Spontaneità delle masse, attività del partito

di György Lukács

[Spontaneität der Massen, Aktivität der Partei, 1921]

Scritti politici giovanili 1919-1928, Laterza, Bari 1972.


La discussione relativa alla giustezza o alla correttezza della nuova tattica, della tattica offensiva del VKPD1 può benissimo essere distinta dalla discussione relativa alla giusta o errata direzione dell’«azione di marzo». La possibilità di fare una simile distinzione venne espressa in termini chiari dalla proposta di modifica avanzata dal compagno Paul Franken nella seduta del Comitato centrale del 7 e 8 aprile, allorché egli propose – in merito al paragrafo XII delle Norme della Direzione centrale – di cancellare le parole «e tattico» dal seguente periodo: «Il Comitato centrale approva pertanto l’atteggiamento politico e tattico della Direzione centrale». Sebbene questa proposta di modifica sia stata respinta a grande maggioranza dal Comitato centrale, il capitolo delle Norme nonché il saggio Offensive del compagno Paul Frölich in «Die Internationale», mostrano che l’«azione di marzo» non fu in alcun modo un esempio classico della nuova tattica, bensì una battaglia difensiva imposta nel bel mezzo del lavoro preparatorio per il riassetto morale e organizzativo del partito in vista della nuova tattica. Ammettere questo non significa affatto che gli insegnamenti dell’«azione di marzo» non debbano essere apprezzati in tutta la loro ampiezza per l’elaborazione interna della nuova tattica. Significa unicamente che il problema della tattica offensiva può esser discusso – almeno parzialmente – indipendentemente dai risultati concreti e dalla critica concreta dell’«azione di marzo».

L’opposizione aperta o inconsapevolmente opportunistica alla nuova tattica concentra i suoi argomenti essenzialmente su tre punti. Anzitutto essa cerca di dimostrare che l’offensiva rivoluzionaria – purché la si concepisca «correttamente» – non significa per il VKPD assolutamente nulla di nuovo; si tratterebbe di dimostrare che la tattica della Lettera aperta fu già una tattica offensiva. In secondo luogo, essa pretende di smascherare l’«azione di marzo» come un putsch di tipo bakuninista o blanquista. In terzo luogo, essa mira a dimostrare che il contrasto teorico recentemente acuitosi in seno al VKPD non sarebbe altro che l’antico contrasto tra Rosa Luxemburg e Lenin quale ebbe già a manifestarsi apertamente nel 1904 negli articoli di Rosa Luxemburg in occasione del dibattito sull’organizzazione del partito russo.

Non vogliamo invischiarci in diatribe filologiche su Marx o sulla Luxemburg. Intervenire pro o contro il carattere putschista dell’«azione di marzo» con citazioni di Marx sarebbe tanto ozioso, quanto sarebbe indegno voler difendere la memoria di Rosa Luxemburg da una collusione con l’opportunismo. Si tratta piuttosto di mettere chiaramente in luce – possibilmente evitando le citazioni e gli slogans – la sostanza del contrasto teorico diventato ora insuperabile in seno al VKPD e che le tre enunciazioni ideologiche sopracitate eludono invece di manifestare apertamente. Si tratta dei rapporti organizzativi, ideologici e tattici tra il partito e le masse nella fase acuta della rivoluzione proletaria. Se la questione viene posta in questi termini, tutti i richiami alle teorie di Rosa Luxemburg sulle azioni di massa diventano oziosi poiché queste teorie si riferiscono a un’altra fase, meno evoluta, della rivoluzione proletaria. Non bisogna dimenticare infatti che Rosa Luxemburg – la quale non mirava assolutamente ad enunciare verità «senza tempo», «eternamente valide», ma al contrario cercava di stabilire mediante analisi concrete di situazioni storiche concrete la tattica necessaria del momento – aveva formulato le sue riflessioni sulle azioni di massa e sul ruolo del partito nella fase della rivoluzione borghese precedente, concomitante e successiva alla prima rivoluzione russa. Le sue precisazioni non possono quindi essere applicate pacificamente alla situazione odierna. O, per essere più esatti, occorre preliminarmente sollevare la seguente questione: nel corso di tutto il processo rivoluzionario, il rapporto tra partito e masse rimane immutato oppure esso costituisce a sua volta un processo costretto a subire, attivamente e passivamente, i mutamenti e rovesciamenti dialettici del processo nel suo insieme? Questo è il problema chiave della discussione che l’ala destra respinge in maniera per lo più coperta, e che l’ala sinistra invece accetta, ma spesso in forma non sufficientemente chiara.

La risoluzione di minoranza del Comitato centrale presentata dalla compagna Clara Zetkin tradisce involontariamente questa idea di fondo teorica e tattica dell’ala destra. Il passo che a noi interessa dice:

«Il Comitato centrale del VKPD disapprova energicamente che la Direzione abbia rinunciato a fare delle richieste della Lettera aperta e dell’alleanza con la Russia sovietica gli obiettivi di lotta di un’energica azione offensiva contro la borghesia e il suo Stato. Questa azione sarebbe stata idonea a mobilitare larghe masse proletarie, ad attrarre nella lotta frazioni della piccola e media borghesia, raddoppiando in tal modo la forza del proletariato rivoluzionario ed elevandola ineluttabilmente al di sopra di se stessa e verso obiettivi più avanzati».

Sono sicuro che la parola da me messa in corsivo (ineluttabilmente) costituisca il vero punto centrale della dibattuta questione se le azioni di massa conservino nel corso di tutto il processo rivoluzionario questo carattere «ineluttabile» che esse certamente avevano all’inizio del periodo rivoluzionario, all’epoca delle azioni di massa spontanee ed elementari, o se non sia avvenuto un mutamento decisivo nel corso dello sviluppo rivoluzionario. L’ineluttabilità delle azioni di massa si richiama al rapporto classico, ammesso anche da Rosa Luxemburg, tra ideologia ed economia. L’azione di massa, secondo questa concezione, non sarebbe altro che l’espressione ideologica (conformemente al pensiero e all’azione) dell’esistenza e dell’acuirsi della crisi nel processo economico oggettivo. Le azioni di massa in questo caso nascono «spontaneamente», vale a dire come conseguenze in un certo senso automatiche della crisi economica oggettiva: la loro «spontaneità» non è che l’aspetto soggettivo e ideologico della situazione oggettiva. Questa situazione di fatto determina anche il ruolo dell’avanguardia rivoluzionaria più consapevole, del partito. La sua importanza sta in ciò, che l’azione tattica del partito «non si trova mai al di sotto del livello degli effettivi rapporti di forza, ma sopravanza questo rapporto»2. Il partito è dunque si una forza che accelera e spinge in avanti, ma solo nell’ambito di un movimento che in ultima analisi si svolge indipendemente dalla sua decisione, di un movimento in cui esso non può quindi in alcun modo prendere l’iniziativa.

Dietro queste concezioni sta indubbiamente la visione classica della necessità «scientifico-naturale» del processo economico e per conseguenza di quello politico e ideologico. L’«ineluttabilità» della crescita di un’azione rivoluzionaria significa che le «leggi» le quali dominano in essa debbono venire riconosciute e applicate correttamente, così come nel campo della tecnica debbono essere applicate le leggi naturali riconosciute esatte dalla scienza naturale. Sottolineamo che questa descrizione del rapporto di economia e ideologia (nel significato più lato della parola), e corrispondentemente dell’accadere sociale, della sua conoscenza scientifica e dell’attività conforme al partito si adatta incondizionatamente alla società capitalistica. È da chiedersi soltanto se in questo caso si tratti di leggi «senza tempo» applicabili a uomini uniti in società in generale, o piuttosto solo di leggi dell’economia e della società capitalistica. Marx ed Engels si sono espressi su questo problema solo indirettamente. Occorre tuttavia considerare che alcune frasi usate in punti importanti, come il famoso «salto dal regno della necessità a quello della libertà», furono per essi qualcosa di più di semplici immagini e modi di dire. Anche la loro affermazione tanto spesso ripetuta che le enunciazioni dell’economia e della scienza della società possono pretendere di avere validità solo per determinati periodi, ma mai una validità metastorica; e che esse sono l’autoconoscenza di determinate situazioni sociali e quindi giudizi su di esse non solo in senso oggettivo ma anche in senso soggettivo: quest’affermazione costituisce a mio avviso una componente essenziale della loro teoria (il materialismo storico come «ideologia» del proletariato).

Poiché non è ammissibile accettare per il dominio del proletariato – come fa ancora Gorter – la medesima struttura relazionale di economia e ideologia (ancora una volta, nel senso più lato della parola) che vale per l’epoca del capitalismo, poiché questo passaggio dalla «necessità» alla «libertà» non può assolutamente essere un atto isolato, improvviso e immediato ma solo un processo, il cui carattere rivoluzionario e di crisi è stato definito da Engels in maniera assai appropriata con il termine «salto», v’è solo da chiedersi quando, dove, in che condizioni e in quale misura «questo salto nel regno della libertà» avrà luogo. La risposta a questa domanda, la quale come quasi tutte le domande d’importanza decisiva e teorica non è stata purtroppo posta quasi mai correttamente, ha un’enorme importanza pratica per la determinazione della tattica dei partiti comunisti. Se infatti l’inizio di questo processo viene situato nell’epoca dell’ultima crisi del capitalismo, da questa presa di posizione teorica devono ricavarsi le conclusioni tattiche più vaste. Siamo costretti ad assumere questa presa di posizione: e lo siamo non solamente in base a considerazioni puramente teoriche, che ci fanno ritenere impossibile concepire la libertà, la liberazione dalla necessità, come un dono della sorte, come gratia irresistibilis che al termine di lotte condotte in modo meccanico e automatico ci cada in grembo senza merito alcuno. La presa di posizione ci è necessariamente imposta da un semplice esame oggettivo di queste lotte e del milieu nel quale esse si svolgono. Lenin si è con molta ragione opposto alle concezioni che in maniera meccanica e fatalistica considerano come priva di via d’uscita la crisi imperialistica del capitalismo (che egli stesso definisce senz’altro come l’ultima crisi). Non esiste, egli afferma, alcuna situazione che astrattamente e in sé e per sé sia senza via d’uscita. Il proletariato, l’azione del proletariato sbarra al capitalismo la via d’uscita da questa crisi. Il fatto che il proletariato ne abbia la possibilità, che la soluzione della crisi dipenda dal proletariato, è la conseguenza di necessità economiche, di «leggi naturali». Le «leggi naturali» tuttavia sono determinanti solo per lo svolgimento della crisi, esse escludono semplicemente che questa crisi (come le precedenti) si risolva in senso favorevole al capitalismo. La spirale sfrenata di queste crisi lascerebbe però aperta la via anche a un’altra soluzione: «la rovina comune di tutte le classi in lotta», il regresso a una condizione di barbarie.

Le «leggi naturali» dello sviluppo capitalistico possono quindi soltanto immettere la società nell’ultima crisi, ma non possono indicare la strada per uscire dalla crisi. Nessun osservatore imparziale del periodo rivoluzionario finora trascorso potrà permettersi di ignorare che sulla strada della rivoluzione e della sua vittoria gli ostacoli più cospicui, epperò pochissimo previsti a livello di teoria e di tattica, nascono più dalle remore ideologiche presenti in seno allo stesso proletariato che non dalla forza della borghesia. In merito a questo punto non possiamo analizzare l’intero problema del menscevismo. È necessario solo precisare che nell’elaborazione teorica anteriore alla rivoluzione questo problema non è affiorato quasi per nulla; eravamo impegnati in una lotta comune contro la borghesia, non in una lotta tra partiti proletari. Il revisionismo appariva nella letteratura dei paesi non russi come un problema che doveva essere risolto all’interno dei partiti. Ma che esso sia un problema d’importanza mondiale, e forse il problema vitale della rivoluzione, lo sta a dimostrare il fatto che la crisi più tremenda del capitalismo, il rapido susseguirsi di situazioni rivoluzionarie, nonché il diffondersi nella borghesia di una confusione ideologica onde le sfugge dalle mani il potere statale, non hanno assolutamente suscitato nel proletariato con necessità ineluttabile un’ideologia rivoluzionaria. Da questa situazione vanno tratte non solo alcune conclusioni d’ordine tattico contro la ideologia menscevica, la quale altrimenti scivolerebbe nella comoda posizione di inferire che, mancando nel proletariato una compiuta volontà rivoluzionaria, non esisterebbe nemmeno una situazione generale oggettivamente rivoluzionaria. È semmai necessario – preliminarmente sul piano teorico – sottoporre a revisione le premesse del marxismo volgare menscevico da cui derivano quelle conseguenze; occorre insomma che la situazione alla quale si è or ora accennato, e che viene interpretata dai menscevichi come un sintomo controrivoluzionario, sia trasformata in problema, e si passi all’analisi delle cause di questa – siamo sinceri! – inattesa crisi ideologica del proletariato.

La crisi stessa, in verità, è stata spesso constatata e le sue cause sono state analizzate in maniera esauriente. Non intendo affatto mettere in dubbio la giustezza di tali analisi, che si riferiscono alla varia stratificazione economica del proletariato, alla posizione economica privilegiata dell’aristocrazia operaia, la quale ha acquisito atteggiamenti piccolo-borghesi sia nel tenore di vita che nell’ideologia ecc. Mi chiedo soltanto se con queste analisi venga centrato l’ambito totale e quindi il nocciolo del nostro problema. In primo luogo infatti questa condizione privilegiata è già oggi una posizione per tanti aspetti talmente problematica che da sola è insufficiente a spiegare il menscevismo di masse più ampie. In secondo luogo non è stato affatto dimostrato che la decisione rivoluzionaria di strati proletari isolati si trovi sempre in un rapporto diretto con la loro precaria condizione economica e viceversa. Ancor più importante, infine, è che le esperienze rivoluzionarie degli ultimi anni hanno indicato in forma assai drastica il limite della spontaneità rivoluzionaria. Ciò vuol dire che le azioni rivoluzionarie di massa, considerate in se stesse, hanno in fondo mostrato un carattere simile a quello del periodo prerivoluzionario, sebbene siano straordinariamente potenziate sul piano quantitativo: esse esplodono in maniera spontanea, quasi sempre come una battaglia contro l’avanzata economica (o più raramente politica) della borghesia, placandosi spontaneamente allorché i loro obiettivi immediati appaiono raggiunti oppure irraggiungibili. Hanno quindi conservato il loro decorso «secondo le leggi naturali».

I comunisti oggi non nutrono alcun dubbio che questa situazione abbia nei confronti del partito un ruolo decisivo, addirittura una funzione risolutiva. È da chiedersi soltanto come deve essere inteso questo ruolo del partito sul piano teorico (e conseguentemente su quello tattico). V’è da chiedersi se una pura e semplice opera di chiarificazione propagandistica tra le masse da parte del partito sia sufficiente per conferire a questa spontaneità un sempre crescente grado di coscienza che ad un dato momento porti le azioni al di là del citato punto morto; oppure se il partito non abbia il dovere d’intervenire con una iniziativa sua e spronare l’intero proletariato in una maniera che, facendo leva sui suoi interessi immediati giunga a superare questo suo punto morto mediante l’«ineluttabile» potenziarsi dell’azione con una continua interazione di massa e partito. Le precedenti discussioni tra il VKPD e l’USPD vertevano sostanzialmente su questo punto; e la tattica del VKPD prima dell’«azione di marzo», la tattica della Lettera aperta e dell’alleanza con la Russia sovietica erano basate su questa posizione. Essa appariva tanto più seducente, e anzi come l’unica possibile tattica coerente sul piano teorico in quanto poteva poggiare non solo sull’originaria teoria classica dell’ideologia, ma anche sulle esperienze della rivoluzione russa. La parola d’ordine relativa alla pace, nel 1917, era infatti (per citare un solo esempio) indubbiamente appropriata per attivizzare sotto le bandiere del bolscevismo le più ampie masse, la quasi totalità della popolazione operaia, o di costringerla almeno a una neutralità benevola nei confronti dell’azione. V’è da chiedersi però se una tale situazione coinciderà in tutte le occasioni con la situazione del proletariato alla vigilia della battaglia decisiva o se siano state circostanze storiche particolari non necessariamente ricorrenti (e la loro sagace utilizzazione da parte dei bolscevichi) a far uscire la rivoluzione russa da quel punto morto; o infine se risieda nella natura della rivoluzione proletaria eliminare questi ostacoli automaticamente, con una necessità pari a quella di una legge naturale.

Se il problema viene enunciato in questi termini, allora la risposta non può essere che negativa. Certo, gli opportunisti evitano energicamente di porlo in questi termini, sicché tutto il materiale statistico dell’opuscolo di Paul Levi non ha altro scopo che di eludere in partenza ogni discussione su questo problema, e di denunciare come una ricaduta nella pratica del putschismo ogni concezione rivoluzionaria che rifiuti di rispondere positivamente a questa questione. Ma se si vogliono evitare nuove confusioni, è necessario respingere il tentativo di far deviare la discussione verso la problematica del putschismo. La situazione che nasce dalla risposta negativa al problema enunciato più sopra e dalle conseguenze tattiche di questo rifiuto non ha infatti assolutamente nulla a che vedere con il putschismo. Si tratta – come ha fatto giustamente rilevare la Direzione centrale del VKPD – non di un criterio organizzativo con il quale il partito comunista (dunque una «bene organizzata minoranza», sia pure numerosa, nell’accezione di Blanqui) potrebbe conquistare il potere dello Stato, ma al contrario di vedere come si possa superare mediante autonome iniziative pratiche del VKPD la crisi ideologica, il letargo menscevico del proletariato, il punto morto dello sviluppo rivoluzionario. Il putsch da un lato e le settoriali azioni marxisticamente comuniste del proletariato o della sua avanguardia dall’altro, differiscono infatti tra loro non soltanto per il numero di coloro che vi partecipano, sebbene una determinata limitazione quantitativa, ossia l’esistenza del partito di massa, abbiano qui un significato qualitativo decisivo. Il tratto distintivo di fondo sta piuttosto in questo: cioè se l’azione programmata, in virtù della sua preparazione organizzata, tenda a realizzare un obiettivo concreto (conquista del potere statale) senza tener conto della condizione e della maturità della coscienza di classe del proletariato; oppure se l’obiettivo diretto dell’azione sia soltanto un mezzo per operare in maniera decisiva sulla coscienza di classe del proletariato e attuare mediante questa operazione la conquista del potere statale.

La necessità di questa tattica non deriva solo dal fatto che l’attesa delle azioni spontanee di massa assume il significato di «miracolismo quietistico» – come si esprime la risoluzione del Congresso della sezione giovanile sulla situazione politica mondiale – ma dal fatto che nella fase acuta della rivoluzione, e anche qualora esistano tutte le condizioni «oggettive», un assegnamento sulla «ineluttabilità» di azioni spontanee di massa non si può fare né riguardo al loro esplodere né riguardo alla possibilità di potenziarle fino al conseguimento dell’obiettivo necessario. In primo luogo infatti è del tutto possibile che una serie di azioni spontanee di massa «fallite» susciti da un lato un grande vigore operativo e spirito offensivo da parte della borghesia e dall’altro provochi un certo rilassamento e letargo nel proletariato, sicché l’esistenza e l’inasprimento delle condizioni oggettive rimangono senza una corrispondente reazione da parte del proletariato. (È questa la situazione che sembra essere subentrata in Italia a seguito della tattica dei serratiani). In secondo luogo non esiste la minima garanzia né teorica né constatabile sul piano dell’esperienza, che masse entrate in azione a causa di un urto esterno o semplicemente sotto l’influenza ideale di parole d’ordine comuniste, epperò senza essersi liberate sul piano organizzativo dei loro dirigenti menscevichi possano venire sospinte sulla via dell’azione al di là di quanto alle organizzazioni mensceviche faccia comodo. È più che dubbio, ad esempio, che anche con una maggiore chiarezza di obiettivi e una maggiore decisione sarebbe riuscito alla Lega spartachista, durante e dopo le lotte connesse al putsch di Kapp, di spuntarla contro le parole l’ordine di ritirata formulate dal VKPD e dall’USPD non appena era realizzato il «fine» dell’azione comune, cioè la salvezza della repubblica. Qui sta il grave pericolo della linea tattica della Lettera aperta adottata come unica tattica del VKPD. Non vi è dubbio che il partito può e deve allargare la cerchia della propria influenza ideale con queste e simili parole d’ordine; come non vi è dubbio che esso deve cercare di sfruttare per i propri fini ogni azione che insorga spontaneamente (o come conseguenza di tale influenza). Ma la sorte della rivoluzione proletaria in Germania non è lecito affidarla esclusivamente a quest’unica carta. Se si vuole che lo sviluppo rivoluzionario non corra il pericolo d’impantanarsi, occorre trovare un’altra via d’uscita, ossia l’azione da parte del VKPD, l’offensiva. E offensiva significa ridestare le masse proletarie dal loro letargo mediante l’azione autonoma del partito intrapresa al momento giusto e con giuste parole d’ordine; significa strappare le masse alla loro guida menscevica mediante l’azione (ossia anche organizzativamente e non solo idealmente), recidendo il nodo della crisi ideologica del proletariato con la spada dell’azione. Questo obiettivo confuta le ciance opportunistiche sul carattere putschistico di una siffatta azione di minoranza. Maggioranza e minoranza del proletariato sono anch’esse concetti non statistici bensì storico-dialettici. Non sono concetti già pronti e determinabili prima dell’azione, bensì concetti che nascono nell’azione, durante e mediante l’azione. Nonostante le riserve che si possono formulare contro l’«azione di marzo» come esempio effettivo della progettata nuova tattica, nonostante ogni critica che si può e si deve fare contro di essa per gli errori tattici commessi, questo suo risultato (almeno per quanto riguarda alcune parti della Germania) è un fatto inconfutabile. E con ciò si è finalmente imboccata la strada che conduce il proletariato tedesco all’effettiva azione rivoluzionaria. Si tratta adesso di raggiungere piena chiarezza sulla via da percorrere e sul modo con cui procedere. Gli insegnamenti dell’«azione di marzo» sono nella sostanza della cosa anzitutto d’ordine organizzativo. La chiarificazione tattica non aggiungerà gran che di nuovo; essa consiste più che altro nel dare al partito la piena consapevolezza dei motivi che lo hanno spinto a passare all’offensiva e nel rendere tali motivi compiutamente comprensibili alle masse. Sul piano organizzativo invece devono esser tratte conseguenze decisive su tutti i punti.


1 Il VKPD (Vereinigte Kommunistische Partei Deutschlands) è nato nel 1920 dall’unione del KPD (Kommunistische Partei Deutschlands), costituito nel 1918-19, con la sinistra dell’USPD (Unabhängige Sozialdemokratische Partei). Nel ’21 tornò a chiamarsi KPD [N.d.C.].

2 R. Luxemburg, Sciopero di massa, cit., p. 184.

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