di Enzo Traverso
da Dialettica dell’irrazionalismo. Lukács tra nazismo e stalinismo, Ombre Corte, Verona 2022
Negli anni Cinquanta, La distruzione della ragione incontrò un generale scetticismo. Nella Germania di Adenauer, la storia dell’ascesa dell’irrazionalismo dall’inizio del XIX secolo a Hitler fu aspramente criticata dallo storico socialdemocratico Kurt Sontheimer. Si trattava, ai suoi occhi, di una cattiva analisi delle origini del nazismo e di una prova eloquente delle disposizioni intellettuali ben poco ragionevoli dell’autore stesso, la cui opera suscitava altrettanti interrogativi di quelli ai quali tentava di rispondere1. Theodor W. Adorno accusò Lukács di umiliarsi con un penoso esercizio di accomodamento “al triste livello della produzione pseudo-intellettuale sovietica”. In questo modo, egli concludeva, Lukács aveva degradato la filosofia a “mero strumento del potere”2. Nel 1963 George Lichtheim descriveva La distruzione della ragione come “un crimine intellettuale”3, una stroncatura che ribadiva alcuni anni dopo in un saggio più argomentato in cui sottolineava il vicolo cieco cui giungeva inevitabilmente una critica tesa a cogliere un nesso meccanico tra l’appartenenza di classe di un autore e l’irrazionalismo del suo pensiero. Il libro di Lukács, concludeva Lichtheim, “è un pasticcio teorico senza via d’uscita”4. L’ex filosofo marxista Leszek Kolakowski formulava un giudizio analogo: più che una storia dell’irrazionalismo tedesco, quest’opera era un “esempio lampante” della “filosofia della fede cieca” di Lukács, una filosofia in cui nulla era “provato, ma tutto veniva affermato ex cathedra”, con il risultato che tutto ciò che non corrispondeva ai suoi presupposti marxisti veniva “liquidato come spazzatura reazionaria”5. Non stupisce che La distruzione della ragione sia stata tradotta in inglese soltanto nel 1980, quando l’onda lukacsiana dei due decenni precedenti era ormai quasi esaurita, e rimase inghiottita nelle acque oscure della “crisi del marxismo”. Era certamente il momento peggiore per discuterne: l’epilogo polemico del libro sull’irrazionalismo del dopoguerra, riferito ai conflitti ideologici e politici degli anni Cinquanta, appariva irrimediabilmente datato e alcuni giudizi perentori – soprattutto su Wittgenstein – sembravano così dogmatici che la maggior parte dei critici preferì semplicemente ignorare il libro. Così, la sua ricezione si ridusse ad alcune sentenze di morte.
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