di Bruno Schacherl
«L’Unità», 6 giugno 1971
Ecco. Questa è l’immagine di Lukács che vorremmo preservare, al di là delle infinite e anche contraddittorie vicende del suo pensiero. Certo, si scontava in queste vicende tutto il dramma del grande intellettuale del nostro secolo: l’ambiguità insita nella sua stessa collocazione al centro della crisi dei valori borghesi e nel travaglio per la costruzione di una società nuova, la scissione di un mondo irrimediabilmente diviso e alienato, la storicità delle singole conquiste ma anche dei tragici errori, l’impossibilità dunque di ricostituire, se non a prezzo di una fuga nell’utopia o di una serie di concessioni alla staticità e dunque all’antistoricità dei «modelli», quella «totalità» dell’uomo e del reale che proprio nel giovane Lukács, teorico dell’alienazione capitalistica e della crisi dei valori morali e culturali borghesi, aveva trovato una delle espressioni più alte.
Al centro di tutti i processi culturali europei degli anni dieci e venti, coinvolto più tardi nella tragedia dello stalinismo a cui diede un contributo teorico (e tale è senza dubbio il suo intervento nella polemica iniziale sul «realismo socialista») ma insieme oppose una costante resistenza critica, il filosofo ungherese dovrà essere certamente discusso in tutti gli aspetti del suo pensiero. Ma chi vorrà farlo, dovrà tener conto del metodo che egli è stesso ci ha insegnato, e che è il suo più vero contributo al marxismo del nostro secolo: il metodo della critica storica concreta, che spiega gli errori non per giustificarli, ma per batterli e andare avanti. Gli anni diranno, e forse hanno già cominciato a dire (su poche personalità del nostro tempo la letteratura critica è più vasta e ininterrotta), quanto di Lukács sia caduco. Personalmente penso, ad esempio, che tutta una serie di sue posizioni letterarie (la critica alle avanguardie, il sogno balzacchiano e manniano, la polemica con Brecht, ecc.) sia storicamente superata, anche se ha marcato di sé intere generazioni di critici. E tuttavia, sento profondamente la necessità che i conti con queste posizioni non vengano mai considerati chiusi una volta per tutte.
Una presenza ininterrotta dentro la mischia
È del resto questo un altro aspetto e non dei meno significativi della presenza ininterrotta di Lukacs in tutta la cultura mondiale, fino all’ultimo giorno della sua vita operosa. Il rispetto a cui la sua figura ha costretto anche negli anni più duri amici e avversari, non è il rispetto per un «maestro» indiscusso o l’equivoco che può andare a chi si tiene al di sopra della mischia: è la necessità di fare i conti con posizioni anche avversate ma nelle quali si avverte l’espressione di necessità oggettive, di bisogni reali di un’epoca. Più che le sue risposte, contano dunque le sue domande, sempre nuove e sempre vere, avanzate nel corso di tutto questo secolo a quelli che ne erano i protagonisti storici. A queste, dovremo saper dare anche noi – come movimento operaio e come intellettuali d’avanguardia – delle risposte che siano all’altezza dei tempi «grandi e terribili» che viviamo. E per poterla dare, dovremo tornare, con pazienza e umiltà, su tutta la sua sterminata opera, discutere ancora e sempre con la grande voce che si e spenta.
Mi sia perdonato, a conclusione, il ricordo personale: riguarda l’unico incontro che ho avuto cinque anni fa – in occasione della citata intervista a l’Unità – col vecchio filosofo nella sua bella casa sul Danubio, in una sera di luglio. Quella conversazione che pareva passare da un tema all’altro, come un lento ossessivo seppure lucidissimo monologo, e che invece all’improvviso si ricomponeva nel suo ordine logico esemplare e rivelava l’immenso retroterra di meditazione, di sofferenza, di lotta da cui era scaturita. La discussione durò varie ore. È continuata, in me, da lontano, quella voce, per molti anni. Quella voce che ora è taciuta, risuona oggi come uno dei segni più alti dei nostro tempo.