di Franco Ottolenghi
«L’Unità», 5 giugno 1971
Una morte che viene a concludere un’aspra e gloriosa vicenda
L’influenza di Simmel e di Weber negli anni di Heidelberg – Una contraddittoria attivazione politica – Commissario all’istruzione della Repubblica di Bela Kun – A Vienna e a Mosca – Il travaglio del ‘56 e gli ultimi interventi
Una morte che percuote, quella di György Lukács. Perché è anche la conclusione di una aspra, gloriosa vicenda del marxismo europeo. Lukács era nato a Budapest il 13 aprile 1885. A Budapest e a Berlino aveva compiuto gli studi universitari. Nel 1912 si era stabilito a Heidelberg. Simmel e l’amico Max Weber, il grande sociologo borghese, gli forniscono, a cavallo del primo decennio del secolo, le «lenti metodologiche», come dirà lui stesso, attraverso cui legge Marx. Il sindacalismo e Sorel e, durante la guerra, la conoscenza delle opere di Rosa Luxemburg sono gli elementi di una prima, e certo contraddittoria, attivazione politica.
Nel fuoco dei grandi e terribili eventi rivoluzionari che dopo la guerra e sulla spinta dell’ottobre sconvolgono l’Europa, si brucia l’anticapitalismo romantico. Lukács si iscrive al partito comunista, diventa commissario per l’istruzione della Repubblica dei Consigli di Bela Kun. La sconfitta della rivoluzione ungherese lo vede emigrare a Vienna dove resterà fino al 1929.
Il periodo della emigrazione viennese è certo uno dei più drammatici. La Terza Internazionale, dopo io scacco dei movimenti rivoluzionari, è scossa da un dibattito di linea che ha tra i suoi protagonisti il collettivo di redazione della rivista «Kommunismus» di cui Lukács è parte importante. Vengono qui elaborati alcuni temi, che costituiscono i momenti teorici portanti di Storia e coscienza di classe dello stesso Lukács e di Marxismo e filosofia di Korsch, ambedue risalenti al 1923.
Nel 1930 Lukács si trasferisce a Mosca, come collaboratore dell’istituto «Marx-Engels». Poi a Berlino, dove si occupa principalmente dell’attività di partito fra gli intellettuali. Dopo l’avvento del nazismo al potere, è nuovamente a Mosca, dove insegna all’istituto filosofico dell’Accademia delle scienze. Torna a Budapest nel 1945; è nominato ordinario di estetica e filosofia all’università.
Ma la sua «via al marxismo», per citare il titolo di un suo celebre scritto autobiografico, è ancora lontana dall’essere conclusa. Il grande intellettuale europeo, che con tanta fatica e passione persegue una rigorosa collocazione di classe è sconvolto dal drammatico 1956, e costretto a verificare dolorosamente quanto ancora la riflessione marxista e la pratica politica possano essere reciprocamente impenetrabili. Ministro della istruzione del gabinetto Nagy, Lukács è costretto a lasciare l’Ungheria; quando torna riprende silenziosamente il suo posto e la sua attività.
Rientrerà nel partito, irriducibilmente teso nella sua battaglia antidogmatica a costruire quella «scienza marxista universale», sono parole sue, che «può dare alla mia vita un contenuto indistruttibile». Difficile, tanto più se pensiamo alla sua ultima monumentale fatica, Estetica e, ancorpiù, al progetto di una Ontologia, una scienza dell’essere, più volte ripreso negli ultimi tempi, difficile – dicevamo – non cogliere in queste parole un accento del prediletto Hegel. Davvero, per il marxista Lukács, la grande controversia sul rapporto Hegel-Marx non aveva ragione di essere, indiscutibile essendo per lui la continuità di dimensione filosofica tra l’universo del primo e quello del secondo. In questo, singolarmente vicino agli amici-nemici della scuola di Francoforte, o addirittura alle grezze schematizzazioni del «materialismo dialettico».
Ma non è certo questo il momento, non è certo questa la sede per avviare un simile discorso. Per molti di noi, Lukács è stato colui che, recuperando il terreno della cultura a un’indagine sociologica e a una sia pur sommaria verifica politica, ne ha svelata la «cattiva coscienza» (si pensi a La distruzione della ragione, al Giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, alla battaglia per il realismo, dai saggi su Goethe e Mann fino a Solgenintizin). Per molti di noi, certo, egli è stato una «via al marxismo».
Che l’orizzonte della sua operazione teorico-politica fosse poi ancora quello determinato dalle strutture del pensiero classico tedesco, e quindi di una deviazione culturale ancora organicamente imparentata con la borghesia che ne era stata la originaria matrice sociale, determina degli scarti nel suo essere marxista e apre, per noi, la possibilità di un discorso critico. Si tenga però conto del fatto che egli fu uno di quegli «uomini storici» il cui compito è «di conoscere l’universale, di capire che il mondo si incammina necessariamente verso una nuova tappa, di proporsi ciò come fine, e di amettere in esso la loro energia». E di questo Hegel, certo, Lukács ne sarebbe compiaciuto.