Rivoluzione e psicologia della vita quotidiana 

di György Lukács

[Rivoluzione e psicologia della vita quotidiana è il testo di un’intervista realizzata a Lukács da András Kovács pubblicata su “Film Kúltura” e poi in italiano su “Cinema nuovo”, n. 217, maggio-giugno 1972.]


Nel 1919, durante la Repubblica ungherese dei consigli, lei partecipò al governo e, come commissario del popolo, per primo nella storia nazionalizzò la cinematografia. Quali ricordi ha di quell’avvenimento? 

Ho pochissimi ricordi. Non possiamo dimenticare che la storia della dittatura del proletariato venne scritta, in genere, in modo stalinista. Sotto questo aspetto si pretendeva una specie di potente sovrano, molto intelligente, in grado di mettere a posto tutto. In realtà non ero assolutamente un tale sovrano. Nella dittatura proletaria del 1919, mio unico merito fu quello di far intervenire, nell’ambito del Commissariato del popolo, con un ruolo di guida, i dirigenti di tutte le correnti progressiste nei vari campi, dall’insegnamento alla musica. Se lei ora mi volesse chiedere chi ha nazionalizzato il cinema, dopo cinquant’anni non potrei proprio rispondere. Personalmente mi occupavo molto di particolari questioni – istruzione pubblica, università, letteratura, arte – ma, le confesso, so pochissimo di quanto è avvenuto nel campo cinematografico. Non si può dimenticare, naturalmente, che nel 1919, il peso del cinema nella vita artistica e culturale era molto minore di quello di oggi. 

La nazionalizzazione, del resto, avrebbe creato la possibilità di un maggiore sviluppo… 

È naturale. Se nel cinema si fosse avuto lo stesso successo che si ebbe, per esempio, nella musica, avremmo raggiunto un ottimo risultato. Non dobbiamo peraltro dimenticare che la dittatura del proletariato durò solo centotrentatré giorni. 

In quel periodo vennero realizzati molti cinegiornali. 

Sì. 

È interessante notare come la controrivoluzione avesse avuto una tale paura di quei cinegiornali da nasconderli con molta accuratezza. Non si trovarono nemmeno nel 1945. Tornarono alla luce, dopo trentacinque anni, soltanto verso il 1954. Si trovarono contemporaneamente anche negativi mai sviluppati di altri giornali di attualità. Non so se lei li conosce. 

Purtroppo non li conosco. Intorno al 1954 ho vissuto abbastanza ritirato. Le dico che ne sento parlare per la prima volta.

In uno di quei cinegiornali si vede anche lei, mentre parla in un comizio popolare. Lo conosce? 

Non conosco quelle inquadrature, ma è certamente possibile che io sia stato ripreso; in quel periodo ho infatti tenuto moltissimi comizi. 

Credo che, dopo cinquant’anni, dovremo farle vedere questo cinegiornale. Un’altra domanda: nei suoi studi di estetica il film, tutto sommato, ha avuto un posto di secondo piano. 

È proprio così. La mia estetica si basava soprattutto sulla letteratura; ho poi aggiunto, ancora in gioventù, l’arte figurativa e, più tardi, soprattutto per l’influsso di Bartók, pure la musica. Del cinema, mi sono occupato solo incidentalmente, come attesta un mio breve articolo scritto nel 1912. 

Dove è apparso? 

Allora venne pubblicato sul Frankfurter Allgemeine Zeitung e adesso nella raccolta Scritti di sociologia della letteratura1

Ha avuto altri incontri con il cinema? 

Verso il 1910 ho cercato, insieme con Ernst Bloch, di fondare una società che avrebbe potuto realizzare le possibilità artistiche latenti nel cinema. Quella iniziativa nasceva in concomitanza con una momentanea ripresa del film. Spesso ho frequentato il cinema da profano, e devo aggiungere che Chaplin appartiene alla mia più grande esperienza vissuta. Non so ora quanto i cineasti riconoscano Chaplin. Tuttavia, al di là del ristretto ambito cinematografico, la mia opinione è che Chaplin è uno dei maggiori personaggi della lotta artistica contro l’alienazione dell’epoca imperialista. Certe sue sequenze sono profonde scoperte della disumanizzazione e dell’alienazione, una intensa ma nello stesso tempo incapace contestazione che non ha molti riscontri sia nella letteratura che nell’arte. In quell’epoca ero naturalmente in contatto anche con cineasti. Per esempio a Berlino e a Mosca con Béla Balázs. Più tardi, dopo il mio rientro in patria, ho avuto uno scambio di lettere con Aristarco, che è venuto anche personalmente da me a Budapest. 

Dopo questo suo saltuario rapporto con il cinema, mi sembra che negli ultimi anni vi abbia dedicato più tempo. 

Vorrei accennare a uno dei fenomeni dello sviluppo culturale. Nel caso di grandi paesi, capita che le maggiori trasformazioni coincidano. Si pensi ad esempio che Goethe e Beethoven erano contemporanei e coincidenze analoghe possiamo trovarle anche nell’evoluzione francese, inglese, italiana e russa. Così, Mussorgskij era contemporaneo di Tolstoj e di Dostoevskij, e via dicendo. Lo sviluppo di un piccolo paese non può avere un tale vasto respiro e nell’evoluzione ungherese si possono trovare periodi con grandi personaggi e altri in cui è una certa arte che ha funzione di guida. E qui vorrei riferirmi alle nuove poesie di Ady, pubblicate nel 1906. Non molto più tardi la musica, con Bartók, ha avuto una parte caratteristica in tutta la cultura ungherese. Analizzando l’epoca di Horthy, non conosco poeta il cui effetto possa essere confrontato con la Cantata profana di Bartók. Ora ho l’impressione – e vorrei sottolineare che è solo una mia impressione, affinché non sia sopravvalutata – che in questo processo molto complicato, in cui vogliamo elaborare una nuova cultura socialista, liberandoci dalle tradizioni staliniste, il cinema ha una parte determinante di avanguardia. Vale a dire, il cinema solleva molti problemi di importanza vitale, da cui rifuggono gli specialisti dei vari campi. 

Lei ha sempre manifestato una straordinaria sensibilità per i nuovi mezzi d’espressione. Da questo punto di vista, come giudica il nuovo cinema ungherese? 

Per me questo problema non riguarda solo il cinema, ma è molto più vasto. Comunque vorrei rispondere impiegando la terminologia propria all’estetica generale: ogni forma estetica è sempre forma di un certo contenuto. Nella veste definitiva, il contenuto e la forma costituiscono un’unità funzionale inseparabile. Ci sono due possibilità. La prima è rivoluzionare la forma dal punto di vista della forma, in maniera che esclusivamente sul piano della forma si cerchino nuovi modi di espressione. (Nella poesia ungherese abbiamo numerosi esempi). Ed è possibile trovare – secondo caso – nuove forme di espressione quando l’artista, nel contenuto, scopre il nuovo che non si può esprimere nella forma usata prima. Se l’artista trova una forma adeguata, o almeno approssimativamente adeguata, allora avviene lo sviluppo autentico dell’arte, e non formale. Credo che, nel campo del cinema ungherese, si sia sulla strada giusta verso una tale visione del problema. E questo è molto importante. Oltre a ciò, è un fatto secondario che ogni impostazione di problema, ogni soluzione, riescano perfettamente o meno: anzi, considerando lo sviluppo attuale del cinema e della società, direi che è impossibile. In questo senso bisogna considerare il significato del nuovo cinema ungherese; come una esperienza di apertura che è di valore, anche se nella sua forma-contenuto ci sono ancora elementi problematici. 

Angoscia e trasformazione sociale 

Dopo aver parlato della situazione ungherese, mi permetta ancora una domanda. Vorrei sapere da lei, che conosce molto bene la cultura mondiale, se vede la possibilità che il cinema del nostro paese oltrepassi la frontiera e abbia un certo influsso anche in altre direzioni. 

Lo credo possibile. Certi problemi sollevati dai film ungheresi sono validi per tutti: a esempio quello del suo film I muri e così pure la tematica di Jancsó nell’Armata a cavallo sulle varie forme della violenza e sul suo significato politico e morale. È questo anche un problema su cui da anni volgono le discussioni di teorici e artisti di tutto il mondo. Semprun tocca la stessa questione nel Grande viaggio. Le esperienze del nuovo cinema ungherese sono valide ovunque ci sia angoscia e trasformazione sociale. Naturalmente, non sono abbastanza abbastanza specialista per prevedere i successi o gli insuccessi, ma vorrei dire soltanto che ci sono tutte le possibilità che questi film ungheresi abbiano una certa parte nello sviluppo del cinema europeo e mondiale. 


1 Lukács intende il suo scritto Riflessioni per un’estetica del cinema. In particolare Lukács fa riferimento alla sua seconda edizione, leggermente più ampia della prima (presentata in traduzione in questo volume), apparsa sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung il 10 settembre 1913. Il testo è stato pubblicato poi in traduzione italiana in G. Lukács, Scritti di sociologia della letteratura, Mondadori, Milano 1976, pp. 23-28.

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