A proposito di letteratura e marxismo creativo

di György Lukács

da Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2019.

a cura di A. J. Liehm

Intervista rilasciata al giornalista cecoslovacco A. J. Liehm nel dicembre 1963 e pubblicata nel n. 3 della rivista Literární noviny, Praga, gennaio 1964. Qui ripubblichiamo la traduzione italiana apparsa nel n. 69 de Il contemporaneo, febbraio 1964, Roma. Non ci sono indicazioni del nome del traduttore. Si sono apportate alcune rare correzioni.


Lukács – Ecco, di un libro m’interessa sempre se ciò che in esso è detto, non sarebbe stato possibile raccontarlo nella medesima dimensione, diciamo, del reportage, se vi si pongono questioni oppure si risolvono problemi a un livello realmente artistico e non nelle dimensioni della sociologia. A tal riguardo sono un conservatore ed esigo che per tutto quanto vi è di importante nell’arte, si trovi una forma corrispondente. Questo vale da Omero sino a Kafka. Allo stesso modo, sono contro la forma senza contenuto e senza un problema poeticamente concreto, all’interno e viceversa. Per il resto vi sono altri mezzi e strumenti, per esempio la stampa. Credo che un buon lavoro sociologico sia più importante e, dal punto di vista della conoscenza, più redditizio, forse, dell’Homo Faber di Frisch. Affinché un ingegnere si renda conto della propria alienazione nella società capitalistica, non deve necessariamente avere un rapporto con la propria figlia. Questa è un’aggiunta poeticamente inorganica per il lettore modernista. Il problema della alienazione ci viene rappresentato in modo molto più suggestivo da ogni buon sociologo. Compito dell’artista è scoprire il problema mediante la forma artistica.

Liehm – E così, a poco a poco, da una conversazione sulle impressioni della vita quotidiana passiamo lentamente alla nostra intervista. Ma per il momento lentamente. Negli ultimi quindici anni è stato possibile osservare un certo spezzettamento della stampa, una distorsione della sua funzione più peculiare, che talvolta, bene o male, deve essere svolta dalla letteratura. Non lo pensate anche voi? [Parlo di questioni che mi interessano direttamente. Il vecchio uomo, che però non mostra affatto i segni della vecchiaia, mi guarda e tra le dita ha l’inseparabile sigaro che sempre si spegne e sempre viene riacceso).

Lukács – Ciò che ho detto è solamente un’opinione artistico-filosofica. Nella pratica possiamo osservare un movimento di due specie. In Occidente, l’alienazione continua e si riflette nella letteratura, anche se le circostanze in cui ciò avviene sono estremamente complicate. Decisamente non si tratta di un processo unitario. L’arte dell’Occidente è addirittura piena di contraddizioni. E ciò spiega anche perché nei suoi confronti non si può assumere una posizione esclusivamente negativa o soltanto positiva. A causa dell’era staliniana, abbiamo trascorso dormendo circa [?]quant’anni di sviluppo capitalistico, quando sarebbe stato necessario analizzare con tenacia le sue contraddizioni sulla base del metodo marxista-leninista. E, ora che le finestre sono state ormai spalancate, è perciò perfettamente logico che la gioventù si getti su tutto quanto è occidentale. Commetteremmo un colossale errore se tentassimo di ostacolarla. L’illimitata, cieca ammirazione per l’Occidente è una malattia infantile che può essere superata solo se la gioventù avrà piena libertà di conoscere anche tutto ciò che è solo di moda. I giovani intelligenti possono in due anni imparare a distinguere il buono dal cattivo. Prima di tutto dobbiamo essere esattamente informati sull’Occidente. Il resto viene da sé.

D’altro canto, è perfettamente vero che nei paesi socialisti a volte la letteratura deve sostituire la stampa quotidiana. Però per l’arte non possiamo mai rinunciare ai criteri artistici. L’esempio della stampa è valso più spesso e più chiaramente nel passato. Esso può riferirsi al romanzo inglese del XVIII secolo. Prendiamo il caso di Moll Flanders di Defoe.

Sostanzialmente esso è, sì, una rappresentazione critica della situazione sociale del tempo, ma al tempo stesso è grande arte. M’annoio un po’ quando sento dire che per me non esisterebbe altro all’infuori del XVIII e XIX secolo, ma voglio affermarlo ancora una volta: la critica marxista deve sempre sottolineare che lo scrittore deve scrivere a livello di Defoe sui problemi e avvenimenti più attuali. In proposito, sia ben chiaro che con ciò non mi riferisco allo stile, bensì al livello, naturalmente in rapporto alla società odierna e alla sua letteratura. Non ho nulla da obiettare se la letteratura assolve compiti sociologici. Ma prendiamo la letteratura tedesca di prima del 1848 e tra i numerosi esempi che ci offre, scegliamo Deutschland, ein Wintermärchen di Heine. Di fatto è un’opera squisitamente politica, in essa si scopre una determinata situazione politica e sociale, ma con quali grandiosi mezzi artistici, per quel tempo! Dalla letteratura dobbiamo sempre esigere quell’alto livello artistico, che esisteva anche nella letteratura sovietica degli Anni Venti. Nei successivi venti anni si è però verificata un’incontestabile decadenza della letteratura socialista, con delle eccezioni, naturalmente, com’è stato da noi, ad esempio, con i due grandi romanzi socialisti e le novelle di Déry.

Ciò dipende dal fatto che il realismo socialista è stato ridotto a qualcosa che io chiamo “naturalismo erariale”. Qui sta la ragione dell’allontanamento da esso di scrittori capaci e di lettori svegli e, contemporaneamente, della confusione di molti scrittori, i quali, da un giusto senso di orrore verso questo falso realismo, finiscono nella opposizione al realismo in generale.

Liehm – E poiché ne abbiamo parlato, qual è secondo voi la situazione del realismo socialista?

Lukács – Ogni grande arte – ripeto, da Omero in poi – è realista, in quanto è un riflesso della realtà. Ecco l’infallibile contrassegno di tutte le grandi epoche artistiche, anche se i mezzi di espressione sono evidentemente molto differenti. Quando parliamo del realismo dobbiamo perciò, in un modo o nell’altro prendere in considerazione il periodo del suo sorgere. Da questo punto di vista, per me, il realismo socialista è semplicemente il realismo dell’epoca del socialismo, derivante dalla natura intrinseca del socialismo.

Ciò che respingo con ferma decisione sono le ricette su come dovrebbe presentarsi questo realismo. La medesima cosa vale quando si prevede in modo concreto e dettagliato la natura della società socialista e comunista. Immaginate che, dopo Swift, Defoe e Fielding e prima ancora della creazione delle opere di Balzac, Dostoevskij e Tolstoj, qualcuno avesse voluto scrivere sulla teoria del realismo borghese…

Secondo me, ci troviamo alle porte di una grande rinascita del realismo socialista. Solo che già Solgenitsin ci mostra che esso sarà qualcosa di affatto diverso, poiché anche i problemi di fronte ai quali si trova lo scrittore, sono del tutto diversi. Il realismo scaturisce sempre dai problemi posti dalla vita. Ma attenzione! Non vogliamo fare di Solgenitsin addirittura un nuovo Sciolochov. Tra alcuni anni vedremo che tipo di scrittore sarà. Quel che ci interessa è il suo modo di presentare i problemi. Per esperienza sono estremamente scettico sulle profezie in letteratura. In questo campo, tutto deve essere prima dimostrato.

Anche per quanto riguarda un altro aspetto, vorrei prevenire delle incomprensioni. Quando parlo del realismo derivante dalla natura intrinseca del socialismo non mi riferisco solamente agli scrittori del mondo socialista. Per me Les Voyageurs de l’Imperiale di Aragon sono in tal senso di grande importanza. Cioè, l’autore si occupa di temi che, in senso generale, dovrebbero essere i temi di un romanzo borghese; solo che egli lo fa partendo da un punto di vista che gli rende possibile creare qualcosa di estremamente importante. Lo stesso vale per la poesia. Prendete Eluard e Attila József: sono socialisti e al tempo stesso proteiformi in confronto alla poesia borghese. Perciò, quando dico “realismo socialista”, mi riferisco a tutta la letteratura, in quanto si tratta del punto di vista e mai del tema. Il tema è universale, la letteratura riflette il mondo nel suo complesso, gli scrittori socialisti dell’Oriente e dell’Occidente hanno certi tratti comuni che li distinguono dagli scrittori borghesi contemporanei. Tutto questo può essere paragonato ad una galleria d’arte: quando passeggiate per le sue sale potete constatare tratti comuni in diversi pittori della stessa epoca e dagli stessi principi. Ed è appunto in tal senso che esiste il realismo socialista e non nel senso di certi stupidi libri che vorrebbero imporgli i principi.

Liehm – Vorrei fare un piccolo passo indietro. Quanto avete detto or ora, significa che siete d’accordo con la concezione di Aragon del “realismo aperto” oppure con quella di Roger Garaudy del “realismo senza sponde”?

Lukács – In complesso penso che tutta la letteratura grande e vera è realista. E qui non si tratta dello stile bensì dell’atteggiamento nei confronti della realtà. Anche le cose più fantastiche possono essere realistiche. Il problema sta nel vedere fino a qual punto si possono definire realistiche certe tendenze moderniste. Le mie obbiezioni contro queste iniziano là dove la letteratura, in un certo disorientamento, rinuncia alla sua fisionomia universale e pluridimensionale, non solo per quanto riguarda il contenuto ma anche la forma.

Vorrei fare un esempio: l’orientamento cubista nell’arte si basa sulla massima di Cézanne che sempre le cose ci appaiono anche in forme cubiste. Ora che le opinioni di Cézanne sono state rese pubbliche, abbiamo visto che egli si riferiva a tutti i segni del mondo apparente: ai colori, al rapporto degli oggetti fra loro, persino all’odore e così via. In breve, la sua concezione è universale mentre il cubismo, di tutta una serie di postulati di Cézanne, ne fa suo soltanto uno. E ciò porta evidentemente ad un impoverimento dell’arte. In verità, non esiste alcuna espressione artistica che non sia fortemente influenzata dall’oggettivismo, ma una eccessiva sottolineatura del soggettivismo porta inevitabilmente ad un ulteriore impoverimento. E io sono contro qualsiasi impoverimento. Per la sua stessa natura, l’arte è infinitamente pluridimensionale; negli ultimi anni si manifestano forti tendenze ad un’unica dimensione. E io mi oppongo.

Liehm – Contro tale punto di vista si obietta che gli autori delle opere a cui vi riferite, assomigliano agli scienziati che effettuano ricerche parziali su un settore determinato, sulla cui base poi possono giungere ad una sintesi e ad una concezione universale.

Lukács – Comprendo. Solo che la letteratura, l’arte sono qualcosa di fondamentalmente diverso dalla scienza. Nel campo della scienza anche una conoscenza parziale può portare ad una grande scoperta.

L’arte, per contro, o è universale o non esiste affatto. È possibile che certi esperimenti artistici molto limitati e unidimensionali possano essere per altri artisti molto fruttuosi e colmi d’ispirazione, ma difficilmente sono di grande importanza per l’umanità nel suo complesso. Inoltre, in arte una formula non ha mai validità universale. Nella scienza, invece, una formula giusta ha questa validità universale. L’espressione artistica presenta sempre qualche cosa di singolare ed anche la forma emana da questa singolarità. Lo sperimentalismo formale in se è sempre abbastanza problematico.

Se un vecchio uomo come me getta uno sguardo retrospettivo agli ultimi sessanta anni di sviluppo letterario, vede una serie di fosse comuni. Molti di quelli che al tempo della mia gioventù promettevano tanto, oggi giacciono in una fossa senza nome. Negli anni della mia giovinezza ebbero un ruolo sensazionale; oggi non li conosce quasi nessuno. Questo non dobbiamo mai dimenticarlo. Le scoperte formali sono importanti, devono essere applicate, ma il fattore decisivo è sempre il valore artistico. Prendiamo, per esempio, il grande monologo interiore della Carlotta a Weimar di Thomas Mann e confrontiamolo con il monologo interiore della signora Bloom di Joyce.

L’analogia sta nel fatto che i due autori utilizzano lo stesso mezzo. Solo che mentre Joyce ha scoperto qualcosa come una registrazione su nastro di una serie di associazioni, in Thomas Mann riceviamo l’impressione di una libera sequenza di associazioni, e in realtà l’autore aveva un obiettivo chiarissimo, concreto: attraverso questa forma voleva raccontare, mostrare qualche cosa, forse i rapporti di Goethe con Schiller. Molte cose, che spesso vengono salutate come scoperte e intese come tecnicamente isolate, sono state tempre parte integrante dell’espressione artistica. In Anna Karenina c’è una scena meravigliosa: l’andata di Darja da Anna e poi il ritorno.

Qui Tolstoj riesce in modo geniale a cogliere, in un periodo di tempo molto breve, i due stati d’animo di una stessa figura di donna mediante il monologo interiore, nella sostanza, anche se non nella forma, cioè nel contrasto sempre plasmato con la realtà obiettiva, che gli dava vita, naturalmente in rapporto con tutto il romanzo; anche in tal modo sorgono nuove dimensioni artistiche. Ma se i mezzi artistici e tecnici diventano lo scopo assoluto, allora si perde la loro vera importanza e torniamo nuovamente all’arte unidimensionale. Durrell afferma che gradatamente introduce nel romanzo le quattro dimensioni di Einstein, vale a dire le tre dimensioni dello spazio più il tempo. Da ciò dovrebbe scaturire un ciclo: sempre una dimensione spaziale dietro l’altra, per tre volte, e a conclusione la dimensione tempo. Ma ogni studente ginnasiale dovrebbe sapere che queste dimensioni possono dare un quadro universale solo se si presentano unite. Una loro rappresentazione separata, la larghezza indipendente dall’altezza ecc., forse non è altro che una chiacchiera senza capo ne coda. Tali esperimenti sono semplicemente un bluff pour épater le bourgeois. Essi non hanno alcun valore. Non m’importa se, per questo, si dovesse dire di me che sono un seguace di Zdanov. Credo che in tali circostanze la critica abbia il dovere di dire: il Kaiser non ha di che vestirsi. Tutto ciò non tocca affatto Kafka che ritengo un artista la cui importanza aumenterà. Mentre molto di quanto oggi si ritiene per nuovo e che farà epoca, secondo me, finirà nella fossa comune nel giro di quindici anni.

Non si tratta affatto della difesa del conservatorismo. Per l’artista il contatto con il tempo e con tutto ciò che esso comporta è un problema intellettuale e morale estremamente serio; egli ha il dovere di prendere posizione sui grandi fenomeni della sua epoca. È degno d’ammirazione il fatto che il vecchio Goethe nell’anno della sua morte avvertisse i valori dell’opera di Balzac Peau de chagrin e di Rouge et Noir di Stendhal e respingesse invece Notre Dame di Hugo. Questo dimostra ancora che non si tratta di accettare le cose solo perché sono nuove, ma di saper scegliere. Tuttavia, conoscere tutto ciò che è grande e nuovo e, nello stesso tempo, saper dire che il Kaiser non ha di che vestirsi, comporta per l’artista e il critico grandi rischi. Spesso ambedue hanno una tremenda paura di rimanere impigliati nel passato. Io non ammetto questa norma cautelativa.

Chiunque si dedichi alla letteratura come creatore o come critico, può comprensibilmente correre il rischio di un errore, da cui nessuno può preservarci.

Del resto, proprio per questo vi sono da noi tanti fronti falsi. Da una parte, molti vorrebbero preservare il brutto, o gran parte di esso, che fu proprio dell’epoca staliniana; altri, invece, da noi e anche in Occidente, vorrebbero gettarsi su tutto quanto c’è di più nuovo, tralasciando di esaminare quel che è durevole e quello che e solo effimero. Non sono affatto acritico nei confronti di noi stessi e delle nostre deficienze. Soltanto pretendo il medesimo senso critico nei confronti delle due parti in quanto, come ho già detto, non considero l’arte contemporanea dell’Occidente come un insieme compatto. Per esempio, prendete un artista come Thomas Wolfe. All’inizio fu fortemente influenzato da Joyce, ma in You Can’t Go Home Again egli riuscì a darsi un proprio, eccellente stile realistico. Il che vuol dire che le contraddizioni non esistono soltanto nella letteratura nel suo insieme ma anche in ogni singolo scrittore. Ciò vale, per esempio, anche per O’Neil.

Liehm – E come considerare Joyce o Proust? Anche per loro vale il parallelo della fossa comune?

Lukács – Innanzitutto Joyce e Proust non sono ancora morti. Sono fattori viventi e la storia non ha affatto deciso quale sarà la loro fossa. Per me Proust è senza dubbio un poeta considerevole anche se ritengo problematica la sua forma. Al contrario credo che Joyce sia piuttosto uno sperimentatore. In nessun caso metterei tra di loro un segno di uguaglianza. Senza dubbio l’influenza di Proust sulla letteratura è ancora molto pronunciata. Però c’è da discutere se anche in questo importante poeta non inizi, non prenda corpo, quella tendenza alla letteratura unidimensionale.

Liehm – E Beckett?

Lukács – In proposito la mia posizione è più o meno negativa. Una delle tendenze del mondo capitalista è senza dubbio la completa alienazione dell’uomo, quasi vorrei dire il suo svuotamento, solo che Beckett la dà come una tendenza fondamentale, da cui non ci si può difendere, e su tale terreno compie i suoi esperimenti formali.

Ciò mi fa ricordare il tempo della mia gioventù, il naturalismo e il suo senso del fatale, del determinismo del destino umano. Allora c’erano anche quelli che isolavano l’uomo da tutto il resto, per esempio il giovane Maeterlinck. Stento a credere che il giovane Maeterlinck potrebbe ancora oggi avere una certa influenza. Secondo me, anch’egli appartiene alla fossa comune.

Quando si scrive molto su qualche cosa, spesso gli uomini s’illudono e nasce in loro l’impressione che proprio per questo si tratta di qualcosa di vivo.

Liehm. [E non è lo stesso se non si scrivesse niente su qualche cosa? mi vien voglia di chiedere].

Lukács – Esiste, ad esempio, una grande letteratura inglese sui contemporanei di Shakespeare. Ma significa forse che tutti questi autori appartengono all’eredità viva, allo stesso titolo di Shakespeare? Venticinque libri su Fletcher in biblioteca ancora non fanno di questo elisabettiano uno scrittore vivo. Un giovane studioso del Romanticismo può anche scrivere un grosso libro sul giovane Maeterlinck ma questo non cambia nulla di quanto ho detto.

Oggi si tira fuori un po’ di tutto e lo si dichiara importante, anche se non è necessario. Ad esempio, Arcimboldi con i suoi montaggi manieristici. Questa è un’insensatezza del nostro mondo! E se qualcuno pone il Tintoretto accanto ad Arcimboldi, io mi pronuncio per il Tintoretto, mentre l’altro non mi interessa affatto. È compito del marxista osservare le cose da un punto di vista storico.

Egli può anche errare, ma allora deve anche dirlo apertamente senza lasciarsi trascinare dalla corrente solo perché questa corrente è molto forte. Tanto più che in numerosi casi non si tratta solo di correnti spontanee, ma anche di correnti sostenute da gruppi finanziari. Ai tempi di Marx la produzione dei mezzi di produzione era decisiva per il capitalismo.

Ai tempi nostri, anche la produzione dei beni di consumo sta avendo un ruolo di primaria importanza. Anche l’arte moderna ne è influenzata. Esistono potenti agenzie e case editrici, per cui ci si domanda: in quale misura gli interessi del capitale sono presenti nelle diverse correnti? Anche nell’arte richiedono grandi investimenti di capitali. A proposito, voglio raccontare una mia esperienza di uomo anziano: quando ero ancora giovane, fondammo un piccolo teatro. Bastarono duecento persone per mettere in scena una rappresentazione. Oggi, per fondare un teatro in Occidente, occorre molto denaro, così come per la fondazione di una rivista.

Così aumenta l’influenza del capitale sulla letteratura. Naturalmente, il capitale non ha la forza di ispirare la vita di questa letteratura, di crearla, però può rafforzare o indebolire le tendenze esistenti. Il suo ruolo non è decisivo, pur tuttavia esiste, poiché attira molte persone con la prospettiva della carriera e del successo. Questa è però un’osservazione marginale, in quanto l’attuale capitalismo dei consumi non può assolutamente avere nell’arte un ruolo decisivo, in senso artistico, naturalmente.

Liehm – Mi richiamo brevemente a ciò che Sartre disse a Praga sulle prospettive del romanzo, cioè che il grande romanzo del XX secolo sarà un romanzo di esperienza socialista.

Lukács – È un’idea molto acuta e, in certo senso, è vero. Anch’io sono dell’opinione che una grande sintesi può essere realizzala solo da un punto di vista socialista. Condivido l’opinione di Sartre sulla importanza del superamento dell’era staliniana. Visto che parliamo di ciò, è estremamente interessante come quell’epoca agì sugli uomini. Vi fu chi si piegò e chi riuscì a restar saldo. Certamente, tutti coloro che oggi vivono e creano, in quegli anni decisivi vennero a trovarsi in un modo o nell’altro sotto l’influsso di quella epoca. Da questi fatti nascerà senza dubbio un grande romanzo o un grande dramma.

Oggi abbiamo davanti a noi un lungo periodo di pacifica coesistenza. Per questo, naturalmente, non è indifferente come la letteratura dell’Occidente risolverà i suoi problemi. Credo che, al riguardo, può esserci nuovamente di aiuto il grande esempio di Thomas Mann. Il suo Doktor Faustus contiene tutto il problema del mondo del fascismo, perciò questo libro è e resta uno dei grandi romanzi della nostra epoca. Attualmente esiste in Occidente una letteratura alla moda, la quale si sforza di dimostrare che tutto questo mondo alienato, verso il quale essa si mostra contraria, è in fondo interessante dal punto di vista artistico.

È così che, ad esempio, nella Germania occidentale, vengono alla luce scrittori che in una certa misura sono diventati sostenitori non conformisti del regime di Adenauer. Nello stesso tempo, vi sono anche scrittori che con molta serietà prendono posizione contro questo mondo alienato. Ai suoi tempi, Sinclair Lewis con Babbit scoprì in effetti questa alienazione con una acuta forma satirica. Allora fu di estrema importanza. A venti anni di distanza non sarebbe più possibile farlo allo stesso modo. Appaiono opere tragicomiche (T. Wolfe, O’ Neil) che nuovamente s’ispirano alla lotta contro l’alienazione e spesso siamo testimoni di una lotta tragico-drammatica contro la propria alienazione. Per esempio, Styron mostra nel suo romanzo Set this House on Fire, con l’aiuto della dialettica, che per i ricchi la causa dell’alienazione è la ricchezza e per i poveri la povertà, fin che in fondo non si giunge ad una esplosione à la Raskolnikov. Questo non possiamo dimenticarlo.

Un giorno si avrà il grande romanzo socialista, ma ci vorrà ancora del tempo prima che gli scrittori socialisti si liberino di tutti gli ostacoli e della loro censura interna: per questo devono cercare alleati nella grande letteratura del passato e anche in quelle tendenze della letteratura occidentale, le cui strutture ho sopra menzionato; essi devono vedere come i migliori lottano contro l’alienazione. In ultima analisi troviamo fra di loro anche alleati politici. Vorrei dire, che questa non è un’obiezione al punto di vista di Sartre, bensì un completamento, un’aggiunta.

Compito della letteratura è dare un quadro dell’enorme alienazione prodotta dall’era staliniana, e aiutare nel suo superamento. Nello stesso tempo, in quell’epoca, è stato soffocato qualcosa di immensamente nuovo, per esempio, ciò che era venuto alla luce nel Poema Pedagogico di Makarenko. Nostro compito è di farlo risorgere. E se è vero che un conflitto mondiale è oggi impossibile, sono convinto (è vero ed appunto lo credo) che anche la guerra fredda deve poco a poco scomparire. Nel periodo della pacifica coesistenza si avrà un’asprissima lotta di classe sotto nuove forme. Allora, nostri alleati diventeranno tutti coloro che nel mondo capitalistico lottano contro l’alienazione. Non solo scrittori, ma anche sociologi, come ad esempio Wright Mills, morto prematuramente. Vi sono settari che negano la possibilità della pacifica coesistenza, altri invece che nutrono la speranze che, nella pacifica coesistenza, cessi la lotta di classe. Io però affermo – e lo affermavo già nel 1956 (in un articolo apparso sulla rivista tedesco – orientale Aufbau) – che tertium datur: vi sarà una nuova forma della lotta di classe. Se vogliamo capire questo, dobbiamo tornare a Lenin e porlo contro Stalin. Già nel 1916 durante la prima guerra mondiale, rivolgendosi ai settari. Lenin affermava che vi sono uomini che credono nella formazione di due grandi campi contrapposti. L’uno grida: «Noi siamo per il socialismo!» Gli altri: «Noi siamo per l’imperialismo!» Chi immagina le cose in questo modo, diceva Lenin, mai e poi mai capirà la rivoluzione. Le cose sono molto più complesse, le tendenze si intrecciano, i fronti mutano.

Liehm – Poco fa avete detto: sono vecchio, e se getto uno sguardo indietro dico: abbiamo vissuto in un periodo molto interessante. Era come se camminassimo in un tunnel, di cui conoscevamo la direzione, ma era senza luce. Finalmente siamo arrivati a un punto dal quale si può già vedere la luce all’altro capo del tunnel…

Lukács – Ebbene sì, un tunnel… Ecco, quando alla fine degli Anni Venti fu chiaro che il socialismo per il momento si sarebbe limitato all’Urss, sorse tutta una serie di problemi. Nel periodo successivo accadde qualcosa di enormemente positivo: la salvezza del socialismo di fronte all’attacco del fascismo.

Il crollo dell’Urss nella seconda guerra mondiale avrebbe significato un rinvio di 200 anni delle prospettive del socialismo. In verità, per questo abbiamo dovuto pagare un prezzo altissimo, cioè la delusione di molti per ciò che riguarda il socialismo e il marxismo. Il XX e il XXII congresso del Partito comunista dell’Urss hanno offerto una possibilità di rimedio.

In primo luogo, due grandi compiti ci stanno dinanzi. Primo: dobbiamo dimostrare al mondo ciò che differenzia il marxismo dallo stalinismo. Sia in Occidente che in Oriente troviamo dei teorici comunisti che non vogliono rompere con lo stalinismo. D’altro lato, l’ala di estrema destra dell’Occidente si sforza di portare la prova che Stalin non ha fatto altro che continuare conseguentemente la teoria di Lenin. È nostro dovere dimostrare la continuità tra Marx, Engels e Lenin, di portare le prove che tutti e tre si sono serviti degli stessi metodi, mentre Stalin, in molti punti del metodo e della sua applicazione, ha rotto col marxismo (ad esempio, sulla questione dei sindacati, assunse la stessa posizione presa da Trotzki), si è incamminato per un’altra via. Poiché nel corso del perfezionamento dei risultati del XX e del XXII noi siamo in grado di chiarire queste questioni, io chiamerei questo, se lo volete, una “luce all’altro capo del tunnel”.

Secondo: il deforme marxismo stalinista non può dare alcuna risposta alle questioni odierne poste prima di tutto dalla gioventù, mentre il marxismo schietto può elaborare queste risposte. E noi dobbiamo sviluppare il metodo marxista nella ricerca delle questioni del momento. Possiamo suscitare risonanza solo se, come marxisti, sappiamo meglio degli altri porre le domande e dare le risposte. Alla gioventù un rinnovamento del marxismo sembra prima di tutto necessario, perché i nuovi problemi la costringono ad un ritorno al vero metodo marxista, mentre sono da considerare e utilizzare i risultati della nuova tecnica e della nuova ricerca scientifica. Marx ed Engels hanno sempre incorporato le nuove conquiste della scienza nel marxismo. Tale metodo è cessato dopo la morte di Lenin. Noi dobbiamo rinnovare questo metodo marxista, affinché il marxismo resti effettivamente vivo. Che fecero Marx ed Engels, ad esempio, con Darwin? Ovviamente, oggi più nessuno è pronto a ripetere alla lettera quanto disse Darwin. Ma ciò concerne la sostanza delle cose e in questo senso l’assimilazione di Darwin da parte di Marx è qualcosa di non transitorio dal punto di vista metodologico. Analogamente, oggi dobbiamo assimilare tutto il moderno, tutti gli elementi progressisti della scienza, che dalla morte di Lenin sono emersi in Occidente. Solo quando avremo elaborato tutto questo sulla base di uno schietto metodo marxista, allora saremo in condizione di esercitare la nostra influenza sulla gioventù e su quegli intellettuali occidentali, di cui parlavo prima. Essi allora comprenderanno che sono sulla strada di una ricerca genuina delle risposte alle loro domande (in proposito vorrei citare ancora una volta Wright Mills). Secondo la mia opinione, in questo campo con le risoluzioni non si ottiene nulla. Abbiamo davanti a noi un grande lavoro da svolgere, se vogliamo superare tutta l’era staliniana. Come vedete, dunque, questi due compiti non sono altro che un compito solo.

Dobbiamo perciò offrire alla gioventù la possibilità di effettuare da sé la ricerca. Oggigiorno vi sono molte persone che si sforzano di incamminarsi sulla via, di cui parlavo poco fa. Tutti questi ruscelli e corsi d’acqua si uniranno un giorno in un grande fiume. Coloro che, educati da Stalin, protestano contro tutto ciò sanno molto bene perché. La lotta che oggi si conduce è una lotta per decidere se i metodi e le abitudini staliniste debbano essere conservate, oppure se si deve arrivare alla rinascita del marxismo, ad una rinascita non soltanto teorica, ma anche pratica. Queste due cose stanno in stretta relazione tra loro.

Liehm – Torniamo ancora, vi prego, ai problemi della letteratura e all’arte. Quale importanza ha per la letteratura e l’arte quanto avete dello a proposito del pensiero, della scienza?

Lukács – Ho l’impressione che oggi nei nostri paesi l’arte “apolitica” può svilupparsi con sufficiente tranquillità (sotto Stalin non esisteva, o per lo meno non appariva). Ma non vi è nessuna letteratura e arte apolitica. L’artista non può mai evitare di prendere posizione. Velasquez e Goya erano pittori di corte, ma guardate come, attraverso i loro ritratti, hanno espresso tutto il loro disprezzo per la Corte di allora. Vi sono tuttavia delle posizioni manipolate in modo veramente originale. In molti paesi socialisti abbiamo una grande quantità di letteratura scientifico-sociale, i cui tratti sostanziali sono puramente positivisti. Ma se il libro contiene un’abile prefazione che riporti determinate citazioni desiderate da certe autorità del momento, allora nella stampa e nella critica esso non incontra alcuna difficoltà. Coloro che soddisfano certe pretese esteriori possono scrivere in tutta calma, come si scriveva quaranta anni fa. Coloro invece che si sforzano di liberare i problemi del momento dalle posizioni del momento, cozzano sovente contro grandi difficoltà, anche se pensano marxisticamente oppure appunto per questo. Secondo me, nell’attuale situazione, per superare i metodi staliniani nel socialismo odierno, è essenziale che il marxismo non falsificato goda piena libertà di espressione.

Liehm – E la libertà della letteratura, dell’arte?

Lukács – In un certo periodo tra il 1946 e il 1947 tenni a Budapest una conferenza sul tema “Arte libera o arte diretta?”. Già allora, affermavo che l’arte è un fenomeno sociale e per questo non vi può essere arte assolutamente libera. Ogni società pone alla sua libertà determinati limiti, sia in forza delle tradizioni o per mezzo di disposizioni. Ma prima di tutto per mezzo di ciò che amo chiamare ordinazione sociale fatta dalla società all’arte: attraverso quei problemi, quelle richieste di prese di posizione, ecc., che la società stessa (e in essa le classi) pongono all’arte. In che misura questi sostengono o frenano l’arte, è un problema che non posso naturalmente affrontare qui. In ogni caso essi limitano in concreto la libertà astratto – metafisica. L’affermazione secondo cui l’arte sotto il capitalismo non sia stata mai libera è una menzogna (in tal senso abbiamo a disposizione numerose prove, da Balzac fino a Karl Kraus).

Se qualcuno si ostina ad affermare che, quale artista, ha goduto piena libertà in una società borghese, ciò significa che egli ha saputo così bene adattarsi da avere l’illusione della piena libertà. Anche nel socialismo all’arte saranno sempre poste delle limitazioni. Ogni Stato socialista dovrebbe probabilmente proibire sempre la propaganda controrivoluzionaria sul suo territorio. Ma nell’ambito della creazione artistica che non nega il socialismo in modo aggressivo e nel quadro di normali condizioni di esistenza, secondo me, gli artisti dovrebbero fare e creare quel che vogliono, e la critica artistica o ideologica dovrebbe seguire solamente ex post.

L’arte diretta, così come la conosciamo nell’epoca staliniana, può portare soltanto al naturalismo erariale o al cosiddetto romanticismo rivoluzionario, vale a dire alla creazione di prospettive momentanee e di illusioni al posto della realtà. In effetti in una situazione consolidata l’arte ha sempre uno spazio maggiore che in una situazione di guerra civile quando è in gioco molto di più e nessuno ha il tempo di occuparsi di certe cose come lo spazio per l’arte e la letteratura e così via. In tal senso, l’epoca di Stalin si distinse per il fatto che in una situazione normale si governò con un metodo solito per una situazione di guerra civile. Un partito ideologicamente maturo può ovviamente esercitare la sua influenza sull’arte e sugli artisti, ma solo in una certa misura, molto limitata. Prima di tutto perché il partito con una giusta direzione ideologica è in grado di rendere coscienti gli artisti dei compiti sociali del momento e in tal senso facilitare il loro orientamento verso la vita e il riflesso artistico di questa.

Ciò non significa affatto prescrivere, bensì sforzarsi di convincere. Prendiamo l’esempio dell’influsso di Lenin su Gorki, che senz’altro ci fu, ma pensiamo anche ai limiti di questo influsso, alle lettere di Lenin a Gorki: «Caro amico, io non sono della vostra opinione…». In verità io sono contro ogni concezione della partiticità che si riduce al fatto che l’arte deve occuparsi dell’illustrazione delle ultime risoluzioni.

A differenza della ricerca scientifica, dove nell’accertamento dei fatti (ma non nella loro interpretazione) non può esistere una posizione di stima, per me, in arte, dal punto di vista estetico, l’importanza di tale posizione di stima è fondamentale. Dal tempo dei tempi ormai, ogni poesia d’amore è scritta o a favore di una donna o contro di essa: dunque è poesia di parte. E appunto ogni artista – da Omero a Beckett – prende posizione su questioni di carattere privato, così come prende posizione anche su questioni di carattere sociale, indipendentemente dalla misura in cui ne è cosciente. Noi dobbiamo aspirare a che nella nostra arte la presa di posizione socialista emerga nel modo più chiaro possibile. Ma non possiamo ottenere ciò con delle risoluzioni, bensì attraverso il livello ideologico generale esistente nel paese.

Liehm – E adesso veramente l’ultima domanda: avete parlato dell’enorme importanza che in avvenire assumerà l’intero campo della cultura. Perché?

Lukács – Già, mi sembra proprio che in futuro l’importanza sociale del tempo libero dovrà crescere continuamente con le sempre maggiori riduzioni dell’orario di lavoro. Sebbene nel periodo staliniano sia stata trascurata per decenni l’autonoma ricerca economica della concreta, legittima dinamica del capitalismo contemporaneo, che non è stata sufficientemente elaborata, nonostante il fatto che esistono ancora i seguaci ortodossi dell’insegnamento di Stalin, i quali sostituiscono la giusta comprensione dei fatti con citazioni sull’“impoverimento assoluto”, non è più possibile dubitare dei fatti che provano la crescente riduzione dell’orario di lavoro.

È noto che Marx ha visto appunto nel tempo libero le basi del regno della libertà, dello sviluppo delle capacità dell’uomo che in sé è lo scopo assoluto. Così, indipendentemente dalla volontà e dalle decisioni dei singoli, prende corpo la sfera del tempo libero, il cui volume cresce incessantemente, e tale crescita forma per la cultura, un campo d’attività sempre maggiore, aumentandone il peso sociale.

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