relativa» dei distruttori della ragione, senza però cambiare i segni positivi e negativi che ha messo Lei –: solo credo che ci troviamo in una strettoia della storia e che le Sue prospettive diventeranno veramente operanti solo quando l’avremo superata. Allora potremo permetterci di mandare al diavolo tutti i Beckett e di assistere a quella fioritura del realismo socialista che Lei ci ha prematuramente promesso. Allora i distruttori della ragione diventeranno solo un oggetto della sapienza libresca e non troveranno nessuna risonanza nella realtà. […].
Prima o dopo dovevo cercare di esporre più diffusamente la mia critica alla Sua posizione attuale, perché con oscure allusioni non si va molto lontano. Si capisce che non ho detto tutto e che quel che ho detto mi soddisfa assai poco. Ma spero che Lei, con la Sua capacità di cavar sangue da una rapa (è un modo di dire italiano), capirà da questa lettera il mio punto di vista meglio di quanto io sia riuscito ad esprimerlo e che non se ne avrà a male per la mia sincerità. Alcuni mesi fa ho tentato di scrivere una lettera simile a Féher e Agi26, a cui avevo esposto le mie perplessità e che avevano reagito energicamente ad esse. Questa lettera non è progredita molto e sta ancora da qualche parte in un cassetto. Credo che sia meglio guardarLa in faccia direttamente, non solo per onestà, ma anche perché è meglio aizzare i Suoi amici contro di Lei attraverso Lei stesso, che forse conferirà inconsapevolmente ai miei deboli argomenti, quando li riferirà loro, la forza del Suo spirito, aumentandone così la capacità di persuasione. […].
Lukács a Cases
Budapest, 16 gennaio 1965
Grazie per la Sua esauriente lettera di fine anno. Cercherò di rispondere sulle questioni principali, per quel che è possibile per lettera.
Voglio perciò concentrarmi sulle questioni di carattere teorico, senza curarmi dell’ordine che hanno nella Sua lettera. Comincio quindi con il problema della catastrofe mondiale dovuta a un caso. Credo che Lei, come la maggior parte degli uomini, consideri il caso in modo troppo assoluto, troppo metafisico. Naturalmente il caso è una componente importante di ogni vita, anche della vita storica. Ma il caso ha sempre uno spazio ben determinato, anche se gli uomini non sono sempre in grado di misurarlo concretamente. In questo caso si tratta della dialettica della casualità in rapporto alle linee di tendenza storico-politiche. Illustrerò il mio punto di vista con un esempio: ci sono sempre incidenti di frontiera, ecc., ma solo dalla minima parte di essi si sviluppa effettivamente una guerra. Che ciò accada o meno, non dipende mai dall’entità dell’incidente considerato isolatamente, bensì dalle grandi correnti generali della politica. Pensi al periodo immediatamente precedente la seconda guerra mondiale. Tra l’Unione Sovietica e il Giappone c’erano allora «incidenti di frontiera» cui partecipavano eserciti interi e in cui per giorni e giorni si combattevano grandi battaglie. Eppure non ne è venuta fuori nessuna guerra. Perché? Perché l’Unione Sovietica non voleva ritirare truppe dal confine occidentale minacciato e perché il Giappone già allora aveva il piano strategico di non avanzare in direzione della Siberia bensì verso Sud (Indocina ecc.). Credo che Lei possa dedurre chiaramente le mie idee da questo esempio. Io non contesto la possibilità di un caso del genere, ma vorrei dire che la linea generale dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti è cosiffatta che anche se esplodesse una bomba atomica si avrebbe la tendenza a isolare l’accaduto. Naturalmente ci sono anche tendenze opposte (guerra di Corea, Cuba, Vietnam del Sud, ecc.), ma esse finora si sono sempre infrante sulla linea principale. Resto quindi del parere che i casi non sono esclusi ma lo spazio delle loro conseguenze tragiche si restringe vieppiù.
Solo incidentalmente vorrei dire che io considero altamente frivola e irresponsabile l’idea cinese delle centinaia di milioni che sopravviverebbero alla guerra atomica. Non esiste nessuna garanzia che in caso di una vera guerra atomica l’atmosfera non si avveleni al punto che non possa rimanere alcun essere vivente. Perciò condivido la posizione di Chruščëv per cui non è lecito pagare questo prezzo per una rivoluzione socialista su scala mondiale.
Per quel che riguarda la questione principale, la nostra divergenza, credo, sta nel fatto che Lei sottovaluta un momento importante dell’evoluzione attuale, cioè le ripercussioni sia interne che esterne del periodo staliniano nei paesi socialisti. Questo ha in primo luogo la conseguenza che la forza d’attrazione del socialismo, che era molto forte nei difficili anni ’20, è terribilmente diminuita. Non si deve sottovalutare questo aspetto. Se parti cospicue del movimento operaio diventano politicamente indifferenti o riformiste, se movimenti spontanei che cominciano con un grande slancio rivoluzionario rimangono nell’ambito puramente sindacale ecc., ciò trova la sua ragione ultima nel fatto che agli operai non si presenta nessun ideale socialista concreto, nessun motivo per procedere sulla via della rivoluzione. E questo è quanto mai comprensibile. Una gran parte del mondo essendo socialista, ogni lavoratore giudica spontaneamente il socialismo a partire dalla sua realizzazione e non dalla sua possibilità astratta. Prima dunque che avvenga nei paesi socialisti una riforma che modifichi radicalmente i fondamenti della vita e renda la vita sensata così ottenuta attraente per le masse, temo che non ci sarà nessun movimento rivoluzionario in occidente. Che ciononostante ci siano persone come Lei che restano ostinatamente convinte che il peggior socialismo è migliore e più auspicabile del miglior capitalismo è molto importante per il futuro. Senza persone simili non si può stabilire una continuità ideologica con il passato, ma questo strato di persone – con tutta la sua importanza ideologica – è oggi esiguo e non può avere nessun influsso sugli avvenimenti reali.
Questa situazione ha però conseguenze che vanno ancora più lontano. La nostra riforma interna, che si estende da una pianificazione più efficace dell’economia alla restaurazione della democrazia proletaria, ha per presupposto un ritorno al vero marxismo e quindi una rinascita della teoria marxista. Oggi siamo solo all’inizio di tale movimento. E senza di esso la nostra riforma interna non può essere attuata, ciò che a sua volta ha per il movimento operaio occidentale conseguenze del tipo che ho appena descritto.
Ma questo ha per il movimento operaio occidentale anche conseguenze immediate. L’irrigidimento e l’impoverimento della teoria marxista fanno sì che non ci sia un’analisi scientifica marxista dello sviluppo capitalistico dopo la prima guerra mondiale. Togliatti era un tattico geniale, che anche senza analisi aveva talvolta colto ciò che era tatticamente giusto. Ma se vogliamo avere una strategia giusta dobbiamo per prima cosa possedere una giusta analisi marxista della situazione realmente esistente, delle reali tendenze economico-sociali ecc., mentre non ce l’abbiamo. E c’è tutta una serie di problemi, di cui io – che purtroppo non sono né economista di mestiere né un uomo politico veramente qualificato – ho la vaga idea che presentino aspetti del tutto nuovi. Menzionerò alcune di queste vaghe idee solo in stile telegrafico. Credo per prima cosa che ci troviamo in un periodo in cui – mi esprimo secondo l’analogia del 1905 – dovrebbe essere elaborato teoricamente uno stadio intermedio tra capitalismo e rivoluzione socialista, così come Lenin nel 1905 lanciò la parola d’ordine della dittatura democratica degli operai e dei contadini. Naturalmente questa è soltanto un’analogia, poiché i rapporti di classe si sono modificati in modo sostanziale – ripeto, senza che noi ne abbiamo preso nota. Di nuovo accenno soltanto a una questione. Il capitalismo prima della prima guerra mondiale si sosteneva su un vasto strato di rentiers grandi e piccini. Ora la grande inflazione non solo ha sostanzialmente distrutto questa categoria nell’Europa centrale, ma lo sviluppo posteriore del capitalismo assume una direzione che la fa sempre più arretrare. I ceti medi che guadagnano bene pensano oggi, credo, sempre meno a provvedere alla prossima generazione accumulando un capitale grande o piccolo, ma cercano piuttosto di facilitare ai propri figli l’ascesa individuale mediante una costosa educazione. Ripeto: non sono un economista di mestiere e non ho nemmeno studiato a fondo questa questione. Ma colpisce il fatto che in Francia ci sia una forte ricomposizione sociale della popolazione e che sia cessata la stagnazione nell’aumento demografico che era caratteristica dei decenni precedenti la prima guerra mondiale. Senza essere competente credo che in questo fenomeno abbia un grande ruolo questo cambiamento dei ceti medi cui ho appena accennato. Menzionerò anche il fatto che non abbiamo sul piano economico-sociale nessuna idea della situazione dei paesi sottosviluppati. E senza lo studio, senza un’analisi marxista di queste cose le nostre prospettive sono dilettantismo puro. Dilettantesca è anche la parola d’ordine cinese della realizzazione immediata del socialismo. L’Urss, che su questo punto esprime un giusto «no», è però altrettanto dilettantesca nelle sue proposte positive, dietro cui non c’è del pari nessuna analisi marxista.
Queste sono solo alcune questioni fondamentali. E Lei si meraviglierà forse di vedere quanto pessimista io sono in concreto, con tutto il mio proverbiale ottimismo. Credo infatti che ci vorranno dei decenni prima che si abbia un mutamento decisivo in questo complesso di problemi. Credo però anche che noi marxisti abbiamo il dovere di attenerci a questa linea fondamentale, in modo elastico e insieme fermo. Anche Lei dice che l’umanità si pone solo problemi solubili. Questa è un’idea corretta dal punto di vista marxista. Ma Marx non ha mai parlato concretamente dei tempi in cui tali soluzioni si verificano in teoria e in pratica.
Questo sarebbe dunque il mio parere sulle questioni decisive sollevate dalla Sua lettera e credo che Lei ne possa desumere che io nonostante la Sua «opposizione» La considero uno stretto alleato. Sulle divergenze d’opinione bisogna discutere apertamente, e speriamo di poter giungere tra non molto a un colloquio vero e proprio. […].
1 Sinn für Kontinuität, in Hans Mayer zum 60. Geburtstag, a cura di W. Jens e F. J. Raddatz, Reinbek 1967, p. 56.
2 Entrambi gli scritti, apparsi dapprima su «Nuovi argomenti», si leggono ora in G. Lukács, Marxismo e politica culturale, Einaudi, Torino 1968, pp. 137-86.
3 Sulla figura di Lukács come uomo cfr. sopra L’uomo buono, pp. 93-106.
4 Lukács a Bloch, 31 maggio 1963, in Ernst Bloch und Georg Lukács. Dokumente. Zum 100. Geburtstag, a cura di Miklós Mesterházi e György Mezei, Lukács Archívum, Budapest 1984, p. 123.
5 Il Salgari tedesco (1842-1912).
6 Nel Romanzo storico (trad. it. Einaudi, Torino 1965 e 1977) Lukács sostiene (p. 82) che la storia italiana a differenza di quella inglese si prestava a un solo romanzo storico che descrivesse «la generale tragedia del popolo italiano in una situazione di avvilimento e di spezzettamento nazionale» e loda il Manzoni per aver compreso «che ivi la perfezione era raggiungibile solo in un singolo caso».
7 Si tratta di Wolfgang Harich, che nella sua qualità di lettore dell’Aufbau Verlag, editore delle opere di Lukács, le redigeva per la stampa sopprimendo molte lungaggini. La «disavventura» cui si allude è l’arresto di Harich nel gennaio 1957, con susseguente condanna a dieci anni di carcere.
8 Lukács usava frequentemente questa espressione, sia nella conversazione che negli scritti, per accennare attraverso la negazione alla generale interdipendenza dei problemi. La frase era spesso oggetto di benevola canzonatura da parte degli amici.
9 Marxismo e neopositivismo, Torino, Einaudi 1958.
10 Marxismo e neopositivsmo cit.
11 Espressione coniata per designare gli scrittori che si consideravano antinazisti pur essendo rimasti in Germania dopo il 1933.
12 Il mercoledì delle ceneri del soggettivismo parassitario è il titolo del capitolo della Distruzione della ragione (trad. it. Einaudi, Torino 1959, pp. 495 sgg.) che tratta dell’esistenzialismo di Heidegger e Jaspers contrapposto all’ottimistica «filosofia della vita».
13 Cfr. La distruzione della ragione cit., pp. 19-20.
14 Si trattava di un articolo uscito in margine alla polemica sull’edizione Kaiser-Wilkins del terzo volume dell’Uomo senza qualità (Einaudi, Torino 1963) nella rivista «Merkur», XVIII (1964), n. 3, pp. 266-74 con il titolo Offener Brief an Walter Boehlich. In realtà in questo articolo io ponevo gli accenti diversamente da come me li fa porre Lukács e contestavo esplicitamente la tesi dell’«impotenza dello scrittore» a terminare il libro.
15 È probabile che si tratti del passo dei diari di Musil in cui si contrappone l’arte di «creare una tensione» al mero «avvincere» (Musil, Diari, trad. it. Einaudi, Torino 1980, p. 161), passo citato da Lukács nell’Estetica (trad. it. Einaudi, Torino 1970, p. 6.54) e più volte ripreso nel corso dell’opera.
16 Cfr. il saggio Der alte Fontane, trad. it. in Scritti sul realismo, I, Einaudi, Torino 1978, p. 723.
17 Der Protestantismus in der Literatur (1862) è un saggio di Hebbel in cui si sottolinea lo stretto rapporto tra il protestantesimo e la letteratura tedesca del periodo classico.
18 Contro la Giuditta di Hebbel Johann Nestroy scrisse nello stesso anno 1849 in cui fu rappresentata la tragedia la parodia Giuditta e Oloferne (trad. it. di I. A. Chiusano in Nestroy, Teatro, Adelphi, Milano 1974). Meno felici le due parodie wagneriane, quella del Tannhäuser (1857) e quella del Lohengrin (1859).
19 Nel 1858 Hebbel scrisse un articolo, Das Komma im Frack (La virgola in frac), contro la letteratura delle «piccole cose» e in particolare contro Adalbert Stifter. Lukács cita spesso questa polemica che corrispondeva alla sua concezione del realismo artistico.
20 Ferenc Jánossy, studioso di economia, figliastro di Lukács.
21 Gertrud Bortstieber (1882-1963), moglie di Lukács.
22 Allusione alla caduta di Chruščëv (ottobre 1964).
23 Solženicyn, «Una giornata di Ivan Denisovič», in Lukács, Marxismo e politica culturale cit., p. 206.
24 B. Brecht, Discorso al I congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, in Scritti sulla letteratura e sull’arte, Einaudi, Torino 1973, pp. 132-36.
25 Cfr. il discorso La lotta tra progresso e reazione nella cultura d’oggi, in Marxismo e politica culturale cit., pp. 92-93.
26 Ferenc Fehér e Agnes Heller, i noti discepoli di Lukács e membri della «scuola di Budapest».
Lukács a Cases
8 de junio de 1957
Querido amigo:
Me ha alegrado mucho su carta, a pesar del “egocentrismo” [Ichbezogenheit]. Y creo que no perturbará nuestra amistad que me comporte igualmente como un “historiador de la literatura” objetivo frente a esta categoría sumamente subjetiva que emplea un amigo y contemporáneo. Usted dice que mi interpretación objetiva, social de Manzoni provocará resistencia entre los psicologistas italianos. Ahora bien, creo que, tratándose de este egocentrismo, es preciso aplicar el mismo método: no es una categoría psicológica congénita – o a lo sumo una tendencia –, sino un resultado de complicadas interrelaciones entre sujeto y realidad social objetiva. Este es, según creo, el método para resolver este problema, tanto en el pasado como en el presente, tanto científica como prácticamente. Por un lado, me acuerdo muy bien de que el egocentrismo no siempre ha desempeñado en usted ese papel. Por otro, sé, a partir de una buena experiencia, que en mi hermosa casa de recreo en Bucarest también tuve que llevar adelante una lucha tal que no me excedo con el egocentrismo. No crea que, con tales consideraciones, recurro a una estetización, a una capitulación ante la mala realidad, tal como ocurrió a menudo con la “reconciliación” del Hegel tardío. Se trata, antes bien, de secundar la perspectiva. Recordará, quizás, mi conferencia sobre este tema en el último congreso de escritores alemanes, que tuvo lugar el año pasado. En esa ocasión dije que la perspectiva no es una realidad – si aquella es representada de tal modo, entonces se produce un happy end – , pero es, a la vez, una realidad futura. Por lo tanto, es real e irreal al mismo tiempo. Si uno se atiene a esto, entonces es posible encontrar, incluso bajo las circunstancias más desfavorables, un ámbito de juego para la actividad. Quizás conoce, a partir de conversaciones anteriores, que mi máxima favorita es una pequeña variación sobre la famosa frase pronunciada por Zola en tiempos del caso Dreyfus: «La vérité est lentement en marche, et à la fin des fins, rient ne l’arrêtera».
Me alegró sobremanera lo que escribe sobre Manzoni. He experimentado algo similar en Inglaterra con relación a Waltcr Scott. Sería muy bueno que concretara alguna vez el plan sobre Manzoni que esboza en su carta. Pues lo que aparece en La novela histórica solo puede ser una indicación, un estímulo. Una verdadera valoración marxista de Manzoni solo puede ser obra de un italiano; pero creo que una tal valoración correcta sería muy importante para Italia, y usted es, precisamente, el autor indicado para hacerla.
(Traduzione dal tedesco allo spagnolo di Miguel Vedda. La lettera è conservata presso l’Archivio Lukács di Budapest)