Diavolo azzurro o diavolo giallo?

di György Lukács

[risposta di Lukács alle critiche rivolte da Umberto Barbaro all’articolo Lukács, il film e la tecnica, apparse sul quotidiano “L’Unità” il 22 gennaio 1959. Il testo è stato pubblicato su “Cinema nuovo”, n. 154, novembre-dicembre 1961]


Ne “L’Unità” del 22 gennaio Umberto Barbaro dedica un articolo ad alcune mie osservazioni provvisorie, in origine puramente epistolari (erano espresse in una lettera al mio ex-scolaro István Mészáros), intorno al film, che sono state pubblicate dalla rivista “Cinema nuovo”1. L’articolo stesso, come si mostrerà subito, non meriterebbe una replica. Tuttavia la sede in cui è apparso gli conferisce un certo peso, e può forse essere utile rimettere a posto i problemi che in quell’articolo sono stati interamente capovolti. Umberto Barbaro cita alcune righe della presentazione redazionale che introduceva le mie osservazioni senza nemmeno addentrarsi nel testo vero e proprio (il lettore vedrà che si tratta qui del metodo critico da lui costantemente adoperato). Egli cita dunque le parole della presentazione secondo cui io do ragione a Mészáros quando egli distingue la tecnica dalla forma, e aggiunge subito la conseguenza che io contesterei senz’altro l’importanza della tecnica nell’arte. Devo confessare che, benché non nutra un’opinione troppo alta della logica dei neopositivisti, questo volo pindarico mi ha egualmente sorpreso.

Si immagini che io voglia fare una gita nei dintorni di Roma e chieda a un conoscente di procurarmi un biglietto di viaggio. Egli me lo procura, avvertendomi che è un biglietto per la ferrovia e non per il pullman. Umberto Barbaro investirebbe il mio conoscente gridando: «Cosa? Lei fa differenza fra treno e pullman? Dunque lei nega l’esistenza del pullman! Dunque lei è un idealista, un negatore del progresso!» (Con lo stesso “metodo” Umberto Barbaro, dal fatto che io finora non mi sono occupato del film nella mia attività di scrittore, ricava il rimprovero che io ne sottovaluto l’importanza. Egli si rifiuta di riconoscere che anche per lo scrittore più enciclopedico la quantità degli argomenti che non ha potuto trattare supera sempre quella degli argomenti trattati. Per esempio, io non ho pubblicato nessun saggio sulla musica o sulla pittura. Forse che questo significa che io disprezzo Beethoven o Rembrandt?). Donde prenda il mio critico le sue affermazioni su questa mia sedicente posizione verso la tecnica è per me un mistero. Egli assicura di aver recensito il mio libro Prolegomeni a un’estetica marxista. In esso si trova un capitoletto su «tecnica e forma». Ma il mio critico evidentemente non ha tagliato le pagine del libro fino a quel punto. E del resto perché avrebbe dovuto farlo? Quando si è neopositivisti non si ha bisogno di conoscere i fatti: si sa già tutto. E infatti in quel che segue mi si impartisce una lezione per me estremamente utile. Il mio critico descrive per esteso un film su Matisse e io vengo così a sapere con profondo stupore che Matisse dipingeva coi colori e i pennelli, e che le sue idee pittoriche non saltavano direttamente dalla sua testa sulla tela. Egli risolve così un problema per me assai difficile, su cui invano mi travagliavo da decenni, e cioè: perché Michelangelo ha lasciato tante opere frammentarie? Dato che egli “vedeva”, già le statue “bell’e pronte” nei blocchi di marmo, perché non ne sono venute fuori bell’e compiute a un suo solo sguardo? Solamente da quando le illuminanti disquisizioni di Umberto Barbaro mi permettono l’inaspettata conclusione che Michelangelo ha lavorato con lo scalpello sui blocchi di marmo, si è per me aperta la porta d’accesso alla problematica della sua attività artistica. In verità, se si volesse impostare seriamente un problema così importante, occorrerebbe, per affrontarlo in maniera adeguata, mettere completamente da parte l’impostazione di Umberto Barbaro. Poiché nella riuscita, nel fallimento, nella problematica di una grande carriera d’artista, le questioni tecniche hanno una parte estremamente secondaria. Michelangelo, dal punto di vista tecnico, poteva fare tutto quello che voleva. La problematica della sua attività artistica scaturiva dalle grandi contraddizioni sociali e ideologiche della sua epoca e dal suo proprio atteggiamento artistico nel tentativo di venirne a capo, di trovare una forma artistica adeguata per il possente, contraddittorio contenuto dei problemi del tempo, per l’adeguato rispecchiamento artistico della realtà. La tecnica è un importante momento soggettivo nella conquista di una forma oggettiva. Ma quella può essere intesa solo a partire da questa, e non viceversa.

Ma Umberto Barbaro eleva il suo “problema” anche a un livello filosofico. Egli pone il suo dilemma: o la fede nell’importanza della tecnica, che sola schiude la via della salvezza, oppure l’intuizione; in altri termini: o il neopositivismo oppure l’idealismo crociano. Qui si rivela tutta l’angustia e la meschinità – profondamente provinciali – del neopositivismo. Esso ignora puramente e semplicemente che ci siano stati pensatori come Aristotele e Vico, Hegel e Marx, Černyševskij e Lenin, che consideravano i problemi della filosofia dell’arte da un osservatorio tale che da esso simili pseudoproblemi non diventano nemmeno visibili. Come per il topo il gatto è la bestia più grossa dell’universo, così per il neopositivismo Croce è l’unico grande avversario contro cui esso combatte le sue eroiche battaglie da mulini a vento. (Che in altri paesi al posto di Croce appaia qualche altra celebrità locale non cambia in nulla questo caso particolare di provincialismo filosofico). L’intuizione messa in primo piano da Umberto Barbaro è una categoria di moda, sorta da una deformazione concettuale. L’intuizione, come io scrissi circa tredici anni fa, non significa altro che l’improvviso passaggio psicologico alla consapevolezza di un processo di pensiero che si era svolto inconsapevolmente. Attribuirle un’importanza gnoseologica, o addirittura metterla al centro della filosofia, è semplicemente scambiare in modo arbitrario e irresponsabile un elemento del metodo soggettivo di lavoro con la metodologia oggettiva del pensiero. Ho sempre protestato contro il fatto che Ždanov voleva ridurre le lotte della filosofia all’antagonismo fra materialismo e idealismo. Questa alternativa conduce a una volgarizzazione semplicistica, perché trascura il contrasto tra dialettica e metafisica e i complicati rapporti reciproci tra i due gruppi di tendenze antagonistiche. Ma quale inaudito livello filosofico occupa la posizione di Ždanov di fronte allo pseudocontrasto tra tecnicismo e intuizione! Con esso la filosofia dell’arte viene soltanto posta a un bivio in cui, per dirla con Lenin, essa ha da scegliere tra un diavolo giallo e un diavolo azzurro.


1 Lukács si riferisce al suo scritto Sui problemi estetici del cinematografo.

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