di Mihály Vajda
«Lettera internazionale» n. 23, 1990
Professor Vajda, Lei è stato allievo di György Lukács. Come ebbero inizio i suoi rapporti con lui?
Sono stato «allievo privato» di Lukács, perché egli non insegnava all’Università di Budapest già da tempo.
A causa dell’uscita dall’Università nel 1949, dopo la cosiddetta «Lukács Debatte»?
Sì, proprio a causa delle accuse che gli rivolsero in quel periodo, accuse sostanzialmente politiche, Lukács fu espulso dall’insegnamento universitario. Lo conobbi in occasione di una sua lezione all’Università di Budapest nella primavera del 1956.
Lei ha fatto parte della «Scuola di Budapest». Ci può dire come nacque la scuola e chi ne faceva parte?
Nel 1957, dopo il ritorno di Lukács dalla Romania, dove era stato deportato in seguito alla rivoluzione del 1956, gli allievi ripresero subito i contatti con lui. Ma non tutti gli allievi di allora si possono considerare della «Scuola di Budapest», anche se già Ágnes Heller e Ferenc Fehér erano allievi di Lukács. È quindi difficile parlare di un folto gruppo che faceva parte della «Scuola». Infatti alcuni esponenti della Scuola, come ad esempio Sándor Radnóti, György Bence, János Kiss o Maria Ludassy sono entrati nel gruppo soltanto più tardi. Direi, quindi, in generale che la Scuola si è formata negli anni in cui Lukács fu escluso dalla cultura ungherese ufficiale, all’incirca nel 1961-1962.
Prima di allora è possibile parlare di una «Scuola di Budapest»?
Nessuno ha parlato di «Scuola di Budapest» in quel periodo. Naturalmente Lukács ebbe anche allora degli allievi, come ad esempio la stessa Heller o István Hermann o Denés Zoltai o Miklós Almasi, ma considero «Scuola di Budapest» quella nata negli anni Sessanta.
Che differenza esiste tra la Scuola e il gruppo originario di allievi di Lukács?
Il gruppo originario non fu una scuola, ma piuttosto un gruppo di allievi; la «Scuola di Budapest», invece, conduceva una vita teoretica comune, aveva un comune progetto: la rinascita del marxismo. Per noi significava ritornare a Marx e parlare correttamente dell’esperienza storica del socialismo. Noi volevamo ricostruire il vero marxismo, ma alla fine abbiamo capito che una ricostruzione del marxismo era in realtà una sua distruzione. Per me, infatti, il marxismo è riduzionismo, nel senso che, secondo il suo metodo, tutto si riduce ai conflitti sociali e di classe. Ma, facendo ciò, non è possibile comprendere il mondo socialista e la funzione che in esso ha assunto il potere. Nello sviluppo della «Scuola di Budapest» un periodo intermedio fu quello in cui abbiamo iniziato ad operare un libero riesame dell’intera storia della filosofia e ad usare come punto di riferimento il primo marxismo di Lukács. Mi riferisco a Storia e coscienza di classe, che per noi fu una scoperta importantissima. Tuttavia, dedicavamo la nostra attenzione non solo a Lukács, ma anche ad altri intellettuali marxisti come Gramsci o Korsch.
La «Scuola di Budapest» si indirizzava verso una critica marxista dei Paesi socialisti, come ad esempio hanno fatto Roy Medvedev o Adam Schafff?
Sebbene sia un marxista, Roy Medvedev rimane un critico severo del sistema sovietico. Egli fa una critica politica, considerando l’assurdità del mondo comunista. Diverso è il discorso per quanto riguarda Schaff o, aggiungerei, Lukács, perché la loro critica è la migliore apologia del socialismo reale. Essi hanno sempre parlato di errori del sistema, che possono essere corretti per renderlo perfetto. Lukács ci diceva sempre che nel socialismo ci sono ovviamente degli errori, ma l’essenza è buona. Per lui: «il peggiore socialismo è migliore del migliore capitalismo». Era proprio un modo hegeliano di pensare. Ma ci chiedevamo come mai una buona essenza può generare tali delitti.
La vostra critica era simile a quella di Marcuse contenuta nel libro «Soviet Marxism»?
Sì, ma anche oltre «Soviet Marxism», nonostante che in esso si mostri che vi siano molti problemi nel socialismo. Adesso mi reputo un pluralista e considero il marxismo come uno sforzo per risolvere le molte contraddizioni della società del XIX secolo. Se devo dire adesso qual è l’eredità del marxismo, direi il marxismo sovietico e quello delle socialdemocrazie. Anche le socialdemocrazie hanno utilizzato Marx per creare quello che chiamiamo Welfare State …
Pensa anche alla «terza via» del comunismo italiano?
No, non mi riferivo al comunismo italiano. Non si può capire il marxismo sovietico e il socialismo sovietico senza confrontarli con le radici russe non marxiste. In Urss è stato possibile utilizzare il marxismo radicale, il cosiddetto marxismo rivoluzionario, perché l’idea collettivista era consustanziale al tradizionale collettivismo russo. Anzitutto, nel mondo russo non c’era alcuna differenza tra lo Stato e la società. Inoltre, il marxismo aveva molti elementi caratteristici, come l’idea di modernizzazione, secondo la quale si poteva creare un mondo nuovo sulla base dell’ideale collettivistico piuttosto che su quello individualistico, che erano molto importanti per i russi. Si produsse così una sorta di equilibrio tra i due orientamenti storici della Weltanschauung russa: quello occidentalista e quello slavofilo. Lo slavofilismo sosteneva il tradizionale collettivo russo, non individualista, non egoista. L’occidentalismo, invece, era per la modernizzazione, senza trovare un accordo con la tradizione russa.
Come si svolgevano i vostri incontri con Lukács?
Erano incontri privati, soprattutto la mattina, perché usava lavorare il pomeriggio e la sera. Andavo da lui alle 11 e iniziavano lunghe conversazioni su temi assolutamente liberi. Qualche volta ci furono anche delle discussioni collettive.
Si trattavano soltanto temi filosofici?
Sì, ma non solo: i rapporti umani erano molto liberi, egli non era assolutamente un tipo aristocratico e tutti potevano parlare liberamente con lui.
C’erano dei dibattiti tra voi e Lukács?
Dopo che Lukács scriveva le sue opere, noi le leggevamo ed esprimevamo le nostre critiche. La cosa che non criticammo assolutamente era la struttura delle sue opere.
Perché la «Scuola di Budapest» fu espulsa dall’Accademia delle Scienze?
Si trattò di un processo agli «eretici». Noi non rifiutammo un confronto aperto con loro, perché potevano emergere delle idee originali, che, per loro costituivano un elemento di disturbo. Allora organizzarono un comitato che lesse le nostre opere e produsse un documento, da discutere soltanto nei circoli chiusi dell’Accademia. Naturalmente ci accusarono di essere nel contempo «deviazionisti» di destra e di sinistra e così via; insomma eravamo degli eretici. Ma la vicenda fu anche politica. Allora, nel 1972, all’interno del partito stavano sorgendo due movimenti contrapposti: uno operaista e uno stalinista. La nostra condanna creò una sorta di unità ideologica, da esibire all’esterno. Noi, infatti, eravamo fuori del partito e già denunciavamo fenomeni, che per loro erano tabù.
Chi decise l’espulsione?
L’iniziativa venne dall’alto, dall’apparato culturale del partito, ma quasi tutte le figure guida delle scienze sociali collaborarono alla condanna delle nostre idee.
Torniamo a Lukács. Qual è, secondo Lei, l’eredità del pensiero di Lukács?
Bene, torniamo a Lukács. Direi che la sua eredità migliore è nelle opere giovanili, nelle quali iniziava ad elaborare una sorta di critica intellettuale della cultura europea. Questo tentativo si è, però, concluso con la sua adesione al comunismo russo. Egli cercò Dio e lo trovò nel movimento comunista. Egli trattò Marx e Lenin come i profeti di Dio; dopo il 1918 non scrisse una riga di critica verso di loro. Si tratta di un senso religioso, di una sorta di umiliazione della ragione, che è una sua caratteristica.
Il «senso religioso» che Lukács ha attribuito al marxismo è un retaggio del suo essere ebreo?
Egli fu certamente un intellettuale mitteleuropeo e mai volle parlare del suo essere ebreo. In tutta la cultura della Mitteleuropa di questo secolo si ravvisa la stessa situazione. Gli ebrei dell’Europa centrale hanno avuto sempre grande difficoltà ad integrarsi nella cultura del Paese in cui vivevano. Creano in tal modo una sorta di distanza culturale dall’ambiente che li circonda. D’altro canto, non è difficile capire questa scelta, dato che la cultura mitteleuropea è stata, per molti aspetti, una cultura provinciale, anche per questo si trasformò presto in una forma culturale xenofoba. Il mondo ebraico è un mondo particolare, che non offre molte scelte: o una totale assimilazione o il sionismo. Naturalmente gli ebrei relativamente assimilati non sono mancati nella cultura ungherese, ceca, polacca o tedesca. Ma entrare a far parte di un qualche movimento internazionale rafforza il senso dell’assimilazione, perché supera le differenze nazionali. Lukács pensò di superare queste differenze nazionali in questa sorta di redenzione, perché questo era molto importante sia per lui sia per molti altri intellettuali ebrei, come ad esempio Bloch. Il comunismo offriva una sorta di redenzione secolarizzata. Ma il vero problema è che il comunismo non è Dio.
La posizione di Lukács di fronte al movimento operaio e comunista è stata simile a quella di Hegel nei confronti dello Stato prussiano durante la Restaurazione?
Sì certo, si tratta sempre di una redenzione secolarizzata; c’è sempre bisogno di qualcuno o qualcosa che favorisca tale redenzione.
Si può considerare Lukács un pensatore del fondamento, come Hegel o Aristotele, cioè un metafisico, se si intende per metafisica il tentativo di stabilire le leggi eterne dello sviluppo storico, al di là delle regole transenanti stabilite dal partito o dai sovrani autarchici e assolutisti? Per altri aspetti Lukács potrebbe essere considerato alla stessa stregua di Heidegger o di Gentile?
Credo che ci siano grandi differenze tra Heidegger e Lukács. Heidegger aderì al nazismo e Lukács al comunismo; tuttavia, Heidegger comprese in tempo le contraddizioni che esistono tra la cultura e la politica. Lukács, invece, ancora nell’Ontologia trova possibile un’evoluzione politica del sistema comunista, quale sintesi tra collettivismo e individualismo. Heidegger esclude questa possibilità: egli non voleva più cambiare il mondo del potere con l’aiuto di un movimento, l’essenza del quale è prendere nuovamente il potere. Considerando la vicenda di Heidegger, penso che non si possa cambiare il mondo senza formare un nuovo potere. Un movimento politico parte dalla critica dell’esistente e si trasforma poi in una nuova forma di potere assimilando le stesse caratteristiche della società che l’ha prodotto. Questo potere sarà inoltre concentrato in poche mani. Se si vuole fare una critica intellettuale, si deve partire dalla rivoluzione della «Gesinnung» (sentimento) e non più da una rivoluzione politica o nazionale. La rivoluzione di questo secolo, quella comunista, è stata un movimento che ha integrato in sé molti elementi della cultura europea, in una forma tesa unicamente all’uso del potere per il potere. Non accetto più nessuna deficienza nella cultura europea, che faccia sorgere una formazione politica che reprime i bisogni politici. Il marxismo si basa sulla convinzione che si possa colmare questo iato della nostra civiltà. Se vogliamo aiutare e sostenere i bisogni politici, dobbiamo rifiutare tutto ciò.
Allora non si considera più un marxista?
No.
Ma è possibile una rinascita del marxismo in Ungheria?
No, penso che ciò non sia possibile.
Ma nell’Ontologia Lukács ha gettato le basi per nuove teorie, come, ad esempio, una nuova teoria dell’Individuo?
Non credo che ci sia qualcosa di nuovo nell’Ontologia di Lukács. Si tratta di un’opera già superata, in cui Lukács cerca di rileggere alcuni elementi della sua prima praxis marxista insieme al più tardo concetto del materialismo storico-dialettico. È un’opera strana, diversa da altre come la Distruzione della ragione. Posso immaginare soltanto una critica intellettuale ad un certo tipo di modernità e da questo punto di vista ritengo più valida la critica di Heidegger all’ottimismo modernista.
Ultima domanda: in passato Lei si è interessato del rapporto tra marxismo e fenomenologia. Cosa ne pensa della scuola di Banfi e di Paci, che in Italia studiavano lo stesso problema?
Non conosco Banfi. Ho conosciuto la scuola di Paci, ma non lui personalmente, perché è morto molto presto. In quel periodo era una scuola molto interessante. Ma era un periodo in cui si pensava ancora ad un rapporto con l’ideologia. Subito dopo iniziò la dissoluzione delle ideologie; nacquero nuove concezioni che non criticavano la totalità, ma affrontavano singoli aspetti della realtà. Non penso che si possa trasformare il contemporaneo, cambiando soltanto qualcosa. Allora, invece, c’erano molte possibilità di cambiamento per ridare senso alla realtà. È difficile parlare adesso dei nuovi movimenti delle minoranze sociali …
… come, il movimento ecologista?
Sì, anche quello. Sono movimenti che si concentrano su specifici problemi, ma non fanno nascere assolutamente il nuovo. Tutto ciò è la totale negazione dello spirito del marxismo: o si cambia tutto o non si cambia nulla.
(Questa intervista è stata curata da Antonio Infranca e Tania Tonezzer)