di Lucio Libertini
«Risorgimento Socialista», Anno VI, n. 27, 7 luglio 1956.
Il giornale ungherese Szabad Nép del 17 giugno pubblica il resoconto di una riunione di intellettuali del partito comunista ungherese che ha avuto luogo a Budapest dinanzi a 1200 persone e che ha dato a George Lukács, uno dei filosofi marxisti contemporanei più noti, l’occasione di dire il suo parere sui problemi di attualità. Lukács aveva perduto nel 1949 la sua cattedra di estetica all’Università di Budapest per le idee «non conformiste» che egli aveva professato pubblicamente di fronte ai suoi allievi. Tre dei suoi accusatori di un tempo, Elemer Balogh, Ernő Havas e Artur Kiss, hanno fatto la loro autocritica, ammettendo che «in una serie di problemi, ci siamo ingannati nell’apprezzare la opera di Lukács… gli abbiamo mancato di rispetto».
Secondo il resoconto dello Szabad Nép, Lukács ha accolto queste manifestazioni di pentimento e lo omaggio del pubblico con una sorridente e distaccata dignità. «Non sono mai stato – egli ha detto – un sostenitore del culto della personalità: non me ne faccio nulla dei vostri complimenti. Ciò che conta in questa faccenda è che ora si incensi Lukács invece di vilipenderlo come accadeva poco tempo fa. L’importante è liquidare un certo numero di pregiudizi dell’epoca staliniana, per esempio quello dell’oggettivismo, del quade io sono stato così spesso accusato». Lukács ha poi messo in guardia gli intellettuali ungheresi contro la tentazione di detronizzare Stalin per sostituirlo con un Lenin divinizzato… «Ciò che noi dobbiamo adottare è il metodo di Lenin, con un nuovo dogmatismo che sia ancorato a Lenin. È facile ridurre Lenin, alla stregua di Stalin, a una raccolta di citazioni obbligatorie. Questa tendenza è appena visibile ma tuttavia esiste e il nostro dovere di marxisti e di socialisti rivoluzionari consiste nel combatterla. Se noi ci mostriamo abbastanza forti e permettiamo che si faccia del leninismo un surrogato dello stalinismo, allora le speranze suscitate dal 20° Congresso si riveleranno vane come le meravigliose iniziative del 7° Congresso dell’internazionale comunista, quello del fronte popolare del 1935». Parlando degli errori dello stalinismo, Lukács ha messo in discussione «il sistema che voleva fabbricare dei filosofi al guinzaglio, senza scienza, senza cultura»… Nella nostra prassi generale l’agitazione ha divorato la propaganda e la cattiva propaganda ha ucciso la ricerca scientifica. Senza ricerche serie non vi è una buona propaganda e senza una buona propaganda non vi è una buona agitazione… Mai le azioni del marxismo sono state così in ribasso come oggi in Ungheria. Se vogliamo edificare una cultura socialista bisognerà prima di tutto convincere gli studiosi che essi si avvantaggeranno se applicheranno, nel loro campo, gli insegnamenti del materialismo dialettico e storico. Più di cinquanta anni fa Engels, in una delle sue lettere, ha ammonito i giovani marxisti che pensavano di essere dispensati da ogni ricerca storica concreta in virtù delle loro familiarità con il materialismo storico. Da allora a oggi il proletariato si è impadronito del potere in molti Paesi, ponendo così le basi obbiettive dello sviluppo del marxismo scientifico.
«Il dogmatismo però – ha aggiunto a questo punto Lukács – non solo ha lasciato inesplorate tutte le nuove possibilità di lavoro scientifico, ma ha respinto il marxismo, ha soffocato tutti i tentativi che avrebbero potuto portare al suo arricchimento, al suo allargamento. Stalin ha considerato la filosofia marxista come una scienza chiusa in sé, definita per sempre. In questo modo, al punto in cui siamo, non esistono né una logica marxista, né una pedagogia né una estetica né un’etica marxista. Non è che io pretenda che si costituiscano partendo dallo zero tutte queste scienze. No, senza il lavoro gigantesco compiuto dai nostri classici, sulle basi metodologiche da essi stabilite, non sapremmo fare neppure un passo avanti. Ma, d’altra parte, sarebbe nell’errore chi credesse che per avere un’estetica marxista basti mettere insieme una raccolta di tutte le citazioni di Marx, Engels, Lenin, relative all’estetica. No, siamo noi che dobbiamo elaborare l’estetica marxista e tutte le altre scienze filosofiche marxiste. È un compito difficile, ma meraviglioso. Il 20° Congresso non aprirà la via a una rinascita del marxismo se noi non faremo rivivere lo spirito di Lenin, la dialettica e i metodi leninisti». Questo discorso del ritorno, pronunziato dall’illustre studioso ungherese è doppiamente importante, sia perché costituisce in sé un fatto politico, sia perché mette a fuoco uno dei più importanti problemi del pensiero moderno. «La teoria è secca, ma l’albero della vita è sempre verde», scriveva Lenin in un rapporto del 1917. «La nostra dottrina non è un ricettario farmaceutico» ironizzava Engels ventanni prima. Il presente e il futuro non sono contenuti nel passato, e il pensiero umano non è un’inerte sovrastruttura di una realtà oggettiva eterna e immobile, come appare nella grottesca caricatura del marxismo tracciata dai suoi falsi adoratori. L’adesione alla filosofia della prassi implica un dovere, morale e filosofico; quello della più spregiudicata fedeltà al metodo critico.