di György Lukács
[Seconda parte dell’intervista realizzata da Yvette Biró e Szilárd Ujhelyi e pubblicata in italiano su “Cinema nuovo”, n. 197, gennaio-febbraio 1969.]
Yvette Biró – Vorrei sapere da Lukács che cosa pensa del film Diecimila soli [Tízezer nap], che affronta la storia degli ultimi trent’anni con un linguaggio assai singolare, in chiave poetica e, mi sembra, un po’ romantica.
Sì, in modo poetico, ma spesso con delle confusioni romantiche. Mi sono soffermato sui film di Jancsó e Kovács perché essi testimoniano di un impegno schiettamente socialista, in quanto rappresentano la realtà com’è di fatto e, nello stesso tempo, operano delle scelte molto nette anche dal punto di vista emozionale. Del resto, è proprio questa la loro caratteristica precipua. Certo, posso sbagliare, perché non conosco tutta la produzione cinematografica ungherese, ma mi sembra che questi registi, pur con le rispettive differenze, abbiano in comune qualcosa che li distingue da tutti gli altri. A questo proposito, vorrei anche rispondere a un’obiezione abbastanza importante. Io non credo che un’opera d’arte, e in particolare un film, debba necessariamente rispondere alle domande che si pongono. Continuo a ritenere valida la posizione di due tra i maggiori artisti della mia giovinezza, Ibsen e Čechov, i quali sostenevano che il compito dello scrittore è di porre domande: le risposte le darà la storia o lo sviluppo sociale. Ibsen non era tenuto a dire se Nora fosse riuscita o no a riscattarsi da sola. Egli sollevò la questione di un aspetto negativo del matrimonio e adesso, nella nostra società, decine di migliaia di donne hanno stabilito nella pratica – chi in un modo, chi nell’altro – ciò che Nora ha fatto dopo essersene andata. Ma questo non era compito di Ibsen e non lo sarebbe, oggi, di un film. Se questo, come opera d’arte, riesce a far sì che la gente rifletta seriamente su una situazione del passato o del presente, e a confrontarla con la propria, esso ha raggiunto il suo scopo. Non è certo il caso, ad esempio, di fare dei film che mostrino quali innovazioni bisogna introdurre nell’industria tessile per raggiungere il nuovo livello di meccanizzazione: questo è compito del ministero. Il film, invece, ha il compito di rappresentare gli aspetti positivi e negativi della società e, poiché in questo ambito esso potrebbe assumere un rilievo essenziale, deve indurre all’attenzione e alla riflessione l’uomo della strada, che spesso sfiora i fatti reagendo solo a livello sentimentale, senza riflettere. Se, al cinema, anche una sola persona su dieci riesce a identificare la propria strada, il film ha raggiunto il suo obbiettivo.
Y. B. – Questo ci trova perfettamente d’accordo, ma ciò che molti si chiedono è se il pubblico sia in grado di tenere il passo con le nuove esigenze dei film odierni. Se la maggior parte degli spettatori non è sufficientemente matura, quale diritto hanno i registi di costringerla ad affrontare questo alto livello?
Se il popolo fosse così arretrato come vorrebbero far credere, in questo caso, i burocrati, non si sarebbe potuta realizzare una rivoluzione socialista. Se invece fosse così progredito, come affermano altre volte i burocrati, la rivoluzione non sarebbe stata necessaria. Poiché né l’una né l’altra cosa sono vere e quella rivoluzione c’è stata, è necessario che il cinema e le altre arti operino nell’interesse della rivoluzione e dello sviluppo intellettuale.
Y. B. – In una precedente intervista e anche nella sua opera di estetica più importante, lei ha avanzato alcune riserve sulle possibilità intellettuali del film. La visione di opere recenti (compresa La guerra è finita di Alain Resnais e Jorge Semprún) ha modificato quel suo giudizio? Gli strumenti usati dal cinema più recente dimostrano “nuove” capacità, tali da allargarne i confini? Nei film citati ha trovato soluzioni che abbiano qualche elemento degno di nota in un ambito intellettuale?
Credo che l’intera questione dovrebbe essere puntualizzata dal punto di vista estetico e della drammaturgia cinematografica, per non trovarsi di fronte ad aspetti non ancora analizzati. I problemi intellettuali si possono esaminare sotto l’aspetto formale e sotto quello del contenuto. È fuori discussione che la letteratura e, soprattutto, il dramma sono, da un punto di vista formale, i più idonei ad esprimerli; i problemi intellettuali però sono presenti ovunque in qualche forma. È ciò che nella mia estetica ho chiamato “oggettività indeterminata”. Sono convinto, ad esempio, che un problema intellettuale non si può esprimere con la pittura; tuttavia, se esaminiamo i ritratti di Rembrandt, non solo riusciremo a stabilire la fisionomia intellettuale dell’individuo ma anche i suoi problemi intellettuali; senza voler affermare con questo che la pittura è in grado di esprimere intellettualmente problemi intellettuali… Vi sono poi differenze enormi tra il dramma e l’epica, tra l’opera lirica e il film. Il problema si pone anche per l’opera e la musica.
È indiscutibile che da Bach e Händel, attraverso Beethoven, sino a Bartók, la grande musica rimandi a tutta una serie di problemi ideologici. A dispetto di ciò, non si può tuttavia esprimere musicalmente un problema intellettuale in quanto tale. Nel campo del cinema la situazione non è così estrema, ma non siamo ancora giunti a trovare il mezzo per cogliere veramente questa fisionomia intellettuale. Non si è arrivati al punto di capire in modo perfetto fin dove si possa arrivare in tale ambito, e ciò è da mettere in relazione con il fatto che, nel film, la parola è ora espressione del significato, ora rumore per creare un’atmosfera o per mediarla, poiché queste funzioni vengono entrambe svolte dalla parola. Io credo che il film non possa arrivare allo stesso punto del dramma. Ad esempio, non si può trasportare sullo schermo la scena che inizia con Jago che prende a stuzzicare Otello e prosegue, quando questi rimane solo, con il meraviglioso monologo contemplativo: «… e adesso, addio armi», ecc. Sarebbe una cosa vuota, anche se a recitare fosse il miglior attore. Vi sono invece battute drammatiche attraverso le quali si creano situazioni tese, e questa è una strada che anche il cinema può percorrere. Ritengo che, dal punto di vista del contenuto, i problemi intellettuali siano naturalmente indispensabili nel film; ma occorre individuare i mezzi adatti ad esprimerli. E mi pare che non li abbiamo ancora trovati interamente. Dirò forse un’eresia, ma quando vidi i film di Olivier – fatta eccezione per l’Enrico V – ebbi la netta impressione che il testo di Shakespeare fosse, in essi, un accessorio: a che scopo Shakespeare qui parla tanto – mi chiedevo – quando non ce n’è alcun bisogno? Per l’Amleto film ho proprio avuto questa impressione benché, dal punto di vista della struttura del dramma, il dialogo dell’Amleto sia perfetto. È interessante ricordare, invece, che Enrico V, dove tutto il dramma si può trasporre in paesaggi, scenografie, e così via, ha suscitato in me una profonda impressione dal punto di vista cinematografico. Questo, naturalmente, è solo un elemento di raffronto, un aspetto del problema che ci interessa, a proposito del quale né Kovács né Jancsó hanno trovato una soluzione completa. Essi, nel loro campo, debbono continuare gli esperimenti per individuare il carattere drammatico, dinamico delle parole, che faccia corpo con l’agire dell’uomo, e dare vita a situazioni in cui risultino necessarie proprio quelle parole e non altre. Non credo sia possibile trasporre sullo schermo tale intellettualità contemplativa.
Y. B. – Per quanto riguarda i mezzi della parola probabilmente è così, ma nel metodo impiegato da Kovács ne I giorni freddi, che consiste nel porre uno accanto all’altro i vari episodi, raffrontandoli e ricercandone i parallelismi, non si avverte una tensione intellettuale nell’esprimere un’idea ben determinata, esplicita direi?
È possibile, se tutto ciò è trasposto… E ne I giorni freddi c’è di buono che la prigione, il dialogo che vi si svolge, e la realtà del passato procedono su binari paralleli e la situazione corrisponde al dialogo: come, a esempio, nella scena in cui i personaggi stanno in piedi, in mezzo al ghiaccio, e gettano gli uomini nell’acqua. Senza questa scena, il dialogo nel carcere risulterebbe vuoto, inutile.
Y. B. – Da questo appare chiaro che il dialogo non è fine a se stesso, ma fa parte dell’intera composizione e risulta dunque molto importante il peso del montaggio, la composizione ordinata dei pezzi utili, la scienza della loro sistemazione.
Di questo non discuto; dico solo che il cinema deve trovare il modo (e a Kovács è riuscito meglio ne I giorni freddi che in Muri) di come utilizzare i propri mezzi specifici. È questa una grossa impresa, e non credo che il cinema abbia risolto il problema, che pure deve avere delle soluzioni. Di questo, però, io non sono in grado di parlare.
Y. B. – Posso tuttavia rifarmi all’esempio che è stato citato prima, al film di Resnais e Semprún. Le soluzioni adottate dal regista sono molto stimolanti, soprattutto nell’uso degli elementi temporali…
È un film davvero interessante.
Y. B. – Sotto molti punti di vista il tentativo di svincolarsi da una precisa cronologia è un nuovo elemento del linguaggio, anche se esistono precedenti letterari, a cominciare da Proust. Comunque sì, nel film quella scelta costituisce un’esperienza espressiva utile e originale.
È un’originalità diversa rispetto a quella della letteratura. In questa, se c’è qualcuno che ricorda i tempi passati, sono consapevole di trovarmi di fronte a Goethe – mettiamo – che rievoca la propria vita. E di fatto, dal punto di vista fisiologico, ho davanti Goethe e i suoi ricordi, intesi come rievocazioni. Il film riesce a rendere il ricordo come realtà presente, e da ciò deriva un qualcosa del tutto nuovo le cui conseguenze drammaturgiche non abbiamo ancora colto in modo adeguato e non abbiamo ancora sfruttate sino in fondo.
Y. B. — Nei film di cui stiamo parlando, il tempo ha ancora un’altra dimensione. Non sono semplicemente il passato e il ricordo che hanno la loro importanza, quanto piuttosto una certa dimensione di prospettiva del tempo, la fantasia, l’immaginazione, il “tempo futuro” del sogno. Per esempio, ne La guerra è finita, le sequenze in cui il protagonista cerca di immaginare come può essere la ragazza che lo ha tratto d’imbarazzo al telefono.
Questo è possibilissimo, anzi in tale campo il film è avvantaggiato rispetto alla letteratura. Una simile pre-immaginazione infatti – ciò che una persona pensa prima su come deciderà in una situazione critica – ha una grande importanza anche nella vita. Se poi un’idea di questo genere prende letteralmente corpo nel film, il processo immaginativo può stimolare un ripensamento nell’uomo che si trovi nell’imminenza di una scelta, negativa o sbagliata, indicandogli proprio ciò che di negativo o sbagliato è presente in quanto sta per fare. Nello sviluppo di questo aspetto vedo grandi possibilità, fra l’altro anche per la funzione autenticamente cinematografica delle parole. Ma, per quel che mi è dato riscontrare, siamo ancora molto lontani dalla realizzazione di questo obiettivo. Nella fase attuale si dà ancora troppo peso alle possibilità tecniche del cinema e non si sollevano le questioni di contenuto: non dobbiamo dimenticare che in ogni arte il significato diretto delle cose è di atmosfera. Conosco poche cose così drammatiche, nella vita reale, come la scena del Macbeth in cui, dopo l’assassinio, si sente bussare alla porta del castello. Il fatto che bussino alla porta in sé non è niente, è solo il lato tecnico della cosa. Qui l’essenza è il rapporto tra i due elementi. Compito della drammaturgia cinematografica è di scoprire i problemi di questi elementi. Sono convinto che potremo cogliere ancora molte cose interessanti se esamineremo questi elementi dal punto di vista dei contenuti, cioè non il bussare in generale, ma il bussare alla Macbeth.
Y. B. – Questo esempio è perfetto, perché si tratta infatti di una successione di elementi, cioè di un problema di composizione del film e, in particolare, di ciò che deve precedere e di ciò che deve seguire. Questo è il concetto basilare nella struttura del film. D’altra parte dobbiamo pensare anche a quanto, con molta originalità, ha detto Ejzenštejn: in ogni singolo attimo è presente anche un montaggio verticale, quando non sono le cose che si susseguono l’una all’altra ad essere in gioco, bensì sono le cose diverse che agiscono contemporaneamente ad avere insieme un significato molto complesso. Il montaggio verticale ha una funzione molto emozionante nel Silenzio e il grido: il regista è riuscito a creare un’atmosfera tesissima.
Questo film mi è piaciuto parecchio e se ne potrebbe parlare a lungo, ma non voglio aggiungere altro, se non che da Jancsó e Kovács ci si può aspettare ancora molto. È necessario che gli amici del cinema li sostengano e capiscano che l’impegno di chiarire i lati peggiori del passato e del presente è un fatto positivo e un contributo allo sviluppo del socialismo. Vorrei che si capisse che la mia critica, forse un po’ troppo aspra, è una critica socialista. Non parlo partendo dal punto di vista del cosiddetto umanesimo borghese. Mi si è sempre rimproverata la sincerità; ma senza questa non può nascere la vera arte. E non sono affatto sicuro, a esempio, che si debbano chiamare in causa, comunque e sempre, gli aspetti positivi. Da giovane mi entusiasmavo perché Endre Ady chiamava István Tisza “Kan Bathony Erzsébet” e non parlava mai delle buone qualità di Tisza, che era un uomo intelligente e onesto. Eppure Ady aveva ragione a chiamarlo così. Senza questo non possiamo andare avanti: finché non apriamo una breccia nel muro del vecchio nazionalismo, certe cose continueranno in qualche modo a sopravvivere.
Y. B. – Non è dunque casuale che il cinema ottenga risultati quando fa un passo avanti sulla strada della verità.
Il fatto è che la discussione sul film è possibile solo dal punto di vista comunista. La forza del vero marxismo-leninismo sta nella verità, e noi rinunciamo alla migliore delle nostre risorse non accettando, per ragioni di tattica, quest’idea. È molto importante che ci siano uomini come Jancsó e Kovács i quali, con il linguaggio della nuova arte, cercano di assumere un atteggiamento serio sul nostro passato e sul nostro presente.