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György Lukács

~ il primo blog in progress dedicato a Lukács

György Lukács

Archivi del giorno: 22/12/2015

La critica dell’irrazionalismo.

22 martedì Dic 2015

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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Tag

alienazione, contraddizione, dialettica, empirico, Hegel, intelletto, intuizione sensibile, irrazionalismo, Kant, La distruzione della ragione, Marcuse, Marx, marxismo, ragione, reificazione, Romanticismo, Schelling, Storia e coscienza di classe, tecnica


di Giuseppe Bedeschi

«Il Contemporaneo-Rinascita», 30 luglio 1971.


Rileggendo «La distruzione della ragione»

Per capire bene, in tutte le sue implicazioni, l’interpretazione che Lukács ha dato del fenomeno dell’irrazionalismo nel suo celebre libro La distruzione della ragione, occorre partire, a mio avviso, da quello che è senza dubbio il concetto del marxismo lukacsiano; dalla tesi, cioè, della realtà oggettiva della contraddizione, sempre presentata da Lukács (fin dai tempi di Storia e coscienza di classe) come l’elemento di continuità fra il metodo di Marx e quello di Hegel. Approfondiamo quindi prima di tutto questo punto.

La contraddizione appare in Hegel – ha scritto Lukács in Il giovane Hegel – «come il principio più profondo di tutte le cose e dei loro movimenti», «come il principio vitale e motore», che «non può essere mai definitivamente abolito, ma [che] si riproduce continuamente ad un livello superiore». «Questa dottrina della contraddizione può apparire in forma adeguata e realmente conseguente solo all’interno di una dialettica materialistica, quando cioè questa concezione viene formulata solo come rispecchiamento teoretico delle mobili contraddizioni della realtà oggettiva. Ma la coscienza di questo limite insuperabile dell’idealismo filosofico di Hegel non diminuisce la grande opera da lui prestata con questa conoscenza del carattere reale delle contraddizioni nella realtà e nel pensiero».

In piena coerenza con questa impostazione, Lukács fa propria (come aveva già fatto in Storia e coscienza di classe) tutta la critica hegeliana dell’intelletto (che – diceva Hegel – «determina e tien ferme le determinazioni»), nonché la dialettica hegeliana del finito e del sensibile in genere. In che cosa consiste questa dialettica, che percorre tutto il sistema di Hegel e che di questo sistema costituisce la molla e il segreto? Il lettore può trovarne una formulazione pregnante nella Scienza della logica, per es., laddove Hegel dice che «è la natura stessa del finito, di sorpassarsi, di negare la sua negazione e di diventare infinito», e che «il finito è soltanto questo, di diventare infinito esso stesso per sua natura. La infinità è la sua destinazione affermativa, quello ch’esso è veramente in sé». Quando l’intelletto tiene ferma come una diversità qualitativa la relazione tra finito e infinito, nell’affermarli nella loro determinazione come separati, e precisamente come separati in maniera assoluta, esso compie, dice Hegel, una vera e propria falsificazione. L’intelletto dimentica che «la finità è solo come un sorpassar se stesso; in essa è quindi contenuta l’infinità, il suo proprio altro». Qualcuno intende «che questo accada senz’alcun pregiudizio del finito, che non sarebbe toccato da codesto sollevamento a lui estrinseco»; è vero invece che «il finito non viene tolto dall’infinito quasi da una potenza che fosse data fuori di lui, ma è la sua infinità, di toglier via se stesso». In altri termini, il finito si distrugge, si annichila, liberando da sé quell’infinito che è il solo affermativo. «Il vero infinito – dice ancora Hegel – non si comporta soltanto come l’acido unilaterale, ma si conserva: la negazione della negazione non è una neutralizzazione: l’infinito è l’affermativo, e solo il finito è superato».

Quando, dunque, Lukács fa propria la teoria hegeliana della realtà oggettiva della contraddizione, egli fa propria, inevitabilmente, anche la concezione hegeliana dello intelletto e del finito. È opportuno osservare, intanto, che questa posizione metodologica lukacsiana – che trasferisce, ripetiamo, la dialettica hegeliana così com’è all’interno del marxismo – determina in Lukács una serie di contraddizioni e di oscillazioni assai significative. Così egli da un lato sottoscrive interamente la critica di Feuerbach alla dialettica hegeliana della certezza sensibile nella Fenomenologia dello spirito («Feuerbach dimostra – dice Lukács – che Hegel rimane anche qui all’interno del pensiero, della coscienza, che il suo appello alla percezione sensibile del mondo esterno è una pura illusione»; «l’illusione idealistica nella deduzione hegeliana dell’oggettività è chiaramente smascherata [da Feuerbach] come illusione»); dall’altro lato Lukács sottoscrive interamente la critica di Hegel a Kant, il quale avrebbe isolato «artificialmente» le categorie dell’intelletto, e sarebbe caduto, «mediante questo isolamento, nella rigidezza del pensiero metafisico, mentre un’attenta ricostruzione della dialettica interna delle determinazioni della riflessione conduce, con necessità dialettica, al di là di esse, fino alla conoscenza dell’assoluto». E quindi, da un lato, Lukács, con Feuerbach, rifiuta l’annichilimento hegeliano dell’elemento materiale o sensibile (il finito); dall’altro lato egli accetta tutta la critica di Hegel a Kant, incentrata sul fatto che per Kant i concetti «sono condizionati dalla materia data, per sé sono vuoti, ed hanno la loro applicazione ed uso solo nell’esperienza» (Hegel, Enciclopedia, pagg. 43 e 44). Lukács, insomma, fa propria a un tempo e la critica di Feuerbach a Hegel, perché questi non ha riconosciuto al finito o sensibile una propria consistenza e autonomia, e la critica di Hegel a Kant, perché questi ha conferito al molteplice dell’intuizione una relativa consistenza e indipendenza.

Allo stesso modo Lukács accetta integralmente, in Il giovane Hegel, la critica hegeliana dell’intelletto, nella quale egli vede «la leva principale (…) della costruzione dialettica, il fondamento metodologico della forma specifica della (…) dialettica (hegeliana), della sua concezione specifica della storia come momento dell’evoluzione della dialettica stessa»; nello stesso tempo, però, poiché egli è consapevole in qualche misura del fatto che la distruzione dell’intelletto è la distruzione del principio stesso del materialismo, dell’oggettività materiale, Lukács si sforza di accreditare un atteggiamento non completamente negativo di Hegel verso l’intelletto, insistendo sulle divergenze fra Hegel e Schelling. «Il disprezzo di principio – scrive infatti Lukács – per le “comuni” categorie dell’intelletto, che non avrebbero alcun rapporto con l’assoluto, è il fondamento metodologico del disprezzo di Schelling per i filosofi dell’illuminismo. Mentre la ricerca di questi passaggi e mediazioni conduce Hegel a scorgere nell’illuminismo un antecedente storico-sistematico della propria dialettica. Così Schelling è spinto, dal formalismo della costruzione filosofica, sempre di più in una sorta di astoricismo; mentre Hegel sviluppa, parallelamente all’elaborazione dei passaggi metodologici della sua filosofia, una comprensione sempre più profonda per i problemi della storia». Senonché, come risulta anche sia pure implicitamente, dall’esposizione di Lukács (egli riconosce infatti, come si è visto, che in Hegel le determinazioni dell’intelletto possiedono una dialettica interna – la dialettica del finito, il suo autodistruggersi e sorpassarsi! – che conduce necessariamente al di là di esse, all’assoluto), l’accoglimento è solo apparente o «formale». Hegel – aveva scritto Feuerbach nel saggio Per la critica della filosofia hegeliana, pur citato da Lukács – ha sì notato in Schelling la mancanza dell’intelletto o del principio formale (dato che l’uno e l’altro sono per lui la stessa cosa), ed elevando la forma ad elemento essenziale ha effettivamente dato una determinazione dell’assoluto diversa da quella di Schelling; tuttavia la forma ha avuto di nuovo un significato meramente formale, e l’intelletto di nuovo un significato meramente negativo. Lukács tende a sottovalutare questo accoglimento puramente formale e negativo dell’intelletto in Hegel: e ciò perché, da un lato, egli sottoscrive sostanzialmente tutta la critica hegeliana dell’intelletto, e dall’altro lato vorrebbe in qualche modo salvarne l’istanza.

Se ci siamo soffermati sull’accettazione lukacsiana della critica idealistica dell’intelletto, è perché essa ha, a nostro avviso, serie conseguenze anche sull’impostazione metodologica generale del problema dell’irrazionalismo nella Distruzione della ragione. Nel suo libro, infatti, Lukács vuole mostrare che l’irrazionalismo moderno «è sorto ed ha operato in continua lotta col materialismo». Al tempo stesso, però, egli pone all’origine dell’irrazionalismo «le questioni che sorgono in conseguenza dei limiti e delle contraddizioni del pensiero semplicemente intellettivo». «L’imbattersi in questi limiti – dice Lukács – può diventare per il pensiero umano il punto di partenza di un ulteriore sviluppo del pensiero stesso, cioè della dialettica, se si vede in essi un problema da risolvere, e, come Hegel dice molto a proposito, “un cominciamento e un barlume della razionalità”, vale a dire di una più alta conoscenza. L’irrazionalismo invece – per riassumere qui provvisoriamente cose che si tratta di esporre in seguito in modo concreto e particolareggiato – si ferma proprio a questo punto, rende assoluto il problema, irrigidisce i limiti della conoscenza intellettiva facendone i limiti della conoscenza in generale, anzi falsa il problema, reso così insolubile, in una risposta “sovranazionale”. Equiparare intelletto e conoscenza, i limiti dell’intelletto coi limiti della conoscenza in generale, far intervenire la “sovrarazionalità” (dell’intuizione, ecc.), dove è possibile e necessario procedere oltre verso una conoscenza razionale: ecco le caratteristiche più generali dell’irrazionalismo filosofico».

Come si vede, Lukács pone alla radice dell’irrazionalismo il modo di atteggiarsi verso lo intelletto. Se si identifica, egli dice, l’intelletto con la conoscenza, e dunque si pongono dei limiti alla conoscenza che sono i limiti stessi dell’intelletto, allora diventa inevitabile il ricorso alla «intuizione», alla conoscenza «sovrarazionale», ecc. Quello che occorre, invece, è, secondo Lukács, il «passaggio», di tipo hegeliano, dell’intelletto alla ragione, e dunque occorre riconoscere la dialetticità delle determinazioni dell’intelletto, il loro dirompersi e trapassare in altro, ecc. Hegel, egli dice, ha fornito la vera soluzione, con «la sua dialettica di fenomeno ed essenza, esistenza e legge, e anzitutto la sua dialettica dei concetti intellettivi, delle determinazioni della riflessione, del passaggio dell’intelletto alla ragione».

Ora, a nostro avviso, questa impostazione à la Hegel del problema dell’irrazionalismo, ha, da un lato, una serie di riflessi negativi su tutto l’impianto dell’analisi in La distruzione della ragione, e, dall’altro lato, lascia completamente disarmati di fronte ad alcune manifestazioni dell’irrazionalismo stesso.

Per quanto riguarda il primo aspetto, non possiamo, ovviamente, svolgere qui un esame analitico: ci limiteremo ad un esempio, e cioè alla lettura tipicamente hegeliana che Lukács fa dell’opera filosofica di Schelling.

Quest’ultima, infatti, viene divisa in due periodi: il primo periodo (che va fino al 1803) è quello del «sincero pensiero giovanile» di Schelling, e in esso sarebbero presenti tendenze relativamente progressive, nella misura in cui Schelling cerca «un superamento dialettico delle contraddizioni che si manifestano nella realtà oggettiva immediatamente data, una via alla conoscenza dell’essenza delle cose in sé, e quindi un superamento gnoseologico della fissazione e dell’irrigidimento di questa contraddittorietà fenomenica ad opera delle categorie del semplice intelletto, delle categorie del pensiero metafisico dell’illuminismo, ma anche di Kant e di Fichte». Dopo il 1803 inizierebbe il secondo periodo dell’attività filosofica di Schelling, «quando venne meno l’effetto diretto del contatto con Goethe e con Hegel»: a questo punto si manifesterebbe una svolta decisiva nel pensiero schellinghiano, caratterizzata dal fatto che non più l’arte, ma la religione diventa l’organo della filosofia. Prevale così definitivamente in Schelling una intuizione intellettuale di tipo irrazionalistico; fra intelletto e ragione non c’è contraddittorietà dialettica come in Hegel, ma solo opposizione rigida: di qui un «salto» nell’intuizione intellettuale, ecc. A proposito di questa impostazione lukacsiana dei rapporti fra Hegel e Schelling, ci sembra che si debba sottoscrivere interamente quanto uno studioso italiano, Pietro Rossi, ebbe a osservare a suo tempo, e cioè che è difficile accettare questa contrapposizione, almeno nella forma in cui Lukács la presenta. «Che Hegel abbia aspramente polemizzato contro i “romantici” e contro Schelling, è certo vero; ma ciò non toglie che la concezione hegeliana del processo storico sia sorta sul terreno stesso della visione romantica della storia, e sia a questa legata da una comunanza di presupposti fondamentali che rendono possibile il riferimento della totalità dei fenomeni storici all’opera di autorealizzazione di un principio assoluto – nel quale è indicato il soggetto del processo storico. Che questo principio in un caso sia un principio irrazionale (e che quindi il suo manifestarsi possa venir colto solo intuitivamente, mediante il ricorso a un organo extrarazionale), oppure sia la ragione immanente alla storia (che si sviluppa dialetticamente, e che può venir riconosciuta nel suo procedere attraverso il ricorso alla dialettica), è una distinzione di orientamenti culturali e filosofici interna alla cultura romantica. La scoperta della dialettica non è il superamento del Romanticismo, ma è la conclusione di una direzione di sviluppo della speculazione romantica…» (cfr. Pietro Rossi, «La distruzione della ragione e la crisi della filosofia tedesca», in Rivista di filosofia, 1956, pp. 345 ss.).

Ma, come abbiamo detto, oltre a questi inconvenienti, impliciti nella impostazione hegeliana del problema dello irrazionalismo, e prescindendo anche dal rapporto troppo immediato e meccanico che viene spesso istituito nella Distruzione della ragione fra sviluppo della filosofia tedesca e sviluppo politico-sociale della Germania, con tutte le forzature che questo schema comporta nell’analisi dei singoli pensatori – a parte tutto ciò, dicevamo, c’è ben altro da osservare. E cioè che una critica dell’irrazionalismo fondata su una critica, di tipo hegeliano, dell’intelletto, rischia di lasciarci disarmati di fronte a varie manifestazioni dell’irrazionalismo stesso. Facciamo un esempio, tratto da Ragione e rivoluzione di Marcuse. Nelle prime tre sezioni della Fenomenologia dello spirito di Hegel, Marcuse vede «una critica al positivismo», cioè ad ogni filosofia basata sull’esperienza del «senso comune», e anche maggiormente, egli dice, alla «reificazione». Ricordiamo al lettore che le prime tre sezioni della Fenomenologia richiamate da Marcuse, contengono tra l’altro quella dialettica della «certezza sensibile», mediante la quale questa certezza viene distrutta nella sua singolarità e mostra l’universale come sua verità. Alla domanda: che cosa è l’ora?, rispondiamo per es., dice Hegel, che l’ora è la notte. Se ora, a mezzogiorno, ritorniamo a quella verità, dovremo dire che essa sa ormai di stantìo. «Quell’ora che è la notte viene conservato, ossia viene trattato come ciò per cui è stato spacciato: come un essente; ma esso si dimostra piuttosto come un non-essente. Senza dubbio l’ora si conserva, ma come tale ora che non è notte; similmente, rispetto al giorno che adesso è, l’ora si conserva come tale che neppure è giorno, o si conserva come un negativo in generale». L’ora, che poteva sembrare un immediato, è invece un mediato: «è indifferente verso tutto ciò che gli gioca da presso». Un alcunché, però, di così semplice e che è per via di negazione, che è né questo né quello, un non questo, noi lo chiamiamo un universale. «L’universale – conclude Hegel – è dunque in effetti il vero della certezza sensibile».

Ora, questa distruzione hegeliana dell’empirico e del finito, questo inizio di liberazione dall’oggettività mediante una scepsi negativa, sono interpretati da Marcuse in questo modo: «Hegel dimostra – egli dice – che l’uomo può conoscere la verità solo se supera il suo mondo “reificato”»! La reificazione, dunque, è l’oggettività materiale, il feticcio è la cosa, l’oggetto naturale. L’alienazione non è data dall’opposizione fra lavoro salariato e capitale, e dalla scissione fra il lavoratore e le condizioni oggettive del suo lavoro – che non gli appartengono, e che gli si contrappongono estranee e nemiche – bensì è quella morta oggettività naturale che è esterna alla coscienza dell’uomo. E nella misura in cui il senso comune e la scienza assumono quell’oggettività nella sua esteriorità, per farne oggetto di indagine, essi costituiscono per Marcuse l’espressione per eccellenza dell’alienazione.

Non c’è dubbio, a nostro avviso, che alla base di queste posizioni di Marcuse c’è una concezione, di tipo hegeliano, del finito e del sensibile in genere: dunque c’è una critica, di tipo hegeliano, dell’intelletto. Quella stessa critica che Lukács ha posto a fondamento della sua concezione del fenomeno dell’irrazionalismo nella Distruzione della ragione. La nostra convinzione è che, in questo modo, una critica reale dell’irrazionalismo diventa assai problematica, anzi impossibile, e che l’impostazione logico-metodologica lukacsiana, se ragionata coerentemente fino in fondo, porta a colludere con quelle moderne forme di irrazionalismo che attribuiscono l’alienazione dell’uomo contemporaneo alla tecnica e all’organizzazione industriale del mondo moderno.

Per questo, nonostante la vastità del disegno e la ricchezza del materiale storico e filosofico che il lettore può trovare nella Distruzione della ragione, noi siamo convinti che un’analisi e una storia dell’irrazionalismo filosofico siano ancora tutte da scrivere.

György Lukács inattuale? Una teoria politica del romanzo

22 martedì Dic 2015

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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anima, Auerbach, Bachtin, Balzac, Brooks, casualità, comunismo, descrizione, digressione, Dostoevskij, Estetica, Flaubert, forma, Fortini, Giovane Lukács, Houellebecq, inattuale, Jameson, Joyce, Kafka, L'anima e le forme, Littell, messianismo, modernismo, Musil, narrazione, Philip Roth, prospettiva, Proust, realismo, rispecchiamento, scacco, scissione, Scott, senso, Storia e coscienza di classe, Tempo, Teoria del romanzo, tipico, Tolstoj, totalità, unità, Woolf, Yehoshua, Zola


di Emanuele Zinato

L’immaginario politico. Impegno, resistenza, ideologia, Eds. S. Albertazzi, F. Bertoni, E. Piga, L. Raimondi, G. Tinelli, Between, V.10 (2015), http://www.Betweenjournal.it/ 30/11/2015


I rapporti sociali sono sfuggiti al controllo degli uomini stessi assumendo la forma di cose.
G. Lukács, Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale

I. Il termine inattuale, presente nel titolo del mio intervento in forma interrogativa, vorrebbe risultare doppiamente sibillino. Al suo significato più comune, di segno negativo, che sta per “invecchiato”, come si sa, si affianca un senso orgogliosamente apologetico e irriverente, quello delle Considerazioni inattuali di Nietzsche o dell’inattualità come valore paradossale del saggismo frammentario di Karl Kraus.

In questo mio intervento, per azzardare delle risposte, cercherò innanzitutto di mettere a fuoco alcuni punti di forza di Lukács, limitatamente alla teoria del romanzo, degni di considerazione nel campo teorico attuale.

Come ha osservato Vittorio Strada (Strada, 1986: 21), i due maggiori teorici novecenteschi del romanzo, Lukács e Bachtin, si potrebbero leggere come una delle coppie oppositive su cui si fondano le Vite parallele di Plutarco. Lukács, infatti, è noto come il fautore di un’estetica normativa del marxismo ufficiale; Bachtin è stato viceversa una vittima, deportato e costretto al silenzio dallo stalinismo.

Va detto che, a ben guardare, il pensiero lukacsiano nel suo insieme è meno omologabile all’ortodossia marxista di quanto non voglia la vulgata semplificatrice. Una prima rilevantissima fase premarxista delle sue concezioni estetiche, in cui dominano le idee-chiave della totalità perduta, della vita e della forma, della scissione e dello scacco, è influenzata da Kierkegaard, Simmel e Weber oltre che dal giovane Hegel. A venticinque anni, Lukács inoltre frequenta Ernst Bloch, pensatore irregolare e poi teorico dell’utopia, come lui interessato alla contraddittoria tragicità del mondo borghese. Il suo stesso approdo al comunismo, nel 1918, è di tipo messianico: influenzato dal pensiero di Rosa Luxemburg, presuppone tanto la fiducia nell’ondata rivoluzionaria europea quanto la problematizzazione tragica della vita quotidiana nel capitalismo. Con Storia e coscienza di classe, condannato nel 1924 dall’Internazionale comunista, egli influì sul marxismo critico ed eterodosso della Scuola di Francoforte, su Adorno e su Marcuse. La stessa partecipazione diretta di Lukács alle tragedie politiche del “socialismo reale”, inoltre, non è riassumibile nel segno dell’obbedienza: nel 1919 è commissario del popolo all’istruzione nella repubblica ungherese di Béla Kun, dopo la sconfitta della quale deve fuggire a Vienna; dopo la guerra, a Budapest, svolge una funzione di primo piano durante la rivoluzione ungherese del 1956 e, nominato ministro dell’istruzione nel governo Nagy, dopo la repressione sovietica verrà per un breve tempo deportato in Romania.

Le idee di Lukács sul romanzo vanno dunque collocate nell’ambito di una più complessa riflessione estetica e politica che prende le mosse dalla condizione tragica dell’uomo nella modernità: il romanzo è considerato come il genere letterario che rappresenta in modo esemplare la scissione intrinseca del moderno. Pur costantemente riferibile a questa questione unitaria, la teoria del romanzo di Lukács si sviluppa dunque in due momenti molto diversi del Novecento: a inizio secolo, con Teoria del romanzo, e negli anni Trenta e Quaranta, con i saggi sul realismo.

II. Teoria del romanzo (1916) è scritto da Lukács tra il 1914 e il 1915, nel momento in cui scoppiava in Europa la Grande Guerra e proprio negli anni in cui i grandi scrittori modernisti (Proust, Kafka, Joyce, Woolf, Musil) concepivano le loro opere. La forma del libro non è quella di un trattato sistematico ma quella di un saggio dotato di uno stile divagante, aforistico e, come risulta dall’incipit, profetico e oscuro:

Felice il tempo nel quale la volta stellata è la mappa dei sentieri praticabili e da percorrere, che il fulgore delle stelle rischiara. Ogni cosa gli è nuova e tuttavia familiare, ignota come l’avventura e insieme certezza inalienabile. Il mondo è sconfinato e in pari tempo come la propria casa, perché il fuoco che arde nell’anima partecipa all’essenza delle stelle; come la luce del fuoco, così il mondo è nettamente separato dall’io, e però mai si fanno per sempre estranei l’uno all’altro. (Lukács 1999: 8)

Queste allusioni a un tempo mitico e ai concetti-chiave della separazione e della comunione tra io e mondo risolti in metafore spaziali e visive (la mappa, i sentieri, la luce), rinviano ai saggi che compongono L’anima e le forme (il primo libro di Lukács, pubblicato qualche anno prima, nel 1911), dove egli anticipa alcuni temi di quell’indirizzo filosofico che sarà successivamente designato come esistenzialismo. In tal modo, il giovane Lukács intravede nella forma tragica l’unica forma autentica di vita: ed è consapevole «che ogni forma è uno scacco di fronte alla vita e alla storia» (Asor Rosa 1968: 66).

In Teoria del romanzo l’opposizione fra io e mondo, è storicizzata come prodotto della modernità. In questo libro infatti egli, come Hegel, considera la grecità e la condizione moderna come due tappe opposte della vita dello spirito. Il giovane Lukács vede il mondo greco come luogo ancora intero, in cui domina la totalità armonica, e che trova la sua corrispondente forma nell’Epos. Viceversa, la condizione moderna, caratterizzata da una dolorosa scissione fra io e mondo, trova nel romanzo la sua rappresentazione simbolica.

A differenza di Hegel, tuttavia, Lukács insiste su un elemento che si può definire soggettivo-esistenziale di ricerca del senso, pur entro l’inattualità dell’aspirazione all’unità. Teoria del romanzo infatti valorizza quei personaggi romanzeschi che, essendo inevitabilmente estranei al mondo moderno, tendono pur sempre all’unità e al senso, alla persistenza nostalgica alla totalità, come dei veri e propri «cercatori»:

il sentimento-base del romanzo, quello che ne determina la forma, si obiettivizza quale psicologia degli eroi da romanzo: i quali sono dei cercatori. (ibid.: 95)

Il libro, a riprova dell’esistenza di un terreno comune tra il giovane Lukács e l’antitetica figura di Bachtin, si chiude in senso messianico e utopico, con un’esaltazione di Dostoevskij, alla tormentata tragicità del quale si affida il compito di dar forma allo scacco e al non senso delle vite inautentiche:

In Tolstoj si rendeva evidente il presentimento dell’irruzione in una nuova epoca del mondo: ma questi presagi sono rimasti polemici, sono rimasti al livello della nostalgia, sono rimasti astratti. Solo nelle opere di Dostoevskij questo nuovo mondo viene indicato. (Lukács 1999: 215)

III. Nel periodo che va dagli anni Trenta agli anni Cinquanta, Lukács sembra riflettere sulla forma romanzo da una prospettiva molto diversa. Mutano infatti nei suoi scritti i concetti-chiave (non dominano più forma e vita ma realismo, rispecchiamento, prospettiva e tipico). Ma muta anche lo stile di pensiero (non più asistematico e aforistico bensì argomentativo, dimostrativo e talvolta prescrittivo). Nei saggi degli anni Trenta e Quaranta, scritti a Mosca, Lukács si batte in favore di un modello mimetico «autentico», contrapponendo, sulla base della posizione del narratore, i romanzi di Scott, di Balzac e di Tolstoj a quelli di Flaubert e di Zola. Secondo Lukács, la totalità che il romanzo è chiamato a rappresentare non riguarda solo il presente e il passato ma anche la «prospettiva», cioè la rivelazione del futuro: solo uno scrittore che raggiunge un tale risultato può esser definito compiutamente realista.

È questa la teoria lukacsiana del romanzo più nota, liquidata come “inattuale”, nel senso di inaccettabile e desueta, nella teoria letteraria occidentale da almeno trent’anni. In Italia ciò avvenne prima della Nietzsche-Renaissance anni settanta e ottanta e già partire dall’aggressivo aggiornamento culturale della neoavanguardia che, a differenza del gruppo di Officina, liquidò Lukács includendolo nel campo di ciò che si voleva superare.

Nel periodo dello stalinismo, per Lukács il realismo è una proposta di poetica normativa e un criterio di valore per valutare gli scrittori del passato. Tuttavia, e proprio nel cuore del sistema prescrittivo del Lukács maturo, si trovano celate, in forme paradossali, alcune sue acquisizioni teoriche sul romanzo oggi più “attuali”. Nella ricerca del criterio per definire il realismo, Lukács contrappone, come si sa, narrazione a descrizione e coglie nel segno con straordinario acume un trapasso epocale delle forme romanzesche occidentali.

In Narrare o descrivere, il famoso saggio del 1936, Lukács individua esemplarmente questa frattura nel codice del romanzo europeo. Nei grandi realisti, da Balzac a Tolstoj, a suo parere prevale la narrazione, cioè il collegamento organico dei fatti nel racconto del destino dei personaggi. Nel realismo naturalista di Flaubert e Zola, invece, prevale la descrizione, cioè la registrazione di fatti e cose, esibiti nel loro semplice accadere. Questo mutamento di poetica e di stile corrisponde a un mutamento politico: il fallimento della rivoluzione del 1848. Lukács, nel momento in cui fa di questo scarto un criterio di valore, vede al contempo con lucidità le caratteristiche di entrambe le tipologie narrative: in particolare, comparando una festa agricola in Old Mortality di Scott e la descrizione dei comizi agricoli in Madame Bovary, rileva per la prima volta come da Flaubert in poi il dominio della digressione descrittiva corrisponda alla vittoria del caso sui destini dei personaggi.

La descrizione dell’esposizione agricola e della premiazione degli agricoltori in Madame Bovary è uno dei più celebrati capolavori dell’arte descrittiva del moderno realismo. Flaubert descrive qui, effettivamente, solo lo “scenario”. Poiché tutta l’esposizione è soltanto un’occasione per inquadrare la scena decisiva dell’amore tra Rodolphe ed Emma Bovary. Lo scenario è casuale, un vero scenario nel senso letterale della parola. Questa casualità viene nettamente e ironicamente sottolineata dallo stesso Flaubert. Accostando e contrapponendo discorsi ufficiali e frammenti del colloquio amoroso, egli istituisce un ironico parallelo tra la banalità pubblica e privata della vita piccolo-borghese. Questo ironico contrasto è svolto con estrema conseguenza e con grande arte. Resta tuttavia insoluto il contrasto per cui questo scenario casuale, questo casuale pretesto per una scena d’amore, è al tempo stesso, nel mondo di Madame Bovary, un avvenimento importante, la cui minuta descrizione è assolutamente indispensabile ai fini che Flaubert si prefigge, e cioè alla compiutezza nella rappresentazione dell’ambiente. Perciò l’ironia del contrasto non esaurisce il significato della descrizione. Lo scenario ha un significato autonomo in quanto costituisce un elemento destinato a completare l’ambiente. Ma qui i personaggi (…) diventano macchie di colore di un quadro, e il quadro va al di là della staticità del bozzetto solo in quanto viene innalzato a ironico simbolo dell’essenza del filisteismo. (Lukács 1977: 274-5)

Come si può notare, il termine-chiave in questo passo, fortemente consequenziale nell’argomentazione, è casuale: i brani dei discorsi dei comizi agricoli che Flaubert inserisce a spezzare il dialogo d’amore fra i due personaggi, creano la sospensione del senso e il depauperamento dell’esperienza sentimentale privata, annegata, per contrasto, nel flusso dei discorsi pubblici. Lukács coglie tutta la grandezza e la modernità di questo frammentario montaggio di voci rispetto alla compattezza del romanzo tradizionale ma, al contempo, condanna l’autonomia formale («la stilizzazione») grazie alla quale l’autore realizza questo nuovo effetto di realtà in modo del tutto impersonale.

Nei successivi Saggi sul realismo (1950) il giudizio limitativo sarà esteso ai romanzi di Proust, Kafka e Joyce e all’intera svolta narrativa del Novecento. Il nesso fra questa stroncatura lukacsiana del modernismo e l’estetica normativa dei partiti comunisti europei, ha finito col mettere in ombra quanto in essa, paradossalmente, vi era di illuminante: leggendo Flaubert e Zola, Lukács – come ha scritto Guido Mazzoni – è il primo ad accorgersi che «nelle loro opere maggiori, le impalcature del paradigma ottocentesco convivono con strutture che preludono al modernismo» (Mazzoni 2011: 291-92).

IV. Dunque: finora abbiamo schematicamente delineato un giovane Lukács aforistico, frammentario, kierkegaardiano, il cui punto di forza può essere individuato nella sintonia radicale con i problemi posti dal Modernismo più nichilista, e in cui il romanzo moderno rappresenta tutta la contraddittoria tragicità del mondo borghese, e un Lukács maturo, totalizzante, normativo, consequenziale nell’argomentazione, che accetta il quadro politico del marxismo sovietico ma che, paradossalmente, ci disegna in anteprima, con la geniale lettura di un dettaglio testuale, la linea post-quarantottesca del romanzo moderno. I due Lukács si incontrano e si fondono mirabilmente in una pagina del saggio sul Significato attuale del realismo critico, pubblicato per la prima volta in italiano nel 1957. Qui si trova un fulmineo, aforistico, non consequenziale giudizio su un altro celebre passo flaubertiano. Si tratta dello spazio bianco dell’Éducation sentimentale, collocato tra il quinto e il sesto capitolo della terza e ultima parte del romanzo. Il primo a segnalare l’importanza di quel passo è stato Marcel Proust nel saggio sullo stile di Flaubert apparso sulla Nouvelle Revue Francaise nel 1920. Scrive Lukács:

Flaubert ha profeticamente presentito e rappresentato questo processo (…) nella composizione della Educazione sentimentale. Il romanzo vero e proprio, realistico, finisce nella notte delle barricate, in cui Frédéric vede cadere Dussardier al grido di “Viva la Repubblica!” e riconosce nell’agente di polizia il suo ex compagno di lotta “radicale”, Sénécal. Il romanzo realistico è finito. Comincia, per Frédéric Moreau, “la recherche du temps perdu”». (Lukács 1957: 78)

Mai con tanta precisione era stato segnalato un nesso fra una rappresentazione di una repressione politica e un mutamento narratologico nella gestione del tempo della storia. Dopo Lukács, molti altri interpreti si sono poi soffermati sul quel passo: ad esempio Fortini in Verifica de poteri e Carlo Ginzburg in Rapporti di forza. Scrive Fortini

È impossibile non rilevare che per Proust “la cosa più bella dell’Éducation sentimentale, non è una frase ma uno spazio bianco”, quello che intercorre fra il momento in cui Frédéric Moreau riconosce Sénecal nell’agente che abbassa la sciabola su Dussardiers, e il capoverso, e capitolo seguente: “Egli viaggiò. Conobbe la melanconia dei piroscafi…” (…) Ebbene, Lukács ha scritto a p. 78 del suo Realismo critico: (…) “nella notte delle barricate… il romanzo realistico è finito. Comincia, per Frédéric Moreau, “la recherche du temps perdu”. (…) Ma dunque Proust e Lukács dicono la stessa cosa! Solo che a Proust non è ancora evidente che il Tempo di cui nel capoverso flaubertiano sente passare il vento non è tempo qualsiasi, ma è il proprio tempo sociale, l’immane categoria che egli dovrà esplorare e che comincia a rodere i cuori d’Europa all’indomani delle barricate del 1848, di una paura mai più vinta, di una malsicurezza mai più abbandonata. (Fortini 1965: 283-4)

Parlando del ‘bianco’ di Flaubert, Proust parlava di sé: ma quella specifica temporalità e memoria involontaria ha il suo fondamento in un inconscio politico. Solo presupponendo un rimosso sociale e non solo individuale, solo “fingendo” una qualche totalità che comprenda in sé, fra compromesso e conflitto, il materiale e l’immaginario, si può ipotizzare questo nesso fra rappresentazione della violenza politica e gestione del tempo nel romanzo moderno. Malgrado la sua antipatia ideologica per Proust e per i narratori modernisti, Lukács maturo percepisce insomma che questo primo acconto del montaggio o dell’onirismo delle future avanguardie, ha a che fare nel profondo con la storia politica dell’occidente oltre che con una innovazione tecnica dell’intreccio.

V. Nel 1957 Lukács si ritira dalla vita pubblica e si dedica solo ai libri (fino all’ultimo monumentale progetto, L’ontologia dell’essere sociale). Quando muore, nel 1971, è ancora in piena attività intellettuale: attorno a lui un gruppo di allievi (tra cui Ágnes Heller) ha costituito una scuola che, prima di disperdersi in vari paesi, sarà accusata di estremismo teorico e, dunque, messa al bando. Lukács ha mirato fino all’ultimo a fare del marxismo un corpus filosofico compatto, capace di erigersi a sistema: ciò oggi sembra massimamente fuori tempo, ma proprio questa accanita, inattuale, impossibile ricerca di una teoria che riuscisse a tenere assieme tutto, cioè proprio l’insistenza di Lukács sull’idea di «totalità», ben chiara fin da Teoria del romanzo e sulla quale fino all’ultimo egli lavorò, è ciò che gli permette le intuizioni interpretative di cui oggi sentiamo ancora di aver bisogno, e che, con tutt’altra partitura teorica, si ritrovano a quell’altezza del Novecento presenti solo in Auerbach.

Il genere romanzo come sappiamo è divenuto da decenni un vero e proprio labirinto teorico, oggetto di studi che delineano prospettive mutevoli e del tutto nuove rispetto a quelle, in voga fino agli anni Settanta, modellate sulla centralità di Lukács e poi di Bachtin. In Italia, ciò risulta palese a esempio con la realizzazione de Il romanzo, il progetto in cinque volumi curato da Franco Moretti, opera che nel suo insieme ben esemplifica le idee critiche e teoriche sul romanzo dominanti a fine millennio e soprattutto l’idea che il romanzo, a partire dal novel, sia un genere «di governo» e non «di opposizione» alla realtà (Calabrese 2003: 121)1. Secondo una tale opzione teorica, il romanzo risponde al bisogno antropologico di addestramento finzionale alla molteplicità.

Questa complessiva interpretazione post-lukacsiana (e post-bachtiniana) del problema del romanzo è desumibile anche da Peter Brooks, che in Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo (1984) ha allargato a dismisura l’ambito dell’esperienza narrativa, interpretandola come “una delle grandi categorie o sistemi di comprensione a cui ricorriamo nei nostri negoziati con il reale, e in particolare con i problemi della temporalità” (Brooks 1995: VII), ad esempio, nel campo dell’anamnesi medica o in quello del discorso giuridico oltre che in quello letterario.

Il bisogno culturale e l’esigenza di senso non solo funzionale-descrittivo e adattivo ma anche latamente agonistico con cui leggiamo le narrazioni, con cui interroghiamo la loro strabica relazione con la realtà, paiono essersi tuttavia riaffacciati dagli anni Zero in poi. Le interpretazioni della persistenza della modalità mimetica, fondata su dispositivi messi a punto fra otto e novecento, a esempio in Yehoshua, Houellebecq, Littell e Philip Roth, sembrano puntare di nuovo sulle analisi della forma e sull’intreccio conflittuale tra strategie di rappresentazione “convenzionaliste”, ancorate a un modello forte di tradizione letteraria, e di strategie “veridiche” (Godard 2006; Tirinanzi De Medici 2012; Donnarumma 2014).

Del resto, già un teorico del postmoderno come Fredric Jameson in Marxismo e forma, nel suo tentativo di riconfigurare e riposizionare la nozione di dialettica (attraverso Sartre, Marcuse e Adorno), aveva ripreso in mano Lukács. Il metodo dialettico della contraddizione e del rovesciamento antitetico abita lo stile stesso di Jameson e la sua teoria critica e interpretativa: ogni opposizione binaria viene destrutturata mostrando la convivenza dei contrari. Proprio per questo, in Marxismo e forma, Jameson scriveva parole illuminanti a proposito della dicotomia tra il primo Lukács esistenzialista e aforistico e il secondo Lukács normativo e totalizzante:

Ma se le prime opere non fossero del tutto comprensibili se non alla luce delle successive? E se, lungi dall’essere una serie di autocritiche e ritrattazioni, le posizioni che si andavano susseguendo in Lukács fossero una esplorazione ed un ampliamento progressivo di un unico complesso di problemi? Nelle pagine che seguono dimostreremo che l’opera di Lukács può venire osservata come una continua meditazione, che è durata tutta la vita, sulla narrazione, sulle sue strutture di base, sulla relazione con la realtà che essa esprime, e sul valore epistemologico che essa acquista se confrontata ad altre forme, più astratte e filosofiche, del comprendere. (Jameson 1983: 112)

Relazione del testo con il mondo, quoziente epistemologico dell’opera in rapporto ad altre forme del comprendere: questo, in fondo, noi oggi sentiamo di chiedere al romanzo.

Bibliografia

Asor Rosa, Alberto, “Il giovane Lukács teorico dell’arte borghese”, Contropiano, 1, (1968).

Brooks, Peter, Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo, Torino, Einaudi, 1995.

Calabrese, Stefano, “Il romanzo”, Le immagini della critica. Conversazioni di teoria letteraria, Ed. Ugo M. Olivieri, Torino, Bollati Boringhieri, 2003:121-134.

Donnarumma, Raffaele, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna, Il Mulino 2014.

Fortini, Franco, “Note su Proust” (1958), Verifica dei poteri, Milano, Il Saggiatore, 1965.

Godard, Henri, Le roman modes d’emplois, Paris, Gallimard, 2006.

Lukács, György, Sul significato attuale del realismo critico, Torino, Einaudi, 1957.

Id., “Narrare o descrivere?”, Il marxismo e la critica letteraria, trad. it. di C. Cases, Torino, Einaudi, 1977.

Id., Teoria del romanzo, Ed. G. Raciti, Milano, SE, 1999.

Mazzoni, Guido, Teoria del romanzo, Bologna, Il Mulino, 2011.

Strada, Vittorio, “Introduzione”, Tolstoj/ Michail Bachtin, Bologna, Il Mulino, 1986.

Jameson, Frederic, Marxismo e forma. Teorie dialettiche della letteratura nel XX secolo, Napoli, Liguori, 1983.

Tirinanzi De Medici, Carlo, Il vero e il convenzionale, Torino, Utet, 2012.

Watt, Ian, Le origini del romanzo borghese. Studi su Defoe, Richardson e Fielding, Milano, Bompiani, 1976.

1 L’idea che il novel inglese del Settecento sia concepibile in termini di agevolazione del processo di alfabetizzazione, abitudine all’autocoscienza protestante, trapasso al mondo borghese della famiglia coniugale e del lavoro salariato, è già in Watt 1976. Per Peter Brooks, il romanzo, con le sue proiezioni immaginarie e soprattutto con la trama, custodisce i realia dentro categorie che restituiscono alla vita un possibile significato (Brooks 1995).

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