Conversazioni con Lukács

di István Eörsi

«Lettera Internazionale», n. 6, 1985


Quando dopo dieci anni trascorsi fuori del Partito, gli venne restituita la tessera, il celebre filosofo marxista György Lukács avvertì il bisogno di trovare una spiegazione che giustificasse il cambiamento di situazione. Era stato comunque ministro della Cultura durante la rivolta del 1956, e non aveva mai ufficialmente rinnegato la sua solidarietà verso i comunisti che erano stati suoi compagni di prigionia in Romania e di cui alcuni, malgrado avessero ricevuto promesse credibili, non erano sopravvissuti a lungo – l’autore di queste pagine preferisce esprimersi per eufemismi – a questa deportazione. Lukács stesso era ritornato – è vero – a Budapest nel 1957, ma egli costituiva oramai il «pericolo ideologico numero 1»;

quindi i suoi scritti non potevano essere pubblicati in Ungheria, anche all’estero era impossibile. Ma la preparazione della riforma economica creava una situazione nuova: continuare a considerare György Lukács come il virus ideologico che appestava l’intero paese sembrava incompatibile con il processo di destalinizzazione. A questo si aggiungeva il desiderio dei circoli dirigenti di riconciliarsi con Lukács prima che morisse, e questo per evitare che si riproponesse l’increscioso episodio del grande poeta comunista Attila Jószef, espulso dal Partito all’inizio degli anni ’30, e con il quale era stato necessario riconciliarsi dopo la sua morte, il che aveva richiesto l’alterazione di alcuni dati storici. «Ha sentito che sono di nuovo membro del Partito?», mi domandò Lukács, con quel suo sguardo penetrante, che gli era familiare nelle situazioni di questo genere. Accennai di sì, e lui si mise a spiegarmi le ragioni della sua decisione. In primo luogo, la riforma economica rendeva possibile un riavvicinamento, anche se il progetto che il Partito riteneva radicale era per lui – per Lukács – solo un primo assaggio della trasformazione socialista. Del resto, in quanto marxista, Lukács sapeva molto bene che qualsiasi modifica delle strutture economiche avrebbe avuto ripercussioni politiche, diversamente da quanto proponeva il Partito, che voleva limitare il cambiamento al solo campo economico. Ma tutto questo avrebbe reso possibile un dialogo. Secondo motivo: l’interesse per i suoi allievi. Per ciò che lo riguardava, la filosofia bastava a sovvenire ai suoi bisogni. Ma i suoi discepoli, e proprio a causa della sua situazione personale, erano condannati al silenzio e a dedicarsi a lavori di sussistenza che ostacolavano la loro vera realizzazione. Gli era stato promesso che se avesse aderito di nuovo al Partito, i suoi allievi avrebbero avuto la possibilità di pubblicare e anche quella di trovare impieghi nelle istituzioni scientifiche. E della terza ragione, Lukács andava molto orgoglioso: gli era stato assicurato che avrebbe potuto conservare e all’occorrenza esprimere le sue opinioni ideologiche personali: ciò gli offriva delle prospettive inusitate, una nuova sfera di influenza. In queste condizioni, lui poteva essere membro del Partito senza fare concessioni, senza compromettere la sua vocazione di ideologo. Era chiaro sia a lui che a me che queste tre ragioni, per quanto importanti, facevano da sfondo a una quarta, vale a dire a una necessità profondamente umana. Al ritorno dalla Romania nel 1957, Lukács aveva inviato una lettera al Partito socialista operaio ungherese, dichiarando che continuava a considerarsi un suo membro. Non ricevette mai risposta. Anche in piena campagna anti-Lukács nessuno, evidentemente, aveva avuto il coraggio di firmare un rifiuto. «Gli sono rimasto di traverso, diceva Lukács, non potevano né ingoiarmi, né risputarmi». Più tardi, lesse in un dizionario che era stato espulso dal Partito. «Ecco la prima idea che non mi abbia rubato: propone di mettermi a riposo», disse dell’autore dell’articolo, Jozsef Szigeti, che era stato suo allievo. Un articolo di dizionario non è una dichiarazione ufficiale. Però, anche se ne parlava sempre sul tono scherzoso, ne era rimasto ferito. Appartenere al Partito per lui era una necessità vitale. «Right or wrong, my party». Con questo motto, imprevedibile per un filosofo, egli giustificava il fatto di non essersi opposto allo stalinismo, nemmeno nella sua coscienza, nemmeno all’epoca delle defenestrazioni. Questa giustificazione poggiava, naturalmente, su argomentazioni storiche. In un ’intervista rilasciata alla New Left Review e che apparve solo dopo la sua morte (numero di luglio-agosto 1971), Lukács ribadiva la sua antica convinzione: «Un’opposizione efficace al fascismo era possibile solo nell’ambito del movimento comunista. Questa era ed è la mia convinzione». Ma verso il 1970, il critico che sapeva apprezzare le opere di Thomas e di Heinrich Mann o di Attila József poteva restare fedele a questa convinzione solo a prezzo di un generoso oblio dei fatti storici. Evocava pure, a mo’ di argomentazione, l’obbligo morale di sospendere ogni critica dell’Urss al tempo del conflitto tra Hitler e Stalin. Ma se all’epoca era effettivamente un obbligo, che cosa gli impediva più tardi di sciogliere il suo silenzio? Perché, al suo ritorno in Ungheria dopo la guerra, aveva finto di ignorare, anche nell’ambiente ristretto dei dirigenti comunisti che non avevano mai conosciuto l’Urss, le terribili difficoltà materiali e intellettuali, la paura che imperava ovunque, i campi di lavoro che rimpiazzavano facilmente la funzione dei campi di sterminio? Perché fingeva di ignorare tutta la linea staliniana dell’evoluzione sovietica? A mio parere, questo desiderio di appartenenza, che funzionava come un bisogno religioso, si spiega con le origini e con la situazione intellettuale di Lukács. Figlio di un ricchissimo banchiere, dovette ben presto aprire gli occhi sui valori morali e intellettuali assunti dalla sua famiglia, e dovette concepire, fin dalla fanciullezza, il desiderio vivissimo di appartenere a una comunità che si fondasse su valori per lui apprezzabili. Il Partito, in quanto rappresentante di una coscienza di classe o meglio, dello spirito universale gli sembrava, in queste condizioni, capace di diventare il rappresentante dell’ideale transtorico della specie umana (Gattungsmassigkeit für sich) e di permettere all’individuo di partecipare di quest’ideale: in cambio era necessario soltanto sacrificare la sua personalità. D’altro canto, però, le opere scritte durante il periodo idealista opere che gli assicuravano una fama internazionale, come pure la sua vasta cultura e la finezza della sua intelligenza, erano di ostacolo all’integrazione di Lukács in un’organizzazione gerarchica, regolata da una rigida disciplina e modulata da obblighi precisi. Thomas Mann, com ’è noto, ha preso Lukács a modello per il personaggio di Naphta in La montagna incantata, ha visto chiaramente le brucianti contraddizioni, poco a poco irriducibili, di questo spirito e di quella situazione. Naphta è gesuita; detto altrimenti, è un ideologo militante di un organismo che vuole estendere il suo potere sul mondo intero; ma la sua intelligenza straordinaria gli impedisce di aderire fino infondo a un movimento cui, però, egli consacra tutte le sue energie; e l’organismo, benché tolleri la libertà di Naphta, lo considera con sospetto per via dell’audacia dei suoi ragionamenti che, spinti fino alle conseguenze estreme, sfiorano l’eresia. Lukács non era un gesuita e non ha mai accettato la necessità di un’opposizione tra lui, il teorico, e il movimento regolato dalle esigenze della tattica del momento e da una disciplina messa al servizio della tattica stessa. Da teorico, ha cercato di risolvere questo problema con una teoria, la «teoria del partigiano», che ha esposto nel modo più esplicito affrontando la poesia impegnata: «Il poeta del Partito non è né generale né soldato semplice, ma partigiano. In altre parole, se il suo impegno è profondo, egli fa sua la vocazione storica del Partito, sempre pronto a seguire le grandi direttrici strategiche indicate dal Partito; e al contempo ha l’obbligo di esprimersi in modo personale, impegnando la sua responsabilità individuale». L’eco commossa di queste frasi lascia indovinare che non è soltanto il poeta ad essere tirato in causa, ma anche il filosofo, György Lukács in persona. Altrove, egli si serve della stessa espressione parlando di sé: «Ero costretto a condurre una guerra da partigiano per difendere le mie idee di filosofo». Ma la teoria del partigiano non ha molto successo nei circoli dirigenti del Partito. Destinata ad essere accantonata, essa non ha fatto altro che aumentare la distanza tra il filosofo e il movimento, e nel 1949, dopo la presa del potere dei comunisti in Ungheria, si è trovata tacciata di tesi scandalosa al centro dei dibattiti miranti ad annientare la posizione e l’influsso ideologico di Lukács. A questi dibattiti Lukács ha reagito, come sempre in questi casi, con una autocritica in piena regola, che gli permise di salvarsi da un’espulsione la cui sola idea lo terrorizzava: quando i generali gli lanciavano occhiate minacciose, il partigiano si affrettava a nascondere l’arma dietro la schiena. Ai suoi occhi, né la sua opera, né la sua autorità morale e intellettuale avevano l’importanza che egli accordava a ciò che chiamava «fedeltà» ai suoi argomenti sulla poesia impegnata. Nella letteratura borghese, scrive, la fedeltà non è altro che un fenomeno patologico, quando non deriva da un sentimentalismo di bassa lega. «La disciplina del Partito corrisponde, al momento, a un grado più alto e a una forma più astratta di fedeltà; la fedeltà dell’uomo pubblico si fonda sulla sua adesione completa a un orientamento storico, e essa persiste anche se qualche problema della pratica quotidiana può provocare temporanei disaccordi». Ma quali sono le conseguenze, per questa fedeltà, di un cambiamento radicale e, peggio, di un rovesciamento nel loro opposto di alcune componenti essenziali dell’orientamento storico in questione? Se, ad esempio, il regime rivoluzionario dei consigli operai, regime a cui il filosofo si è dichiarato fedele, cede il passo alla dittatura della polizia e della burocrazia? Se la fedeltà si afferma inamovibile anche in queste condizioni, essa non è più che una fedeltà alle parole d’ordine, a un linguaggio rimasto immutato. E se il fedele è anche un filosofo di alto livello, un dotto di straordinaria forza di pensiero, egli è costretto a considerare la sua fedeltà nella prospettiva storica dell’umanità e a sopprimere l’opposizione tra questa prospettiva e quella della realtà, chiamando a soccorso la sua volontà, la sua fede, la sua convinzione religiosa. Il suo spirito critico troppo forte e acuto ha, tuttavia, impedito a Lukács di realizzare questo tour de force intellettuale, in modo tale da risultar gradito al potere. Nella vecchiaia, la storia gli ha presentato due volte, nel 1956 e nel 1968, il conto, ma lui ha sempre rifiutato di depositare il proprio bilancio. Solo una volta l’ho sentito pronunciare delle parole in questo senso: nell’autunno del 1968, dopo l’occupazione di Praga da parte delle truppe del Patto di Varsavia: «Sembra proprio che l’esperienza iniziata nel 1917 sia fallita; bisogna ricominciare tutto da zero, un’altra volta, in un altro posto». Ma a causa forse delle conseguenze gravissime che questa frase comportava, e che potevano mettere in questione cinquant’anni della sua vita i suoi ultimi cinquant’anni, Lukács non l’ha mai ripetuta, né l’ha mai messa per iscritto. In compenso, ed è per questo che è così difficile affrontare il tema della fedeltà in Lukács egli ha elaborato una teoria sul modo atipico in cui è stato costruito il socialismo in Urss, insistendo più che mai sulla necessità di una «riforma» e di una «rinascita» del marxismo; esigenze che riassumeva in questa espressione: «Ritorno a Marx». Certo, queste considerazioni retrospettive gli permettevano di dare un senso ai decenni passati nel movimento comunista, ma esse rappresentavano un inconveniente notevole nella misura in cui portavano a un confronto tra il pensiero marxiano e il socialismo realmente esistente. Trasfondere nella realtà le teorie di Marx appare oggi un’esigenza che il socialismo reale non può soddisfare pur sforzandosi, e, d’altra parte, però, non può nemmeno combattere, almeno in termini espliciti. In queste condizioni, la posizione di Lukács si è rivelata tale che il Partito non poteva «né ingoiare, né risputare» il filosofo. Rispondendo ai terribili scuotimenti storici con un «Ritorno a Marx» e esplicitando i doveri più impellenti che questa parola d ’ordine implicava, Lukács ha trasposto la sua fedeltà nel passato (fedeltà a Marx, al periodo leninista della rivoluzione) e nel futuro dal momento che il presente diventava improvvisamente il regno del dubbio e ha proposto una concezione critica in accordo con la sua vita e con le sue opere. Una concezione che assegnava il compito decisivo alla fede: sostenere l’ipotesi ottimista secondo la quale le riforme ideologiche, economiche e amministrative imposte dall’alto potevano assicurare il passaggio da un presente fortemente demarxizzato a un futuro marxista.



ATTO I

SCENA I

Nello studio di Lukács, un grande scrittoio coperto di libri. Accanto allo scrittoio, un tavolino a rotelle, con del caffè su un vassoio e un registratore. Eörsi è seduto dietro al tavolino a rotelle. La sedia dietro lo scrittoio è vuota. Sul muro, ben in vista, la fotografia di una donna di una certa età. La finestra affaccia sulle colline di Buda. Eörsi, un uomo di mezza età, beve del caffè.

Eörsi: Quando sono venuto qui la prima volta, nel 1952 – avevo 21 – anni Gertrud mi chiese se mi piaceva il caffè turco. Non avevo la più pallida idea di che cosa fosse e quindi mi limitai a fare un sì entusiastico con la testa. Quando venni liberato, dopo quattro anni di prigionia, mi accolse lo stesso caffè turco. E nemmeno la morte di Gertrud mi ha potuto privare di questa gentile attenzione. E ad ognuna delle mie visite, quando arrivava il caffè sul tavolino a rotelle, mi sentivo riconoscente, anche se preferisco – e di molto – l’espresso; almeno, lo si può bere fino all’ultima goccia. Dieci anni fa Erzsebet Vezér, uno specialista di letteratura, ed io, venivamo spesso proprio in questa stanza, per intervistare György Lukács sulla sua vita. Queste conversazioni, dal marzo al giugno del 1971, si sono svolte sulla base degli appunti manoscritti che egli aveva annotato per un’autobiografia che aveva in programma. Abbiamo registrato le conversazioni. È un trucco che abbiamo inventato per dare a Lukács, ormai anziano e incapace di scrivere anche un solo appunto, l’impressione che ancora lavorasse. D’altronde, poteva ancora parlare.

Eörsi accende il registratore; si sente la voce di Lukács.

“Penso che la mia evoluzione sia stata graduale. Se ne vogliamo parlare, credo che la cosa migliore sia procedere cronologicamente. Nella mia vita, tutto è collegato a tutto. Dobbiamo dunque cominciare dal principio”.

Eörsi, fermando il registratore:

Siete sensibili alla poesia anziana dell’intonazione? Questa è la voce di un vecchio di 86 anni, di professione filosofo. Fino all’età di 85 anni e mezzo, ha lavorato, con energia intatta, a quella che sarebbe stata la sua opera principale, l’Ontologia. A dire il vero, poteva rivendicare tre opere principali. Una filosofia giovanile fondata sulla storia delle idee, una filosofia comunista densa di messianismo dell’inizio degli anni 20, e, più tardi, un’estetica e una filosofia marxiste. Egli si identifica solo con la terza. La prima cosa che lessi di lui fu una delle sue opere marxiste. Avevo 15 anni. Grazie a lui, ho acquistato la convinzione assoluta che esista un rapporto tra le forme artistiche e la storia universale. Lukács è stata la prima persona famosa cui abbia osato mostrare le mie poesie. Erano orribili, ma ciononostante mi aiutò a far pubblicare le meno brutte. Gliene sarò sempre riconoscente. Quando fui imprigionato, aiutò finanziariamente la mia famiglia. Ma si trattava anche di un sostegno morale. Anche per questo gli sono profondamente grato. La mia evoluzione è stata segnata dalle discussioni sempre più vivaci che non hanno mai cessato di opporci. E questo confronto dura ancora oggi. Lukács mi offre sempre l’opportunità di contrappormi a lui. Dunque determina, ancor oggi, i miei orientamenti. Anche di questo gli sono estremamente riconoscente.

Eörsi si alza, si avvicina alla finestra e guarda fuori. Quando volta le spalle, il registratore si mette in funzione; si sente qualcuno che farfuglia e balbetta qualcosa.

La voce di Lukács: Effettivamente… la cosa… la cosa stessa… Vedete… la cosa a questo punto… la cosa stessa…

Eörsi si volta e l’apparecchio ammutolisce.

Eörsi: Evidentemente, non ci si può più fidare nemmeno dei registratori. Non più che della memoria.

Il registratore si rimette in movimento, ma questa volta si sente solo un ronzio.

Mi piacerebbe veramente ritrovarci insieme. Non come nel periodo terribile che ha preceduto la sua morte. No. Ma come nel 1962, quando Gertrud –

Eörsi alza gli occhi alla fotografia sul muro

– era ancora viva. In quel periodo, traducevo la Singolarità dell’estetica e venivo qui regolarmente, a discutere con Gertrud delle difficoltà che incontravo. Noi lavoravamo nell’altra stanza; il Vecchio se ne stava di qua e scriveva. Un giorno, è venuto di corsa verso di noi, con i suoi pantaloncini ben al di sopra delle ginocchia e l’inevitabile goccia al naso, limpida come il cristallo. Tutto eccitato, si mise a parlarci di una delle sue ultime ipotesi di teoria musicale. Ascoltò le osservazioni piuttosto perplesse di Gertrud e, senza attendere oltre, si riprecipitò, alla stessa velocità, nel suo studio. Non avevo ancora il registratore a quell’epoca, ma rivedo tutta la scena, come se fosse la sequenza di un film. Quel giorno, fu la prima e l’ultima volta che mi sgridò perché anch’io avevo voluto dire la mia sull’argomento. Parlava del suo lavoro in corso soltanto alla moglie. Una complicità che disorientava. Per il resto, erano dei perfetti estranei.

Eörsi si risiede dietro il tavolino a rotelle.

Sarei felice già di poter rivivere non foss’altro che gli ultimi mesi, di poter riprendere le interviste. Mai ho provato così profondamente che… , che cosa poi? Beh, per dirlo con le sue parole: l’ir-re-ver-si-bi-li-tà del tempo. Morire non è la cosa peggiore che vi possa capitare. Anche se non è la migliore. C’è poco da dire, morire, è una bella fesseria, e comunque, è ancora vivere. Morire è vita compressa; non è proprio morte. Proprio per questo vorrei che tornasse quel tempo.

Silenzio.

Ha voluto per l’ultima volta abbracciare con lo sguardo tutta la sua vita, ingaggiare una corsa con il tempo per poter spiegare… cosa, poi? Per render manifesta la sua fedeltà… La sua fedeltà a cosa? Voleva salvare la totalità. Un nobile scopo, ben degno di un filosofo. Ma a che scopo, se la menzogna fa parte della totalità?… Bisogna salvare anche la menzogna? Sarei in grado ora di chiedergli… Perché no? Chiudo gli occhi e gli pongo la domanda. Le domande. Anche quelle che non gli ho posto nel passato, perché solo il tempo è irreversibile, non l’immaginazione.

Eörsi chiude gli occhi. La scena è immersa nell’oscurità, poi si illumina nuovamente. Lukács è seduto al suo scrittoio. È molto anziano e ha l’aria malata, ma si vede chiaramente che è in possesso delle facoltà mentali. Indossa un abito e la cravatta. Eörsi sobbalza, in preda ad una forte eccitazione, come se non credesse ai propri occhi. Si risiede. Ha davanti a sé una tazza piena di caffè. Beve.

Eörsi: Compagno Lukács, è da tanto tempo che vorrei chiederti questo: che vale la fedeltà quando essa è macchiata di menzogna?

Silenzio.

Molto buono, questo caffè turco.

Silenzio.

Compagno Lukács, lo so, questa situazione è assurda e tu la rifiuti sul piano estetico è probabilmente anche la ragione per cui non vuoi parlare. Ma perché non provare a far diventar reale questa situazione? A dire il vero, è tanto tempo, dodici anni. Da allora, si sono rinnovate tutte le cellule del mio corpo. E le tue… ma, lasciamo stare. Ero al tuo funerale. Che farsa! Le masse operaie, i servizi d’ordine, armati di sfollagente, lungo i lati del viale del cimitero. Grossi come case. Come per avvertirci che era molto meglio restarsene tranquilli. Sulle loro facce composte, c’era solo noia e voglia di picchiare. E quell’iscrizione sulla tua tomba: «Pace alle sue ceneri»! Per essere un funerale di un comunista, non lo trovi assurdo? Gli avvenimenti della vita quotidiana non sono molto più assurdi del nostro incontro di oggi?

Silenzio. Lukács si muove. Beve un sorso d’acqua. Silenzio.

Lukács: Gli avvenimenti della vita sono grotteschi, ma reali. Ciò che manca all’assurdo è la realtà. Questa caratteristica ne fa un fenomeno di moda, quindi passeggero; non potrebbe bastare come base di una drammaturgia duratura.

Eörsi: Allora, costruiamo una drammaturgia effimera. Subito. Compagno Lukács, mi piacerebbe tanto riprendere le nostre conversazioni!

Lukács: Impossibile.

Eörsi: Ripetiamo…

Lukács: Nulla si ripete.

Eörsi: Prendiamo come ipotesi di lavoro che siamo di nuovo nel marzo del 1971. È in dicembre che il medico ha diagnosticato cancro ai polmoni. Che cosa gli hai risposto?

Lukács: Gli ho chiesto per quanto tempo ancora avrei potuto lavorare e a quale ritmo. Mi ha promesso che avrei avuto ancora un anno o almeno sei mesi. E si è dimostrato ottimista. Ci si è affrettati a far battere a macchina la nuova versione ridotta dell’Ontologia. D’altronde, non sono più in grado di dare un giudizio su quel testo. Non sono più competente.

Eörsi: Ma chi lo è allora?

Lukács, alzando le spalle: Non io. Resterà così com’ è. È il tempo che giudicherà.

Eörsi: Compagno Lukács, sono anni che sostieni che esistono fenomeni d’usura.

Lukács: Dopo i settant’anni, e a maggior ragione dopo gli ottanta, sarebbe anormale che non ci fossero fenomeni d’usura. Per portare a frutto il mio lavoro, mi bastava scoprire in quali campi si manifestassero e con quale intensità. Ma succede qualcosa di nuovo il lavoro non mi interessa più. Per la prima volta in vita mia, mi ritrovo inattivo, seduto al mio tavolo, senza sapere nemmeno più su cosa riflettere. E non posso neppure scrivere; anche la mia mano si rifiuta di lavorare. L’abbozzo dell’autobiografia resterà tale.

Eörsi: Non puoi scrivere.

Lukács fa di no con la testa.

Ma puoi parlare. Lavora oralmente! È un nuovo modo di lavorare, e potrebbe dimostrarsi fruttuoso. Ecco un registratore. Basta rispondere alle domande che ti vengono poste e l’autobiografia sarà portata a termine.

Lukács: Anche così bisognerebbe lavorare in biblioteca. Quando non si ha voglia di ricordare, si ha la tendenza a dimenticare o a retrodatare. E poi, te lo tirano in faccia.

Silenzio.

Anche se… Chissà dove sarà la mia faccia quando uscirà il libro?

Eörsi: È vero. E gli sbagli verranno corretti. Per la prima volta in vita tua, scriverai un’opera senza la pretesa della perfezione. Che liberazione!

Lukács: Io non direi, no.

Eörsi: Gertrud ha sempre desiderato che scrivessi la tua autobiografia. Ora ne hai l’opportunità.

Lukács, mentre guarda la fotografia di Gertrud: Davvero lo voleva?

Eörsi: Non te ne ricordi più?

Lukács: Sono in ritardo.

Eörsi: Quando un giocatore di scacchi va di fretta, prende delle scorciatoie. Cominciamo subito.

Lukács, mentre guarda nuovamente la fotografia: E sia!

Eörsi: Da dove cominciamo?

Lukács: Penso che la mia evoluzione sia stata graduale. Se ne vogliamo parlare, credo che la cosa migliore sia procedere cronologicamente. Nella mia vita, tutto è collegato a tutto. Dobbiamo dunque cominciare dal principio.

Eörsi ferma il registratore. Le luci si spengono.

 

SCENA 2

Un cabaret a Berlino. Eörsi è seduto da solo a un tavolo della sala. La parte anteriore della scena è vuota, un piccolo sipario la separa dalla parte posteriore.

Eörsi: Avete mai avuto l’impressione di essere seguiti, avete mai sentito quel tipo di sensazione dietro la nuca? Niente di particolare, di minaccioso o di permanente… Giusto una sensazione, e solo nei momenti cruciali. Vi girate e il vostro inseguitore è già svanito senza lasciar traccia scomparso forse nel portone malconcio di un edificio, o forse dietro questo sipario o ancora in fondo al tombino sotto i vostri piedi. Nei dodici anni dopo la sua morte, ho scritto su di lui un racconto, due poesie, due saggi e tre necrologi. Ho anche pubblicato un libro, che contiene la trascrizione dei nastri registrati. Bisogna che metta una volta per tutte un punto finale a questo problema strettamente privato dei miei rapporti con Lukács. Nel 1956, dopo il rapporto segreto di Chruscëv su Stalin, quando il mondo intero cercava di indovinare chi altri ancora il Padre dei Popoli avesse fatto assassinare oltre a quelli menzionati nel testo, e se Gorki e Dimitrov erano anch’essi stati tra le sue vittime; quando il mondo intero si domandava se quest’uomo, responsabile della deportazione di classi e di popoli interi, fosse un pazzo o il capo spietato della nuova classe al potere; nel 1956 dunque, Lukács mi ha detto a me che avevo scritto pochi anni prima dei versi in lode di Stalin, a me che ormai tremavo per la vergogna e per il desiderio di riscattarmi Lukács mi ha detto…

Lukács fa la sua comparsa in scena, vestito con l’eleganza di un presentatore di cabaret.

Lukács: Anch’io ho sempre avuto molti problemi con Stalin. Ad esempio, non sono mai riuscito a sapere con certezza se avesse letto Hegel.

Eörsi, ridendo a crepapelle: Formidabile! A 24 anni, sempre più freddo nei riguardi della dittatura sanguinaria e ridicola di Stalin, ho scritto una poesia accusatrice, dove paragonavo i dirigenti delle alte sfere del Partito a quelli della società antica.

Lukács: Non puoi paragonare i comunisti ai rappresentanti della vecchia classe dirigente, anche se hanno le mani lorde di sangue. Sarebbe un insulto storicamente ingiustificabile che nuocerebbe alla veridicità della tua poesia.

Eörsi: Perché dici questo? Pensi veramente che se un tribunale fascista condanna a morte un comunista si tratta di assassinio, ma che se è un’autorità comunista a farlo si tratta allora di una svista o di un errore? Dobbiamo distinguere tra campi di concentramento vergognosi e altri che sarebbero invece giustificabili? Perché non rispondi?

Lukács: Mi piacerebbe poter scegliere io il campo di battaglia dove soccombere.

Eörsi: Mi hai seguito fin qui, nel cabaret!

Lukács: È l’osrevni.

Eörsi: Prego?!

Lukács: L’osrevni. L’inverso. Cioè, l’inverso in senso inverso. Sei tu che mi hai seguito. Ed è logico, perché in definitiva sono io che ho giocato un ruolo importante nella tua vita. E non è vero l’osrevni.

Eörsi: Sai parlare al contrario? Fino a questo punto hai portato la dialettica?

Lukács: È una questione di educazione. Mio fratello maggiore aveva sei anni quando ha imparato a leggere. Io mi sedevo al tavolo di fronte a lui, e imparai a leggere prima di lui. Ma io leggevo il libro oirartnocla, la scrittura oirartnocla.

Eörsi: Anche più tardi, sei stato ridotto all’arte di scrivere al contrario.

Lukács: Ci sono scritti che bisogna leggere orizzontalmente, e altri che vanno letti verticalmente.

Eörsi: È da te che ho imparato, e per sempre, a scuotere la testa per dire no. Ma ho perduto l’abitudine di dire sì.

Lukács: Anch’io ho cominciato con il no. È molto facile. Quando sono rientrato in patria, nel 1945, di ritorno dal mio esilio moscovita, non ci fu scrittore contadino ungherese che non abbia fatto rotolare sotto il tavolo. Mi domandavano dove avessi imparato a reggere l’alcool in quel modo. A casa mia rispondevo da mio padre. I miei genitori conducevano la vita dell’alta borghesia; io ne ero talmente disgustato che mi rinchiudevo in camera mia ad ogni visita che ricevevamo, e bevevo.

Eörsi: Che cosa bevevi?

Lukács: Champagne. Ne avevamo sempre di scorta… Mia madre raccontava che, dall’età di tre anni, dicevo sempre: «Non saluterò gli invitati. Non sono io che gli ho detto di venire». Quando ti mostri docile, la prima regola è quella di dire buongiorno agli invitati.

Eörsi: E tu saluti sempre gli invitati. Che meraviglioso saluto, ad esempio, hai rivolto nel 1952 al nostro Stalin in miniatura, Mátyás Rákosi, per il suo sessantesimo compleanno. Appena un anno dopo – l’ho sentito con le mie orecchie – lo hai trattato come un verme. Come può la quercia accettare di celebrare la povertà grandiosa della putredine?

Lukács: Ne avevo abbastanza di quelle scenate continue dopo ogni visita che ricevevamo e allora mi sono detto: dopo tutto, mio Dio, perché mai non dovrei presentare i miei omaggi alla zia Irene?

Eörsi: Ma, compagno Lukács, hai rischiato la vita cento volte. Eri di un coraggio incredibile eppure non ho mai incontrato uomo più accorto di te. E poi sei di spirito, anche se hai sempre cercato con ogni cura di bandirlo dai tuoi scritti. Perché hai reso omaggio ai responsabili di omicidi di massa?

Lukács gioca con una trottola, il piccolo sipario si abbassa lentamente.

Eörsi, sentendo il canterellare della trottola che poco a poco riprende il ritmo dell’«Internazionale»: È una risposta, questa?

 

SCENA 3

Lo studio, Lukács al suo scrittoio, Eörsi accanto al tavolino a rotelle. Il registratore sta incidendo. Lukács indossa lo stesso abito della prima scena, ma non porta la cravatta. Si esprime con un po’ più di difficoltà.

Lukács: Novità?

Eörsi: Il presidente del sindacato degli scrittori mi ha detto di non poter far niente per la faccenda del sequestro del mio libro. Non vuole mettere in pericolo i buoni rapporti esistenti tra sindacato e autorità culturali. Per poter continuare a difendere gli interessi degli scrittori, non li difendono affatto.

Lukács: Spero bene che questa logica non ti sorprenda.

Eörsi: Anzi! Mi riempie di gioia! Quando arriva quello che uno si aspetta, ci si sente sollevati. Possiamo cominciare?

Lukács accenna di sì con la testa.

Lukács: Mio padre, Joseph Lukács, era direttore della Banca anglo-ungherese; era molto ricco. Mio nonno fabbricava ancora coperte a Seghedino. Mio padre è stato insignito di un titolo nobiliare. In campo politico, sosteneva le correnti più conservatrici, ma si mostrava mecenate generoso verso l’arte moderna ungherese, verso Bartók, e anche verso di me. Apparteneva alla grande borghesia ebraica di Budapest che voleva l’assimilazione completa. Al primo insorgere del movimento sionista, mio padre dichiarò che… dichiarò che…

Eörsi: Che avrebbe desiderato essere console a Budapest?

Lukács: Sì. Voleva essere nominato console ebreo a Budapest dopo la creazione dello Stato ebraico. Eörsi ride. Mi sono ribellato alla regola fin dall’età di tre anni. I miei fratelli e sorelle hanno chinato il capo. Io no.

Eörsi: Appartenevi però alla loro stessa classe sociale.

Lukács: La scienza non ha mai spiegato la causa di tali differenze di comportamento. Ero giovanissimo, ad esempio, quando ho dichiarato guerra a mia madre.

Eörsi: E in che modo?

Lukács: A casa, c’era uno stanzino oscuro dove si metteva la legna da ardere. Per punirci, mia madre ci rinchiudeva spesso là dentro e ci liberava solo dopo che avevamo chiesto scusa. I miei fratelli lo facevano immediatamente. Il mio comportamento, invece, dipendeva dall’ora: se mia madre mi chiudeva nello stanzino alle dieci, io porgevo le mie scuse alla dieci e cinque, e lei mi faceva uscire. Generalmente, mio padre rientrava in casa all’una e mezzo e mia madre cercava sempre di risparmiargli qualsiasi noia domestica. Questa abitudine paterna fu determinante per me: quando mia madre mi rinchiudeva dopo l’una, non avrei chiesto scusa per tutto l’oro del mondo, perché tanto ero sicuro che, comunque, mi avrebbe liberato all’una e venticinque.

Eörsi: Ti sei comportato nello stesso modo con il Partito quando hai dovuto fare la tua autocritica. Quando hai pensato di non rischiare noie troppo grosse…

Lukács: È successo molto più tardi e poi non c’entra niente in questo discorso.

Eörsi: Certo, è successo molto più tardi, ma è questo il momento in cui bisogna parlarne. Quando hai creduto che ti avrebbero ucciso o che ti avrebbero espulso dal Partito, ti sei scusato; ma quando hai creduto che…

Lukács: Si possono sempre stabilire analogie sul piano formale. Ma se consideriamo le cose dal punto di vista della sostanza…

Eörsi: Nel caso in questione, la sostanza si chiama György Lukács. Voglio soltanto dimostrare che, malgrado la differenza di età e l’evoluzione delle sue concezioni filosofiche, una stessa persona…

Lukács: Credo che non bisognerebbe soltanto insistere sulla continuità, nell’evoluzione di un individuo, ma anche sulla dis… dis… dis…

Eörsi: Ma sì, certo, anche sulla discontinuità. Volevo solo…

Eörsi tace perché si accorge che Lukács non lo ascolta più.

Non ti senti bene?

Silenzio.

Compagno Lukács!

Eörsi sta per toccargli un braccio, poi si scuote all’improvviso e lascia precipitosamente la stanza.

Lukács: Ho sempre odiato mia madre. Era l’ordine in persona. Per lei contava solo la posizione, il titolo, i soldi. Mi considerava un idiota, mi prese un precettore, che ben presto si occupò soltanto di mio fratello. Allora, ha inventato la teoria secondo la quale mio fratello era intelligente ma pigro, ed io stupido ma lavoratore. Nemmeno i fatti contrari sono riusciti a smuoverla da questa convinzione. Alle tre e mezzo avevo finito i compiti e me ne andavo in bicicletta; mentre mio fratello restava a sgobbare fino alle sette e mezzo con il precettore. Più tardi è stato chiamato al servizio del lavoro; ha obbedito perché rispettava le leggi, e ne è morto, naturalmente. Assomigliava a mia madre che ho sempre odiato.

Eörsi ritorna con un bicchier d’acqua e lo porge a Lukács. Lukács lo vuota.



Lukács: Mia madre era sul letto di morte, un cancro al seno, e su richiesta di mio padre le ho scritto una lettera. Quando l’ha ricevuta, ha detto: «Devo star proprio male, se il dottor György mi scrive». Silenzio. Per me i legami familiari che mi sono stati trasmessi bell’e fatti, come l’ebraismo, sono sempre stati un dato imposto dalla mia nascita.

Silenzio.

Un giorno, un giornalista ha voluto fotografarmi in compagnia dei miei sette nipoti. Ho rifiutato perché, trattandosi di me, la cosa non avrebbe avuto nulla di speciale.

Silenzio.

Mi è anche piaciuto quando Stalin ha fatto appello al Partito perché un giornalista aveva descritto le sue abitudini alimentari infantili.

Silenzio.

Ma tutto questo è accaduto molto più tardi.

Eörsi: Se ti senti stanco, possiamo riprendere domani.

Lukács: Come? Stanco? E poi, dobbiamo sbrigarci. Quando ho stabilito il mio piano decennale, a settant’anni…

Eörsi: Ne hai stabilito uno anche a ottanta.

Lukács: È vero, anche a ottanta. Non mi sono mai preoccupato della morte. Io penso, come Epicuro, che la morte non ci interessi, perché, finché esistiamo, la morte non esiste. Una volta che arriva, noi non ci siamo più. Per la prima volta oggi. .. Per la prima volta oggi…

Eörsi: Hai paura?

Lukács: No, non ho paura. Solo una cosa mi infastidisce: il fatto di stare facendo qualcosa che non potrò portare a termine. È vero che nemmeno l’Ontologia… non è del tutto… Dove eravamo rimasti?

Eörsi: Alla faccenda di tua madre.

Lukács: Come individuo, mio padre era in gamba, ma come direttore di banca pensava che il successo fosse conseguenza della buona maniera di agire. Invece, le mie prime letture l’Iliade e L’ultimo dei Mohicani mi avevano già persuaso del contrario: si agisce bene solo quando si fallisce. Avevo dato ragione a Ettore vinto da Achille, e agli Indiani…

Eörsi: Sei ancora un sostenitore dell’insuccesso? Intendo dire che sei membro di un partito che è al potere da lungo tempo, che aderisce a un movimento che sacrifica al culto del protocollo…

Lukács: Mi sono sempre fatto beffe di tutto questo. Non ho nemmeno scelto la via del successo durante l’insurrezione del 1956, quando sono entrato nel governo di Imre Nagy.

Eörsi: Sì, ma…

Lukács: Ancor oggi, la storia non è il luogo in cui si realizza la felicità umana. In Unione Sovietica, il socialismo si sviluppa in modo atipico e ciò mi permette di non conoscere il successo all’interno di un movimento vittorioso.

Eörsi: Questa filosofia dell’insuccesso…

Lukács: L’insuccesso si dimostra spesso utilissimo. Avevo 19 anni quando abbiamo fondato il primo gruppo ungherese di teatro moderno. Ho scritto per questo gruppo qualche lavoro sullo stile di Ibsen e di Hauptmann. Fortunatamente, li ho buttati nel fuoco molto presto. Questo fallimento per me ha costituito un gran successo perché, partendo da quell’esperienza e per tutta la vita, ho potuto disporre di un criterio segreto per valutare ciò che è proprio della letteratura e ciò che non lo è. La letteratura… è quello che non riesco a scrivere.

Eörsi: Ma questo insuccesso…

Lukács: Nella prima critica consacrata al mio primo libro, sono stato definito un autore scomodo. Per tutta la vita mi sono sforzato di non smentire mai questo giudizio. Ho cercato in tutti i modi di restare scomodo per tutte le correnti.

Eörsi: È proprio per questo che dicevo che per te, compagno Lukács, l’insuccesso…

Lukács: Ci sono rimasto malissimo quando l’Accademia mi ha conferito un premio per la mia prima monografia. Mi so no detto: «Se questi imbecilli mi osannano, vuol dire che il mio lavoro vale zero».

Eörsi: Da giovane, consideravi l’insuccesso personale o, in termini più romantici, il dolore esistenziale, come condizione necessaria per qualsiasi creazione. Parlavi del potere paralizzante della felicità, non ti ricordi? È, poi, quello che ti ha fatto rinunciare all’amore.

Lukács: Non me ne ricordo.

Eörsi: «Alcuni uomini, per poter raggiungere la grandezza, devono essere privati il più possibile di tutto ciò che evoca la felicità e il sole».

Lukács: Chi lo ha detto?

Eörsi: Tu, nel 1909.

Lukács: Non me ne ricordo.

Silenzio.

Il mio incontro con Irma Seidler nel 1907 è stato molto importante. Che oggi lo si chiami o no amore, è tutt’altra questione. Ma lei è stata decisiva per la mia evoluzione, negli anni tra il 1907 e il 1911. Irma si è suicidata nel 1911 e il mio saggio Della povertà dello spirito è apparso dopo questa orribile tragedia. Era il racconto della sua morte e l’espressione dei miei complessi di colpa.

Eörsi si alza: György Lukács incontrò il 18 dicembre 1907, cioè all’età di 22 anni, la pittrice Irma Seidler, di 25 anni… Con lei e con un amico, Leo Popper, intraprese un viaggio in Italia, tra il 28 maggio e l’11 giugno 1908. Fu verosimilmente durante il viaggio che nacque l’amore, il quale, fino alla fine, rimase costretto nella cornice delle convenzioni borghesi. La «buona società», o presunta tale, a cui entrambi appartenevano, avrebbe tollerato una relazione amorosa pubblica solo se si fosse trattato di una donna divorziata. Irma Seidler presumibilmente si sarebbe caricata sulle spalle la messa al bando dalla società, ma Lukács come lui stesso ha scritto aveva paura del matrimonio, paura dell’effetto rilassante della felicità; e inoltre si era ormai adagiato nella condizione di quello che «non si sente bene». Pensava che la solitudine disumana fosse indispensabile alla gestazione delle sue opere. Irma Seidler sposò allora uno dei suoi colleghi e, dopo il fallimento del matrimonio, allacciò una relazione con lo scrittore Béla Balázs. Costui all’inizio non si fece scrupoli, ma si sentì ben presto obbligato a ricordarsi dell’amicizia che lo legava a Lukács; e in nome di questa amicizia, lasciò Irma, che si gettò nel Danubio.

Lukács, come in trance: Per il mondo e per la storia, probabilmente, le difficoltà non esistono; ma nella vita dell’individuo non possono essere evitate. Ad esempio, ora, il cancro. Ora, il cancro. Ora, il cancro e prima, Irma.

Eörsi: Ho sempre sospettato che anche la morte presentasse dei vantaggi; essa abolisce le forme convenzionali di conversazione…

Lukács: È lei che è morta, non io. Ho trovato ridicolo che, per colpa di una donna…

Eörsi: D’altronde, sarebbe stato ridicolo. A dire il vero, c’è di peggio del ridicolo nella vita reale.

Lukács: Bisognerebbe avere qualcuno con cui parlare, balbettare, qualcuno il cui silenzio infonda coraggio, qualcuno che metta fine a questo lungo monologo. Sì, bisognerebbe che una persona così esistesse. Alla gente sensata e ragionevole, ai Bloch, ai Simmel, ai Polanyi, non posso dire nulla gli specialisti intervengono sempre a cose fatte. I filologi si coprono di ridicolo quando pretendono di innalzare Charlotte von Stein al rango di dea per spiegare l’influsso da lei esercitato su Goethe! E gli psicologi risultano ancora più ridicoli quando mettono in evidenza, con molto tatto, che la signora von Stein capiva poco e male Goethe. Certo che non lo capiva! Friederich Schlegel e Wilhelm Humboldt sì che l’avevano compreso! Ma l’incomprensione ha fatto nascere l’Ifigenia, mentre la comprensione non ha partorito nulla!

Una donna dai capelli rossi, dal volto poroso, Marian Raabe, appare alla porta. È una parente, prossima o lontana, di Lukács. Né Eörsi, né Lukács la notano.

Lukács: Comunque sia, eccomi qua solo e destinato a restarci. Il mio intelletto lavora nel vuoto, nessuna resistenza, nessun essere vivente intorno a me. Sono ridotto allo stato di puro spirito·, cioè allo stato di spirito vuoto, senza forza, senza sostegno, spirito senza valore. E così sono nell’attesa di un miracolo che mi permetta di concludere qualcosa. Appartengo a quella categoria di esseri umani alla quale è negata la suprema realizzazione… Se il miracolo non si compie e se non trovo la via di Damasco, che mi permetterebbe di diventare un altro, per me è finita.

Eörsi: La via di Damasco!

Marian: E tu resti seduto là senza dir nulla?

Il volto di Lukács si contrae; Eörsi si gira bruscamente.

Eörsi: Da quanto ci ascolti?

Lukács si alza, si dirige verso la finestra e guarda fuori.

Marian: Ho inviato una richiesta alla direzione del Partito perché l’appartamento e la biblioteca siano conservati in buono stato. Ci si potrebbe fondare un Istituto… Non è una buona idea? Verrebbe conservato tutto per la ricerca: i libri, i manoscritti. Le schede che lui stesso infilava nei suoi libri. La sedia sulla quale sedeva. E anche questo nastro che stai per registrare…

Eörsi: Che potrei registrare se…

Lukács si volta, fissa Marian con uno sguardo vuoto.

Marian: Scusami se ti ho disturbato. Sai, passo tutto il giorno qui, a riordinare; mi occupo di tutto, sono io che mando avanti la baracca e qualche volta ho l’impressione… Mah… Non scordarti che deve ancora mangiare e dormire perché alle quattro…

Eörsi: D’accordo.

Marian se ne va;

Eörsi si rivolge a Lukács: Ti propongo di continuare a parlare del periodo precedente la prima guerra mondiale. Eravamo rimasti alla via di Damasco…

Lukács: A che cosa?

Eörsi: Compagno Lukács, hai scritto nel 1911 che se, come l’apostolo san Paolo sulla via di Damasco, non avessi conosciuto una metamorfosi, non ti sarebbe rimasto altro che tirarti un colpo in testa.

Lukács: In tutta la mia vita non ho mai scritto il nome di san Paolo.

Eörsi: Mi sbaglio? Sembrava una citazione da una lettera o da un diario scritto in gioventù.

Lukács: In gioventù ho scritto tanto cose che oggi non hanno più alcuna importanza.

Eörsi: Mi pare che sottovaluti i tuoi primi scritti.

Lukács: Vedi, non nego che chi ha scritto quei libri fosse dotato… ma era così profondamente attaccato a una teoria reazionaria della conoscenza ed era così impregnato dei pregiudizi di un kantismo volgare…

Eörsi: Nella tua espressione «la via di Damasco» ho creduto di intravvedere la manifestazione di una crisi personale. Aspettavi un miracolo…

Lukács: Tendenze del genere esistevano a quell’epoca.

Eörsi:… che ti avrebbe permesso di ritrovare l’uomo. La comunità. Non pensavi a questo miracolo quando hai aderito alla rivoluzione proletaria e ti sei unito ai comunisti?

Lukács: Di che miracolo parli?

Eörsi: Di quando aspettavi la Rivoluzione mondiale come se fosse il Messia; di quando consideravi la teoria marxista-leninista come la salvezza intellettuale, i dirigenti come dei salvatori e il Partito come una Chiesa alla quale si giura fedeltà.

Lukács: Sono analogie alla moda che aiutano il filisteo a comprendere come un uomo sensato abbia potuto fare una scelta contraria ai suoi interessi di classe.

Eörsi: Non si trattava per caso di soddisfare una tua necessità religiosa, quando hai abbandonato il monologo sempre più insopportabile della tua vita per dedicarti alla salvezza del mondo? Solo questo volevo domandarti.

Lukács: Niente è inorganico, nella mia evoluzione. Quella che tu definisci in me necessità religiosa…

Eörsi: Sei tu che l’hai definita così quando hai parlato della via di Damasco.

Lukács: Ma questa espressione non è mia. Non riesco a ricordarmi dove possa averla impiegata.

Eörsi: Permettimi di porti la domanda in altro modo…

La porta si apre, appare Marian; Lukács si alza e, senza dire una parola, si dirige verso la stanza da pranzo. Eörsi si alza ed esce dalla stanza dall’altra porta. Il registratore continua a girare senza rumore.

 

SCENA 4

Lo studio. Lukács è al suo scrittoio, con il collo della camicia sbottonato. Quando si alza, ci si accorge che deve reggersi i pantaloni, perché non porta né bretelle né cintura. Ha l’aria molto più malata che nella scena precedente. Marian telefona. Il caffè fuma sul tavolino a rotelle, ma Eörsi non c’è.

Marian al telefono: Sta meglio, migliora a vista d’occhio. Sì, glielo dirò.

Riattacca e si rivolge a Lukács.

Tutte queste telefonate mi fanno diventare matta. Tutte queste persone ti girano intorno come se fossero falchi. Come se non bastasse informare quotidianamente la direzione del Partito del tuo stato di salute, come se non bastasse dover rilasciare, dieci volte al giorno, una conferenza stampa per i tuoi amici; e anche i nemici…

Lukács non reagisce.

Pensa che ieri, cercando tra le carte di Gertrud, ho trovato la copia di una lettera che lei ti aveva scritto nel 1906… Non sapevo che vi conosceste da tanto tempo. È al periodo della Rivoluzione che risale il vostro amore, no?

Lukács si alza, si dirige verso la finestra e guarda fuori.

Che cosa diresti, in caso, di avere con me una conversazione al registratore? Non ti senti bene? Mando via Eörsi…

Lukács: È già arrivato?

Marian: Come sei distratto! Guarda, c’è ancora il suo caffè! Sta cercando non so bene quale libro.

Lukács: Quanti ne abbiamo oggi?

Squilla il telefono.

Marian: Mai un minuto di pace!

Risponde.

Chi parla? Oh, compagno Földes! Sì, sì, va meglio, molto meglio. Stavo giusto per chiamarla…

Sussurrando appena.

È peggiorato moltissimo. Non posso entrare nei dettagli perché sono nel suo studio e non so fino a che punto comprenda quello che si dice… Penso che i compagni dovrebbero cominciare a considerare le questioni concrete di organizzazione… Sì… Certo… la richiamerò, compagno Földes…

Lukács esce dalla stanza. È appena uscito.

Pensi, compagno Földes! Ho appena ritrovato in casa un manoscritto di almeno quattrocento pagine… No, non si preoccupi, non può essere pericoloso, risale al suo periodo idealista… Verso il 1910.

Eörsi entra nella stanza.

Certo, gli darò almeno un’occhiata. Gliene farò pervenire una copia. Lui non ne è al corrente. D’accordo, non gliene parlerò fintanto che… Va bene, ne manderò una copia anche al compagno Verebes. Ma glielo ripeto, non c’è ragione alcuna di agitarsi, all’epoca non era ancora marxista… Sì. .. Sì. .. La richiamo stasera.

Marian riattacca. Hanno paura di tutto.

Eörsi: Che altro hai trovato?

Marian: Tienti forte. Il manoscritto dell’Estetica di Heidelberg.

Eörsi: Impossibile! Non più tardi di ieri mi ha detto che ne restava solo un frammento che nemmeno sa dove sia.

Marian: Come sarà contento!

Eörsi: Non è così sicuro.

Marian: Penso proprio che sia il testo integrale. Quattrocento pagine almeno. L’ho trovato nella camera di Gertrud, in una valigia tutta rovinata. Per quante frontiere lo deve aver fatto passare di nascosto, dal 1919! L’emigrazione, l’illegalità, l’evacuazione e ora è qui. È un pezzo che il vecchio lo ha dimenticato come sarà contento!

Eörsi: Gertrud aveva un’opinione migliore della sua sulle sue opere giovanili e ha voluto salvarle a tutti i costi.

Marian: L’essenziale è che questo documento sia qui.

Eörsi: Non bisogna che gliene parli.

Marian: Ma sei matto? D’altronde, anche il compagno Földes mi ha chiesto di non parlargliene.

Eörsi: Ma non per le stesse ragioni. Se Gertrud non ne aveva fatto parola, tu devi fare altrettanto. Comunque, non potrà più risistemarlo.

Silenzio.

Pensa che è ancora vivo! Non dovresti sbattergli in faccia continuamente che frughi nel suo passato.

Marian: Come sarebbe, frugare? Non trovi che sia importante…

Eörsi: Sì, lo è, ma se non puoi nemmeno aspettare che muoia, potrai almeno esimerti dall’annunciargli ogni giorno che ficchi il naso nelle sue carte.

Marian: Ficcare il naso? Io? Ascoltami bene: quello che ho appena trovato è più importante di tutto quello che riuscirai a sfornare in vita tua.

Eörsi: È probabile, ma non è di questo che sto parlando.

Marian: Tu non parli, giudichi. Sai che cosa ti rovinerà? La tua buona coscienza! Senti, vorrei chiederti una cosa. Dammi i nastri, vorrei riprodurli.

Eörsi: Perché così in fretta?

Marian: Perché, a titolo personale, vorrei sapere che cosa racconta il Vecchio. E poi… non hai bisogno di fare quel broncio… anche il dipartimento scientifico del Comitato Centrale è molto interessato…

Eörsi: Ah! Ah!

Marian: Capisco, hai idee ben radicate, ma non ti ha mai sfiorato il dubbio che tu abbia torto? Il compagno Földes si informa tutti i giorni. E oggi, anche il compagno Verebes ha chiamato… Se vogliamo fare di questo appartamento un Istituto scientifico e conservare la biblioteca come si deve, dobbiamo dissolvere il benché minimo sospetto.

Eörsi: Il compagno Földes non riceverà niente da me. Perché, dopo tutto, è per me che il Vecchio parla, non per lui.

Marian: Parla per la posterità, non per te. Nell’affare sei soltanto un anello intermedio. Ficcati ben in testa che il destino di questi nastri, che tu li dia o no, dipende cento volte di più dal compagno Földes e mille volte di più dal compagno Verebes che non da te.

Lukács ricompare e si ferma sulla soglia; non si è riabbottonato i pantaloni.

Eörsi: Se il compagno Földes è curioso di sapere che cosa c’è nel testo, finirà per averlo attraverso l’intermediario del ministero dell’Interno. Non credi che il mio registratore sia il solo apparecchio di ascolto in questa stanza?

Lukács tossicchia e ride. Squilla il telefono; Marian risponde.

Marian: Pronto… Compagno Verebes! La posso richiamare?

Eörsi: Non è necessario.

Si dirige rapidamente verso Lukács che si affatica visibilmente a restare in piedi e lo conduce fuori della stanza.

Marian: Ora posso parlare. Compagno Verebes, le è stata comunicata la bella notizia?

 

SCENA 5

Lukács e Eörsi sono seduti su una tomba. Lukács è vecchio ma non ha l’aspetto della persona malata. Fuma instancabilmente un sigaro; ogni tanto si alza con un balzo, fa qualche passo scoprendo così l’iscrizione funeraria PACE ALLE SUE CENERI.

Lukács: Vogliono comprarmi come un capo di bestiame.

Eörsi: Il potere non ha alcun argomento, è ridotto a brandire la frusta o a esibire il suo denaro.

Lukács: I soldi non sono mai stati molto importanti per me, forse perché provengo da una famiglia agiata.

Eörsi: Però ti hanno avuto, da morto. Posso annunciartelo: sei stato statizzato dopo la tua morte.

Lukács: Come mai?

Eörsi: Sono stati nominati dei nuovi discepoli di Lukács, che generalmente sono persone con le quali tu non hai mai voluto aver nulla da spartire. I tuoi vecchi discepoli o sono stati imbavagliati oppure sono stati cacciati. I nuovi non la piantano di utilizzare il tuo nome per i loro piccoli sporchi traffici, e si gettano sulle tue opere come le mosche sulla carne cruda.

Lukács: Ho sempre detto che, assente io, potevano anche impiccarmi, se gli conveniva. Il giorno in cui il compagno Verebes mi ha spiegato che i miei veri discepoli non erano quelli che pensavo io, ma quelli che stabiliva lui, gli ho risposto: lo so, non tarderò a conoscere la sorte della Krupskaja. Una volta, Stalin l’ha minacciata di sostituirla e di nominare vedova di Lenin qualcuno che facesse meglio al caso suo.

Eörsi: È un vero peccato che nelle tue opere tu non abbia trasfuso tutto il tuo humour.

Lukács: La teoria della conoscenza non si presta agli scherzi.

Eörsi: E Marx?

Lukács: Marx è un’ altra cosa.

Eörsi: Certo. Poteva pure permettersi di non essere marxista. Tu, in compenso, hai sempre dovuto provare che eri fedele a Marx.

Lukács: Per me questo non è mai stato la conseguenza di pressioni esterne.

Eörsi: È ancora peggio, allora. Te lo devo confessare: ho cominciato ad avere dei dubbi quando mi sono accorto che spesso non era la verità che tu cercavi di scoprire, ma quello che Marx ne aveva pensato. Per te era scontato che fosse la stessa cosa.

Lukács: Su questo punto non mi sono mai sbagliato.

Eörsi: Solo la fede ci può dare la certezza, quando mancano le prove.

Lukács: La mia presunta fede la metti dappertutto quando mancano le prove.

Silenzio.

E la mia cenere dove la metto?

Eörsi: Per terra. Non c’è bisogno di portaceneri in un cimitero.

Lukács: E se ritornassimo a casa?

Eörsi: Vorrei avere con te un solo incontro fuori, all’aria aperta, senza registratore. Di modo che si possa parlare liberamente, senza prepararsi prima.

Lukács: Parlare di che?

Eörsi: Della colpevolezza. Di questo vorrei parlare con te.

Lukács: Di quale colpevolezza?

Silenzio.

Lukács: Al tempo della Repubblica dei Consigli, ero commissario politico dell’Armata Rossa. Mi ero proposto per questa missione quando era iniziata l’offensiva ceco-rumena. Ero stato inviato a Tiszafüred. La difesa della città fu un fallimento perché i Rossi di Budapest si erano dati alla fuga senza sparare nemmeno un colpo. E questo aveva permesso ai rumeni di piombare alle spalle dei due altri battaglioni e di annientarli. Tiszafüred era caduta. Allora, ho ristabilito l’ordine.

Silenzio.

Ho istituito un consiglio di guerra e ho fatto fucilare sulla piazza del mercato di Poroszlo otto soldati del battaglione che avevano preso la fuga.

Silenzio.

Ho decimato il battaglione. Oggi, nella stessa situazione, rifarei quello che ho fatto. La vigliaccheria di quel battaglione era costata la vita a un gran numero di uomini. E quelli che avevano combattuto lealmente non dovevano…

Eörsi: Hai fatto fucilare anche qualche cuoco.

Lukács: Non me ne ricordo.

Eörsi: L’hai raccontato tu stesso, prima del ’56.

Lukács: Non me ne ricordo.

Eörsi: Iniziavi ogni ispezione agli eserciti dalla cucina e…

Lukács: Sì. Mi fermavo con l’auto tre o quattro chilometri prima del fronte, la nascondevo nei cespugli e poi piombavo all’improvviso in mezzo alla truppa, più esattamente in cucina, e assaggiavo immediatamente il rancio. I cuochi tremavano davanti a me, perché rubavano una parte delle provviste per rivendersele. In questo modo, non sapevano mai in quale momento avrei fatto irruzione da loro…

Eörsi: Capisco.

Lukács: Il morale dei soldati dipendeva soprattutto da due fattori: il rancio e il corriere. Non mi consideravo un organizzatore militare particolarmente dotato ma, nella mia divisione, i soldati ricevevano un vitto dignitoso e la posta veniva distribuita ogni giorno.

Eörsi: Così, compagno Lukács, hai portato la teoria materialista al livello della cucina da campo.

Lukács: Disapprovi la mia condotta?

Eörsi: Cerco solo di capirla.

Lukács: Tu, nei miei panni, non avresti decimato il battaglione?

Eörsi: Cerco soltanto di capire come tu ti sia messo in quella situazione.

Lukács: Nella mia Teoria del romanzo, scritta durante la prima guerra mondiale, ho ripreso le parole di Fichte e ho definito tutta questa epoca quella della «compiuta peccaminosità». Con ciò intendo dire che tutta questa epoca è condannabile da un punto di vista morale. La vittoria degli inglesi, o quella dei tedeschi, mi sarebbe sembrata una catastrofe…

Eörsi: Però c’è la democrazia in Inghilterra…

Lukács: Vedi, ho sempre considerato la democrazia borghese con scetticismo. Anatole France dice, non mi ricordo dove, che in una democrazia borghese ricchi e poveri sono ugualmente liberi di dormire sotto i ponti. Sono sempre stato contrario a questa concezione di uguaglianza.

Eörsi: Non credo che quello che è stato fatto da noi sia meglio, visto che è proibito a tutti dormire sotto i ponti, che si abbia o no una casa.

Lukács: Questa è un’altra faccenda.

Eörsi: Ma no, non è un’altra faccenda. Tu condanni un’epoca per la sua peccaminosità, e poi accetti il peccato e anche l’omicidio di massa per liberare l’umanità dal peso di questa epoca. Si potrebbe giustificare il tuo atteggiamento solo se l’umanità si fosse poi veramente liberata.

Lukács: Parli a vanvera! Le azioni non hanno bisogno di giustificazioni a posteriori. La sola domanda che io mi debba porre è quella di sapere se, a un dato momento, ho preso o no la decisione più giusta. Oppure pensi che Lenin abbia avuto torto nel 1917 per la sola ragione che Stalin, a partire dagli anni 30, si è lanciato nella politica del genocidio?

Eörsi: Lenin ha corso il rischio di fare la sua rivoluzione nella speranza che poi sarebbe seguita quella mondiale. Ma tu, tu non eri così ingenuo. Fino al 1918 hai giustificato la tua adesione al Partito comunista dicendo che si poteva agire contro l’etica agendo con giustezza. Sai perfettamente, e lo hai scritto, che ti rendevi colpevole di un errore. Ti ricordi del dilemma della Judith di Hebbel?

Lukács: «E se tu poni tra le mie azioni e me stessa il peccato, chi sono io per dover altercare con te su tale argomento, per dovermi sottrarre a te?»

Eörsi: Una frase meravigliosa; è un peccato però che inciti a farne un cattivo uso…

Lukács: Si può far cattivo uso di qualsiasi frase.

Eörsi: E quale è stato il peccato necessario al riscatto?

Lukács: La violenza.

Eörsi: Posso chiederti una cosa? Se avessi saputo fin dal 1919 che piega avrebbe preso la rivoluzione, ti saresti ugualmente preso questa responsabilità?

Lukács: Come si dice a Budapest: «Se mio nonno avesse le ruote, sarebbe una carriola».

Eörsi: E sarebbe una risposta?

Lukács: E che, era un domanda? Ciò che caratterizza le decisioni complicate, è proprio il fatto che non se ne possono prevedere le conseguenze. Pensavo che avremmo potuto aprirci un varco verso la verità grazie alle nostre menzogne, come il Rasumichin di Dostoevskij. La storia non ha ancora detto la sua ultima parola.

Eörsi: Quali errori ti aspetti ancora? Che cosa accetteresti come ultima parola?

Lukács: Non devi dimenticare che noi eravamo nella speranza più nera, quando abbiamo sentito la fiamma della rivoluzione. Ho detestato la guerra fin dal primo momento, l’euforia bellicista delle masse, la follia nazionalista degli intellettuali. È provato che, fin dai primi istanti, il mio…

Una donna di circa trent’anni, magra e trasandata, si avvicina alla tomba; non è bella ma è molto interessante.

Lukács: Anche a Heidelberg, dove ho vissuto fino alla fine della guerra tranne qualche breve interruzione, e dove frequentavo l’ambiente di Max Weber, ero il solo ad essere contrario alla guerra. Veramente, non ero proprio l’unico… c’era anche Ernst Bloch… Mi ricordo un giorno; eravamo tutt’e due seduti da qualche parte, su una collina, sotto di noi passava un convoglio militare; e Bloch ha detto con una tristezza terribile: «Ecco i goyim [«i non ebrei» N.d. T.] che partono per la guerra!».

La donna si mette a ridere, i due uomini si accorgono della sua presenza. Lukács non sembra affatto sorpreso e le fa posto accanto a sé, sulla tomba.

Eörsi: István Eörsi.

Jelena: Jelena Grabenko.

Lukács: La guerra era l’essenza della violenza. La «compiuta peccaminosità» aveva chiamato l’essenza della violenza. Dopo di che, mi son dovuto prendere le mie responsabilità per contribuire a porre un termine alla «compiuta peccaminosità».

Jelena: Diuri, non infiorare le cose! Se fossi riuscito a vivere con me a Heidelberg, avresti probabilmente scelto, al posto del tuo peccato, una carica di professore e saresti divenuto libero docente in una università in stato di compiuta peccaminosità…

Eörsi: Finalmente faccio la sua conoscenza. Vi siete incontrati a Heidelberg?

Jelena: No, in una stazione balneare italiana. È stato Béla Balázs a presentarci.

Ride.

Diuri avrebbe fatto fatica a trovare una donna che non conoscesse, in un modo o nell’altro, Béla Balázs.

Lukács: Non c’entra niente, tutto questo.

Jelena: Un giorno sono andata al suo albergo e l’ho raggiunto nel suo letto. Ci sono degli uomini che ci conquistano per il solo fatto che hanno bisogno di noi. Si ricorda della sua storia con Irma Seidler, no?

Eörsi: Sì, me ne ricordo.

Jelena: Balázs non voleva ritrovarsi nella stessa situazione. Quando Diuri si è innamorato di me, si è allontanato. Ma io sono finita a letto con suo fratello. Il caro Erwin. Un ragazzo tanto gentile e come si deve.

Lukács: Liena, non dimenticare che non sono più suscettibile, per queste cose.

Jelena: Ci sono situazioni in cui noi possiamo comportarci solo come oche o come puttane.

Eörsi: È vero.

Jelena: Mi sarebbe tanto piaciuto posare la testa sul petto di uno di voi tre. E d’altra parte, è quello che ho scritto.

Lukács: Completamente ubriaca…

Jelena: È importante? Non avevi che da offrirmi il tuo petto, ma non hai osato. Salow nemmeno e Z. nemmeno, naturalmente; gemeva e mi tendeva le braccia mentre dormiva, invece di stare con me. Ma Erwin, lui, c’era.

Eörsi: Balázs pensava che…

Jelena: Diuri, caro, tu eri così terribilmente intelligente… o meglio, mi sentivo una perfetta idiota vicino a te, mentre non lo sono poi troppo .. .

Eörsi: Il compagno Lukács ha sempre avuto un’alta opinione delle sue facoltà intellettuali.

Jelena: Speravo che Diuri potesse liberarmi. Sa, ero stata anarchica in Russia, e poi ero emigrata, e poi avevo avuto un periodo di crisi, volevo dipingere… Per Diuri, era la promessa di una liberazione, nel senso metafisico del termine. Era una persona fine e generosa. Peccato che avessi per lui un disgusto fisico.

Eörsi: È anche quello che sostiene Béla Balázs.

Jelena: Davvero? Allora, forse, non è vero niente. E, malgrado tutto, sarei restata con lui se quell’ubriacone di musicista non fosse venuto Bruno, un mio antico amante.

Lukács: Sono dettagli personali. Privi di interesse.

Jelena: Ma come! Sono di un grande interesse! A Heidelberg, facevamo ménage a tre: io con Bruno, e Diuri che lavorava nella stanza accanto alla sua geniale teoria del romanzo. Bruno che piombava a tutta forza un po’ sul piano e un po’ su di me e che beveva come una spugna. Anch’io bevevo ed era Diuri che pagava tutto e viveva nella paura che un giorno o l’altro Bruno ci ammazzasse tutti.

Lukács: E non avevo forse le mie buone ragioni? Quegli strilli, quelle urla. Un giorno Bruno ha acceso un fuoco dentro casa con i miei manoscritti. Abbiamo faticato a spegnerlo. Credo che sia stata quella volta che la mia Estetica di Heidelberg è bruciata fino all’ultimo foglio. Forse è stato meglio così.

Eörsi: Non è bruciata. È stata pubblicata dopo la tua morte. Un libro geniale.

Jelena: Vedi?

Lukács: È impossibile! Sono assolutamente sicuro che non ne è restata nemmeno una copia.

Silenzio.

Eörsi: Ma in fondo, sono veramente delle circostanze di ordine privato che ti hanno fatto restare a Heidelberg o ritornare in Ungheria? E, più in generale, ti consideri un autore ungherese o un autore tedesco?

Lukács: Vedi, ho sempre pensato… Se certi si possono permettere due mogli contemporaneamente, potrò ben permettermi il lusso di due patrie.

Jelena, ridendo: Ma certo, che te lo puoi concedere!

Lukács: Tu ti sei concessa due uomini allo stesso tempo.

Jelena: È una cosa che desidero da sempre chiederti: perché hai sopportato una cosa del genere? Hai rischiato di impazzire di paura e di gelosia…

Lukács: E che altro potevo fare? Era la guerra. Se avessi divorziato, ti avrebbero immediatamente rinchiusa come cittadina russa.

Jelena: Ma perché abitavi con noi? Non ti bastava di avermi dato il tuo nome? E i soldi, naturalmente. Non sarai mica un po’ masochista, in fondo?

Lukács: No!

Eörsi: E poi, più tardi, nel movimento operaio, la tua volontaria umiliazione, tutte quelle autocritiche,i rimproveri, la tua inclinazione a rinunciare al tuo livello intellettuale e a piegarti alle necessità tattiche più spaventose. Non era masochismo,questo?

Lukács: Ma che c’è di masochistico in questo?

Eörsi: La voluttà che prova il borghese a sguazzare nel fango con la plebaglia per rinfrancare la sua cattiva coscienza.

Lukács : Mi dispiace che siate caduti così in basso dopo la mia morte.

Silenzio.

È nel dicembre del 1918 che si è deciso il mio destino nel comunismo. Ho finalmente trovato un’affinità,una prospettiva di vita, ho trovato una verità inesauribile. Da quel giorno, le ho subordinato tutto.

Jelena: Anche la tua opera?

Lukács: In questo consisteva la mia opera. A Eörsi. Quello che definisci umiliazione e scadimento di livello aveva la sola funzione di permettermi di restare fedele all’orientamento principale della mia vita.

Eörsi: Ti sei conformato al peccato e, dopo, hai rincorso il tuo denaro.

Eörsi: Sì. Mi sono conformato al peccato e, dopo, sono andato alla ricerca della verità e quindi alla ricerca di Marx. Ma visto che in fondo non sono che un filosofo di seconda categoria, – sorride- mi ci sono voluti decenni per trovare quello che lui aveva scoperto in qualche anno. Quella strada era così importante per me,che….

Jelena: Però, l’ambiente che hai trovato nella casa dei delegati del popolo nel 1919 era piuttosto misto,no? Quel Béla Kun, ad esempio… Te l’ho detto la prima volta che l’ho visto, che mi ricordava Vautrin,sai, l’assassino.

Lukács: Un paragone molto pertinente. Lo cito spesso.

Jelena: Diuri, eri meraviglioso, anche così. Il tuo fanatismo idealista… il modo in cui il Georg von Lukács che eri si è trasformato in dirigente del movimento operaio ungherese… E con quale incredibile rapidità e con che sincerità!Ma il berretto non l’avresti dovuto portare, e non avresti nemmeno dovuto dare l’impressione che non ti saresti mai più lavato.

Lukács: Non avevo il tempo di lavarmi, tutto qui.

Jelena : Ma andiamo, su! Certo,che ti lavavi! Ma di nascosto, e pieno di rimorsi. Eri un personaggio di Dostoevskij e per questo ti amavo.

Lukács: Ma tu non mi capivi.

Jelena : Diuri, alzati un po’! Mi sbaglio! Che c’è scritto su questa tomba?

Eörsi: «Pace alle sue ceneri»!.

Jelena: In un cimitero comunista?

Eörsi: È sempre stato un combattente accanito nella lotta per la pace.

Jelena: Tu sei sempre quello che ho conosciuto e però sei cambiato molto. Dimmi, perché non sei venuto a trovarmi quando emigrasti in Unione Sovietica?

Lukács: Ti ho cercata, ma eri scomparsa senza lasciar traccia.

Jelena: Mi hai cercato con impegno?

Lukács: Nessuna delle nostre comuni amicizie sapeva niente di te.

Jelena: E tu hai continuato a cercare!

Lukács: Liena, già a quell’epoca avevo anche altre preoccupazioni nella mia vita.

Jelena: Se ci fosse da qualche parte una pietra tombale a mio nome, non ci troveresti la seconda data.

Eörsi: Dovremmo riprendere il discorso del peccato.

Jelena: Oh, fin dal nostro primo incontro, c’era solo il peccato che gli interessava, al mio caro Diuri. Sosteneva che l’arte era un’attività demoniaca perché essa pretende di creare un mondo migliore di quello di Dio. Già a quell’epoca, si aspettava tutto da noi, dai russi.

Eörsi: È d’altronde la ragione per cui risentiva, a suo parere…

Jelena: All’interno di questo cerchio magico alla Dostoevskij, cercava di scoprire se era attraverso il terrore o attraverso l’amore che si poteva riscattare il mondo. Io ero adattissima a questo dilemma: ero russa, quasi terrorista e, oltretutto, avevo bisogno di amore…

Lukács: Ma tu non sopportavi il mio amore.

Jelena: Anch’io ho preferito il peccato, Diuri.

Eörsi: Il peccato, lo stato di colpa… Non si tratta di categorie simili a quella della «via di Damasco»?

Lukács: Non mi ricordo di nessuna via di Damasco.

Eörsi: Ma se ne abbiamo parlato l’altro giorno

Lukács, con molta decisione e vigore: Non me ne ricordo.

Jelena si alza e dice andandosene: Sta per piovere. A Eörsi. Voi restate?

Eörsi a Lukács: Andiamo anche noi. Potremo continuare a parlare a casa.

Lukács: Vai. Io mi fumo un altro sigaro.

Eörsi si alza, esita e poi si affretta a seguire Jelena. Lukács si accende un sigaro, seduto sulla tomba. La scena si fa oscura; si vede solo la brace del sigaro acceso



* * *

ATTO II

SCENA 1

Lo studio. Dietro il tavolino a rotelle, Eörsi beve il caffè. Il registratore è fermo.

Eörsi: Mi si stringe il cuore a ritornare qui. Dieci anni dopo la sua morte, quando vengo, è come al tempo dei miei studi: tra l’istante in cui suono il campanello e quello in cui la porta mi viene aperta,mi segno. Prima, facevo questo gesto in uno sta to di eccitazione puerile: sto per ritrovarmi al cospetto di questo professore famoso nel mondo intero; saprò comportarmi come si deve? Saprò rispondere al suo ardore pedagogico con un silenzio altrettanto acuto? Il gesto meccanico della mia mano destra è rivolto ormai al rigore del tempo, ai cambiamenti intervenuti in questa stanza che ha perduto la sua atmosfera diventando un museo. Non ci resisto; bisogna che evochi il suo ricordo. Lo immagino davanti alla finestra, immobile, che guarda fuori.

Le luci illuminano Lukács, senza giacca, in piedi davanti alla finestra.

Eörsi, vedendolo: Eri completamente assorto nei tuoi pensieri.

Lukács: Non ti avevo visto.

Silenzio.

E comunque non hanno più importanza.

Eörsi: Come sarebbe, non hanno più importanza?

Lukács: Che pensi o che non pensi, fa lo stesso.

Eörsi: Perché?

Lukács: Perché i miei pensieri non hanno conseguenze.

Silenzio.

Eörsi: Proseguiamo con la biografia.

I due si siedono – Lukács al suo scrittoio e Eörsi sulla sedia che si trova dietro il tavolino a rotelle.

Lukács: Che c’è di nuovo?

Eörsi: L’ufficio politico ha appena decretato che il modo migliore di mettere in atto la riforma economica è di non metterla affatto in atto.

Lukács: I nostri dirigenti non capivano niente di Hegel. Ha scritto nel 1798, a proposito della situazione del Württemberg: «Se si dimostrano necessari cambiamenti, bisogna che qualcosa cambi».

Eörsi: I nostri dirigenti non hanno letto una sola riga di Hegel in tutta la loro vita.

Lukács: Vedi, è un gran problema, questo. Non sono nemmeno sicuro che nel caso di St. .. St. .. di Stalin… non sono sicuro che lo abbia letto.

Eörsi: È un tuo vecchio problema, compagno Lukács.

Lukács: Non sono mai riuscito a risolverlo.

Eörsi: Nella nostra conversazione di oggi, vorrei che si chiarisse in che modo riuscisti a sopravvivere ai tuoi anni di esilio in Unione Sovietica.

Lukács: Sono stato fortunato. Tutto qui.

Eörsi: Quando sei partito per l’Unione Sovietica?

Lukács: Nel 1933, dopo che Hitler aveva preso il potere.

Eörsi: E c’eri già stato?

Lukács: Sì, due volte. La prima nel 1921, per il III congresso del Comintern…

Eörsi: È in quell’occasione che hai incontrato Lenin per la prima volta?

Lukács: Sì. Era entrato in ritardo nella sala, e sulla tribuna non c’erano più posti liberi; così si è seduto per terra Il vicino, per prendere appunti.

Eörsi: E Trotzki

Lukács: Trotzki mi ha fatto una pessima impressione. È entrato… No, non è entrato, ha f… ha f…

Eörsi: Ha fatto la sua entrata nella sala?

Lukács: Ha fatto la sua entrata come i tedeschi oggi.

Eörsi: Come i tedeschi oggi?

Lukács: Prego?

Eörsi: Eravamo rimasti al momento in cui Trotzki fa la sua entrata nella sala.

Lukács: Sì. Ha fatto la sua entrata in sala e molti hanno storto la bocca. Ad allora risale la mia idea che, se fosse arrivato al potere, avrebbe coltivato lo stesso culto della personalità che aveva Stalin, o forse un culto ancora più forte.

Eörsi: Ancora più forte?

Lukács: Beh, diciamo un culto forte almeno quanto quello. Nella sua personalità c’era del… è ragione che Lenin ha detto che… c’era del… del…

Eörsi: C’era del Lassalle in lui?

Lukács: Sì, del Lassalle, e già a quell’epoca la cosa non mi piaceva. Trovi che sia un paragone fuori posto?

Eörsi: Conosco troppo poco Lassalle.

Lukács: Aveva molti punti in comune con Trotzki.

Silenzio.

Eörsi: E quand’è che andasti la seconda volta a Mosca?

Lukács: Nel 1930. Quella volta ci sono rimasto più di un anno.

Eörsi: E dove lavoravi?

Lukács: All’Istituto Marx-Engels. Bisogna che racconti questa storia perché è divertente: la prima persona che incontrai fu Michail Lifschitz. Abbiamo parlato per un’ora di argomenti uno più importante dell’altro, e quando sono rientrato a casa ho detto a Gertrud: che paese meraviglioso è l’Unione Sovietica! Sono dieci anni che percorro in lungo e in largo l’Europa e mai mi era capitato di incontrare una persona così brillante il mio primo giorno di lavoro. Ho vissuto più di dieci anni inUnione Sovietica, ma non ho mai più incontrato nessuno brillante come lui.

Lukács si mette a ridere.

Povero Lifschitz, anche lui si è rovinato più tardi, ma non gli si può rimproverare niente, perché, lui, è rimasto in Russia.

Eörsi: Compagno Lukács, perché sei fuggito, nel 1931?

Lukács: All’epoca, sono passato dal Partito ungherese a quello tedesco perché, con Béla Kun a capo del PC ungherese, la mia testa sarebbe caduta molto presto. D’altra parte Jelena Grabenko, lamia prima moglie, ha paragonato Béla Kun a Vautrin; ne abbiamo già parlato. Breve silenzio.

Lukács: Molto pertinente come paragone. E, per via di Kun, non mi sentivo molto al sicuro a Mosca, anche come membro del Partito tedesco. Il direttore dell’Istituto Marx-Engels, Riazanov, un giorno ha avuto una battuta molto divertente. Quando mi presentai a lui, mi disse: «Ah! Eccola Cominternata!».

Eörsi: Che ne è stato di questo Riazanov?

Lukács: Era un tipo eccentrico, ma molto colto. Un vero conoscitore di Marx. Un giorno è stato mandato in provincia ed è scomparso nel periodo dei grandi processi. Non se n’è saputo altro.

Eörsi: Possiamo immaginarlo, forse.

Lukács: Che intendi dire?

Eörsi: Che il destino di Riazanov era contenuto nella sua battuta, piacevole come l’acqua salata nei frutti di mare.

Lukács: Eh sì. Hai ragione, forse.

Eörsi: Quand’è che sei andato a Mosca per la terza volta?

Lukács: Tra il ’31 e il ’33 ho vissuto a Berlino. Ma Hitler divenne cancelliere il 30 gennaio del 1933. Sono dovuto restare a Berlino ancora fino alla metà di marzo per aiutare le organizzazioni degli intellettuali del Partito a prepararsi alla clandestinità. Una missione ridicola, logicamente, visto le condizioni del momento.

Eörsi: Sembrerebbe che ad ogni vittoria della contro-rivoluzione tu sia dovuto restare al tuo posto -con le speranze deluse sulle spalle.

Lukács: Sono sempre stato molto fortunato quando mi sono ritrovato in situazioni del genere.

Eörsi: Nel 1919, Béla Kun ti ha lasciato nell’Ungheria del Terrore bianco. Malgrado il tuo titolo di commissario del popolo, tu, un uomo noto, e il cui fisico non passava certo inosservato…

Lukács: Perché Kun pensava che sarei stato un eccellente martire.

Eörsi: Una volta mi hai raccontato che sei rimasto tre mesi in Ungheria, nel 1929, per dirigere il lavoro clandestino. Hai rischiato di farti arrestare.

Lukács: Sì, perché mi avevano preso in affitto un appartamento che era proprio accanto alla mia vecchia redazione. Lì mi conoscevano tutti; per giunta la mia padrona di casa era una parente del capo della polizia politica del regime di Horthy. Mi dovetti inventare una storia di eredità molto complicata per riuscire a svignarmela.

Eörsi: Gyula Illyés dice da qualche parte che l’avere continuamente rischiato la vita ti dava il diritto di uccidere. Prende come esempio i tre mesi che hai trascorso in Ungheria.

Lukács: Illyés si sbaglia perché non ho veramente rischiato la vita in Ungheria nel 1929. Ero troppo conosciuto all’estero.

Silenzio.

Penso che me la sarei cavata con una condanna a vita.

Silenzio.

Lui dice che ho ucciso?

Eörsi: Illyés ripete soltanto quello che tu stesso gli hai raccontato.

Lukács: Vedi, quando ero commissario politico della V divisione a Tiszafüred… ma se ne è già parlato.

Eörsi: Penso spesso a quante volte hai dovuto far fronte a problemi estranei alla tua natura di filosofo. Nel 1919 hai fatto fucilare degli uomini; negli anni 20, aVienna, hai passa to mesi interi a cercare l’oro che Béla Kun aveva mandato di nascosto ai suoi fidi da Mosca; per anni – ma che dico – per decenni, hai condotto lotte di parte, spietatamente, sfruttando tutti i mezzi; hai sprecato il tuo talento in lavori da subalterno; a Budapest, ti sei nascosto in un appartamento, in costante pericolo di vita…

Lukács: Vedi, quando si ha la fortuna straordinaria di potersi unire a chi, nella storia universale, rappresenta la verità…

Eörsi: E se questa verità si personifica in uno Stalin?

Lukács: Ma questo è secondario. Io ho sempre detto: right or wrong, my party!

Il registratore si ferma, ma i due uomini non se ne accorgono.

Eörsi: È quello che dici dopo la tua via di Damasco.

Lukács: Ma quale via di Damasco?

Eörsi: Quando un militante continua a far riferimento a un partito politico anche quando quest’ultimo è diventato un falso partito, non trovi che esprima in questo modo una sorta di religiosità?

Lukács: Quando un movimento si incarica di una missione storica, non si può sperare che la porti avanti in ogni momento, né che essa si identifichi totalmente nella personalità dei suoi capi. La vérité marche lentement. E fa delle deviazioni. Ma questa non è ragione sufficiente per abbandonarla.

Eörsi: Ma se queste deviazioni durano decenni, come si fa a sapere se è sempre la verità che avanza, là, lungo il cammino?

Lukács: Tutti questi problemi trovano origine nel fatto che siamo dovuti passare per uno sviluppo socialista non classico. Vedi…

Eörsi: Scusami, il registratore si è fermato.

Eörsi cerca di rimettere in funzione l’apparecchio e si gira verso il pubblico.

Per lungo tempo non ho potuto battere mio fratello a scacchi, anche se giocavo meglio di lui; allo stesso modo, ho avuto paura all’idea che potessi vincere nel nostro confronto il grande filosofo. E cosa avrebbe potuto significare una tale vittoria? In fondo, era la sua vita in gioco. Ma ora, è della mia che si tratta. La fedeltà è una virtù a sé? Nelle favole, i rospi si trasformano in principi; ma cosa bisogna farese è il bel principe che si trasforma in rospo? Solo una volta in vita sua György Lukács ha prospettato un’eventualità del genere.

Eörsi smette di traffica re con il registratore e si appoggia allo schienale della sedia.

Nel 1968, quando i paesi veramente socialisti hanno liberato dal suo giogo la Cecoslovacchia, Lukács mi ha detto…

La voce di Lukács: Tutto lascia pensare che l’esperienza iniziata nel 1917 abbia fallito; bisogna ricominciare tutto da zero, un’altra volta, in un altro posto.

Eörsi: Compagno Lukács, hai veramente detto questo?

La luce ritorna sul viso di Lukács.

Lukács: Che cosa?

Eörsi: Siccome, da allora, non hai più ripetuto quell’osservazione, non sono assolutamente sicuro di aver capito bene, all’epoca.

Lukács: Di che cosa parli?

Eörsi: Se mi consenti, te la faccio riascoltare.

Eörsi riavvolge il nastro, preme il bottone, il registratore gira ma resta silenzioso.

Lukács: Non si sente niente. Si sente solo il rumore di un registratore acceso.

Eörsi: Compagno Lukács, non tiè mai venuto in mente che la grande esperienza iniziata nel 1917 abbia fallito e che bisognerebbe ricominciare tutto da zero, un’altra volta e in un altro posto?

Lukács: Mai. Nemmeno per un istante.

Silenzio.

Eörsi: Eravamo rimasti al ’33, quando dovesti fuggire da Berlino. Con quali documenti sei partito?

Lukács: Con dei documenti falsi. Fino al 1945, ho avuto solo passaporti falsi. Ho viaggiato solo con passaporti falsi.

Eörsi: Sei riuscito a sfuggire a diversi tipi di fascismo, ma come hai fatto a rimanere vivo in Unione Sovietica?

Lukács: Vedi, in questo genere di cose, c’è anche una parte di fortuna.

Eörsi: In che cosa hai avuto fortuna?

Lukács: Prima di tutto nel 1930, quando stavo a Mosca, e Bucharin mi propose un incontro amichevole. lo rifiutai.

Eörsi: Allora, avere fortuna significa…

Lukács: Sì, in quel periodo, ero in contatto con lui. Qualche anno più tardi, sarei stato implicato in uno dei grandi processi.

Eörsi: Quale altra fortuna hai avuto?

Lukács: Quella di aver lasciato il Partito ungherese nel 1930. Quando sono stati liquidati nel ’36-’37e Kun è stato giustiziato con il suo gruppo, nessuno più si ricordava che io ero stato membro del Partito ungherese, e così sono sfuggito al suo destino.

Eörsi: Ma hai finito per essere arrestatolo stesso.

Lukács: Sì, ma solo nel 1941. E di nuovo ho avuto fortuna.

Eörsi: Ad essere arrestato?

Lukács: No, ad essere arrestato solo allora. Non c’erano più esecuzioni.

Eörsi: Ascoltandoti, compagno Lukács, non posso impedirmi di pensare all’Ivan Denissovič di Solgenicyn, che continuò ad avere fortuna nel suo campo di concentramento in Siberia.

Lukács: Sono sfuggito a una delle più grandi campagne di arresti che il mondo abbia mai conosciuto. È stato solo verso la fine che sono stato dentro per due mesi. Questa si può solo chiamare fortuna.

Eörsi: Come hai vissuto quei processi?

Lukács: Li ho considerati mostruosità, ma mi sono consolato pensando che eravamo obbligati a schierarci dalla parte di Robespierre, anche se il tribunale che aveva giudicato Danton non aveva più validità giuridica di quello che condannò Bucharin. Pensavo che l’essenziale fosse annientare Hitler. E contro di lui non esisteva nessuno al di fuori di Stalin.

Eörsi: La pensi ancora così sul quel periodo?

Lukács: Ho cambiato parere in questo senso: penso che Robespierre avesse bisogno di quel processo per assicurare il suo potere, mentre Stalin aveva già consolidato il suo prima dei processi. In queste condizioni, penso che siano stati superflui.

Eörsi: Senza parlare poi del modo in cui sono stati presentati… Danton, almeno, non è stato costrettoad accusarsi di tradimento.

Lukács: La differenza è solo di ordine morale. Non devi dimenticare che Stalin aveva ragione negli scontri ideologici che hanno scosso il Partito dopo la morte di Lenin. Trotzki diceva che era impossibile costruire il socialismo in un solo paese…

Eörsi: E si è riusciti a costruirlo?

Lukács: Che cosa?

Eörsi: Il socialismo.

Lukács: Visto che è stato costruito…

Eörsi: È stato costruito, non discuto, ma cosa?

Lukács: Non lo posso negare: quanto è successo in Unione Sovietica non ha rispettato lo sviluppo classico del socialismo; ma, visto che il capitalismo ha avuto uno sviluppo classico…

Eörsi: Scusami, bisogna che giri il nastro. Armeggia intorno al registratore.

Lukács: Quando abbiamo liberamente deciso qualcosa, dobbiamo rinunciare a una parte della nostra libertà per trarne le conseguenze. È quello che Churchill chiamava, a ragione, «The period of consequences». Silenzio. Solo la totalità, soltanto essa, ha una realtà. Se si accetta… Silenzio. Il comunismo non è qualcosa che ci si può contentare di assaggiare di tanto in tanto. Silenzio. Non so di chi sia quel quadro… Un esercito di cavalieri avanza nella pianura, ma un burrone sbarra loro la via. I primi si gettano nel vuoto, l’abisso si riempie di cadaveri su cui quelli che seguono possono passare per raggiungere l’orlo opposto. Forse, in tutta la mia vita, non ho fatto altro che cercare di colmare quell’abisso…

Eörsi, a se stesso: Se Dio ha posto un abisso tra me e il comunismo, chi sono io. per decidere di sfuggire e di non saltare?

Lukács: Ho sempre sostenuto che il socialismo peggiore è comunque da preferire al capitalismo più riuscito. Naturalmente, ciò non è vero sul piano dell’esistenza individuale, ma è sicuramente vero sul piano della storia.

Eörsi: Perché solo la totalità accede alla realtà.

Lukács: Malgrado tutti gli orrori… pure mio figlio venne arrestato… gli anni passati in Unione Sovietica sono stati un periodo molto felice della mia vita. Da un lato, perché è là che ho definitivamente legato le mie ricerche aMarx. E poi per via di Gertrud. Sono stato molto felice con lei. Ho avuto molta fortuna, e Gertrud è stata la mia fortuna più grande. Cade in avanti sul tavolo, scivola lentamente dalla sedia fino a terra.

Eörsi sussulta, lo sostiene, lo aiuta a rialzarsi e lo accompagna fuori della stanza.

 

SCENA 2

Lo studio. Eörsi cammina in lungo e in largo, ogni tanto si siede allo scrittoio. Il registratore è acceso; di tanto in tanto si sente la voce di Lukács.

Eörsi: Ascolto i nastri e fatico a domare il mio dolore. La voce di un uomo di 86 anni che dovrebbe servire all’ edificazione della posterità con il suo racconto – racconto di cosa? Della sua vita? Attraverso l’auto-giustificazione? E l’altra voce, la mia? Una voce sconvolta da questa morte così vicina, una voce che capricciosamente mescola alla rivolta il rispetto del discepolo per il maestro. Forse, è grazie a questi ultimi mesi che sono finalmente diventato adulto. Ho avuto la rivelazione che, con il Vecchio, finiva tutta un’epoca. Un’epoca che aveva forgiato lamia giovinezza con i suoi ideali, le sue aspirazioni, le sue menzogne. E anche il bolscevismo si spegne, dopo essersi arreso alla ragion diStato e al burocratismo. Poco a poco, l’agonia s’avanza e il morente resiste finché può. Ma il fetore dell’epoca si diffonde… sono triste, e stanco.

Silenzio. Si apre la porta della stanza da pranzo. Gertrud, la donna di una certa età della fotografia, entra nella stanza.

Gertrud: Gyuri?

Eörsi: È uscito.

Gertrud: Da quanto tempo?

Eörsi: Da un bel pezzo. Gertrud si siede ma non allo scrittoio, in una poltrona – forse, proprio sotto la sua fotografia. Ha sempre parlato benissimo di te, Gertrud.

Gertrud: Potevi anche risparmiarti di dirlo.

Eörsi: Scusami.

Gertrud: Invece mi piacerebbe molto ascoltare le registrazioni.

La voce di Lukács: La nostra vita in comune – di Gertrud e mia – è iniziata nel 1920, durante il mio esilio viennese. Lei era vedova emi ha seguito con i suoi bambini. Ma ci conoscevamo già da molto tempo… Non ho mai incontrato nessun’altra donna con la quale avrei potuto avere un rapporto così profondo.

Gertrud: Perché prima non eri ancora pronto ad avere relazioni così intime.

La voce di Lukács: Prima di lei, le donne che avevano contato nella mia vita non avevano mai influenzatola mia evoluzione. Da un lato, c’erano le donne, e dall’altro la mia evoluzione – erano due cose distinte. E allora i contrari…, i contrari…, i contrari…

Eörsi: Si attiravano.

La voce di Lukács: Sì, creavano l’atmosfera favorevole all’attrazione. Eravamo diversi ed è proprio la diversità che attira.

Gertrud: Ma, Gyuri, non ci si rassomigliava nemmeno molto.

La voce di Lukács: Somigliarsi è una menzogna romantica. Ma, con Gertrud non potevo nemmeno sopportare l’idea che lei non fosse d’accordo su una delle mie decisioni. Lei non voleva litigare con quel famoso teorico che ero. Ma le bastava dire: «Questo lo sai tu meglio di me», oppure «A questo non avevo mai pensato», perché io mi disperassi. Avevo l’impressione che avesse delle riserve di ordine morale – ed era insopportabile.

Gertrud: Non avrei mai potuto raggiungere questo risultato litigando.

Eörsi: No di certo.

La voce di Lukács: I personaggi femminili di Gottfried Keller hanno a volte questo rigore. Gertrud: È stata dura. Soprattutto in Unione Sovietica. Senza dime, Gyuri si sarebbe forse piegato alle circostanze con riserve ancora minori. Forse si sarebbe degradato completamente. Ma se avessi preteso da lui poco di più, non so se avrebbe potuto sopravvivere.

La voce di Lukács: Tutto quello che cercavo nella vita privata, era che Gertrud fosse d’accordo.

Gertrud: Sai, quando mio figlio Ferko è stato arrestato, abbiamo faticato molto a mantenere il nostro solito equilibrio. Per molto tempo non abbiamo nemmeno saputo se era ancora vivo. E, in questa situazione, la mia missione era quella di mantenere Gyuri in vita, fisicamente e moralmente.

Eörsi: Parli di uno, ma era l’altra ad essere in pericolo.

La voce di Lukács: Lei non ha mai perso il suo buon senso e la sua serenità, anche nelle circostanze più drammatiche. Era come Minna von Barnheim di Lessing.

Gertrud: Una sera, abbiamo sentito suonare alla porta. Abbiamo aperto, morti di paura: era un guardiano di un campo in Siberia. Ci ha detto che Ferko lavorava in una coltivazione orticola… dal giorno in cui aveva voluto lasciarsi morire nella neve e gli si erano gelatele dita. Quell’uomo non ci disse il suo nome, ma era comunque venuto a trovarci.

Eörsi: Perché racconti quest’episodio?

Gertrud: È così che ho capito che, anche nei periodi più terribili, non era possibile estirpare fino in fondo l’umanità dal cuore degli uomini. Si può sempre resistere, in un modo o nell’altro.

Eörsi: Quando non ci si fa incastrare…

Gertrud: Gyuri si è sbagliato solo nella misura in cui ciò era indispensabile al suo lavoro.

Eörsi: Ma a quale lavoro? Silenzio. Dopo, Gertrud, sono state riscoperte le opere che risalgono all’esilio in Russia. Una vergogna!Prendiamo il suo autore preferito, Thomas Mann: a volte lo definisce critico geniale della società, e altre lo tratta da parassita, da schiavo della borghesia. Perché hai fatto finta di niente?

Gertrud: Fai presto a parlare tu, che te ne stai comodamente piazzato al tuo posto. Bisognava forse, per il socialismo, che Gyuri sopravvivesse e potesse scrivere le sue opere principali…

Eörsi: Per quale tipo di socialismo? Silenzio. Gertrud, è necessario che ti racconti tutto quello che è successo dopo la tua morte nei paesi che pretendono di essere socialisti?

Gertrud: No! Era di Gyuri che volevamo parlare!

Eörsi: Quando eri già all’ospedale con il cancro alla laringe, e noi sapevamo che ti restavano solo pochi giorni di vita, un giorno gli ho chiesto come stavi.

La voce di Lukács: Oggi Gertrud non sta un gran che, deve essere il tempo. La natura mi ha sempre lasciato piuttosto indifferente, mentre per Gertrud è molto importante. Forse è per questo che è sempre stata tanto sensibile ai cambiamenti del tempo.

Gertrud: Ferma quel registratore.

Eörsi, ubbidendo: C’erano cose che non riusciva a guardare in faccia.

Gertrud: E questa, per te, non è una dimostrazione di umanità?

Eörsi: Attribuiva i sintomi cancerosi del comunismo alle condizioni atmosferiche della storia…

Gertrud: Non spetta a te dirmi questo.

Eörsi: Al tuo funerale, Gertrud, ha seguito la bara da solo. Era la prima volta che vedevo sul suo viso quella specie di maschera che, negli ultimi mesi della sua vita.. Sento ancora un famoso storico della letteratura bisbigliare a un collega altrettanto celebre: «Guarda là! Non ti fa pensare a una scimmia?»

Gertrud: Mi sento a disagio, qui.

Eörsi: Poi, ha meditato il suicidio, per un anno intero. Per prendere una decisione, ha voluto vedere se riusciva a scrivere anche senza dite.

Gertrud: Spero che ci sia riuscito.

Eörsi: Sì, con il tuo aiuto. Gli sei servita da modello per il suo saggio su Minna von Barnheim, e questo gli ha salvato la vita. Un meraviglioso brano di prosa, un poema, quasi.

Gertrud: Se solo avessi saputo che cosa cambiava, qui!

Eörsi: Il saggio è stato un successo; Gyuri ha deciso per la vita ma non si è mai ripreso perfettamente. Come se avesse perduto la capacità di sentire, si è rinchiuso in se stesso, si è immerso nel suo lavoro, sempre più indifferente nei riguardi della cangiante diversità della vita quotidiana che, grazie ate, aveva sempre saputo guardare.

Gertrud: È qui che è morto?

Eörsi: No, all’ospedale del Partito. Sono andato a trovarlo. Era coricato vicino alla finestra, faceva molto caldo. Gli ho rivolto la parola e lui è riuscito a mormorare solo qualche parola incomprensibile.

Gertrud: Mi piacerebbe sentirle.

Eörsi: Non avevo più il registratore.

Gertrud: C’è qualcosa di strano, qui.

Eörsi: È stato istituito un museo. Una specie di istituto di ricerca.

Gertrud: Allora, non ci tengo a rivedere la mia camera.

Eörsi: Sono venuto solo per ascoltare le registrazioni. Vorrei trarne qualcosa.

La voce di Lukács: Il giorno in cui a Mosca il Partito festeggiava il mio sessantesimo compleanno, nell’aprile del 1945, Jenö Varga, un dirigente molto in vista della commissione di pianificazione, è venuto ad annunciarmi che stava per intervenire a favore di Ferko e che sarebbe bastato che gli redigessi una lettera. Sempre in quel periodo apprendemmo che ero stato eletto deputato in Ungheria. Una situazione impossibile: io al Parlamento ungherese e il figlio di Gertrud rinchiuso in un campo di concentramento in Siberia. Fu così che scrissi quella lettera…

Eörsi, fermando il registratore: Bisogna che mi riposi.

Si alza.

Gertrud, come ti senti?

Silenzio.

Tutto bene?

Silenzio; Eörsi, perplesso, alza le spalle e lascia la stanza.

 

SCENA 3

Lo studio di Lukács. Marian è vicino al tavolino a rotelle su cui si trova il registratore. Lukács, in disordine, in pessime condizioni, è seduto al suo scrittoio.

Marian: Eörsi non poteva venire oggi, quindi faccio io l’intervistatore. Comincia da una di quelle storie che ami raccontare… Il Grand Hotel du Gouffre… Gli intellettuali decadenti e il loro atteggiamento pessimista nella sala del Grand Hotel du Gouffre, quel loro modo di giocare con la morte e allo stesso tempo di godersi la vita. A chi pensavi quando li hai descritti?

Lukács: Non ha più importanza.

Marian: Che cosa non ha più importanza?

Lukács: Sapere a chi pensavo.

Marian: Ma il paragone è tuo, no?

Silenzio.

E come è andata quella notte, a Mosca, quando hai gettato nel fiume, dall’alto di un ponte, un sacco pieno di libri proibiti?

Silenzio.

Di un po’, Gyuri, di che cosa vivevi a Vienna? Della pensione di vedova di Gertrud?

Lukács: Queste questioni di soldi non hanno più molto interesse, ormai. All’inizio, si viveva più o meno nella miseria, ma poi ne siamo usciti.

Marian: E l’oro di Béla Kun? È vero che mandava da Mosca dell’oro al suo gruppo perché combattesse il tuo? Che lo hai scoperto e che ne è scoppiato uno scandalo enorme?

Lukács tace.

Di’ un po’, Gyuri, a chi ha paragonato Liena Béla Kun? A Vautrin, vero?

Lukács va alla finestra, l’apre e si sporge all’esterno.

Marian: Kun aveva due chili e mezzo di oro, vero? Perfino Vautrin l’avrebbe invidiato. Come ha potuto avere quell’oro? L’aveva rubato, no? Rubato in Ungheria, quando è fuggito con l’oro dalla Banca Nazionale?

Lukács: No.

Marian: Sono tutte frottole?

Lukács: Sì.

Marian: Da dove usciva, allora? Silenzio. Prenderai freddo.

Lei va alla finestra e riconduce Lukács alla sua sedia.

Eörsi dice che tu odiavi Béla Kun più di Hitler.

Lukács: Sono stati i partigiani di Kun a confiscare l’oro durante la rivoluzione russa. Un affare, è tutto quello che c’è di legittimo. Non esiste partigiano al mondo che consegni l’intero bottino. E Kun, in definitiva, non ha utilizzato il denaro rubato per scopi personali, ma con l’unica intenzione di finanziare lotte di parte. Ha mandato a Vienna cinque chili di pezzi d’oro…

Marian: Cinque chili? Avevi sempre detto due e mezzo!

Lukács: Questa differenza non ha più molta importanza, oggi.

Lukács si alza e si dirige senza una parola verso la porta; Marian scatta, lo prende per il braccio e lo riconduce al suo tavolo.

Marian: Ancora un momento. Il compagno Földes mi incarica di chiederti se può venirti a trovare. Cosa gli dico? Sai quant’è influente, da un po’ di tempo in qua. Forse porterà con sé il compagno Verebes.

Lukács: Il compagno Verebes è un volgare bugiardo.

Marian: Se permetti, cancello quest’ultima frase. Armeggia con il registratore.

Lukács: Kun leccava i piedi a Zinoviev e Verebes leccava i piedi a Kun.

Marian: Verebes era ancora bambino e viveva in Ungheria quando Kun è morto a Mosca.

Lukács: Dettagli…

Marian: È stato il compagno Verebes ad ottenere la tua reintegrazione nel Partito.

Lukács: I giovani mi rimproverano di essermi abbandonato all’autocritica fin dall’inizio degli anni venti, senza convinzione alcuna, solo per poter restare nel Partito. Non si sono mai accorti di quanto questa autocritica fosse sempre coerente. Ho sempre dovuto scusarmi di aver anticipato il Partito, di aver reclamato una politica da fronte popolare prima che la morte di Stalin la potesse rendere teoricamente possibile. Non vedono questa direttrice coerente e profetica, non vedono il progresso, vedono solo il fango che esso trasporta ed è per questa ragione che…

Marian: Scusami, Gyuri. Ho rimesso in moto il registratore solo ora. Puoi riprendere dall’inizio, per favore? È molto importante…

Lukács si alza di nuovo e si dirige verso la porta.

Marian: Perché non vuoi ripetere? Ti prego… Solo un momento. Che devo dire al compagno Földes? Desidera intervenire affinché la tua biblioteca venga conservata qui, nel tuo appartamento. Naturalmente, è ancora prematuro, ma in avvenire, chissà?

Lukács lascia la stanza;

Marian si registra: Questa intervista a György Lukács è stata registrata il 10 maggio1971. Le domande erano di Marian Raabe. Il livello delle risposte riflette il pessimo stato di salute di György Lukács.

 

SCENA 4

Un cabaret berlinese. Nella sala, Eörsi è seduto solo a un tavolo. La scena rappresenta una strada deserta.

Eörsi: Caro compagno Lukács, eccomi qui, di nuovo in questo cabaret; non riesco a scrivere il mio lavoro teatrale. So che cosa diresti: non avrei dovuto lasciare il cabaret. Rileggendo le tue opere così assennate, ho appreso che il passato è il regno dell’epopea e non del dramma. La scena non tollera che il presente. Il destino, a teatro, getta i suoi dadi sotto i nostri occhi, il Rubicone scorre davanti a noi – è per questo che guardiamola scena come presi da una sorta di malia. lo, invece, erro nel passato, cerco di scoprire il perché di decisioni che, oggi, dopo tanto tempo…

Spari dietro la scena, Eörsi sussulta.

Che succede?

Spari, urla: Eörsi si precipita sulla scena.

Ma che succede, qua? Che è, questa strada? No… non è la strada dell’Accademia. Stava là, nel 1956, la direzione del Partito. Ora è un cabaret. Non capisco. Il 31ottobre, accompagnavo Lukács in una strada identica a questa. I mezzi di trasporto non camminavano più e siamo dovuti arrivare a piedi fin qui dal suo appartamento sul lungofiume Belgrado. C’erano due chilometri buoni da fare. Fu lì che il vertice del Partito, sette uomini, dovette fare la scelta definitiva: l’Ungheria sarebbe rimasta membro del Patto di Varsavia?

Ad una nutrita fucilata, Eörsi, cercando di fuggire dalla scena, cade su Lukács che entra in quel momento. Eörsi lo afferra per il gomito, gli fa traversare precipitosamente la scena, corrono da fermi; Lukács porta un cappotto e un berretto.

Lukács: Sono bravi questi ragazzi!

Eörsi: Conosco quello con cui abbiamo appena parlato. Segue i corsi di regia alla Scuola superiore del cinema.

Lukács: È molto bravo.

Eörsi: È comandante degli insorti. Con il suo gruppo, ha messo fuori combattimento parecchie dozzine di carri russi. E, l’altro ieri, è entrato in trattative con il governo in nome degli insorti comunisti.

Spari, Eörsi sobbalza, Lukács sembra non aver sentito nulla.

Compagno Lukács, tu sarai certamente per il ritiro, no?

Lukács non risponde.

Compagno Lukács, è quello che il mondo intero si aspetta da te.

Lukács: Non mi sono mai preoccupato di ciò che ci si attendeva da me.

Eörsi: Ma sarebbe la riabilitazione! I comunisti possono riguadagnare la fiducia del popolo solo se si rendono indipendenti dall’Unione Sovietica.

Lukács: Cos’è quello?

Eörsi: Un carro russo.

Il rumore terribile di uno sparo; Eörsi si ritrova ventre a terra; Lukács, impassibile, continua sulla sua strada.

Lukács: A mio parere, la situazione non è così semplice. I russi considererebbero una tale decisione come una provocazione…

Eörsi: E gli ungheresi considererebbero come una provocazione che…

Spari. Eörsi cade lungo disteso; Lukács continua ad avanzare.

Lukács: E poi un’Ungheria neutrale sarebbe alla mercé della NATO. E visto che non abbiamo tradizioni democratiche molto radicate…

Eörsi: E quando potremo cominciare a crearle se non adesso?…

Spari, urla, polvere, fumo; Lukács avanza imperterrito; Eörsi lo raggiunge e lo afferra per il gomito.

Lukács: Da noi la neutralità porterebbe alla democrazia dei generali.

Eörsi: Ma, se gli accordi internazionali…

Uno sparo, un’esplosione, Eörsi si ripara in un portone. Lukács avanza sempre. Dopo un attimo, Eörsi lo segue e lo afferra di nuovo per il gomito.

Lukács: La cosa merita una ponderata riflessione.

Eörsi: Intendi forse dire, compagno Lukács, che il Patto di Varsavia ci protegge sia dai russi che dall’Occidente…

Lukács: Vedi, la situazione è complicata… Bisogna esaminarla senza la sciarsi prendere dall’emozione. D’altra parte, tu puoi aver ragione di dire…

Un’esplosione, fumo, Lukács scompare; Eörsi è bocconi. Dopo un attimo si rialza e si spolvera i vestiti. Silenzio.

Eörsi: Nell’ambito del comitato direttivo di sette membri, Lukács e un altro furono i soli a votare contro il ritiro dell’Ungheria dal Patto di Varsavia. Quelli che si schierarono per la neutralità dell’Ungheria la pagarono in seguito, tranne qualche eccezione, con la libertà o con la vita. Dopo la repressione russa della rivolta, Lukács venne imprigionato con gli altri in Romania. E visto che siamo a teatro, posso rivelare che, tra quelli che votarono per il ritiro, ce n’era uno in nome del quale, più tardi, un tribunale ha condannato gli altri…

Uno sparo, Eörsi si accascia al suolo.

 

SCENA 5

Un cimitero. Eörsi è seduto sulla tomba di Lukács e beve del caffè turco. Dietro di lui, sospeso in aria, Lukács al suo scrittoio. Il cielo è azzurro e luminoso.

Lukács: Che c’è di nuovo?

Eörsi: In Polonia ci sono di nuovo delle manifestazioni imponenti di lavoratori. Gli operai evidentemente non vogliono prendere coscienza del fatto che sono al potere. Vogliono abbatterlo con tutti i mezzi.

Lukács: Tutto ciò dipende dal fatto che gli interessi della classe operaia non hanno un’organizzazione rappresentativa nel nostro socialismo; quindi, l’insoddisfazione dei lavoratori può solo organizzarsi all’esterno del nostro sistema, e dall’esterno…

Eörsi: Buon Dio! Compagno Lukács! Come diamine hai fatto a ritrovarti lassù?

Lukács: È una nuvola. A forma di studio. Qui siamo noi che decidiamo la forma delle nuvole che sono a nostra disposizione personale.

Eörsi: E quante nuvole si possono avere?

Lukács: Ognuno secondo le sue necessità. lo non ne ho bi sogno di molte. Di’ un po’, che cosa ci farei mai con tre studi?

Eörsi: E quei libri?

Lukács: Nuvole, nient’altro che nuvole.

Eörsi: È bello.

Lukács: Vedi, Eörsi, ho preso quota. E per cambiare un po’ le cose, sarò io ora a porti le domande e tu a rispondere. Dimmi, da dove ti viene l’audacia, dall’alto della tua superiorità morale, di avanzare giudizi nei miei riguardi?

Eörsi: Cerco solo di capire…

Lukács: No. Il tuo interesse per la mia vita è frutto di pregiudizi. Naturalmente, sarà il tuo problema, il tuo lavoro teatrale, a farne le spese. Il palcoscenico non tollera domande che abbiano ricevuto risposta a priori…

Eörsi: Ma io ho dell’affetto per te, compagno Lukács… Ci tengo a te e…

Lukács: Come puoi tenere a me e rifiutare ciò che è stato l’essenziale della mia vita?

Eörsi: Io non rifiuto il fatto che tu sia stato comunista, rifiuto semplicemente il fatto che tu abbia rinunciato alla tua indipendenza…

Lukács: E tu? Cos’hai sacrificato alle tue convinzioni? Non venirmi a parlare delle tue storie di prigione! Rispetto alla vita quotidiana di Mosca, quella è stata una vacanza!

Eörsi: Lo so.

Lukács: Non solo ho rinunciato a una vita senza problemi, ho anche rinunciato a quella tracotanza intellettuale che cerca solo la purezza dell’opera nello schifo della realtà. Chiunque non sia capace, nel nome della verità fondamentale, di tradire questa o quella delle sue convinzioni…

Eörsi: Sì, è vero.

Lukács: E tu ne sei fiero. Non la smetti di mettere in mostra la tua virtù, come se fossi una vergine. Ma il primo imbecille che incontri può esse re virtuoso. E invece ci vuole se si vuol servire la verità con rigore una virtù intelligente, che possa sacrificarsi.

Lukács accende un sigaro. Dimmi, Eörsi, tu rifiuti completamente quello che viene definito socialismo realmente esistente?

Eörsi: Lo considero come totalmente non socialista.

Lukács: Però ti consideri socialista.

Eörsi: Sì.

Lukács: E cosa proponi al posto del socialismo esistente?

Silenzio.

Un socialismo non esistente?

Silenzio.

Oppure te stesso? Proponiamo al mondo di contentarsi, al posto del socialismo esistente, di István Eörsi.

Eörsi: Lo ammetto. Non ho risposta.

Lukács: E tu dai consigli?

Eörsi: Io non do consigli. Sono disperato, ecco tutto. Cerco di capirti, compagno Lukacs, e mi scontro con contraddizioni spaventose… ad esempio…

Lukács: Ci risiamo…

Eörsi: Nel 1956, sei stato ministro del governo rivoluzionario.

Lukács: È esatto.

Eörsi: Poi sei stato esiliato in Romania con gli altri dirigenti comunisti della rivoluzione.

Lukács: È esatto.

Eörsi: Qualcuno è stato giustiziato, qualcun altro imprigionato. Tu, compagno Lukács, sei tornato a vivere a Budapest anche se era stato riconosciuto in te il pericolo ideologico principale?

Lukács: È esatto.

Eörsi: E quando ti è stato permesso, sei rientrato nel Partito. Quel Partito che, attraverso il sangue e la violenza, il sangue di alcuni dei tuoi compagni di lotta, aveva lavorato alla «normalizzazione» .

Lukács: Io non sono rientrato nel Partito; io ho continuato una tradizione rivoluzionaria che esiste dal 1917.

Eörsi: Ma eri tu che rappresentavi questa tradizione rivoluzionaria , non l’organizzazione… È il Partito che si sarebbe dovuto unire a te….

Lukács, ridendo: È troppo tardi per questo.

Eörsi: Con la tua riadesione, hai conferito al Partito l’apparenza della continuità.

Lukács: Beh? Allora? Ancora giochi a fare il giudice? Ma non pensare che in questo modo riuscirai a sbarazzarti della disperazione.

Eörsi: Preferisco la disperazione al pascermi di illusioni.

Lukács: È ancora auto-illusione! Cosi facendo, ti dai l’illusione della nobiltà. Vai da una delusione all’altra; poi ti fabbrichi una disperazione originale e, nel frattempo, la tua vita si sbriciola e si disperde. Per me, ogni cosa è la conseguenza di qualche altra cosa.

Eörsi: Della via di Damasco.

Lukács e il suo studio svaniscono.

La voce di Lukács: Le vite notevoli sono le vite coerenti.

Eörsi: La tua recente riammissione al Partito è la conseguenza organica della tua via di Damasco.

La voce di Lukács (quella reale e quella registrata all’unisono): Via di Damasco? Ma quale via di Damasco? Non mi ricordo di nessuna via di Damasco. Ma di cosa parli?

 

SCENA 6

Lo studio è vuoto. Si sente suonare alla porta; Marian attraversa la stanza e, poco dopo, ricompare con Eörsi. Quest’ultimo, sudato e senza fiato, porta il registratore.

Marian: Puoi metterlo dove ti pare, in un angolo… Tanto non serve più a niente, ora.

Eörsi, accennando alla stanza con la testa: Come va, oggi?

Marian: Non entrare subito . Bisogna definire una tattica, prima.

Eörsi: Che tattica?

Marian apre la porta della stanza da pranzo. Il viso di Eörsi si contrae.

Marian: Lo vedi?

Eörsi: Non sono cieco.

Marian: Ma lui sì.

Eörsi: No.

Marian: In ogni caso non vede niente la maggior parte del tempo.

Eörsi: Parla più piano!

Marian: Non ci sente nemmeno. La maggior parte del tempo è completamente sordo.

Eörsi: È quello che credi tu.

Marian: È cieco, sordo e non riesce nemmeno più a parlare.

Eörsi: Davvero? Perché non riesce più a parlare?

Marian: Perché.

Eörsi: Esageri.

Marian: Beh, può darsi che veda e senta ancora un po’.

Eörsi: Parla?

Marian: Ci prova. Ed è proprio per questo che dovremmo discutere una tattica.

Eörsi: Chiedigli se mi vuol vedere.

Marian, avvicinandosi molto a Eörsi: Prima, ti porto un caffè turco.

Eörsi: Grazie, ma non voglio niente.

Marian: Pensa che il compagno Fòldes ha promesso solennemente che tutto sarà conservato cosi com’è. Ci faranno un museo, una biblioteca per gli studiosi di Lukács. Vedrai… Basterà chiedere e potrai avere…

Eörsi: Ne parleremo più tardi. Va da lui, ora.

Marian passa nell’altra stanza; si sente la sua voce: Gyuri, c’è Eörsi. Vuoi parlargli?

Si sente un debole gemito.

Eörsi: È l’ultima volta che vengo qui. L’ultima volta nei due sensi del termine. In primo luogo, aspetto il mio ultimo incontro, siamo al 27 maggio del 1971. Il Vecchio sta per chiedere: «Che c’è di nuovo?». Ci ho messo cinque anni a capire che dovevo interpretare alla lettera questa domanda stereotipata: il Vecchio voleva veramente sapere che cosa succedeva nel mondo esterno al suo studio. Quel mondo che, dalla morte di Gertrud, non aveva fatto che restringersi; e ci ho messo altri cinque anni a capire questo: non aspettava le notizie per avere le notizie; se ne serviva unicamente come trampolino, per tuffarsi a capofitto nei suoi argomenti prediletti.

Eccolo che arriva. Lukács, in calzoncini che gli ricadono sulle ginocchia, oltrepassa la porta. La sua andatura è terribilmente rigida. Come un burattino, va al tavolo, si siede e il suo sguardo non abbandona nemmeno un istante Eörsi. Il suo viso sembra una maschera; muove la bocca convulsamente; si vede che cerca di formare le parole con le labbra.

Lukács, balbettando: Che… Che…

Eörsi: Niente di particolare salvo, forse, una dichiarazione governativa di ieri, in Israele. È una lettura divertente, soprattutto se si leggono contemporaneamente i propositi avanzati in Egitto.

Lukács non lascia con lo sguardo Eörsi; non si sa se ha capito.

Eörsi: Che ne penseresti di una commedia in cui venissero scambiati, durante il sonno, due leader nazionalisti?

Lukács: Ins… Insens…

Eörsi: Sono tutti insensati?

Lukács fa segno di sì.

Ma che contenuto concreto ha, al giorno d’oggi, l’allocuzione di un leader israeliano o arabo?

Lukács: St. .. St… St. ..

Eörsi: Questi discorsi si possono capire solo nel loro contesto storico?

Lukács accenna di sì.

Penso che il mondo si sia ben merita to le astrazioni schematiche! In passato, i personaggi che recitavano nel teatro della storia si creavano, alme no in parte, i loro ruoli. Oggi, sono i ruoli preesistenti che cercano i loro attori. L’individuo non dipende più dal fortuito. Questo sarebbe il soggetto della commedia.

Lukács si contenta di guardare fisso Eörsi.

Due leader diversi, due ruoli. Le contingenze della politica estera, i pregiudizi nazionali, le regole del gioco in un… mondo diviso in due lasciano libertà solo su un punto: chiunque può interpretare questi ruoli. Ciascuno di questi è, di conseguenza, intercambiabile.

Lukács: Teo .. teo…

Eörsi: Intercambiabile in teoria ma, a tuo parere, compagno Lukács, non nella pratica?

Lukács approva.

Una commedia però può benissimo fondarsi su delle possibilità teoriche.

Lukács: Teo… teo…

Eörsi: Intendi dire, compagno Lukács, soltanto su possibilità teoriche?

Lukács approva.

Mi sembra che il nostro modo di conversare vada benissimo. Visto che per il momento non puoi parlare…

Lukács fa violentemente di no con la testa.

Puoi parlare?

Lukács accenna di no.

Intendi dire, compagno Lukács, che non è solo una cosa temporanea?

Lukács: N… non… p… p…

Eörsi: È solo una tua idea?

Lukács : Iiii.Irrrvvvv… .. Irrvvs s…

Eörsi: Il processo è irreversibile?

Lukács annuisce.

Visto che non puoi parlare, basta che tu faccia dei segni. Cercherò di interpretarli.

Lukács: Meglio di. .. c…

Eörsi: È meglio di una commedia?

Lukács fa di no con la testa .

P… cr. .. cr. ..

Disegna con il dito un quadrato sul tavolo.

Eörsi esclama: Delle parole crociate?

Lukács annuisce; Eörsi cerca con gli occhi intorno a sé. Il suo sguardo si posa su una grossa pila di manoscritti appoggiati sul tavolo.

Il manoscritto è stato scritto a macchina? È l’Ontologia completa? Tutte le varianti?

Lukács accenna di sì.

Dev’essere piacevole vederla tutta insieme!

Il volto di Lukács resta assolutamente inespressivo.

L’hai letta?

Lukács: Com… com…

Eörsi: Hai cominciato. E ne sei soddisfatto?

Silenzio.

Continua a non piacerti?

Silenzio.

Problemi di struttura?

Silenzio.

Comunque, visto che non ci lavorerai più, forse non hai neanche voglia di darne un giudizio?

Lukács: N… non .. m… mio… pr. .. probi…

Eörsi: No di certo. È come è. Comunque, non è il punto di vista dell’autore che conta.

Silenzio.

Eravamo rimasti al tuo manoscritto. Dicevamo che non fa niente se non hai un parere su di esso.

Silenzio.

L’importante è che sia finito. Compagno Lukács, l’avresti mai creduto?!

Lukács vorrebbe parlare ma non riesce a pronunciare nemmeno un suono.

Un giorno, hai detto che dobbiamo misurarci solo con le nostre forze. Chi è arrivato al limite delle proprie possibilità non ha motivo di tormentarsi.

Lukács: N .. . non… q… questo… c… che mi tor…

Eörsi: Cosa allora?

Lukács: L’in .. .in… ind…

Eörsi: L’impossibile!

Lukács: Peggio… è .. .l’in… in… ind…

Eörsi: Dicevi or ora che ti tormenti. Se ti tormenti , ciò esclude l’indifferenza. Jules Perlmutter/Cathy Hull

Lukács: Da qualche giorno l’indiff… mai. .. mai. .. anco…

Eörsi: Cosa rispondervi , se non una battuta?

Lukács: Nnn… no… in eff… è… la c… cosa .. .in sé…

Eörsi: È la cosa in sé che non è divertente?

Lukács fa segno di sì.

E da quando? Da quando il mano scritto è terminato?

Silenzio.

Forse, ciò che ti ha reso indifferente è il fatto che, per la prima volta in vita tua, non puoi leggere ciò che ti interessa.

Lukács: Cr. .. cred…

Eörsi: L’indifferenza non ti la scia palesemente indifferente.

Lukács con il viso atteggiato al sorriso: Pensa, pensa… ?

Eörsi: Sfortunatamente, l’indifferenza è, per definizione, impossibile da combattere. È per questo che ti consiglio di gustar la come una nuova esperienza.

Lukács: Senza sap… senza sap…

Eörsi: Alla lunga, è senz’altro senza sapore. Ma l’assaporarla impedirà for se che essa duri troppo a lungo.

Lukács: Dur… du… rare…

Silenzio.

Eörsi: L’indifferenza è provocata dalla tua malattia, che per la prima volta in vita tua ti impedisce di intervenire nel corso delle cose. Ma questa indifferenza riguarda te soltanto, compagno Lukács. La tua opera nel mondo, ecco quello che continuerà ad opporre gli intelletti, che susciterà odio e passione, che si presta a tutto, ma certamente non all’indifferenza.

Lukács: Tut… to… è… pos… ogget… m… ma… n… non… io…

Eörsi: Da un punto di vista soggettivo, non sent i più nulla. Lukacs approva. Pensa a quello che hai scritto su La morte di Ivan Illich: solo una vita piena di senso può dar senso alla morte.

Lukács: Poss ib .. .ile… m… m… ma… p .. più… a .. me…

Eörsi: Questo argomento ti annoia?

Lukács, lentamente , riuscendo ad articolare: Tu vuoi infrangere il guscio dell’indifferenza, ma è imp… impossibile. Ciò che mi ha int… interessato tut. .. tutta la v . .. vita,… non mi interessa p… più.

Silenzio.

Eörsi: Non posso crederlo.

Silenzio.

È come se il pesce dicesse che l’acqua non gli piace più.

Lukács: Cr. .. cr. .. n… non… int… interessa p… più…

Eörsi: Pensi di aver vissuto una vita inutile? Che ti saresti dovuto occupare di altre cose? Che hai sprecato il tuo talento in cose di poca importanza?

Lukács chiude gli occhi. Restano a lungo senza parlare, Eörsi si alza con l’intenzione di eclissarsi.

Lukács: Indd… indi ff…

Eörsi: Vuoi dire che quello che hai fatto nella tua vita merita solo indifferenza?

Lukács fa segno di no: Ogg… oggtt. ..

Eörsi: Oggettivamente no? Ma soggettivamente, che cosa vale?

Lukács approva.

Compagno Lukács, un giorno hai detto, non so bene in che occasione, in questa stessa stanza, tanto tempo fa, che tutto il tuo talento stava nella tua capacità di distinguere tra fattori oggettivi e fattori soggettivi. Sono contento che, malgrado la tua indifferenza, tu non abbia lasciato incolta questa disposizione .

Lukács: Poss… possbb… , m… ma… non m’int…eressa più…

Eörsi: Anche se non ti interessa, è un dato di fatto che la tua indifferenza trovi rad ici in quella che è stata finora la tua non indifferenza. Il tuo interesse nasceva dal desiderio del cambiamento e non si spegnerà che…

Lukács: N… No .. ia…

Eörsi: Certo, l’indifferenza si allea alla noia. Ma ora che non hai più scelta, dovresti cercare di prender gusto anche alla contemplazione. Ad esempio, all’analisi della tu a indifferenza.

Lukács: In .. .in .. osp .. osp… edale…

Eörsi: Sì, è un luogo che favorisce la contemplazione. Che cos’altro si potrebbe fare in ospedale?

Lukács: No, no… n .. .

Eörsi: Non ci vai? Qualcuno mi ha detto , credo…

Lukács prima fa di no con la testa, poi di sì.

Vuoi dire che non ci vai, ma che ti portano?

Lukács: Un ogg… ggetto…

Eörsi:…Non può spostarsi da so lo. Ma tu non sei un oggetto.

Lukács: Sogg… ggetto…

Eörsi: Un oggetto potrebbe essere soggettivo? È così che ti consideri?

Lukács fa di no con la testa: Bio… biol…

Eörsi: Non un oggetto dal punto di vista biologico, ma dal punto di vista sociale?

Lukács annuisce.

Ma nemmeno dal punto di vista sociale! Ebbene, ecco uno scambio di idee che abbiamo portato a termine.

Scende lentamente l’oscurità. Lukács si alza. Trascinando i piedi, descrive un cerchio nella stanza, poi si dirige verso la finestra e guarda fuori. Entrambi tacciono a lungo.

Eörsi: Compagno Lukács! Gyuri!

Lukács non si muove.

Caro Gyuri!

Tacciono. La porta si apre, appare Marian. Si sente rumore di stoviglie. Eörsi si alza e tocca il braccio di Lukács. Lukács si gira verso di lui. Sono uno di fronte all’altro.

Eörsi: Penso che oggi ce lo siamo meritato il pranzo.

Eörsi prende Lukács per il braccio e l’aiuta a lasciare la stanza.



FINE








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