Intervista sconosciuta del 1968

 

di György Lukács

da Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2019.

Traduzione di A. Infranca


Dal 1967 Lukács aveva ripreso la tessera del Posu, il Partito socialista operaio ungherese. György Aczél, l’allora segretario del Comitato Centrale gli chiese di collaborare con i membri dirigenti del partito, sviluppando le sue opinioni sulle questioni politiche e teoriche del momento. Così si preparò la presente intervista, a titolo informativo, fatta pervenire ai membri del Comitato Centrale il 22 luglio 1968.

Lukács e i dirigenti del partito erano arrivati a un comune accordo: in tal modo le questioni trattate e le sue opinioni potevano essere ascoltate, ma non potevano essere rese pubbliche.

La prima parte della presente intervista è dedicata alla personalità politica e teorica di Palmiro Togliatti e, a questo proposito, Lukács si occupa delle questioni teoriche e politiche a lui connesse. Il punto saliente è la prospettiva di una possibile alternativa di sinistra in Europa, analizzando l’articolo di Togliatti su “Capitalismo e riforme di struttura” (Rinascita, 11 luglio 1964), che contiene gli appunti, scritti qualche ora prima della sua morte, sull’unità del movimento operaio internazionale. L’intervista è a cura di Ferenc Fehér.

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Fehér – Oggi conversiamo sul fondamento della personalità teoretica e politica di Togliatti. Compagno Lukács come consideri le doti di Togliatti nella salvaguardia della teoria marxista, e dove vedi i limiti teorici della sua personalità?

Lukács – Se parlo dell’uomo Togliatti, devo innanzitutto rilevare che si tratta di un uomo di eccezionale capacità politica, con una visione puntuale sulla peculiarità di ogni situazione, che è in continua ricerca e non ragiona schematicamente su nessuna questione; dunque sarebbe possibile dire che nella nostra epoca è stata indubbiamente una delle personalità politiche più grandi. Poi si deve aggiungere – e ciò non ne diminuisce l’importanza – che nonostante Togliatti sia relativamente la personalità politica più grande di questa epoca, purtroppo, condivide largamente i fondamentali errori dell’ambito marxista.

Si deve poi dire più precisamente che nell’attuale momento, per certe sue particolarità, la tattica sostituisce completamente l’analisi teorica del fondamento. Togliatti, anche se affronta molto meglio di tutti i suoi contemporanei la questione, non va fino alle conclusioni teoriche conseguenti; però, bisogna anche ammettere che, dopo la morte di Lenin, nessuno ha messo in atto le conclusioni delle sue analisi, benché siano molto chiare anche in merito alla linea tattica.

Fehér – Lei fa riferimento, molte volte, e in particolare nelle sue dichiarazioni e nei suoi scritti, alla deformazione dei rapporti tra tattica e strategia, come una delle principali malattie dell’attuale sviluppo marxista. Potrebbe mostrare con uno o più esempi questo problema nella personalità di Togliatti?

Lukács – Credo che si tratti di una questione estremamente fondamentale. Engels aveva già parlato, a suo tempo, su questa questione affermando che il socialismo scientifico si è sempre espresso sulla necessità della ricerca scientifica specifica in merito alla propria determinata epoca. Lenin si mosse in questa direzione, con alcuni suoi eccellenti contemporanei – ricordo ad esempio, Rosa Luxemburg – ed analizzò le particolarità teoriche del nuovo capitalismo e dell’imperialismo a lui contemporanei. Da quelle particolarità teoriche sono state elaborate strategie confacenti, tra le quali emerse anche la questione tattica.

È chiaro che durante la rivoluzione, le lotte immediate si rappresentavano direttamente come scontri tattici, ma in questi scontri tattici si possono vedere, con estrema chiarezza ed in primo piano, affermazioni di grandi problemi teorici. Pensiamo soltanto a come Lenin abbia trattato l’effettivo passaggio dal comunismo di guerra alla Nep, non come un nuovo problema tattico, ma piuttosto come una questione insieme tattica e strategica, conseguente all’analisi fondamentale della situazione. Quando, dopo la morte di Lenin, emersero grandi e complessive questioni della rivoluzione, nessuno degli uomini che partecipavano a quei dibattiti – e sotto questo aspetto non si tratta solo di Stalin, ma anche di Trockij, Zinoviev, Kamenev, Bucharin e i dirigenti dei partiti europei – fu capace di comprendere, tra le questioni teoriche generali del marxismo, ma inserite in una nuova fase speciale, quel primo fondamentale problema del momento, cioè la questione di un effettivo socialismo in uno Stato socialista in costruzione; e perciò il problema è stato posticipato fino ad oggi, sia nel movimento europeo, che nei paesi socialisti.

Questa nefasta deformazione, dopo Lenin, si rafforza, tanto che, ai tempi dello stalinismo, essa corrobora pienamente le tendenze antidemocratiche, per cui tutte le ricerche scientifiche su di essa vengono sospese fino ad oggi. Se percorressimo nel socialismo le opere economiche teoriche realizzate, vedremmo che vi sono sempre sostanziali variazioni rispetto all’antico fondamento; ma per gli effetti della deformazione prima ricordata, i lettori della stampa comunista occidentale credono ancora oggi alla teoria del necessario impoverimento crescente, mentre la maggioranza della classe operaia americana pensa a come riempire il tempo libero. Qui c’è una grottesca controversia, della quale – purtroppo – anche Togliatti non ha saputo liberarsi.

Fehér – Però forse Togliatti ha compreso la contraddizione di questa situazione e, fino a un certo punto, si è servito del grande culto di Gramsci, che caratterizzava l’intero Partito comunista italiano. Il valore di Gramsci, nello stesso tempo, ha sollevato anche la questione dell’eredità teorica degli anni Venti, di cui fa parte anche la sua opera dal titolo Storia e coscienza di classe, ed altre. Secondo il suo punto di vista, quanto è sfruttabile l’eredità teorica degli anni Venti nei nostri attuali conflitti?

Lukács – Credo che dobbiamo cominciare da una mossa critica. Indubbiamente si sono prodotte novità teoriche negli anni Venti, in rapporto alla teoria di Lenin. E indubbiamente ce ne sono in Korsch, in Gramsci e nelle mie opere di quel tempo. Quelle tendenze furono stroncate dal Comintern dell’epoca, soprattutto per quanto riguarda Korsch e me; invece l’enorme vantaggio del movimento italiano fu che Gramsci non cadde in contrapposizione con l’Internazionale, quindi quello che vi era di positivo in Gramsci, e vi era di molto positivo in lui, poté essere investito nei problemi del movimento italiano.

Però se si guardano le teorie degli anni Venti, c’è in esse un errore, che è in opposizione agli ulteriori sviluppi del Comintern. L’ulteriore sviluppo, infatti, trascurò grandi questioni teoriche, orientandosi verso caratteri puramente tattici. Penso qui a ciò che accadde soprattutto riguardo a Korsch. Provammo, per mezzo di Lenin, a tradurre le questioni teoriche all’intero marxismo, non parlo di quanto giustamente o meno, riguardo a me stesso, perché ne ho già scritto più volte. Molto di più non c’è in queste questioni teoriche, da un corretto punto di vista, tuttavia per mezzo nostro fondando o continuando a sviluppare queste teorie non furono tratte le conseguenze pratiche in fatto di strategia e tattica, quindi rimase il fatto che manca una decisiva analisi degli anni Venti nella teoria marxista.

Lo stesso avvenne nell’opposizione, perché – come potrei dire – si afferrò il problema troppo in alto, troppo genericamente, lo stesso nel partito di governo, perché si ridusse il problema a pura tattica. Rimase una tale astrattezza, e va ricordato che il Comintern, di cui Lenin era il teorico, visse un’epoca di relativa stabilizzazione e alla fine del cosiddetto periodo degli anni Trenta si incappò nella crisi del ’29, in cui nacque l’illusione che si potesse rinnovare il momento del ’17 ed era ancora possibile realizzare il socialismo in Europa.

Nel corso di questo periodo, l’analisi del capitalismo tralasciò il fatto che il capitalismo nell’intero campo sociale era stato posto su un nuovo fondamento: il fascismo non era il rinnovamento dell’antica reazione, piuttosto una specifica reazione del nuovo capitalismo.

Di conseguenza una vera comprensione teorica del fascismo sorgerà soltanto approssimativamente nel 1935 nella riflessione di Dimitrov. Tutto ciò manca profondamente nella teoria comunista. La causa di questa situazione è che non abbiamo saputo cogliere dai teorici ufficiali degli anni Venti una misura storicamente valida oggi, ma se pensassimo di risolvere i nostri problemi di oggi tornando ai teorici critici degli anni Venti, secondo me questo è un errore, anche nel caso di Gramsci.

Fehér – Se si accetta Togliatti come un teorico stimolante – e penso che anche Lei sia di questo avviso – evidentemente la prima questione epocale, che stimola la riflessione, è la struttura del capitalismo di oggi e ciò coincide con le contraddizioni fin qui indicate da Lei. In cosa vede sommariamente e brutalmente la particolarità strutturale del fondamento del nuovo capitalismo, quali strategie del movimento dei lavoratori si prevedono?

Lukács – Possiamo detestare un grande fatto economico generale?

Quando Marx fondò la sua teoria, Engels e Lenin elaborarono la loro propria strategia nel senso classico, il vero capitalismo realizzò una grande concentrazione di materia prima, di lavoratori e di industria meccanica. Il soddisfacimento dei bisogni umani era nel potere degli artigiani. Dunque il capitalismo per Marx è innanzitutto la relazione di materie prime, lavoratori e industria meccanica. Nel periodo imperialista il capitalismo si espande all’intera società. D’altra parte tutti oggi sanno che l’intera produzione – dalle scarpe ai rasoi – nella sua completa totalità è conseguenza della produzione della grande industria: ma nonostante il settore dei servizi sia molto più piccolo della grande industria – non sono un economista e conosco soltanto le statistiche di seconda mano, ma economisti me l’hanno riferito – oggi in America nei servizi sono impiegati più lavoratori che nell’industria.

Questo è un fatto estremamente importante, per cui – innanzitutto prendendolo teoricamente – va posto in prima linea ciò che Marx conosceva chiaramente. Marx vide che lo sviluppo capitalistico progredisce nel passaggio dallo sfruttamento del plusvalore assoluto verso il plusvalore relativo, però va aggiunto che Marx non vide fondamentalmente l’ulteriore aspetto di un’epoca radicalmente nuova nel capitalismo. Egli, in un passo, spiegò che il plusvalore assoluto è la sottomissione formale della produzione al capitalismo, che però con il passaggio al plusvalore relativo avviene la sottomissione reale. Dunque in fondo l’essenza del capitalismo si realizza in questo modo.

Tuttavia ciò comporta una questione fondamentale. Non è possibile dimenticare che già Marx ed Engels trattarono straordinariamente e accortamente la questione della depauperizzazione, anche se successivamente in Kautsky tutto ciò diverge dal quadro principale. Si deve aggiungere che le osservazioni di Lenin sono molto accurate su ciò. Dunque la questione è che se la depauperizzazione è il fondamento per una rivoluzione socialista, allora come potrebbe realizzarsi nella società attuale? Non è possibile che noi crediamo all’opinione che nell’intero mondo si sia estinta la miseria, ovviamente non è così! Neanche negli Stati Uniti!

La questione è soltanto che non c’è una tendenza generale del capitalismo verso la depauperizzazione, e quindi, in secondo luogo, si devono cercare nuovi motivi del conflitto capitalismo/socialismo emergenti nella società attuale, e chi semplicemente parte da un’analisi di ottanta o novanta anni fa, giungerà a conclusioni completamente scorrette e cattive.

Pensiamo, per esempio, a quanto decisiva sia la parte che giocò ancora, per la formazione della II Internazionale, la questione della giornata di lavoro di otto ore, come un gigantesco obiettivo ottenibile.

I poeti dell’epoca scrissero versi su questo, perché la diminuzione del tempo di lavoro è in rapporto con la vita umana stessa.

Oggi in una parte considerevole della classe operaia il problema fondamentale è come occupare il tempo libero. Oggi, con una settimana lavorativa di cinque giorni, si deve guardare alla questione come risolta per una parte decisiva del movimento operaio, rispetto ai problemi del tempo di lavoro di novanta anni fa; cioè – senza essere un economista, vorrei soltanto accennare alla questione molto importante – la struttura del capitalismo attuale si differenzia dal vecchio capitalismo, per ciò che riguarda i suoi effetti, anche contro tutte le cosiddette previsioni: secondo gli schemi del XIX secolo si sarebbero succedute già quattro grandi crisi, a partire dal 1929, quando ci fu l’ultima grande crisi, e trascorsi quaranta anni da allora non ce n’è stata nessuna.

Se la nuova struttura ha un tale fondamento, la mia convinzione è che prima potevamo giudicare genericamente sulla strategia o sulla tattica, adesso il nostro primo compito è una vera analisi di questa economia: ma nessuno ha eseguito questo compito, né i russi, né il Comintern, e aggiungo né Togliatti, né il partito italiano.

Fehér – Risulta evidente che la vera questione sarebbe quella che la nuova struttura del capitalismo fa sorgere nuove tensioni e conflitti sociali, tanto che si possono comprendere gli inizi della nuova strategia del movimento operaio.

Lukács – Innanzitutto per completare ancora ciò che ho detto in precedenza, si deve esporre che sulla base di questo cambiamento, del quale ho parlato, la classe capitalistica in quanto classe è oggi ampiamente interessata alla classe lavoratrice come classe consumatrice. Questo nuovo fatto non sussisteva nel vecchio capitalismo. Forse qui si realizza una nuova situazione della quale non so naturalmente dare una vera analisi in quanto non sono un’economista, ma desidererei indicare soltanto alcuni importanti aspetti.

Per esempio che nella lotta contro il fascismo nell’acuta contrapposizione con la società capitalistica i partiti esistenti in quanto tali, per così dire, hanno cessato di esistere mondialmente. Oggi, eccetto Francia e Italia, mondialmente non esistono i partiti comunisti come grandi e influenti critici; anche i partiti socialdemocratici ovunque costituiscono l’ala sinistra del capitalismo – spesso pure non completamente a sinistra. A conferma di quanto ho detto, c’è che non sarebbe forse più possibile chiamare “industriale” la nuova società, e quasi non la si potrebbe chiamare neanche “capitalista”, ma di questa situazione in pochissimi provano oggi a dare spiegazione.

Mentre però nel capitalismo prebellico i partiti socialisti hanno rappresentato la sinistra del movimento operaio e rispetto a loro i sindacati organizzati stavano a destra dei movimenti del tutto spontanei della classe operaia, oggi la situazione è completamente rovesciata, e forse facendo interamente astrazione dai corrotti sindacati americani, è possibile dire che i sindacati sotto molti aspetti stanno a sinistra dei partiti operai (per esempio in Inghilterra e in Germania Occidentale).

Soltanto per la Germania richiamo l’attenzione su un fatto molto chiaro che la tattica manipolatrice del partito tedesco (il partito socialdemocratico) ha cercato di mettere fine non soltanto alla rivolta degli studenti, ma anche alla resistenza del sindacato.

Se si ripensa alla tediosa situazione della condizione dei bisogni umani, allora si sa che il vero contrasto era tra sindacato e partito. Ciò significa che in una considerevole parte della classe operaia, ciò che Lenin vide chiaramente in quel momento, la spontanea resistenza nei confronti del capitalismo c’è ancora, come hanno mostrato molto chiaramente ad esempio gli ultimi avvenimenti francesi.

Però noi comunisti non ci siamo mossi fino al fondo in questi fenomeni, e con ciò non siamo andati agli estremi di ciò in cui consiste il vero asservimento e lo sfruttamento della classe operaia nel capitalismo di oggi; dunque non siamo capaci di dare un vero programma alla resistenza, che indubbiamente ancora c’è straordinariamente ed è molto profonda.

Soltanto per farne un accenno. Da una parte, non è vero che in tutti i paesi la classe operaia viva nel totale benessere. Ovunque ci sono strati arretrati della classe operaia, entro i quali i lavoratori sono però molto impoveriti.

In secondo luogo c’è qui per esempio il problema del soddisfacimento dei bisogni. Parlo di nuovo degli Stati Uniti. Il primo grado di soddisfacimento dei bisogni, se ci si riferisce alla crema da barba, al dentifricio o a simili articoli di lusso, è raggiunto; ma tutti sanno che in America fatti talmente elementari della vita operaia, come la questione della casa, sono fondamentalmente tuttora sommamente trascurati.

Nuovamente senza che io sia un economista e senza essere capace di analizzare dappertutto queste questioni, da questo fatto fondamentale si deduce che sempre si tratta del capitalismo e che persiste anche per l’avvenire la contrapposizione capitalismo/classe operaia, per cui dappertutto c’è un vero nodo di conseguenze pratiche, le quali però si possono scoprire soltanto a tempo debito, se si realizza seriamente l’analisi economica dell’intera epoca.

Però desidererei soltanto aggiungere che non diminuisce l’essenza della questione: secondo la mia convinzione in questa nuova fase gli aspetti ideologici avranno un ruolo più grande che nei tempi passati del capitalismo. Vorrei motivare ciò con un argomento. Se nel secolo passato i lavoratori avviarono l’azione per la diminuzione del tempo di lavoro, allora iniziarono un’azione puramente economica, ma quell’azione, nello stesso tempo, era diretta al superamento dell’alienazione umana, che il tempo di lavoro troppo allungato provoca in tutti lavoratori, e di cui troviamo molti riferimenti nelle opere di Marx.

Questi due motivi apparentemente si sono distaccati e differenziati l’uno dall’altro. Adesso, però, la questione è come un lavoratore vive una vita umanamente degna tra le imposizioni dell’attuale divisione del lavoro, del tempo libero ecc., dove già non si tratta di allungare di due ore il tempo libero settimanale, piuttosto si tratta di cosa fa il lavoratore in questo tempo, sottomettendosi o no alla manipolazione capitalistica e cercando i motivi adeguati per lo sviluppo umano proletario.

Fehér – Qui, e anche altrove, ha menzionato e ha attribuito grande significato alla manipolazione. Quanto pesa la manipolazione, come sistema generale nelle relazioni capitalistiche?

Lukács – Secondo la mia convinzione la necessità della manipolazione sorge dal fatto che le abitudini di consumo e i servizi hanno cambiato il carattere capitalistico della società. L’ho capito per il fatto che fin quando un cantiere navale continua a costruire le navi, chiaramente, le relazioni con le imprese navali e le relazioni economiche sono possibilmente semplici, anche considerando la concorrenza. Se invece si producono e si vendono crema da barba, profumi, mutande ecc. nella maniera della grande industria, allora si realizza una scissione profonda rispetto al passato.

Per la crema da barba prodotta in milioni di esemplari, per esempio, sono possibili solo singoli compratori, e rispetto a questo nasce un’effettiva lotta, che denota uno stadio completamente nuovo. Si deve manipolare il singolo compratore in una qualche forma. Credo che sia chiara la differenza. Se esistono due grandi cantieri navali, allora entrambi inviteranno i tecnici delle imprese navali per spiegare i vantaggi della propria fabbricazione ecc. Se io voglio che la mia crema da barba sia venduta in dieci milioni di esemplari, allora è necessaria una gigantesca campagna pubblicitaria, dove però non è sufficiente sostenere che la mia crema da barba è migliore delle altre, perché in essa ci sono tali eccezionali sostanze e che ci sono soltanto nella mia. La questione è semplicissima. Faccio un annuncio pubblicitario, nel quale un uomo si rade con la mia crema da barba, e una donna lo abbraccia al collo, a destra e a sinistra, perché stordita da quel profumo, diffuso dalla crema da barba. Dunque devo introdurre un motivo sexy che manipoli i compratori, affinché comprino la mia crema da barba. Dalla letteratura fino all’arte ciò è diffuso nel mondo intero, e la politica, o l’arte, ricevono dalla tecnica di vendita del capitalismo questo metodo, e la situazione dell’attuale produzione è che, su questa base, i grandi trust capitalisti manipoleranno, facendosi strada, il gusto degli uomini e ogni genere di attività, dall’impiego alla vita sessuale. Questa manipolazione ha un fondamento economico.

Fehér – Se pure si passa al lato politico, più in particolare alla democrazia manipolata, espressione da Lei usata più volte: come questo si riferisce e come si è riferita allo sviluppo nella democrazia borghese?

Lukács – Per quanto si riferisce al nuovo, credo che la democrazia si trasformi sempre di più in una pura democrazia formale. Questo sviluppo era visibile già da tempo nella lotta tra parlamenti e amministrazione, nella quale si è sempre profilata in sostanza la superiorità dell’amministrazione. Per questo adesso, la manipolazione è venuta ad essere centrale, in un certo senso, nei paesi capitalistici avanzati. Essendo gigantesche le spese della manipolazione, per esempio negli Stati Uniti, oggi già esistono soltanto due grandi partiti, perché un singolo uomo non può pagare da solo la campagna elettorale. In Inghilterra per esempio, il partito liberale vegeta soltanto, ed esistono effettivamente, ancora una volta, due soli partiti; e si consideri le intenzioni, che ci sono oggi nella Repubblica Federale Tedesca, e che anche De Gaulle rappresenta in Francia, e che si manifestano in modo tale che il parlamento, quindi un’istituzione democratica eletta da tutti, dalla quale tuttavia sono esclusi istituzionalmente interi movimenti di massa e gli stati d’animo delle masse, e nella quale per mezzo del capitalismo, la gestione politica, organizzata per la manipolazione, contamina l’intero paese qualunque sia l’aspetto specifico della manipolazione. I sistemi manipolatori hanno interamente riorganizzato per i propri scopi la cosiddetta democrazia parlamentare.

Nel migliore dei modi, nell’attuale Germania, è possibile giudicare dove, già fin dal principio, si escludono dalle elezioni tutte le formazioni che non riescono ad accaparrarsi il 5 per cento dei suffragi. Di conseguenza, può succedere che un mezzo milione di uomini rappresentativi di un certo punto di vista non sia rappresentato in parlamento. Questo, però, i tedeschi di oggi non lo considerano ancora una sufficiente manipolazione. Vogliono introdurre un sistema anglo-americano, in modo che in Germania ci sarebbe un così ristretto diritto elettorale, per cui i soli candidati eleggibili sarebbero i rappresentanti dei due partiti maggiori. In ciò consiste la libera scelta, l’elezione democratica.

Fehér – La lotta contro la democrazia manipolata propose la questione fondamentale e strategica del XX congresso, cioè la possibilità di una pacifica coesistenza dei due sistemi e la vittoria parlamentare del socialismo. Come vede queste due questioni fondamentali, in particolare il significato reale dell’ultima delle due?

Lukács – Appunto questa fu naturalmente la questione molto importante dal punto di vista di Togliatti. Il XX congresso, infatti, fece un passo avanti rispetto all’epoca stalinista. L’opinione di Stalin era che con i vari movimenti per la pace era possibile impedire la guerra, però lo scoppio della guerra imperialista fu una necessità inevitabile. Il XX congresso ha trovato una nuova soluzione, senza però che si sia fatta un’analisi dei più profondi motivi, secondo cui la guerra si sarebbe potuta necessariamente estinguere. Il motivo diretto, naturalmente, era il patto atomico, che conteneva, in qualche modo, il conflitto “impossibile” delle due potenze, Stati Uniti e Unione Sovietica – come d’altronde nella crisi cubana si era verificato e si verifica oggi in Vietnam.

Ma manca, dunque, nell’analisi, il fatto che questo, per il capitalismo, è un problema di pura tattica, nel quale sono conservate tutte le forme dell’imperialismo, per cui quando si tratta dell’Unione Sovietica ci si deve astenere dall’estrema acutizzazione delle contrapposizioni. Ma dobbiamo continuare a giudicare i tempi che stiamo sostanzialmente vivendo come un’epoca imperialistica, dove, contro la liberazione dei popoli coloniali, gli Stati Uniti hanno costruito un nuovo potente neo-colonialismo, e dove, di conseguenza, siamo di fronte a una serie ininterrotta di guerre locali, con la probabilità che, nonostante la deterrenza, scoppi la guerra atomica, di cui ci sono pericolosi sintomi.

Comunque il XX congresso ha prodotto un nuovo sistema di relazioni, che ha demolito le forme, esistenti dal 1945, della guerra fredda e ciò è molto importante dal punto di vista dell’umanità, per cui le relazioni tecnologiche, culturali, personali possono realizzarsi su campi giganteschi, favorendo nello spirito delle masse una certa forza antibellica. Ma dovremmo chiarire che il nuovo sviluppo non fa cessare la guerra stessa. L’Inghilterra fu costretta a rinunciare al colonialismo, ma adesso la colonizzazione americana sussiste egualmente, e la questione dell’intero Sudamerica, e pure la questione vietnamita, non sono nient’altro che due casi di un intero nodo di una lotta di liberazione anticoloniale. E comunque gli Stati Uniti hanno iniziato la guerra in Vietnam, con la crudeltà bestiale che vi hanno praticato, senza porsi problemi di coesistenza mondiale.

Il XX congresso ha indubbiamente visto il giusto aspetto di questa situazione nel suo sviluppo, ma la liberazione coloniale è a uno stadio paragonabile a quello del tempo di Lenin. E come allora siamo abbastanza impreparati. Al tempo di Lenin, dopo la Prima Guerra Mondiale, c’era una certa tensione nei confronti del potere imperialista. Lenin, nella sostanza delle sue parole, ha preso di mira le prime risoluzioni del Comintern, e, ad esempio, disse che in Cina ci sono certe contraddizioni, ma che non vi era nessuna idea da dove esse provenissero. Lenin disse apertamente e lealmente che era a favore della liberazione della Cina, come marxista, e come stratega, ma anche di non essere capace di dare alcun consiglio ai cinesi, affinché potessero prendere posizione nelle questioni concrete. Qui c’è una grande difficoltà del socialismo in relazione con l’intera questione coloniale.

È stato ereditato da Marx e da Lenin lo straordinario punto di vista teorico per cui il popolo oppressore di altri popoli non è possibile che sia libero, e quindi abbiamo ereditato di conseguenza il giusto atteggiamento sulla liberazione dei popoli coloniali. Ma non abbiamo ereditato l’analisi economica, dalla quale risultano i problemi concreti dei singoli paesi e di come le loro strade possano procedere in direzione positiva; su questo non c’è un nostro, sia pure vago, concetto marxista.

Questo è solo un lato della questione. L’altro è che evidentemente nell’intero mondo capitalistico civilizzato, non c’è un’acuta situazione rivoluzionaria. E non è possibile prendere acute posizioni rivoluzionarie con la violenza – come sanno molto bene Marx e Lenin.

Di conseguenza emerge il senso di una nuova strategia e di una nuova tattica. Per questo Togliatti, che era un grandissimo tattico, si esprime per una reale apertura della democrazia e del socialismo sulla via parlamentare. Ma – e qui il futuro è ancora incerto – non sappiamo dare contenuto economico a questo progresso. Credo che, sotto il profilo economico, non sia vero che il capitalismo sappia rappresentare ed esaudire tutti gli interessi della classe operaia; contro di ciò, ho detto prima, ma nel capitalismo la classe operaia come consumatrice è un fattore tanto significativo come mai lo è stato nella storia. Il compito dei marxisti sarebbe di attivare l’analisi del capitalismo attuale e vedere quali siano i problemi importanti e vitali oggi per la classe operaia, che dal punto di vista del profitto, non stanno in primo piano e che, per questo, il capitalismo non sa e non vuole affrontare.

L’approssimazione opportunista e non opportunista a questo sviluppo democratico consisterebbe in ciò: il partito della classe operaia sa cogliere queste questioni della vita della classe operaia, che dal punto di vista del consumo sono decisivamente di poco conto, per cui il capitalismo non sa e non vuole risolverle, perché non cadono nella direzione del grande profitto. Queste questioni stanno dentro, anche dentro spontaneamente, nelle impressioni del proletariato.

Tutto questo è mostrato chiaramente dai giganteschi scioperi scoppiati in Francia e che ancora non è possibile smobilitare, e contro i quali – e qui è la distorsione orribile – i partiti di sinistra vogliono, come partiti d’ordine, portare sulla strada della negoziazione. Se fossero veri partiti leninisti, conoscendo alla maniera leninista l’intera struttura del capitalismo francese, adesso proverebbero ad elevarsi dal livello della lotta sindacale al livello della lotta politica. Qui dentro c’è una particolarità, che questo problema è chiaramente un problema di tattica: come fare emergere il problema della rivoluzione o dell’evoluzione della lotta, cioè di come siamo capaci di trovare nel capitalismo attuale i problemi concreti della lotta di classe, nei quali si scontrano il capitalismo e il proletariato.

Fehér – Più da vicino la questione sarebbe adesso quella di unificare la forza dei partiti comunisti con la forza dei movimenti di massa, che ideologicamente sono molto confusi, seppure sorgano molto energicamente. Se guardo correttamente si tratta di diversi tipi di movimenti di massa: un certo movimento che richiede riforme sociali e religiose, i movimenti sindacali e della gioventù con in prima linea gli studenti universitari.

Lukács – Credo che i punti siano giusti; non rispettando l’ordine, in primo luogo prenderei la questione sindacale e porrei i problemi in relazione a questa. Lenin ha posto la questione così: nel sindacato può servire come arma la coscienza spontanea in formazione in quanto movimento, dal momento che esso non è più spontaneo. Si sa che, secondo Lenin, non è la coscienza sindacale, ma piuttosto la coscienza socialdemocratica – come lui allora la chiamava – che deve entrare dall’esterno nella classe operaia. Questo “dall’esterno” oggi manca e perciò i partiti comunisti non sono, talvolta, del tutto capaci, nel sindacato, di utilizzare, fino alla rivoluzione, la coscienza spontanea che rifiorisce.

Adesso passo all’altra questione: quella studentesca. Dovremmo ricordare che abbiamo considerato che nelle attuali lotte il ruolo dell’ideologia è più grande che nelle lotte del passato. Questo trova la sua espressione nella gioventù, ancora in forma totalmente spontanea, e dimostra che le categorie marxiste sono le categorie dell’essere economico e puramente intellettuali, appunto così la lotta di carattere puramente ideologico è possibile spontaneamente o non spontaneamente, come una effettiva lotta sindacale. Il contenuto intellettuale, la posizione degli intellettuali, come posizione sociale, non è garanzia che la faccenda superi la spontaneità. I movimenti sono in tutto il mondo, e qui si tratta di una rivolta spontanea, e noi possiamo dire che la parte più evoluta degli studenti non vuole essere presa per idiota: questa è la mia concezione; sente che l’educazione, che riceve nell’università, la fa diventare idiota, e non vuole esserlo, e contro di ciò, anche senza un programma e senza una strada, si ribella. Dietro a questo problema, – se sono libero di abbozzare molto brevemente –, vedo che c’è lo sviluppo delle scienze, che lo sviluppo del capitalismo e lo sconvolgimento della società che provoca si avvicinano sempre più l’uno all’altro. Per dare un grossolano esempio di ciò: 150 anni fa c’era uno scherzo di bambini che diceva che nel mondo materiale c’è un problema fisico o un problema chimico. Oggi è molto più difficile da dire. Possiamo rispondere piuttosto facilmente che la fisica intreccia molto meglio la chimica e la chimica intreccia molto meglio la fisica.

Parliamo di sociologia, demografia e di più di scienza – come è oggi di moda da noi – e se si dà un reale oggetto alla cosa, allora si chiarisce per la storia, l’economia, la sociologia, la demografia, la politologia c’è un unico comune oggetto. Naturalmente è possibile compiere, dentro un complesso, ricerche tecniche specifiche, ma quelle ricerche non valgono nulla, se l’uomo non guarda l’intero di una cosa.

Questo è lo sviluppo oggettivo. In questo sviluppo oggettivo, invece, lo scopo del capitalismo monopolistico è instaurare la più grande differenziazione, perché se pur esiste un concreto scopo tecnico – sia di un missile, o di una crema da barba, o di una minigonna, da questo punto di vista, è del tutto indifferente – allora si offre l’occasione di una speciale ricerca, che fornisce l’optimum tecnico.

Il capitalismo aspira a che gli uomini siano un team work, abituato alla specializzazione, e i tecnici specializzati quanto più perfetti, tanto meglio capiscono la propria tecnica, tanto meno sanno intervenire sulle vere questioni. E tanto meno sanno intervenire sulle vere questioni, tanto meglio sarà per la direzione capitalistica. Questa rottura, che c’è sviluppo scientifico e uso capitalistico della scienza, concepita pur spontaneisticamente, scatena quei movimenti studenteschi; e qui il riconoscimento marxista della cosa, l’analisi marxista dell’attuale situazione ideologica sarebbe di gigantesco aiuto per gli studenti.

Cesserebbe ciò che avviene adesso e cioè che dappertutto ci sono sostenitori dell’utopia.

Non ho risposto ancora alla questione religiosa, su cui noi abbiamo un’antica cattiva teoria. Fondamentalmente – ma Marx e Lenin non fecero questo – dall’illuminismo e da Feuerbach nasce quella tradizione, per la quale si vuole sostenere che le costruzioni teologiche non sono compatibili con gli effetti della storia e della scienza naturale. Ed è vero.

Ma qui non c’è la radice della religione. Il problema della religiosità è che la forma religiosa non si accontenta del generale ordinamento dell’ideologia sociale, piuttosto reagisce alla presa di posizione di tutti i singoli uomini in quanto singoli e alla vita personale. Essi commisurano il bene soltanto con il punto di vista della religione. Il diritto porta a una generale legislazione che deve liquidare i furti. L’uomo, che non ruba, non sfugge affatto al diritto, soltanto i ladri sfuggono al diritto. Quindi la religione mediante i preti cerca di dirigere la vita privata di tutti i singoli uomini. In conseguenza dello sviluppo attuale del capitalismo si aggiunge un gigantesco disorientamento negli uomini, perché secondo le prescrizioni religiose sarebbero incapaci di condurre a lungo la vita quotidiana.

Ancora una volta soltanto i comunisti possono superare questa inferiorità di principio perché non possono scindere le questioni. Secondo la mia opinione, infatti, la religione, anche quella “radicalmente” moderna, pone sempre un livello oltremondano, dove si situa la radice ultima delle azioni dell’uomo singolo, e questo è in netta alternativa alla concezione del mondo radicalmente mondana del marxismo. Non è possibile quindi trattare dell’accordo, dell’avvicinamento, tra le due concezioni in senso generale. Invece dal punto di vista sociale, in genere, a cominciare dal divorzio fino alle regolazione delle nascite, ad esempio, ma in centinaia di questioni della vita quotidiana, i partiti radicali – in prima linea i partiti comunisti – dovrebbero sostenere le aspirazioni di riforma interna della religione. E non vedo in ciò alcuna contraddizione.

Molto caratteristico è che Lenin, in saggi scritti sulla religione, mette in contrasto la religione con il marxismo e, nello stesso tempo – nella sua idea era soltanto una questione sindacale – ha protestato contro coloro che mescolavano qualsiasi questione sindacale con la religione; cioè, con quei provvedimenti religiosi che ferivano in misura grandissima gli interessi delle masse, e ha sostenuto che nella riforma di quei provvedimenti i partiti comunisti dovessero dare appoggio alla sinistra. E secondo me non c’è ragione – ed è una fatica del tutto priva di principi – per i comunisti italiani o francesi inventare compromessi di qualsiasi genere.

Fehér – Infine una domanda in rapporto a questo tema: molte volte lei sostiene che l’insufficienza interna dello sviluppo degli Stati socialisti si ripercuote gravemente sui movimenti di sinistra dei paesi capitalisti sviluppati. Come potrebbe rappresentare più concretamente questo problema?

Lukács – Credo che la simpatia della classe operaia verso il socialismo è in rapporto con il fatto che il socialismo rappresenti i profondissimi e spontanei interessi di questa classe. Ciò conduce anche gli intellettuali verso il socialismo, perché nel capitalismo si prova l’insensatezza della vita stessa, e nel socialismo, al contrario, si pensa di trovare una vita ragionevole. Dico ciò anche soggettivamente: fu questo che mi portò, e con me anche innumerevoli altri uomini, verso il comunismo. È possibile vederlo molto chiaramente nella letteratura del 1917-1919. Sarebbe possibile vederlo chiaramente anche negli anni Venti, quando in Unione Sovietica dominava la fame. A quel tempo presi parte a Vienna a numerose riunioni, nelle quali avviavamo la raccolta di alimenti per le regioni russe, e dopo le assemblee, però, senza eccezioni si era circondati da 20-30 intellettuali. Ponevano questioni su come potessero, con l’aiuto del socialismo, rendere sensata la loro propria vita; cioè negli anni Venti c’era lo stato d’animo, in una parte notevole degli intellettuali borghesi di curarsi della propria vita, mentre noi non ci curavamo della nostra, perché in Russia c’era la carestia.

In Russia – durante il tempo di Stalin – si manifestò in larghi circoli una dura manipolazione, associata al decadimento ideologico, generato dalla posizione presa sul piano tattico, che è penetrata anche dentro il partito con conseguenze per tutti, così che oggi una piccolissima parte degli intellettuali crede che, con l’aiuto di quella diffusa manipolazione che c’è nei paesi socialisti, si potrebbe creare una vita privilegiata per loro stessi. Per la nostra riforma interna, a causa dell’affermazione dello stalinismo, che in ogni modo dura ancora e a cui anche in Ungheria si tende, l’unico sottoprodotto importantissimo sarà che gli uomini comincino ad esigere qualcosa dal punto di vista intellettuale per la propria vita, e poi anche nella prassi e nella teoria degli Stati socialisti.

So che questo non è ancora avvenuto e che sarebbe spiacevole per molti se ci si esprimesse apertamente; fino al punto che, mentre hanno così a lungo inseguito l’ideologia, adesso non ne possono più di sostenere una situazione del genere; perché, purtroppo, so di troppe occasioni in cui, nei congressi nazionali, le attuali posizioni ufficiali e, in molti casi, anche gli effettivi rappresentanti di esse suscitano ilarità, piuttosto che essere considerati una guida.

Ho già prima sottolineato, e ho accennato ai motivi, che nell’attuale cambiamento ci sarà un ruolo più grande per gli elementi ideologici, rispetto al passato, e si può aggiungere, appunto, che i paesi capitalisti realizzano più radicalmente, che da noi, lo sbriciolamento e la specializzazione della scienza. Noi andiamo molto in là provando già a specializzare i tecnici, e, quindi, noi socialisti, invece di rappresentare la sintesi o le grandi questioni agli idioti specializzati, creiamo pure noi strati specializzati, a ruota del capitalismo, finché all’orizzonte non sorga la formazione, da parte dei capitalisti, di un ulteriore orizzonte di specialisti. E vengo a noi. Adesso, finalmente, anche il compagno Kádár ha detto giustamente agli scrittori che non si vuole realizzare una posizione di monopolio, piuttosto di egemonia, per il marxismo.

Ebbene con questo marxismo che abbiamo non conquisteranno mai l’egemonia, perché questo marxismo è la peggiore specie di manipolazione delle cose. Dovrebbe essere chiaro che dobbiamo tornare al vero marxismo, e con l’aiuto di questo rinnovamento, sarà realizzata, anche qui l’egemonia che potrà essere influente sui movimenti occidentali, che potrà servire ideologicamente come modello, perché – e di nuovo insisto – l’ideologia avrà un ruolo più grande di quanto lo ebbe nel XIX secolo.

Fehér – Passiamo a un altro grande complesso di questioni, di cui Togliatti si occupò appassionatamente per tutta la vita, potremmo dire che la sua morte, al momento attuale, è decisiva anche per noi – e per l’intero movimento operaio. Come è noto, oggi domina di gran lunga di più la scissione che l’unità. In cosa vede le più grandi cause storiche che costituiscono il dissolvimento dell’unità e l’affermazione di una grave scissione?

Lukács – Io credo che ci siano cause oggettive. Quando arrivò la fine della Prima Guerra Mondiale, allora – per lo meno nell’intera Europa Centrale – sorse il problema di una grande unità per condurre al socialismo le masse popolari radicalizzate a causa delle distruzioni belliche. C’era, dunque, un comune problema ed emerse la giustezza delle risoluzioni dei congressi della Prima Internazionale, che toccavano questi problemi generali.

Ebbene, ho accennato prima, che non si riconobbe però che, nella nuova relativa stabilizzazione, ci fossero nuovi problemi, che sostanzialmente e fondamentalmente comportavano la concreta possibilità della rivoluzione proletaria, presente nel 1917 e ancora nel 1919, ma estinta la quale, di conseguenza, si determinò una situazione, che allora non immaginammo neanche teoricamente.

Segnatamente divenne possibile che, nella stessa situazione, l’azione diretta dei proletariati di due paesi diversi avesse rispettivamente interessi contrari. Porto un solo grande esempio. Da parte mia come mossa politica ritengo abile il patto di Stalin con Hitler e Ribbentropp, perché, se non fosse avvenuto, Hitler avrebbe iniziato la guerra ad oriente e avrebbe attirato le simpatie di Inghilterra e Francia che lo avrebbero sostenuto materialmente. E si sarebbe venuta a creare una situazione estremamente pericolosa per il socialismo mondiale.

Stalin riuscì a scongiurare, con l’abile mossa e la sapienza tattica, la preparazione di un fronte unico, così Hitler scatenò, in un primo momento, la guerra verso l’occidente e con ciò creò le condizioni di una coalizione mondiale, che condusse alla caduta del nazismo.

Accenno a ciò, perché in Occidente è d’uso criticare Stalin per questo patto. Invece io sostengo che Stalin fece tatticamente un’abile mossa. Però Stalin, deducendo le conseguenza da ciò (e qui inizia l’errore, che io sempre denuncio, che dalle mosse tattiche si ricavino tratti teorici strategici), dichiarò che quella guerra era come la Prima Guerra Mondiale. Di conseguenza la parola d’ordine, come a suo tempo disse Liebknecht, divenne che il vero nemico è in casa propria. Ma questo semplicemente non era vero, perché indipendentemente dal patto Hitler-Stalin, il dovere di classe del proletariato francese e inglese, naturalmente, era quello di proteggere la patria contro l’invasione di Hitler.

Anche io per buona fortuna posso richiamare in generale uno scrittore non di opposizione. Nel primo volume de I comunisti di Aragon, si descrive molto bene che, quanto citato prima, impedì inauditamente le reazioni dei migliori comunisti. Così la diffidenza verso il comunismo sussiste ancora adesso e il popolo francese non considera i comunisti come radicali, piuttosto come un partito che è al servizio della politica estera russa. Qui si manifesta in maniera interamente obiettiva che nella stessa situazione, nella quale secondo il giudizio storico universale, Stalin e il partito francese erano contro Hitler, in fondo, potevano prendere una posizione tattica nella quale Stalin stringe un patto con Hitler e il Partito Comunista Francese combatte contro Hitler fino alla morte. Tali situazioni si ripeterono continuamente.

Accenno ad un altro esempio: quando scoppia la guerra indo-cinese, indubbiamente il Partito Comunista Indiano aveva di fronte un conflitto per lui vecchio, in cui o sosteneva la patria o aggrediva la patria del socialismo. Ciò significa che si deve guardare globalmente, che nella situazione attuale non può essere mantenuta l’ideologia del 1917 e l’unità della III Internazionale.

Adesso dunque la questione: esiste realmente l’unità?

Secondo me l’unità esiste, e Togliatti ne accenna molto correttamente con il contrasto universale della classe operaia nei confronti del capitalismo. Come dice Togliatti, non è possibile negare la centralità di tale contrasto, solo perché esiste la difficoltà che non è in questo momento abbastanza concreto. Per noi oggi, di fronte alla posizione del capitalismo attuale dovremmo sostenere una prospettiva di universale progresso e tale prospettiva dovrebbe legare tutti i partiti comunisti, e comunque agisce ed è dovunque il compito quotidiano. Da ciò dovrebbe derivare l’unità mondiale dei partiti comunisti.

Adesso dentro questa unità mondiale, nella posizione attuale – secondo la mia opinione – si possono adottare particolari strategie. Non è vero che – adesso non si parla di tattica – sia possibile che il partito italiano abbia la stessa strategia del partito indonesiano o brasiliano. Qui ancora una volta lo sviluppo economico dei rispettivi paesi è decisivo, perché dallo sviluppo economico provengono le prospettive economiche, politiche e ideologiche.

In conseguenza di ciò molto probabilmente c’è la possibilità, oggi, nel mondo, di quattro o cinque linee strategiche particolari dentro la prospettiva generale menzionata prima. Dentro la strategia generale non è possibile decidere se i problemi tattici del partito italiano siano gli stessi del partito francese o belga o inglese.

Ora però non mi sembra che si sia creata una teoria generale del movimento, seguendo la quale – come ho detto prima – si facciano anche soltanto grandi mosse comuni; non è ancora possibile costruire una dialettica, secondo la quale, nell’interesse di una comune prospettiva, tutti seguano fondamentalmente la strategia e la tattica conveniente a se stessi. In ciò non vedo nessun genere di contraddizione insanabile e in questo senso sarebbe possibile creare l’unità rivoluzionaria della classe operaia, in modo però che tutti i singoli partiti siano in condizioni di piena indipendenza tattica. Se non così oggi il problema dell’unità è falsamente sollevato. Da un canto i compagni russi desiderano che si riconosca la loro speciale tattica come obbligatoria per il mondo intero, d’altra parte i partiti reclamano un’indipendenza tattica completa, che nel partito italiano viene espressa nel policentrismo di derivazione togliattiana. Credo che, come si vede globalmente, ed è anche il mio punto di vista, non c’è nemmeno un accordo; io sostengo la possibilità di elaborare una piattaforma di unità, che è un problema teorico, in cui le grandi differenze sono anch’esse sempre problemi teorici.

Se sapessimo pervenire a un’analisi marxista del mondo attuale e da ciò sapessimo sviluppare una prospettiva socialista, allora sarebbe possibile che tutti quanti i partiti, o la gran parte di essi, potessero intendere e praticare l’unità. Non si può creare un accordo sulla questione tattica, per cui non si può, ad esempio, rendere obbligatorio a tutti i partiti comunisti di vedere uno stato socialista in Egitto. L’Egitto non è uno stato socialista. Agire così oggi è molto vantaggioso solo per la politica estera russa, che vuole che ci sia uno stato socialista egiziano. Ma regolare la tattica del partito italiano o volere regolare la tattica del partito jugoslavo è una cosa impossibile e non fattibile.

Di conseguenza credo che Togliatti riconobbe abilmente e acutamente nella concezione del policentrismo la parte pratico-tattica del problema, ma non riconobbe che la questione dell’unità del movimento è una grande questione teorica.

Fehér – Lei, invece del policentrismo, – accanto all’unità teorica del movimento mondiale – se si è liberi di dire così, accenna alla strategia continentale. È chiaro che, dietro a ciò, stanno i grandi problemi economici dei diversi continenti. Mi piacerebbe se qualche problema economico fondamentale di tal genere si sollevasse, problema che determina la politica generale dei partiti comunisti che lottano laggiù.

Lukács – È una faccenda molto difficile, perché io non sono un economista, né mi considero un esperto. Per entrare subito e liberamente nella questione. In generale Marx non considerava economicamente lo sviluppo mondiale come un unico sviluppo. È noto che la concezione marxiana del socialismo si fondava sul fatto che la dissoluzione del comunismo primitivo nel mondo mediterraneo ha creato la forma della polis della cultura schiavistica, la dissoluzione della cultura della polis il feudalesimo, il feudalesimo il capitalismo, e che dal capitalismo sarebbe sorto il socialismo. Da qui deriva una grande prospettiva di storia universale. Però Marx già ne Il capitale ha indicato, e anche in altri numerosi scritti ne ha parlato, dei cosiddetti rapporti asiatici di produzione. Questo in Ungheria è fortunatamente conosciuto, perché anche Tőkei[1] ha raccolto molto bene le affermazioni di Marx ed Engels relative a questo modo di produzione. L’essenza della questione è che dalla dissoluzione del comunismo primitivo in Europa, la singola formazione in sfacelo crea una formazione economica di ordine superiore sempre più in alto fino al socialismo, mentre i rapporti asiatici di produzione – Marx scrive di ciò molto bene ne II capitale – propriamente detti, ristabiliscono l’antico fondamento sulla base di tutte le crisi, cioè attivano solo uno statico progresso, a modo di un vicolo cieco. Marx ha studiato questi processi, quando i rapporti asiatici di produzione giunsero allo scontro con il capitalismo colonialistico. Ci sono articoli di Marx, molto interessanti sull’India, su questo rapporto. Entro il successivo progresso, il momento del confronto si riferisce anche ai problemi del socialismo.

Per un marxista è chiaro che questa struttura processuale indicata è una struttura europea. Dal “feudalesimo cinese” al socialismo, il colonialismo ha messo a confronto i rapporti asiatici di produzione con il capitalismo e viceversa, e da ciò ne è derivato qualcosa che né Marx, né Engels, né Lenin avevano analizzato teoricamente. Aggiungendo che ciò in quel periodo non era neanche necessario, ma che soltanto si trattava della fine del colonialismo, era chiaro che la parola d’ordine, la parola d’ordine ripresa da Marx, fosse solamente che un popolo che opprimeva un altro popolo non era libero.

Negli anni Venti, quindi, si affacciavano i problemi iniziali della Rivoluzione cinese, e qui sorgeva un significativo contrasto tra Trockij e Stalin sulla nuova situazione (dico fra parentesi che per una superiore indicazione la casa editrice Kossuth ha omesso la faccenda relativa a ciò dal libro di Tőkei). Vale a dire che la situazione ebbe una conseguenza. Trockij, fraintendendo, ha utilizzato le osservazioni di Marx sul sistema di produzione orientale. Partendo dal fatto che in Cina non c’era stato feudalesimo, quindi non c’erano sopravvivenze feudali, quindi non c’era la trasformazione della rivoluzione borghese in rivoluzione socialista, concludeva che in Cina era possibile una rivoluzione socialista diretta. In ciò Trockij non aveva ragione e Stalin aveva ragione allorché rivendicò una soluzione transitoria. Ma si risolse teoricamente che eravamo di fronte alle sopravvivenze del feudalesimo cinese e che si trattava di liquidarle. Di conseguenza Stalin, ancora una volta tatticamente e con mosse errate, ha inventato interamente una teoria falsa e contraria al marxismo, che solo attesta il ruolo tattico di se stesso. Sfortunatamente stiamo, quindi, al punto che adesso e da trent’anni, nei libri russi, in Cina domina un feudalesimo, che non esiste.

È possibile giudicare in modo marxista la rivoluzione cinese, se il nostro punto di partenza è un feudalesimo inesistente? E chiaro che ciò che diciamo sulla rivoluzione cinese diventa una vuota chiacchiera e che, se non si ritorna al punto di vista di Marx, non capiremo mai veramente i movimenti di sviluppo sorti dai rapporti asiatici di produzione. C’è qui davanti a noi un compito teorico enorme. Adesso non è il momento di dire se in Cina Mao abbia ragione o meno, perché per essere sinceri io, da parte mia, direi che, non conoscendo le circostanze economiche, non so dare una risposta adeguata. Per ciò sarebbe auspicabile il compito di un’analisi marxista per i marxisti cinesi, che conoscono meglio la formazione cinese e la storia della sua dissoluzione, e sanno dove i Mao si ingannano con una cattiva analisi di fronte a una buona disposizione.

Sarebbe questo il tentativo di una soluzione teorica del problema cinese.

Fehér – Se posso qui permettermi un’ipotesi teorica: non si può spiegare lo sconvolgimento interno cinese appunto con quelle tensioni tra città e campagna che sono molto più grandi nel modo asiatico di produzione, rispetto allo sviluppo europeo, e non posso con ciò spiegare il fallimento del primo tentativo rivoluzionario di produzione industriale, o per lo meno i suoi sconvolgimenti, che hanno condotto il partito cinese a una completa crisi interna?

Lukács – Mi dispiace che a questa domanda non sono capace di dare risposta. Molto probabilmente a causa del fatto che in tanti risultati finali Mao ha assunto in parte l’antica tradizione cinese, ha assunto in parte anche Marx e Lenin, laddove egli li ha compresi. Adesso che egli pervenga da una teoria scorretta a conclusioni scorrette, è facile da diagnosticare. Il problema più difficile sarebbe determinare il corso reale dello sviluppo cinese. Determinare quali speciali problemi sorgano, se si confrontano i rapporti asiatici di produzione con lo sviluppo moderno capitalista e socialista. In questo caso potrebbe sorgere una piattaforma per il partito comunista cinese. Ma metto in rilievo che il partito comunista cinese, e non solo la parte maoista, neanche quei cinesi ricettivi al partito russo, sostanzialmente non tocca le questioni fondamentali che sollecitano lo sviluppo mondiale.

Fehér – È interessante che lei soltanto qualche volta abbia toccato le questioni di quali componenti economiche, che in parte sussistono in America latina nel rapporto con l’eredità del sistema delle piantagioni e che in parte costituiscono problemi fondamentali del continente africano. Direbbe alcune parole su queste componenti?

Lukács – Qui si dovrebbe essere ancora più prudenti. Faccio sempre rilevare che sono un filosofo che si occupa di problemi economici, quindi senza alcuna pretesa di avere qui serie conoscenze.

Appunto Marx ha fatto abbastanza, sollevando i problemi dello sviluppo mediterraneo e come diligente lavoro ci ha lasciato in eredità la questione dei rapporti asiatici di produzione. Non ha analizzato lo sviluppo africano in rapporto con la politica di quell’epoca, e adesso io non credo che per l’Africa esista uno sviluppo unico. Vale a dire che l’Africa settentrionale mediante lo sviluppo medievale arabo, non identico allo sviluppo del feudalesimo europeo, ebbe un altro sviluppo rispetto a molte parti dell’Africa, dove – se posso esprimermi in modo paradossale – per esempio, la servitù della gleba sarebbe potuta essere oggettivamente un gigantesco progresso.

Ovviamente io non propongo di introdurre la servitù della gleba nell’Africa centrale, voglio soltanto indicare che sulla base di quei pochi fatti che io conosco, non si capisce, se non in parte, molto probabilmente per cause climatiche, perché si dovesse formare una struttura sociale così estremamente primitiva. E anche la colonizzazione entra in contrasto con il capitalismo. Generalmente considerando, nelle particolari conseguenze del confronto coloniale, in questi paesi (e ciò concerne anche il Nord-Africa, anche l’Algeria e la Tunisia) l’agricoltura si sviluppa in forme inauditamente primitive.

Nello stesso tempo si forma un’intellettualità che studia a Parigi o a Oxford e a cominciare dallo strutturalismo si appropria di tutte le tendenze europee moderne. Fa parte di questo problema questa gigantesca differenza che c’è tra il popolo e lo strato dirigente. Ciò esiste anche nello sviluppo europeo, ma c’era nondimeno una minore differenza tra un operaio lionese del 1789 e Robespierre, o qualcuno cresciuto a Parigi, che tra un cantante nero o un poeta surrealista, e gli africani che si nutrono della raccolta delle banane o un pastore, e laggiù il pastore già rappresenta un gigantesco progresso.

Sicché solo ora si giunge allo svelamento di queste differenze, e si tratta quindi di problemi interamente nuovi, dei quali il marxismo si deve interessare. Non è possibile, infatti, dire che ai tempi di Tisza[2], in Ungheria, la questione del diritto elettorale universale era una questione molto importante e anche adesso non sia una questione molto importante che in Nigeria si introduca il diritto elettorale universale.

Soltanto un paio di parole sull’America del Sud. Qui si tratta naturalmente di un sistema di gran lunga più sviluppato, e non c’è dubbio che si è avviato un movimento rivoluzionario pienamente borghese e anticolonialista, da Bolívar fino alla rivoluzione messicana. Ma qui si dovrebbe evidenziare una grande particolarità. Se si pensa che l’essere umano, che in Inghilterra con l’aiuto dell’accumulazione originaria ha sviluppato, con il sostegno dei grandi latifondi, il capitalismo e il proletariato, che in Francia con la fine del feudalesimo e mediante la divisione dei lotti ha sviluppato il capitalismo, che negli Stati Uniti, dove il territorio era libero e non c’era il feudalesimo, ha sviluppato una cultura del fattore e ha costruito il capitalismo, vediamo facilmente che l’inglese, il francese e lo statunitense esercitano specificatamente una profonda influenza sull’intera struttura sull’economia fondata sul capitalismo.

Nell’intera America del Sud, invece, la colonizzazione ha stabilito una monocultura e i marxisti non hanno ancora indagato assolutamente come, in tal condizione, l’effettiva liberazione dallo sfruttamento capitalista della monocultura agirà economicamente come strada che conduce mediante il libero contadino verso il socialismo. Non è qui possibile vedere, a prima vista, la questione medesima della rivoluzione classica in Europa, cioè lo smembramento del grande latifondo, la creazione dei lotti, che nel complesso caratterizza il 1793 e allo stesso modo il 1917, perché la grandissima parte della monocultura non è trasportabile altrove.

Qui ci sono inutili i dibattiti che trattano di Cuba. Finché non si esamina questa questione sul fondamento di un’economia seriamente marxista, non si può far nulla. Non posso agire su di essa, perché il mio intendimento si puntualizza solo in negativo, perché – ripeto –, non sono un economista, non mi occupo di queste questioni, non conosco una chiara soluzione da porre sul tavolo; ma ho il dovere di pronunciarmi e mi rendo conto che finché non abbiamo risolto questo compito per l’Asia, l’Africa e l’America del Sud, non sarà possibile parlare del comunismo come del vero elemento dirigente nel movimento di liberazione.

Fehér – Tocchiamo di nuovo un tema cosiddetto delicato, sul quale anche lei a più riprese ha portato il discorso, cioè il tema, ad esempio in merito al patto sovietico-tedesco, per cui tutti i partiti del movimento operaio non possono regolare immediatamente la loro politica in modo indipendente rispetto al punto di vista della politica estera sovietica. È anche indubbio che i nostri dirigenti hanno ribadito più volte che l’ostilità ai sovietici in nessuna circostanza poteva caratterizzare il movimento rivoluzionario. Ci sono due punti estremi: da una parte c’è l’ostilità dei dirigenti cinesi verso i sovietici, dall’altra, volta per volta, l’allineamento quasi servile dei singoli partiti alla presunta politica estera sovietica. In riferimento agli interessi reali, quale giusta via di mezzo, quale giusto tertium datur si possono trovare?

Lukács – Questo è un tema delicato e naturalmente di straordinario interesse. Abbiamo già parlato di ciò: in strettissima misura si rapporta con il fatto che la differenza è molto teorica, tra le prese di posizione e le singole mosse tattiche, concernenti il mondo, e si è abituati a rimescolarle insieme. Non si è liberi di mescolare le cose. Si deve sapere che l’esistenza dell’Unione Sovietica, la sussistenza dell’Unione Sovietica, il potenziamento dell’Unione Sovietica è oggi il fondamento per lo sviluppo del socialismo. Chi non sa ciò, non è socialista. Noi, fieri ungheresi possiamo saperlo, perché nel già nel 1919 si presentò una simile circostanza. Infatti, allora i socialdemocratici desideravano chiedere soccorso per i nostri soldati, e per questo Szamuely viaggiò in Unione Sovietica. Ma precedentemente ci fu un piccolo colloquio, al quale al massimo otto comunisti presero parte, dove abbiamo dato a Szamuely in partenza l’indicazione di comunicare a Lenin che la prima questione importante era l’annientamento di Kolčak e Denikin[3] e che solo se avesse fatto astrazione da ciò poteva darci aiuto, sennò ci saremmo affidati solo alle nostre forze.

Ho una mia profonda convinzione che nella mia concezione storico – mondiale di allora noi abbiamo deciso che molto più importante era sostenere la lotta dell’Unione Sovietica contro la controrivoluzione, piuttosto che offrire soccorso a noi. Credo che la sostanza della questione era compresa metodologicamente in modo corretto: c’è un’intera questione nodale nella quale il problema è l’esistenza o meno del socialismo in Unione Sovietica e ciò è al di sopra dell’interesse particolare di chiunque. Ma col tempo, l’Unione Sovietica si è trasformata in una grande potenza. Ciò non significa che non ci siano stratagemmi di ogni tipo nella politica interna e nella politica estera, che non si riferiscano alla questione del socialismo, e ciò non significa che non ci siano direttamente cose sbagliate, che compromettano l’esistenza originale dell’internazionalismo. Ma è possibile, ne ho parlato dell’esempio precedente, illustrare il contrario con un esempio di gran lunga più triviale? Sono abituato a conversare con molti uomini semplici. Tra gli uomini semplici è diffusa l’opinione che la nazionale di calcio ungherese non è libera di vincere contro l’Unione Sovietica. Già questo esempio è triviale fino al completo ridicolo, ma non è possibile dimenticare cosa ci sia dietro. Dietro c’è un dato storico – mondiale inerente al fatto che dobbiamo sostenere l’Unione Sovietica come il centro del socialismo, e questo significa ancora che, anche dal punto di vista dei nostri interessi socialisti, a misura della propria nazionalità, il sostegno all’Unione Sovietica è molto più importante dei nostri interessi. Se le due cose crollano, e crollano nella maggioranza dei casi, accade che il sostegno nostro non ha alcun peso negli interessi vitali dell’Unione Sovietica, e di conseguenza nasce la credenza, che rovina gli interessi del partito dentro e fuori, che il nostro partito non è il rappresentante degli interessi del popolo ungherese e che gli interessi ungheresi sono subordinati al sostegno dell’Unione Sovietica.

A proposito della politica estera dell’Unione Sovietica, qui pensiamo, per esempio, che la politica antiamericana di De Gaulle ha confuso estremamente, e ancora adesso disorienta, la lotta del popolo francese contro il gaullismo. L’Unione Sovietica impiega tale posizione tattica, e aggiungo, l’ha impiegata giustamente e correttamente. Ma nel momento in cui si tratta del popolo francese, non c’è dubbio che il suo grande interesse – e non parlo in generale del socialismo – è di abbattere la dittatura di De Gaulle, e tornare a una democrazia borghese, per cui il partito comunista francese non è libero di sfuggire alla finzione di risparmiare De Gaulle, perché conviene alla politica russa. Credo che in questo caso è possibile vedere chiaramente in cosa consista la dialettica della questione.

Da ciò ne consegue naturalmente una presa di posizione, estremamente nodale: come la politica estera dell’Unione Sovietica, e anche riguardo a questioni di politica interna, mette in questione il movimento nazionale. Quando il XX Congresso pose la questione nazionale, e in conseguenza di ciò, la critica dell’intero periodo stalinista, sarebbe stata necessaria la verità senza riguardi, come ha fatto, anche se molto diplomaticamente, Togliatti, nel quadro di una visione molto abile. Togliatti ha abilmente preteso di riguardare indietro alla posizione oggettiva dell’Unione Sovietica per capire la presa di posizione di Stalin. Sapeva che semplicemente con la critica del “culto della personalità” non saremmo arrivati a nulla. Con ciò però non ha esaminato la questione fondamentale, cioè che la guerra ha messo in pericolo l’esistenza stessa della Unione Sovietica, che la minaccia hitleriana ha messo fine alle condizioni sociali del socialismo, che Marx affidava alla distribuzione, cioè alla diffusione della popolazione tra i differenti settori produttivi, segnatamente tra industria e agricoltura: per l’Unione Sovietica tale compito sarebbe stato difficile o quasi impossibile da risolvere sul puro fondamento della democrazia proletaria del 1917.

Quindi, forse è esistito un problema oggettivo. Ma Stalin ha risolto il problema oggettivo con una brutale manipolazione e tutti i partiti devono criticare questa brutale manipolazione, senza riguardo, e che anche il partito russo vada avanti nella critica. Adesso la politica interna russa è tale che loro fanno ciò che vogliono, hanno ucciso Beria e hanno risparmiato qualcun altro. Contro di ciò si deve criticare il fondamento dell’intero sviluppo e, finora, non è stata criticata la sostanza dello stalinismo nel suo fondamento; come ho detto prima, la contraddizione rimane e il popolo non crede più al partito, né il mondo crede che si sia liquidato lo stalinismo, se questa critica fondamentale non si pratica. Penso per esempio che ancora oggi la stampa sovietica ti indica come agente straniero, se hai un’altra opinione sul marxismo rispetto alla burocrazia sovietica. Certo ora non ti manda in carcere per 20 anni in quanto agente straniero, ma questo fatto non cambia che nel marxismo è una cosa inammissibile essere tacciati come agenti stranieri solo per un’opinione contraria.

Anche la questione dell’antisemitismo è un’altra faccenda assolutamente nodale, dove il movimento – e in questo caso anche il movimento ungherese ha un interesse precipuo – desidera che si fissi risolutamente, senza alcun riguardo, quale sia la presa di posizione dell’Unione Sovietica.

Fehér – Qui si tocca una serie di tali questioni sulle quali dobbiamo ritornare immancabilmente. Adesso soltanto una domanda in rapporto all’unità del movimento. Anche lei ha menzionato, ironicamente, in un esempio, la “nomea” dell’Egitto come paese socialista.

Tali nomee e la loro creazione sono abbastanza all’ordine del giorno, sono segni di soggettivismo. Quali criteri oggettivi possiamo trovare per giudicare i caratteri dei movimenti anti-imperialistici che lottano con noi; su quali fondamenti possiamo giudicare se un movimento nella realtà è di carattere socialista o soltanto anti-imperialista o se possiamo solo parlare di movimenti nazionalisti?

Lukács – È possibile analizzare se un movimento sia socialista o meno dalle disposizioni sociali interne al movimento. Se io sono scettico nei riguardi del socialismo egiziano, allora sono scettico, perché conosco fin dove arrivano le circostanze sociali dell’Egitto, perché ritengo impossibile che in Egitto esista realmente un socialismo. Ciò non significa che l’Egitto non possa avere un carattere molto risolutamente anti-imperialista e non faccio obiezioni che l’Unione Sovietica sostenga l’Egitto e sostenga il movimento di unità araba, così come non faccio obiezioni che un buon giovane sia socialista e uno cattivo non lo sia. Insomma che accada, anche considerando tutti i punti di vista tattici, come ai tempi di Rákosi[4], che chi riceveva il premio Kossuth dovesse scrivere convenientemente su Rákosi, senza alcun riguardo a cosa presentava come scrittore, è totalmente sbagliato, e non è possibile proiettare tale modalità sulla politica nazionale o internazionale.

Fehér – Passiamo ad un serie di questioni, di cui anche Togliatti si è occupato: il socialismo ha una problematica interna, della quale lei ha cominciato a parlare. Cominciamo con la denominazione: con l’espressione “stalinismo”, che è attaccata da molti. Se guardiamo alla sostanza della faccenda, cosa lei vuole indicare dello stalinismo sotto quell’ismo”?

Lukács – Un’antica tradizione è nel movimento operaio. Vi erano molti esponenti eccellenti del movimento operaio da Proudhon a Rosa Luxemburg, che da certi punti di vista si erano rispettivamente occupati del socialismo e non si erano attardati in singole questioni, anche se le loro opinioni erano errate nel metodo. Forse è sufficiente che citi il nome di Lassalle. In Germania e, perfino, nell’intero movimento mondiale si parla di lassallismo – soprattutto a proposito della sopravvivenza dello Stato e di altre questioni – con ciò Lassalle aveva un metodo e un sistema e aveva soluzioni per la suddetta questione. Secondo la mia opinione, esiste appunto un metodo staliniano, il cui fondamento e il cui punto culminante è la subordinazione di ogni questione al punto di vista tattico. Stalin rovesciò ciò che Engels pose in modo corretto: che c’è una teoria e dalla teoria ne consegue una strategia e dalla strategia ne consegue una tattica. In Stalin il processo è rovesciato, e la tattica rovesciata, in quanto tale, crea una teoria. Vediamo che il XX Congresso ha confutato come teoria errata, quella per cui “le contraddizioni si acuiscono continuamente nella società socialista”. Ma sono convinto che Stalin non partì da quella teoria, solo che era necessaria per legittimare i grandi processi degli anni ’30; per questo la inventò.

Abbiamo già ricordato che Stalin, dal punto di vista puramente tattico, ha costruito una stima errata della Seconda Guerra Mondiale, a causa del patto con Hitler. Ciò ha percorso l’intero stalinismo, con la convinzione che la tattica rovesciata portava strumenti infallibili. Quindi nessuno correggeva se stesso e ogni volta sorgeva una nuova teoria, fino all’assurdo e al completo discredito del prestigio del partito. Pensiamo al seguente fatto: quando i grandi processi sono iniziati, Stalin disse che questi agivano contro chi non apparteneva al movimento operaio. Di conseguenza si dovette riscrivere la storia del 1905 e del 1917 senza Trotsky. Con che risultato? Aveva reso ridicola la stessa scienza.

Pensiamo all’Ungheria. A quel tempo, quando siamo tornati a casa nel 1945, Kun[5] era già stato condannato. Di conseguenza nella storia del partito ungherese, la dittatura ungherese era rappresentata senza Béla Kun e si doveva fare qualcosa a proposito, e così hanno messo Rákosi, durante la dittatura ungherese, nell’episodio centrale in difesa di Salgótarjan (tra parentesi dico: nelle memorie di Gyula Hevesi[6] si nega ancora la verità di quel fatto, ma se fosse così, allora altri 25 fatti d’arme di questo tipo sarebbero avvenuti nella dittatura ungherese). Ora Rákosi ha fallito; adesso finalmente sarebbe estinta l’ideologia centrale di Salgótarjan. Nelle storie del partito ho illustrato solo questa faccenda. Se le storie del partito considerano i meriti a partire dalla passata rivelazione della storia del partito, e non piuttosto dal presente, con ciò esse degradano il valore del nostro stesso movimento. Ho portato un esempio così a metà, la storia del partito, ma chi percorre la nostra intera storia, può vedere che le decisioni non sono la sicura espressione delle soluzioni del complesso dei fatti – talvolta sì, questo non lo metto in dubbio –, piuttosto intorno alle decisioni si forma sempre un’atmosfera, che vuole adeguatamente modificare la realtà stessa delle decisioni. Finché non possiamo estirpare ciò, fino a quel momento, non possiamo dare una visione corretta, dall’economia alla cultura, fino alla politica.

Altro esempio su una parte fondamentale dello stalinismo. Non dico che la polizia politica non debba mai avere potere politico, in nessun genere di socialismo. Nessuno si mette mai ad affermare che Lenin fosse un pacifista. Quando Gorkij rimproverò Lenin che il numero delle esecuzioni politiche nella guerra civile fosse troppo grande e non sempre giustificato, è noto che Lenin alzò le spalle e disse che nelle baruffe da bettola non è possibile stabilire quale numero di schiaffi sia necessario. Ma, anche, ed è più importante, quando finì la guerra civile, egli voleva cacciare Ordžonikidze[7] dal partito, perché nel Caucaso aveva perpetrato violenze.

Se esiste un comitato centrale infallibile, tanto che ogni opposizione contro il comitato centrale infallibile significa essere agenti stranieri, allora naturalmente tutti i mezzi per la distruzione di questi agenti sono legittimi e infatti furono impiegati ai tempi dei grandi processi, da noi al tempo di Rákosi e poi ai tempi di Novotný [8] in Cecoslovacchia e così via.

Si deve scrivere radicalmente la verità su questa faccenda. Ma in Ungheria non può accadere qualcosa di simile al processo Rajk, però io non ho mai taciuto (indipendentemente dalla simpatia o antipatia personale), che Zoltán Horváth[9] ha subito una detenzione ai domiciliari, perché in una riunione privata non si pronunciò lusinghevolmente su Kállai[10] – questo è uno scandalo stalinista. Dal superare questo scandalo la nostra vita pubblica è ancora lontana. Non diciamo che abbiamo fatto i conti con lo stalinismo, finché questa scandalo persiste in una qualche forma. Non diciamo che non c’è più lo stalinismo, quando esiste un cosiffatto sistema, influente sulla vita dell’intero paese e migliaia e migliaia di uomini agiscono a vantaggio di tale sistema.

Fehér – Davanti a certi giudizi abbiamo stravolto l’ordine naturale delle nostre questioni. Ma una volta che si sia sollevata questa questione, si deve parlare con generale obiettività sulla possibilità di organi repressivi e sulla sfera del diritto. Qui ci troviamo di fronte a due eccessi erronei. Il primo è quello che possiamo ascrivere al nome di Berija. Su questo serve parlare ulteriormente, perché il senso stesso del marxismo lo condanna. Ma c’è anche un altro eccesso, che sostiene che il Ministero degli Interni non debba intervenire negli affari interni. Questo non soltanto è erroneo, piuttosto è pericoloso, perché evidentemente la politica, che inizia con l’autoillusione, continua con il cinismo. Tra i due eccessi come si può rappresentare la sfera d’azione legale degli organi repressivi?

Lukács – Credo che si debba porre concretamente la questione: la situazione è rivoluzionaria o no? La situazione è completamente un’altra, se un movimento combatte una lotta per la vita o per la morte con il nemico. In questo caso naturalmente funzionano una legalità d’altro genere e organi repressivi d’altro genere rispetto a quando c’è la pace.

In mezzo a cose intelligentissime rientra anche quanto ho sentito da Krusciov, quando in una conversazione disse che il pessimo aspetto dei grandi processi era che fossero superflui, perché gli avversari erano già stati sconfitti politicamente. Aggiungo: dopo i grandi processi ci fu un ordine catastrofico di Stalin, per cui si doveva estirpare radicalmente il trotskismo. Ciò ha significato che se qualcuno aveva incontrato in una stazione balneare un condannato con una parentela trotskista e insieme a lui aveva bevuto una birra all’osteria, allora poteva accadere – conosco casi del genere – che gli veniva intentato un processo e veniva condannato a una detenzione ai domiciliari di dieci anni.

Comunque se esaminiamo non burocraticamente queste questioni, ma adeguatamente alla situazione politica concreta, allora appunto molto facilmente è possibile distinguere i particolari. Questa è una cosa.

L’altra. Queste questioni devono essere dirette da politici di grado altissimo, eccellentissimi e umanissimi. Quale era ai tempi di Lenin in Unione Sovietica, con Dzeržinskij[11], del quale Lenin stesso disse che aveva un senso estremo verso i fatti e la verità. Lo stesso, per mia propria esperienza, posso raccontare di Ottó Korvin[12] durante la dittatura ungherese, che, d’un canto, arrestò e giustiziò i socialdemocratici – e aggiungo che anche io fui favorevole – quando il Consiglio dei Commissari del Popolo non graziò appunto i dirigenti della congiura Stencil–Nikolényi. Dall’altro, quando un mio conoscente arrivò disperato da me, dicendo che suo fratello aveva avuto una discussione durante le elezioni, nella quale dichiarò che l’elezione fosse un puro inganno, e che la polizia lo aveva arrestato chiedendomi di sapere che avrebbe deciso per il fratello. Ho telefonato a Korvin e quando ho riferito il nome, egli mi disse ridendo: «guarda che io ho interrogato quest’uomo e lui è pazzo ed è già a casa».

Non dico che un Dzeržinskij e un Korvin siano uomini di grande levatura, ma che è possibile trovare in tutti i paesi centinaia e migliaia di tipi di uomini come Dzeržinskij e Korvin.

Insomma vedo, da un lato, nel giudizio sulla situazione e, dall’altro lato, nella scelta degli uomini un sistema completamente scorretto, dove può accadere ancora che uomini tradizionalmente integri si deformino, perché pretendono un tale ordine di cose che è al di sopra di loro. Va detto infatti che in ogni condizione dobbiamo lottare contro la controrivoluzione, ma sempre con le armi adatte ai tempi.

Attualmente il consolidamento e il potere del socialismo sono indubbiamente tali che non è neanche necessario rivolgersi a quei metodi, anche se in forma ridotta, che nella guerra civile erano certamente autorizzati (ma fino a un certo punto).

Fehér – Torniamo alla questione fondamentale, già affrontata da lei, del sistema stalinista di potere. I due decisivi punti di vista, la questione della distribuzione, o come la chiamava Preobraženskij[13], la questione dell’accumulazione originaria socialista e la minaccia esterna all’Unione Sovietica, che lei ha già menzionato. Accenni rapidamente quali conseguenze ne derivarono, quanto questo fosse necessario o meno per l’esistenza del sistema staliniano di potere?

Lukács – Il problema è tale che sarebbe molto difficile rispondere in dettaglio. È completamente certo che è esistita la necessità di considerare che una parte della popolazione agricola dovesse passare all’industria. Ho la convinzione che, come Lenin fece una diversione al tempo della Nep – ancora non per la costruzione del socialismo, ma per un generale avviamento della produzione –, come misura economica, eventualmente con sicuri vantaggi amministrativi, eventualmente con certe leggere pressioni, sarebbe stato possibile risolvere questo compito, senza una collettivizzazione che rasentasse la brutalità estrema.

Non credo che in questa questione si sarebbe dovuto andare oltre, fin dove è andato Stalin. Dato che anch’egli era costretto a fare concessioni all’opinione pubblica dopo le atrocità dei primi tempi, ricordo un certo articolo: “A chi il successo dà alla testa?”. Di contro c’era il fatto che la risposta interna era invariabilmente: «Continuare, andare più avanti!». Credo che Stalin non ha analizzato la situazione nel dovuto modo, non ha ponderato abbastanza assennatamente la faccenda ed è andato avanti con una certa esagerazione, per parafrasare come se l’esagerazione fosse un gentleman’s error, cioè “che gli uomini sostanzialmente sono ottimi compagni, soltanto che esagerano un po’”.

Lenin, quando parla della teoria, ad ogni passo, sottolinea che qualunque verità diventa assurdità e pazzia, se si esagera. Per la teoria gnoseologica di Lenin questo è il punto fondamentale. Ciò vale anche considerando questa politica, dove non è possibile iniziare dal fatto che dichiariamo un principio, per esempio quello che è necessaria una distribuzione di nuovo genere, e allora immancabilmente si deve condurre a termine tale politica con ogni strumento e in mezzo ad ogni circostanza, perché appunto c’è la tendenza ad associarvi tante situazioni. Ma allora la realtà stabilisce un limite a tale politica: dove e quanto è possibile condurre a termine tale processo. Credo che sia chiaro l’ordine del mio pensiero: in tali questioni c’è l’esagerazione, non l’eccezione. L’esagerazione è un delitto contro il marxismo, anche quando esageriamo giustamente una faccenda.

Fehér – Come arriva a questa categoria, la quale in parte si è vista chiaramente già anche in altri scritti e che poi ha spiegato dettagliatamente nell’ontologia: la rivoluzione russa non è di tipo “classico”?

Lukács – Lenin a proposito del tipo non classico della rivoluzione russa fu completamente chiaro. Per rivoluzione classica i marxisti hanno sempre inteso (soprattutto quelli che aspettavano la rivoluzione dall’Inghilterra) che quando il capitalismo ha esaurito largamente le proprie possibilità, avrebbe dato origine a una nuova formazione con diversi mezzi interni.

Una abbastanza buona illustrazione di ciò la porta Engels: l’esistenza di Atene. Alcuni considerano la polis ateniese come lo sviluppo classico, perché la polis ateniese è nata esclusivamente dalla dissoluzione del comunismo primitivo per fattori interni, non come a Sparta o altrove, dove ci fu immigrazione e sottomissione di ciascun popolo; cioè il possibile precedente storico si compone di una singola formazione, con effettivo passaggio a forme di transizione teoricamente “pure”, quindi più classiche. Da qui consegue che la nuova formazione non dovrebbe più occuparsi della distruzione della vecchia formazione, piuttosto concentrarsi sulla costruzione della nuova formazione.

Ebbene, ciò mancò nel ’17 in Unione Sovietica. Questo aspetto non era un mistero per Lenin, perché nel libro, dal titolo L’estremismo, subito dall’inizio – dove parla dello stato esemplare della rivoluzione russa – dice che solo ora la rivoluzione è una rivoluzione esemplare, cioè fin a quel momento, fino a quando in un paese capitalistico più sviluppato non sorgerà il socialismo, perché allora esso diverrà esemplare.

Ma la storia è piena di Stati potenti e importanti, i quali non seguirono gli esempi classici. Nessuno dirà nella storia greca che in essa il ruolo di Sparta è stato secondario. Nessuno dirà che il capitalismo tedesco, che in generale non seguì esempi classici, non fu un fattore importante nella politica europea. Non si tratta di questo, piuttosto che quando è possibile parlare di una nuova formazione, può essere che sia esemplare per altri. Nello sviluppo russo è importante, e qui Stalin falsificò la questione, che i russi abbatterono il capitalismo nell’anello più debole. Hanno fatto il socialismo e sempre tornerà a loro gloria che hanno sostenuto questo socialismo mediante interventi e guerre. Non è possibile sottovalutare il significato di ciò nella guerra mondiale. Ma è un errore, se da ciò traggo la conclusione che se un altro Stato vuole costruire il socialismo, allora deve seguire per forza il modello russo. Non parlo dell’assurdo che se in America vincesse la dittatura del proletariato, qualcuno si troverebbe ad unire i farmer nei kolchoz. Ho intenzionalmente portato questo esempio assurdo, ma anche in Ungheria o in Boemia non sarebbe possibile riprodurre l’esempio dell’esperienza dei kolchoz russi. Anche in Ungheria, anche in Boemia per la trasformazione dell’economia nazionale avremmo dovuto cercare le forme più adatte economicamente, perché per esempio l’agricoltura ungherese era a uno stadio più avanzato rispetto al quella russa del ’17.

Fehér – Adesso trattiamo dello smantellamento della centralizzazione stalinista nel processo storico. Quali fatti economici e sociali rimangono sullo sfondo? Da questo punto di vista qual è il significato generale delle riforme economiche che stanno iniziando?

Lukács – Credo che in questo si stia manifestando una forma della brutale manipolazione dello stalinismo, anche in certi fenomeni del capitalismo attuale. Penso che si stiano esagerando meccanicamente le possibilità di pianificazione, un fattore estremamente importante. Fanno certi calcoli matematici (eventualmente con strumenti cibernetici), e con ciò si ingegnano nel definire uno sviluppo ulteriore.

Lo sviluppo fino a un certo punto segue anche questa linea, dopo di che, per certe cause, non va più. Vedo un errore fondamentale nella questione della pianificazione, come vidi per la prima volta nella mia esperienza in Russia, che una centralizzazione incredibilmente seria viene a realizzarsi in singoli luoghi, mentre in casi inaspettati è esclusa completamente un’azione reale. Non sono affatto un economista, neanche un esperto militare, ma è molto interessante analizzare lo sviluppo militare da questo punto di vista. Aggiungo che Marx molto spesso si riferiva al fatto che i lineamenti caratteristici di una nuova formazione si mostrano prima nell’ambito militare che nella vita civile. Senza dubbio rispetto al feudalesimo l’esercito disciplinato, il fuoco di fila, la sfilata a ranghi uniti, ecc. giocò un ruolo estremamente importante. Nella monarchia assoluta, quindi, nacque da ciò un esercito così talmente ordinato, che la rivoluzione francese nel confronto con eserciti non organizzati fallì in tutti i singoli casi.

Non voglio – né potrei – tratteggiare dettagliatamente il lungo sviluppo di ciò, ma da quegli sviluppi d’ordine superiore, che sono arrivati fino alla seconda guerra mondiale, tra la strategia e la singola tattica è nata non la norma, piuttosto la relazione del compito.

Quando si hanno eserciti di 15-20 milioni di soldati in movimento, era impossibile – anche sotto Stalin – stabilire negli uffici moscoviti, dove i comandanti di battaglione ponessero, nella foresta vicino Kiev, le loro armi automatiche. Fu possibile dire al comando dell’esercito quale fosse il suo compito, il comando assegnò questo compito fino ai corpi d’armata e infine arrivò fino ai tenenti o ai sergenti, che sull’orlo della foresta dovevano agire secondo la propria migliore considerazione.

Si devono porre certamente punti di vista generali di una pianificazione, e quanto più avanti va la faccenda, tanto più grande è la libertà di movimento che deve entrare nel merito dei rispettivi progetti.

Penso forse che la pianificazione punta certamente a scopi strategici, ma che le istanze intermedie, l’impresa, le parti dell’impresa ecc. nella realizzazione dei compiti dati, debbano avere la libertà di movimento più grande; non sono favorevole all’anarchia, piuttosto comprendo che nel piano si devono fissare i compiti certi, ma il modo di realizzazione di quei compiti ha economicamente molte variabili, come era prima nell’esempio militare.

Ciò significa che non è vero (quantunque grande ruolo giochi la scienza e per quanto cresciuto sia il ruolo degli ingegneri nell’azienda) che l’operaio sia un esecutore semplicemente meccanico di quelle norme che sono state date dalla centrale. So appunto – e questo lo sanno tutti che non è mai una faccenda dell’azienda – che non c’è un grandioso modello, una macchina perfetta, ma che durante il funzionamento un operaio esperto può essere in grado di eliminare questo o quell’errore con piccoli cambiamenti, o apportare un cambiamento più decisivo per cui sarebbe possibile fare meglio. Alludo alla dialettica del compito, del modo di terminare il compito; nel momento dell’esecuzione finale c’è anche la competenza dei singoli operai da considerare. È questo ciò che manca nella nostra pianificazione. Un mio conoscente, molto intelligente, ha detto che i nostri indici del piano sono talmente validi che, senza nessuna competenza, sarebbe possibile guidare un’azienda. Io sostengo la questione della semplice decentralizzazione come una cosa vuota, se attraverso la decentralizzazione nasce un sistema nettamente burocratico.

Soltanto se introduciamo la struttura “compito e soluzione” – interamente dall’alto in basso –, soltanto allora possiamo raggiungere la buona produzione. Combinando, perché questo si combina, con la democrazia dell’azienda, gli operai hanno il diritto attivo e pratico di ingerenza nella realizzazione del piano.

Qui mi sia possibile dire liberamente la mia opinione privata, che ho discusso con i dirigenti per anni moltissime volte. Non c’è un pericolo per la democrazia popolare, se ci sono alcuni movimenti controrivoluzionari, che vogliano abbattere il potere. Il male è che esiste una profonda indifferenza nei lavoratori onesti, ereditata dai russi a causa di concezioni sbagliate della pianificazione. Dicono che «ci fanno osservazioni, poi ci crea dispiacere», e non avviene nulla. Dobbiamo ottenere che interamente, fino all’ultimo lavoratore, si tenga conto delle loro osservazioni, quelle osservazioni che hanno discusso veramente, e che si trasportino correttamente nella pratica. Allora si praticherà la vera instaurazione della democrazia, al più basso grado della decisione.

Secondo la mia opinione, dal punto di vista della democratizzazione attuale, non è determinante la decisione su grandi questioni, piuttosto in merito a questioni quotidiane! Sono convinto di ciò: non c’è molto interesse che la politica estera ungherese sostenga l’Egitto contro Israele, al contrario sarebbe estremamente interessante capire ciò che avviene sul tram, nei mercati coperti, nei consigli, nelle aziende ecc. Cioè ciò che è in strettissima relazione con la vita quotidiana degli uomini.

Se a questo livello sorge la democrazia, si estende lentamente verso l’alto, e lentamente verso l’alto farà valere la propria influenza, purché sopra ci siano coloro che vogliano assumere questo punto di vista. Secondo la mia opinione, questo è il punto controverso per il nostro sviluppo economico e politico.

Fehér – C’è, però, anche una opposizione al principio della democrazia aziendale, fino a ritenerla impossibile, poiché il lavoratore alla fine non sa vedere i compiti tecnologici ed economici delle aziende. Qual è la sua opinione al riguardo?

Lukács – Secondo la mia opinione, dietro l’intero tecnocratismo si mostra una moderna feticizzazione, in massima parte, appoggiata dai tecnocrati, che è semplicemente falsa. È di grande interesse che nell’attuale letteratura scientifica cresca sempre di più numero degli effettivi esperti, che vivono il confronto con le concezioni del tecnocratico con il più grande scetticismo.

Ho letto un saggio del sociologo americano di nome Whyte[14], nel quale si occupa di un punto essenziale che, secondo lui, compromette estremamente lo sviluppo scientifico americano, ponendosi come modello tecnocratico il team work. Naturalmente questo è solo un lato della medaglia. L’altro è leggibile in un libro interessante dello scienziato ungherese che vive all’estero, Selye[15], apparso adesso in ungherese. Partendo dalla propria esperienza dice che se con tutti i suoi strumenti esaminasse un topo, allora vedrebbe di più di quanto vede esaminando le parti singole, scomponendolo. Io cito adesso Selye, ma non so giudicare la questione concreta, però sono convinto che sul tecnocratismo – qui non parlo contro la tecnica moderna – si sviluppi una concezione del mondo falsa centrata su un grandioso feticismo per cui è possibile guardare prima perfettamente uno sviluppo particolare e poi un intero complesso.

Qualche anno fa ho parlato su questa questione con il sociologo ungherese Szalai[16]. Per esempio Szalai era del punto di vista che non fosse necessario per la medicina delle malattie interne un esame oggettivo, perché si può fare un esame più accurato per tutti con una macchina cibernetica. Questo naturalmente non è vero, questa è la fantasia di un vano tecnocrate. Al contrario dico che per il vero marxismo è nostra necessità guardare nell’essere umano nella sua totalità e la forza produttiva e la tecnica soltanto in considerazione dello sviluppo dell’integrazione, del perfezionamento della forza umana complessiva, così liquidando, in teoria e in pratica, questa feticismo della tecnicizzazione.

Fehér – Gli esempi convincenti, di cui lei ha parlato, si riferiscono al lavoro dell’intellettuale e del ricercatore scientifico. C’è qualche parallelo con la vita dei lavoratori? Si può immaginare che appunto il lavoratore medio possa comprendere il processo tecnologico?

Lukács – Dietro tutto ciò naturalmente c’è anche una questione filosofica, ontologica, e sarebbe opportuno parlare del mio stesso fondamento filosofico. Ho fatto l’esperienza di analizzare l’azione umana e, non esiste un’azione umana, di cui prima del suo svolgimento si possa calcolare tutte le circostanze e le conseguenze. Dunque si può anche immaginare una macchina qualunque e pensare anche di perfezionarla tecnologicamente, e trasferire questo nella prassi, ma sono profondamente convinto che insieme a ciò incessantemente emergeranno dei problemi particolari non fondamentali, che gli uomini comprendono meglio, occupandosene tutti i giorni.

Qui non so analizzare come uno specialista, ma ho letto la letteratura a riguardo, e penso che tra il ricercatore biologico e la pratica medica c’è un po’ un pericolo simile a quello che passa tra la produzione di macchine e l’azienda. Vedete in Germania il processo “Contergan”[17], dove qualcuno “competente” in chimica ha fatto esperimenti e ha detto che era uno strumento eccellente, ma in realtà quegli esperimenti erano indirizzati esclusivamente a creare un’illusione, e quindi non sono citati i danni agli esseri viventi.

Fehér – Il problema della democrazia aziendale solleva il problema generale della democratizzazione. La questione fondamentale qui è che nel processo di democratizzazione evidentemente il partito riveste un ruolo dirigente; come è possibile immaginare la vita democratica del partito stesso, tra la democrazia di partito e le nuove circostanze?

Lukács – Credo che nella Comune di Parigi e nella Rivoluzione russa, nei consigli operai realmente eletti, si sia trovata una forma geniale della democrazia diretta. Sfortunatamente, in Unione Sovietica è cessata lentamente, e si è instaurata al suo posto una democrazia esclusivamente parlamentare. Accanto agli attuali rapporti parlamentari non c’è un significato essenziale della democrazia che emerga in parlamento. Sono affezionato, per questo, alla concezione che ci si deve dirigere “sotto” la democrazia, perché sotto ci sono gli esseri umani, in un reale rapporto diretto con le cose che li interessano davvero: nella stessa officina naturalmente tutti sanno giudicare chi è un buon operaio e chi no.

Con ciò sostanzialmente mi piacerebbe arrivare, se fosse possibile, così ad esprimere, lo stato d’animo pubblico, il pubblico. Queste indistruttibili cose avvengono sempre. Questo non può apparire per decreto economico, per il quale la mattina del giorno dopo ci sarebbe una tale o talaltra reazione d’animo generale nel mercato o sul tram.

Dobbiamo cercare qualche modo di organizzazione la società per cui lo stato d’animo generale possa diventare una componente della vita pubblica e che ciò sia possibile trovarlo mediante la democratizzazione degli organi inferiori.

Oggi questo stato d’animo generale non è considerato, perché non ha a disposizione nessun genere di potere. Se in un’azienda si tratta di far funzionare una nuova macchina, allora non si può decidere senza la considerazione del lavoratore che dirà cosa è svantaggioso per lui.

Se creiamo istituzioni affinché lo stato d’animo generale esistente in realtà ottenga voce, allora ci saranno conseguenze pratiche sulle opinioni di quella maggioranza, allora l’opinione pubblica accoglierà anche l’irresponsabilità attuale. Qui sarebbe necessario una grandiosa, reale, educazione per la democrazia. Due anni fa, in un’intervista a L’Unità, spiegai che sarebbe necessario che gli organi centrali del partito si associassero agli strati inferiori, più bassi, della società, per la democratizzazione, contro coloro che vogliono impedire la democratizzazione per abitudine, per difesa delle proprie posizioni di potere, per pregiudizio.

Fehér – Se sosteniamo questa formula, parliamo di coloro che stanno al centro, dei dirigenti più bassi e più alti della democrazia che si va delineando. Questo è l’apparato. Come è possibile arrivarci, e di nuovo la questione della democrazia di partito, se al centro c’è la burocrazia, che piuttosto svolge la funzione di cui è competente?

Lukács – Abbiamo una grande esperienza nella storia: pensiamo a quando scoppiò la Rivoluzione francese e fu attaccata dagli eserciti degli Asburgo e degli Hohenzollern. Allora il livello medio – in questo caso in conseguenza del tradimento – fu considerato fallito. Accaddero catastrofi straordinarie. Ma le catastrofi avvennero perché l’onore e la buona fede degli ufficiali non erano adattate alla nuova strategia e alla nuova tattica. La Rivoluzione francese e Napoleone, nel tempo, realizzarono una gigantesca rieducazione e uno scambio di fiducia. Ma se non si realizza la trasformazione, allora non vengono percepiti come necessari né la rieducazione né in parte lo scambio.

Mi si permetta di citare di nuovo Lenin, che dopo l’introduzione della Nep, in un discorso, disse che il più grande eroe della guerra civile deve lasciare il posto, se non sa e non vuole adattarsi alle nuove condizioni. Non è ammissibile il punto di vista per cui ci si debba adattare alla burocrazia, piuttosto è vero e auspicabile il contrario. Aggiungo: credo che la burocrazia è piena di uomini di talento, che pregano nel segreto che sia possibile estinguere questo cattivo sistema; ed è naturalmente piena di uomini privi di talento e cattivi, incapaci di adattarsi ai compiti nuovi. Non vedo assolutamente il perché, se al tempo di Cromwell era possibile sostituire i generali, oggi non sarebbe possibile sostituire i capi contabili?

Fehér – La rieducazione è sicuramente una singola parte di questo compito. Ma vorrei vedere più sostanzialmente il problema generale della democrazia di partito. Accennerebbe con qualche lineamento a quelle condizioni fondamentali che, secondo lei, sarebbero necessarie per lo sviluppo democratico della vita di partito?

Lukács – Qui di nuovo parto dal fatto che un’organizzazione di partito è possibile che sia viva, se essa stessa si occupa della sua vita interna con competenza, perché allora quei dirigenti parlano come esperti della questione, e in tal maniera è possibile porre le questioni della democrazia. Ciò non accade se le organizzazioni del partito si occupano esclusivamente di questioni generali esterne. Ricordo le riunioni di partito in Unione Sovietica, quando nella cellula dell’Istituto di Filosofia si discutevano le questioni del consolidamento capitalistico. Naturalmente cinque interventi davano il loro parere e la maggioranza unanimemente votava le proposte deliberative. In questa questione, quindi, si deve ritornare al sistema sovietico, dove c’è un rapporto con la vita vissuta. Gli uomini espongono le loro esperienze in circostanze concrete, e si potrebbe venire a creare qualcosa, una certa iniziativa, appunto mediante la discussione effettiva di quei problemi, di cui è piena la vita quotidiana. Soltanto che non si parla dei fatti quotidiani dei lavoratori, perché si considerano già quasi determinati da un destino. Invece dovrebbe nascere una tale democrazia, nella quale realmente prende parte lo strato sociale dei lavoratori, e nella quale può avere un ruolo dirigente il partito che rappresenta l’interesse generale.

Fehér – Mi permetta un’obiezione. In realtà, questo problema, che lei ha sollevato, è una parte importante della vita vissuta e reale delle organizzazioni del partito, ma soltanto una parte. Il fondamentale problema della democrazia del partito è, che nel momento in cui nasce la politica del partito, in quale misura i membri del partito controllano questa intera politica. Giorni fa è emerso un’interessante proposta, per cui in certe questioni l’organizzazione centrale del partito presenti proposte alternative davanti ai membri del partito. Ritiene sufficiente questo per il dispiegamento della democrazia di partito, o sono necessari altre modalità e procedimenti?

Lukács – Non ritengo ciò negativamente, soltanto che qui di nuovo si deve considerare che nessuno sa assumere un atteggiamento competente in tutte le questioni, se non è preparato. Sostengo che la sostanza della democratizzazione è la possibilità dell’alternativa, dove però è possibile assumere una posizione ponderata e corroborata dalla esperienza, come per il problema anzidetto del compito della produzione. Come disse Lenin: «In questo caso anche la cuoca sa governare lo Stato». Naturalmente di contro c’è un’intera serie di questioni di partito, delle quali non tutti sanno dare un parere. Ma anche qui si può fare di più, se cadessero le barriere professionali, che oggi esistono per esempio tra la tecnica e l’azienda, tra la cultura e le grandi masse, e si lasciasse che gli uomini manifestino il proprio punto di vista in queste questioni, anche se fossero punti di vista scorretti. È di gran lunga meglio che un punto di vista pur scorretto giunga all’organizzazione del partito, piuttosto che se ne parli solo scendendo le scale.

Fehér – Ma in sostanza ha sollevato, tuttavia, la questione della libertà di parola. La libertà di parola dentro il partito: c’è naturalmente il diritto formale, sempre con la preoccupazione inerente alla propria frazione. Come si potrebbe distinguere lo scambio democratico di opinioni dentro il partito e l’esistenza delle frazioni, che si considera poi incompatibile oggettivamente in ogni partito?

Lukács – Credo che la frazione sia ancora pericolosa per un partito, se diventa una frazione organizzata. Ma se ci sono opinioni comuni tra cinque o dieci dirigenti sull’attrezzatura aziendale o su una questione teorica, ed eventualmente se ne parla in casa, al caffè o in un club, o anche durante una riunione di partito – ahi, mio dio! –, non vedo alcun pericolo in questo caso. Non è possibile permettere la frazione organizzata, ma è possibile creare una vita democratica così che tutti abbiano una propria, indipendente, opinione perché su ciascuna questione ci sono tre o quattro possibili tagli, e naturalmente gli uomini cercheranno l’un l’altro opinioni analoghe e coopereranno. Non vedo alcun pericolo in ciò.

Ai tempi di Stalin c’era il pericolo collaterale che la direzione del partito volesse polverizzare i membri del partito, comprendendo nel frattempo che ad ogni membro del partito non era permesso formalmente di avere un’opinione personale, ma all’istante sorgeva il sospetto di frazionismo, se più persone avevano un’opinione comune.

La mia esperienza è che, naturalmente in primo luogo per quanto concerne la letteratura e la scienza, è impossibile lo sviluppo senza l’evoluzione delle tendenze diverse. E dobbiamo sostenere piuttosto lo sviluppo di queste tendenze. Infatti quanto più l’opinione pubblica – della quale ho parlato prima – si cristallizza su certi gruppi di prese di posizione, più facile è il chiarimento.

Il solo criterio è che la disciplina di frazione va interdetta, cioè che dentro una tendenza non è permesso fare pressione su nessuno. E c’è sempre un modo per fare pressione, per esempio nel modo di fare di un direttore di istituto o di un redattore c’è l’esercizio di una certa pressione. Se c’è una simile pressione, si deve agire contro di questa.

Forse se spontaneamente, in qualunque questione, dalla manutenzione della macchina fino alla questione più scientifica possibile, si formano tendenze, ciò può avere soltanto un effetto positivo.

Questo fatto, a mio parere, è così evidente in tutti i contesti, risultando semplicemente ovvio che per un problema nuovamente sollevato non c’è soltanto una soluzione e non ci sono soluzioni infinite. Dunque la formazione di tendenze risulta evidente dal problema stesso.

Se ci spaventiamo nel ricordo dello stalinismo riguardo alle tendenze differenti, allora non sapremo mai mettere in atto conseguentemente la democrazia e il diritto.

Fehér – Se sosteniamo il problema delle tendenze, parliamo chiaramente della questione ideologica, sulla questione delle tendenze interne al marxismo. Ritenendo il principio dell’oggettività della verità, come possiamo spiegare la legittimità delle tendenze sopravvenienti e in concorrenza all’interno del marxismo?

Lukács – Non dimentichiamo che Marx ha definito che l’ideologia crea certi conflitti nei rapporti dialettici tra forze produttive e rapporti di produzione, e l’ideologia serve quando pratichiamo questi conflitti. Non c’è la filosofia, non c’è la scienza, con qualche valore, se non per il fatto che nasce in qualche conflitto dove combatte ideologicamente.

Da quando l’imperialismo è nato, naturalmente anche nel movimento operaio sono sorte le tendenze più differenti, tra le quali c’erano tendenze generali che si allontanavano dal marxismo. Con molte poche eccezioni, sarebbe possibile citare Rosa Luxemburg, Lenin e altri, che sostenevano con stima la vera tradizione marxista e mostravano una condotta rispetto al fatto che affrontavano nuovi problemi, che non erano compresi e non lo potevano essere nelle posizioni storiche di Marx, perché Marx è morto nel 1883, e nel 1883 non era ancora nato economicamente l’imperialismo. Dovunque ci furono errori, ma è un gigantesco merito di Hilferding, di Luxemburg, di Lenin, che con gli strumenti del marxismo si siano potuti comprendere le forze e i nuovi fenomeni.

Nel rinascimento del marxismo vedo una dualità. Da un lato, si deve riconoscere che fino a quando un altro studioso simile o di maggiore importanza non si presenta sulla scena, Marx ha svolto l’analisi dei fenomeni scientifici nel modo migliore. D’altro canto, con l’aiuto di questo metodo si deve rivedere ciò che è accaduto dopo la morte di Marx, per esempio, nell’economia. Mi riferisco al fatto assolutamente nuovo, ad esempio, dell’ingresso dell’industria dei consumi e dei servizi nell’economia. Il rinascimento del marxismo, in tal senso, consiste nel fatto di utilizzare il suo metodo e di non credere nella stupidaggine manipolatrice dei borghesi. All’inizio del mio saggio dal titolo “Che cos’è il marxismo ortodosso?”, ho scritto: «ammesso – e non concesso – che le indagini più recenti abbiano provato senza alcun dubbio l’erroneità materiale di certe asserzioni di Marx nel loro complesso, ciò nonostante il metodo marxista rimane valido e si deve seguire il metodo marxista»[18]. Ho aggiunto l’interpolazione “ammesso e non concesso”, perché lo sviluppo ha confutato molto poco di ciò che Marx ha detto e di ciò che Marx aveva visto sostanzialmente prima. Nella nostra conversazione precedente mi sono riferito al fatto che appunto Marx ha visto la transizione dal plusvalore assoluto al plusvalore relativo, benché al suo tempo fosse soltanto in germe. Dunque chi è disposto a studiare Marx veramente, può elaborare il metodo che con il suo aiuto può dare una spiegazione marxista ai fenomeni economici attuali, non esistenti a quel tempo e non conosciuti da Marx.

Di questa dualità consiste il metodo marxiano. Da un lato, il metodo ci serve contro l’irrigidimento, che avvenne all’epoca di Stalin, per il quale sono sorte tali assurde cose per cui, per esempio, si è semplicemente cancellato il sistema di produzione orientale dalla teoria marxista. Dall’altro, ci dobbiamo preoccupare di riaffermare il metodo contro quelli che, riconoscendo in Occidente una discrepanza, hanno fatto cadere in disuso di fatti il marxismo stesso – proponendo un nuovo metodo. Secondo la mia profonda convinzione, è possibile affrontare i nuovi problemi oggi esistenti e risolverli con un metodo marxista ben definito.

Lo sviluppo delle attuali circostanze ha mostrato non soltanto il crollo dello stalinismo in Unione Sovietica, benché, secondo me, non sia ancora terminato il processo, con grandi possibilità di sviluppo, ma dall’altro lato si può vedere che a causa della guerra in Vietnam, della questione razziale e di tante altre questioni che hanno terribili effetti in questa ideologia manipolatrice neopositivista che domina in Occidente, ci sono dappertutto nel mondo, in Italia, in Francia, ma anche in Germania, in Inghilterra e in America, masse gli uomini che ricercano il metodo marxista.

Adesso, tutti noi siamo nello stadio della ricerca. Sono soggettivamente convinto – e non avrei dedicato metà della vita, se non ne fossi stato convinto –, che la mia sia la maniera valida con la quale ricercare il rinnovamento metodologico del marxismo; vale a dire che si deve partire dalla particolarità dell’essere sociale, e si deve analizzare questa particolarità come proprietà e relazioni dell’essere. Mi rendo conto che questo è il mio punto di vista e posso ingannarmi, ma credo di essere nel giusto.

Tuttavia l’essenza della cosa oggi è che l’interesse è avviato verso il marxismo, che si sviluppano su di esso grandi dibattiti di dimensioni internazionali e da che questi dibattiti rinascerà il marxismo. Ciò non è nuovo nel movimento operaio. Anche l’apparizione di Lenin rappresentò una certa rivoluzione nella storia del marxismo, perché ha portato di nuovo in primo piano una serie di punti di vista dimenticati, o non posti, correttamente o scorrettamente, al centro della teoria.

Non dico che Lenin avesse ragione in tutte le questioni. Non aveva, ad esempio, ragione, quando credeva che l’ostacolo al capitalismo monopolistico era la questione delle forze produttive, di cui scrive nel libro su L’imperialismo … Questo suo presagio non si è dimostrato valido. Contro di ciò, se guardiamo al marxismo, se come esempio portiamo lo sviluppo tedesco – allora non ero convinto di ciò – nella critica al Programma di Erfurt di Engels, scritta nel 1890, ci sono dentro, per così dire, i problemi cruciali complessivi delle riforme democratiche della Germania attuale; solo che si devono cercare districando le questioni. Innanzitutto per tornare a Marx, la condizione – risulta triviale, ma si deve dichiarare – è di leggere tutto Marx: non quei riassunti che hanno messo insieme i compagni russi, perché sono manipolatori. Dall’intero Marx il metodo filtra e si deve verificare con la realtà attuale e nella realtà attuale poter rintracciare veramente le tendenze dominanti. Questo molto sicuramente ad un uomo solo non riuscirà, perché non vive oggi un tale genio come Marx. Riuscirà, però, a 20, 30 o 50 uomini che verranno fuori con l’aiuto dei dibattiti in corso.

Il compito del partito sarebbe di utilizzare il libero spiegamento di queste tendenze, di questi dibattiti, per poi captarne l’ideologia dal punto di vista politico.

Fehér – Forse lei in sostanza capterà le tendenze come possibilità di soluzioni concernenti alternative di epoche sempre rinascenti, che come ho detto – sono numerose, ma non infinite. Come regolare d’ora in poi il rapporto generale del partito al marxismo come scienza dello sviluppo?

Lukács – Ho la convinzione che qui siamo di fronte a un problema completamente nuovo. Stalin voleva fare in modo che il segretario del partito fosse il custode e lo sviluppatore ulteriore del marxismo. Questo è stato un completo fallimento dappertutto e ora, nel caso di Novotný, speriamo di essere davanti al superamento di un ultimo fallimento del genere. Secondo me, si tratta di un problema interamente nuovo, perché emerge che la direzione scientifica delle società contemporanee è una cosa molto più complicata rispetto al passato. Uomini come Napoleone o Bismarck, potevano sbrigarsela personalmente con alcuni consulenti. Anche se ciò non assicurava contro i fallimenti, appunto anche nel caso di Napoleone e Bismarck.

Nella società borghese contemporanea è emerso negli ultimi tempi il problema del cosiddetto brain trust. Cos’è il brain trust? Non soltanto i politici, ma anche i dirigenti delle grandi imprese, sanno che gli specialisti non sono capaci di vedere veramente e validamente i problemi nella loro complessità. Se ripensiamo ai casi migliori che conosciamo della società borghese, ad esempio Roosevelt, in misura minore Kennedy, vediamo che attorno a essi si organizzano gruppi di analisi e lavoro, che non dovevano essere debitori alla burocrazia, che non si ponevano principalmente i problemi dello sviluppo ulteriore dell’amministrazione, e che non rappresentavano gli interessi di qualche ramo dell’amministrazione, ma che avevano piuttosto le proprie opinioni indipendenti e che da queste si ingegnavano a proporre le linee generali da seguire.

Non penso che per noi introdurremo un brain trust centrale. Sono convinto che nascerà la democrazia socialista, dove in ogni impresa, gli operai più intelligenti, per i problemi concreti, formeranno un brain trust. Lo sviluppo della democrazia deve andare in questa direzione.

Naturalmente ciò non si rapporta direttamente alle questioni decisive della teoria marxista. Qui la direzione del partito deve organizzare un rapporto dello stesso genere tra scienziati, pubblicisti e, in certi casi, anche artisti, che rappresentano la teoria sociale.

Se Marx vivesse oggi e fosse segretario del partito, avrebbe chiesto l’opinione di Balzac in numerose questioni economiche. Menziono ciò soltanto come esempio estremo. Qui non si tratta della selezione burocratica, piuttosto di organizzare l’ideologia in modo che generi visioni migliori e più pratiche, quando entra in contatto con la direzione politica, e che la direzione politica sappia utilizzare queste cose. Sono indotto come uomo di teoria a riconoscere queste necessità. Si deve dare a queste necessità una forma bene organizzata, e il partito deve realizzarla successivamente con la propria pratica, e sono convinto che, in differenti stadi di differenti partiti si debbano trovare questa e altre forme. Non so se una forma fissa di statuto si svilupperà, ed è impossibile sapere come procederemo, ma se la direzione politica del partito non si affretta a sostenere questo legame con la teoria, si resterà fermi.

Fehér – La rinascita del marxismo, come pensiero rivoluzionario, non è mai nelle questioni reputate accademiche, ma piuttosto, come si è detto prima, è una questione fondamentale dal punto di vista delle tendenze della moderna società, della società socialista. In che modo la rinascita del marxismo è in rapporto con le riforme economiche appena avviate e con la democratizzazione iniziata? C’è un rapporto tra di queste, e potrebbero accadere delle deformazioni, se non si andasse fino in fondo con la rinascita del marxismo?

Lukács – Direi che questa è l’ultima risposta, che non c’è assicurazione che non possano sorgere deformazioni.

Nella società, partendo dal lavoro, l’azione di tutti gli uomini ha un tale carattere che è messa in moto da uno scopo preciso che si cerca di realizzare. Non è più possibile un unico scopo, quando è messo in moto un certo processo causale. Non si pensi ora a ciò come una grande cosa filosofica: se porto una pistola nelle mie mani e premo il grilletto, allora metto in moto un processo causale, vale a dire che parte il proiettile. La cosa essenziale è che eventualmente buoni scopi, o cattivi scopi siano posti, al cento per cento non è sicuro, anche nel più semplice dei casi, che il processo causale corrisponda a quello scopo che ho posto ed è ancora meno sicuro che il mio scopo fosse giusto.

Dunque nel caso della società, dove la totalità dei processi causali è messa in moto da milioni di scopi di milioni e milioni di uomini, naturalmente non posso dire di nessuna disposizione di alcun genere, che sia una disposizione infallibile, che risolverà questa questione in eterno; piuttosto devo guardare alle cose con gli occhi dell’essere umano e là intervenire con processi attenti, dove vedo che accade qualche cosa di sbagliato.

Si prenda per esempio l’escalation, citata e fallita in Vietnam, dove senza una considerazione reale del nemico, hanno sviluppato una strategia, nello stesso momento in cui il nemico passava all’attacco, quando invece, secondo l’escalation, doveva già essere stato distrutto. Contro di ciò, non fu un comunista, piuttosto, come si è detto, fu Napoleone, a cogliere la sostanza della strategia: «On s’engage et puis on voit» (attacchiamo, combattiamo e poi vediamo). È noto che questo era uno dei motti preferiti di Lenin. Nascerebbero, per esempio, dei processi sociali nei quali noi ci “impegniamo”, secondo i nostri migliori esperti. Ma i nostri migliori esperti non possono riferire infallibilmente i fatti e qui arriva il «et puis on voit» (e poi vediamo) di Napoleone e Lenin.

Il talento politico, la capacità politica consiste in ciò che la visione mostra sia precocemente e sia nitidamente. È chiaro che non è possibile sopperire a ciò, e qui ci viene in aiuto il metodo per mezzo di Marx; ma, in genere non è mai sicuro che tutti i membri del politburo in funzione dispongano della visione di Lenin. Per l’effettivo lavoro collettivo, per l’effettiva organizzazione del partito vanno selezionati gli uomini migliori e gli uomini migliori saranno diligenti nel correggere in tempo gli errori. Insomma liberamente di nuovo cito Lenin che ne L’estremismo, malattia infantile del comunismo disse che non esiste quell’uomo che non commette errori. L’uomo intelligente è quello che relativamente non commette molti grandi errori, ma che rapidamente li corregge. È possibile che questa saggezza viva nel campo della teoria e nel campo della politica, ma solo se le due si muovono insieme non meccanicamente.


[1] Ferenc Tőkei (1930-2000), allievo di Lukács, filosofo e sinologo, autore del libro Il modo di produzione asiatico.

[2] István Tisza (1861-1918), politico ungherese, Presidente del Consiglio dal 1903 al 1905 e dal 1913 al 1917, considerato responsabile dell’entrata in guerra dell’Impero asburgico, fu assassinato il 31 ottobre 1918 dai rivoltosi.

[3] Due generali russi dell’Armata bianca anti-bolscevica durante la Guerra civile russa.

[4] Mátyás Rákosi (1892-1971), politico ungherese, dal 1945 al 1956 segretario del Partito Comunista Ungherese e del Partito dei Lavoratori Ungherese.

[5] Béla Kun (1886-1938), fondatore del Partito Comunista Ungherese, capo della Repubblica dei Consigli nel 1919, segretario del Partito Comunista Ungherese fino alla sua sparizione durante le purghe staliniane.

[6] Gyula Hevesi era un dirigente del partito comunista ungherese che partecipò alla Rivoluzione dei Consigli del 1919 e al governo relativo con la carica di Commissario alla Produzione Economica. Salgótarjan è una regione ungherese al confine con la Slovacchia, una delle prime ad essere attaccate dalle truppe controrivoluzionarie di Miklós Horthy.

[7] Ordžonikidze, membro del partito bolscevico, partecipò alla Rivoluzione d’Ottobre e alla seguente guerra civile, fu anche membro del Comitato Centrale del partito e Commissario del popolo all’industria pesante. Scomparve durante le purghe staliniste.

[8] Antonín Novotný (1904-1975), segretario del Partito Comunista Cecoslovacco dal 1952 al 1968.

[9] Zoltán Horváth, giornalista, critico d’arte e storico, collaborò nel 1947 alla riunificazione dei partiti operai nel Partito comunista ungherese e nel 1949 fu arrestato, fu liberato soltanto nell’estate del 1956.

[10] Gyula Kállai, politico comunista e ministro degli esteri tra il 1949 e il 1951.

[11] Feliks Ėdmundovič Dzeržinskij, (1877-1926), rivoluzionario sovietico e fondatore della CEKA, la polizia politica.

[12] Ottó Korvin (1894-1919), capo dei socialisti rivoluzionari, tra i fondatori del Partito comunista ungherese, giustiziato dopo la Rivoluzione dei Consigli.

[13] Evgenij Alekseevič Preobraženskij (1886-1937), economista e sociologo sovietico, vittima delle purghe staliniane.

[14] Whyte William Hollingsworth, The organization men, New York, 1956.

[15] Selye János, Életünk és a stressz (La nostra vita e lo stress), Budapest, 1964.

[16] Sándor Szalai (1912-1983), sociologo ungherese.

[17] Il Contergan fu un medicinale contenente il farmaco talidomide, commercializzato negli anni Cinquanta e Sessanta come sedativo, antinausea e ipnotico, ma che causava gravissime deformazioni agli arti dei bambini nati da donne che ne avessero fatto uso. Venduto in più di cinquanta paesi, nel 1961 ne fu vietata la commercializzazione.

[18] La citazione che Lukács, probabilmente fatta a memoria, è leggermente diversa dal testo del saggio, soprattutto a partire da “ma ciò nonostante”.

 

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