di Enzo Traverso
da Dialettica dell’irrazionalismo. Lukács tra nazismo e stalinismo, Ombre Corte, Verona 2022
Rileggere al presente un’opera come La distruzione della ragione significa confrontarla con l’ascesa di una nuova destra radicale su scala globale, con l’esaurimento della critica postmoderna della ragione universale e con la rinascita del marxismo. L’offensiva violenta lanciata da Lukács contro l’irrazionalismo è significativamente assente da questi dibattiti contemporanei. Canonizzato come uno dei maggiori pensatori del XX secolo, il filosofo ungherese è relativamente trascurato nelle battaglie ideologiche degli ultimi due o tre decenni. Spesso ingiusto e dannoso, questo oblio crea uno straordinario contrasto con l’estrema visibilità di altri rappresentanti del marxismo occidentale come Adorno, Benjamin e Gramsci. Le cause di questo singolare silenzio sono numerose e meritano di essere esplorate.
Considerando la tesi lukasciana dell’irresistibile tendenza del romanticismo, del conservatorismo e dell’idealismo a confluire verso l’irrazionalismo e il fascismo, la nuova destra radicale sembra piuttosto seguire il percorso opposto. Certo, il paesaggio ideologico postfascista è intellettualmente povero, senza confronto con quello della prima metà del Novecento: anche l’indagine più “indulgente” rivela una mancanza di pensatori e scrittori del calibro di Gentile, Heidegger, Jünger, Spengler e Schmitt. D’altra parte, gli ideologi del neoliberalismo – la forma dominante del capitalismo globale all’inizio del XX secolo – non sono affatto dei nazionalisti radicali; sono apologeti del mercato abituati alla difesa retorica dei diritti umani e, in molti casi, del multiculturalismo (versione “United Colors of Benetton”). Tranne eccezioni, gli xenofobi, i nazionalisti e i razzisti di estrema destra solitamente non si presentano come fascisti né rivendicano l’eredità ideologica del fascismo. La loro “filosofia” non è l’irrazionalismo. In molti casi, essi avvolgono persino le loro posizioni xenofobe e razziste con una retorica piena di stereotipi sulla difesa della democrazia e dei diritti umani minacciati dall’immigrazione e soprattutto dall’Islam. Invece di proporre una versione rinnovata dell’irrazionalismo fascista, essi sembrano tornare a una forma più classica di conservatorismo, adattandola all’epoca della globalizzazione. Riscoprono i temi del pessimismo culturale che il fascismo aveva trasceso verso i miti della rivoluzione nazionale, dell’“uomo nuovo” e del dominio razziale. Non c’è futuro nella loro propaganda e il loro irrazionalismo si insinua piuttosto in una disperata idealizzazione del passato: difesa dei valori tradizionali, delle identità etniche, delle sovranità nazionali e delle radici cristiane della civiltà occidentale contro le minacce di anonime potenze globali, dell’immigrazione, dell’Islam, del multiculturalismo e della diversità di genere. I loro slogan riesumano vecchie dicotomie: le nazioni contro il cosmopolitismo, le nazioni produttive contro il capitalismo finanziario, le virtù della vita rurale contro le metropoli impersonali, la famiglia tradizionale contro le identità gay, lesbiche e transgender, e così via. I loro ideologi sono intellettuali come Rolf Peter Sieferle, autore di un pamphlet tardo-spengleriano contro la decadenza intitolato Finis Germania (2017), o Renaud Camus, che deplora la “grande sostituzione” (le grand remplacement) che starebbe avvenendo in un vecchio continente “invaso” da musulmani, arabi e neri. Altri autori come Alain Finkielkraut – il cantore dell’“identità infelice” di un paese la cui cultura millenaria, dopo aver raggiunto il suo apice, rischierebbe di essere inghiottita dalla musica rap e dallo slang delle periferie popolate da immigrati – potrebbero essere considerati, nel lessico di Lukács, complici “oggettivi” della nuova destra1. Tuttavia, essi sono i fautori di una forma radicale di conservatorismo, non di una rivoluzione conservatrice; sono i rappresentanti di una Kulturkritik tardiva, non di un nuovo irrazionalismo fascista. Più che il percorso della Germania verso Hitler nella sfera della filosofia, essi illustrano il percorso europeo e occidentale verso un Kulturpessimismus del XXI secolo2. Analizzata attraverso lenti lukacsiane, la destra radicale del nuovo secolo ricorda in modo impressionante il pre-fascismo. L’irrazionalismo è certamente una caratteristica fondamentale di correnti neofasciste come l’Alt-Right, la white-supremacy e i movimenti QAnon americani che sostengono Donald Trump. Queste tendenze, tuttavia, non hanno espresso fino ad oggi un’ideologia coerentemente strutturata, soltanto organizzatori e demagoghi come Steve Bannon (e in Francia Eric Zemmour). Se La distruzione della ragione può aiutarci a interpretare questa tradizione intellettuale, lo fa suggerendo che, almeno sul piano ideologico, siamo di fronte a una “regressione” più che a una radicalizzazione o uno sviluppo.
Resta il fatto che il fascismo è lungi dall’essere l’unica creazione degli autori e delle correnti filosofiche indagate ne La distruzione della ragione. Molte caratteristiche dell’irrazionalismo tedesco evidenziate nel libro di Lukács sono successivamente riapparse sotto forme diverse, a volte completamente estranee – per non dire antinomiche – al conservatorismo e alla destra radicale. Negli ultimi decenni, la critica dell’Illuminismo si è spostata da destra a sinistra, fino a diventare una sorta di ombrello sotto il quale molti “post” e “ismi” di sinistra hanno trovato una casa comune. Anti-universalismo, anti-umanesimo, antistoricismo, soggettivismo, relativismo culturale e razzialismo sono diventati i vessilli di una varietà di correnti filosofiche, dal post-strutturalismo al postmodernismo, passando per gli studi postcoloniali e il femminismo. Questa simmetria con l’irrazionalismo prebellico non ha nulla a che vedere con un’omologia o una convergenza – le loro traiettorie seguono direzioni completamente diverse e mirano a scopi differenti – ma è degna di attenzione e va spiegata. Senza citare Lukács, spesso partendo da premesse diverse, vari pensatori marxisti hanno considerato questa varietà di “-ismi” come il sintomo di una regressione intellettuale della sinistra. È questa la conclusione di alcuni severi detrattori come Alex Callinicos, Terry Eagleton e Perry Anderson3. Ellen Meiksins Wood ha sottolineato la pericolosa vicinanza tra il postmodernismo e diverse forme conservatrici di distruzione della ragione, mettendo in luce una tendenza comune alla “negazione della storia” e deplorando la “sordità” del postmodernismo agli “echi reazionari dei [suoi] attacchi contro i valori ‘illuministi’ e del [suo] irrazionalismo di fondo”4.
Teorizzata da Jean-François Lyotard ne La condizioone postmoderna (1979), la negazione postmoderna della storia significava il rifiuto delle “grandi narrazioni” – sia hegeliane che marxiste – che presuppongono la possibilità di una comprensione razionale del passato visto come un insieme di esperienze umane prodotte da causalità strutturali. Riscritta dai filosofi postmoderni, la storia è rapidamente diventata una realtà eterogenea, contingente e frammentaria, la cui conoscenza e spiegazione oggettiva sarebbero impossibili se non nella forma di una teleologia illusoria (non molto diversamente, Heidegger aveva definito la storia come il regno dell’“erranza”: non una caduta accidentale nell’errore, ma un’“erranza originaria” – Irre –, concepita come la condizione intrinseca dell’essere nel mondo5). L’azione umana, l’azione collettiva, le lotte emancipatrici e il progresso sociale diventavano analogamente astrazioni chimeriche, mentre i soggetti storici sono stati sostituiti, usando il lessico di Foucault, da una pluralità di corpi biopolitici, crocevia di apparati disciplinari, vincoli tecnologici, forme esterne di “assoggettamento” (assujettissement) e processi interni di “soggettivazione” (subjectivation), basati su pulsioni o desideri costruttivi. I soggetti non sono scomparsi per essere inghiottiti da strutture impersonali (come nel marxismo anti-umanista di Althusser) ma sono diventati i personaggi immaginari di un discorso storico privo di oggettività. Con la svolta linguistica, la storia non è più una complessa articolazione di strutture viste come linguaggi; la storia è diventata linguaggio. Il logocentrismo di Jacques Derrida, per il quale “non c’è nulla fuori del testo” (il n’y a pas de hors-texte)6 – si è trasformato in una concezione della storia come puro discorso indistinguibile dalla letteratura (Hayden White). Partendo da queste premesse, gli studi postcoloniali hanno decostruito le categorie di “storia universale” e “umanesimo”. Hanno rifiutato l’universalismo, vedendo in esso il discorso egemonico dell’imperialismo europeo, e l’umanesimo, ridefinito come categoria “essenzialista” tesa a imporre un paradigma occidentale, bianco e maschile di umanità all’universo plurale delle comunità non europee e dei popoli colonizzati. In base a questo approccio, la ragione storica non sarebbe altro che una narrazione del potere.
Non è difficile rintracciare l’influenza di Nietzsche e Heidegger in queste forme di anti-universalismo, antiumanesimo, relativismo e antistoricismo. La matrice heideggeriana della critica postcoloniale della ragione storica di Hegel è abbastanza evidente in History at the Limit of World History di Ranajit Guha (2002). Criticando la filosofia della storia di Hegel, Guha applica all’India l’idea di “storicità” (Geschichtlichkeit) di Heidegger per definire una realtà ontologica fatta di creazioni letterarie ed estetiche – l’antica narrazione indiana del passato trasmessa alle moderne lingue dell’Asia meridionale dal sanscrito Itihasa – che non corrispondono al canone politico occidentale della storia come costruzione del potere statale. La filosofia della storia di Hegel ha legittimato il colonialismo assemblando e organizzando un insieme unificato di ideologie e pratiche occidentali “sotto la categoria di Ragione”7. A questa idea di storia che non lascia alcuno spazio ai colonizzati, rappresentati come “popoli senza storia”, Guha oppone la narrazione letteraria della “storicità” di Rabindranath Tagore. Pertanto, il colonialismo significò in ultima analisi il trionfo dell’Occidente in una “battaglia di paradigmi” in cui “l’esperienza trionfò sulla meraviglia, la storia del mondo sull’itihasa”8. Sulla stessa linea, Dipesh Chakrabarty usa Heidegger per articolare un progetto marxista di emancipazione unito al riconoscimento dell’identità bengalese. Ciò apre, nelle sue parole, una nuova concezione dell’umanità costituita da un insieme di comunità incommensurabili attraverso le quali “combattiamo – continuamente, precariamente ma irrimediabilmente – per ‘mondeggiare la terra’, così da vivere entro i diversi sensi dell’appartenenza ontica che ci caratterizzano”9. Il problema è che, una volta privata dell’idea marxista di emancipazione – la quale, va detto, rimane comunque un pilastro dei Subaltern Studies – una “appartenenza ontica” altrettanto essenzializzata ispira analogamente il discorso orientalista che pone una sorta di dicotomia ontologica tra “l’Occidente e il resto”10. Secondo alcuni severi critici, i pensatori postcoloniali più radicali riprodurrebbero semplicemente, invertendolo, un vecchio pregiudizio eurocentrico: l’“Occidente” come regno della razionalità e l’“Oriente” come conglomerato di tradizioni, pratiche culturali, narrazioni magiche e religiosità11. L’enfasi sulla singolarità costitutiva delle identità corporee, etniche, di genere e di razza, in opposizione a una teoria marxista “omogeneizzante” della lotta di classe, sostengono i critici delle teorie postmoderniste e postcoloniali, tende a creare soggettività reificate ed essenzializzate che alla fine negano la storia e producono una nuova forma di irrazionalismo. Vedere la storia, la ragione e la cultura occidentali come blocchi monolitici ed essenzializzare tutti i tipi di identità non bianche, non maschili, non occidentali e sessualmente anticonformiste significa riprodurre, per una sorta di simmetria speculare, un paradigma normativo. Agli occhi di Eagleton, col pretesto di criticare una presunta storia omogenea e uniformatrice, il postmodernismo non fa che proporre una storia terribilmente omogenea12.
Secondo Lukács, l’irrazionalismo era la filosofia dell’imperialismo. Ora, nessuno potrebbe seriamente sostenere che il post-strutturalismo, il postmodernismo, le teorie femministe e gli studi postcoloniali siano le ideologie dell’imperialismo alla fine del XX secolo e oltre. Alcuni critici mettono in relazione queste correnti filosofiche e culturali con l’avvento del neoliberalismo e le trasformazioni del capitalismo postfordista, un’epoca plasmata dalla precarietà, da forme di produzione frammentate e globali, da un nuovo modo di vivere altamente individualista e da una percezione del tempo – il presentismo – in cui il senso della storia è svanito13. Lukács ha descritto un’epoca borghese “progressiva” – dal 1789 al 1848 – seguita dall’imperialismo, un’epoca di razzismo e di tendenze nazionaliste aggressive. Cogliendo la matrice del postmodernismo “nelle alterazioni oggettive dell’ordine economico del capitale”, Perry Anderson ha osservato che le élite industriali e finanziarie dell’era neo-liberale sono globali, non si identificano a una cultura nazionale e non corrispondono più al modello weberiano dell’ethos borghese14. Ciò che Lyotard ha descritto come “l’incredulità [postmoderna] nei confronti delle meta-narrazioni”15 rispecchia in fondo quest’epoca di identità frammentate e perdita di storicità. La sua visione nasce inoltre da una sconfitta storica della sinistra – il naufragio delle rivoluzioni socialiste del XX secolo e il crollo del comunismo – che ha inghiottito le speranze di un futuro emancipato. Ciò che rimane è l’“irrazionalità razionale” del neoliberalismo: una peculiare simbiosi tra le componenti altamente razionalizzate dell’economia capitalista e l’irrazionalità umana, sociale ed ecologica del capitalismo come sistema globale.
Presa alla lettera, la critica dell’irrazionalità che attraversa La distruzione della ragione non può certo essere applicata al poststrutturalismo, al postmodernismo e ad alcune varietà di studi postcoloniali. Una trasposizione meccanica dei suoi bersagli critici condurrebbe inevitabilmente in un vicolo cieco. Rileggere Lukács alla luce di queste correnti di pensiero è comunque un esercizio interessante e proficuo. Da un lato, le simmetrie evidenziate sopra indicano le ambiguità di una critica dell’Illuminismo che rischia, nel migliore dei casi, di produrre una politica impotente e, nel peggiore, di offrire munizioni intellettuali alla destra. Se le loro traiettorie e finalità sono antinomiche, i loro punti di incrocio – anti-universalismo, anti-umanesimo, relativismo, antistoricismo e razza – rivelano interazioni pericolose. D’altra parte, non c’è dubbio che gli studi femministi e postcoloniali siano, a loro volta, un potente rivelatore dei limiti dello stesso libro di Lukács. L’unica donna menzionata (due volte) nelle sue centinaia di pagine è Rosa Luxemburg. Il colonialismo, così come l’antisemitismo, sono evocati marginalmente e mai messi al centro dell’imperialismo e delle sue ideologie e pratiche razziste. Inoltre, assimilando semplicemente il razzismo a una forma di irrazionalismo, Lukács non vede che le premesse delle moderne teorie razziali risiedono nella stessa cultura dell’Illuminismo, mezzo secolo prima di Gobineau. L’universalismo e l’umanesimo non furono solo le bandiere delle rivoluzioni anticoloniali, da Haiti a Cuba, da Toussaint Louveture a Che Guevara; furono anche i valori proclamati da un imperialismo europeo che difendeva con orgoglio la sua “missione civilizzatrice” in Africa e Asia. Insomma, Lukács non riconosceva la dialettica dell’Illuminismo, nella quale si intrecciano ragione occidentale e irrazionalismo, liberazione e dominio.
È auspicabile che questa opposizione binaria tra particolarismo e universalismo appartenga ormai al passato. In diverse occasioni, studiosi post-marxisti e post-strutturalisti come Ernesto Laclau, Chantal Mouffe e Judith Butler hanno sottolineato l’urgenza di ripensare l’universalismo incorporando in esso il multiculturalismo e le identità di gruppo, non tanto per allargarne l’orizzonte ma piuttosto per trasformarlo attraverso l’interazione performativa dei loro linguaggi16. Ciò permetterebbe di superare sia una idea marxista obsoleta della centralità della classe operaia sia un concetto ristretto di identità isolate – “ontiche” – di genere e razza. Questo era il significato dell’ultimo appello di Edward Said per un rinnovato umanesimo, in cui rivendicava la possibilità di essere critici dell’umanesimo in nome dell’umanesimo stesso17. Ciò non significa credere nella forza messianica di una ragione storica impersonale, soverchiante e in ultima istanza invincibile; significa piuttosto un atto di fede (del tutto secolare) nella soggettività e nella volontà umane. In altre parole, Said proponeva un umanesimo universalista in sintonia con le voci e le correnti emergenti del presente, molte delle quali esuli, extraterritoriali e senza dimora. Parafrasando il concetto di “ebreo non ebreo” proposto da Isaac Deutscher – l’ebreo che afferma la sua appartenenza a una tradizione ebraica trascendendo l’ebraismo stesso – Said rivendicava il suo status di “umanista non umanista”18. Ma a Lukács non piaceva molto Deutscher. Negli anni Cinquanta viveva a Budapest, dove l’“uomo nuovo” socialista non ammetteva alcuna identità particolare. Non si considerò mai come un “ebreo non ebreo”.
Un’ultima osservazione riguarda l’epilogo de La distruzione della ragione, datato gennaio 1953 e dedicato all’irrazionalismo postbellico. Con uno stile violentemente polemico, abbastanza comune in quel periodo, Lukács analizza lo spostamento dell’irrazionalismo verso il campo del cosiddetto “mondo libero”. Durante la guerra fredda, l’irrazionalismo non era più identificato con la fusione nazista di biologismo e Lebensphilosophie, nichilismo e misticismo romantico della natura. Ora l’irrazionalismo si stava trasformando in anticomunismo, una “nuova forma di irrazionalismo nascosta sotto l’involucro di un’apparente razionalità”19. Lukács prende di mira, tra gli altri, un groviglio di pensatori e intellettuali molto diversi tra loro come il liberale Raymond Aron e l’ex trotzkista James Burnham, lo scrittore Aldous Huxley e gli economisti neoliberali Walter Lippmann e Wilhelm Röpke. In definitiva, l’irrazionalismo significava la minaccia di una guerra atomica contro l’Unione Sovietica. A pochi anni di distanza da La distruzione della ragione, Günther Anders, il più heideggeriano dei filosofi marxisti, condivise questo punto di vista nel primo volume di L’uomo è antiquato (1956), una disperata riflessione sul carattere arcaico del genere umano nell’era nucleare, un tempo crepuscolare e distopico in cui la vita è esposta in permanenza alla possibilità della sua autodistruzione. La tarda modernità, spiegava Anders, è una condizione di completo nichilismo. Grazie alla tecnologia più avanzata, gli esseri umani hanno realizzato il loro antico sogno prometeico di diventare potenti come dei, ma il loro potere è puramente negativo: non sono in grado di creare ex nihil, possono soltanto distruggere ad nihilo. La loro onnipotenza consiste nella capacità di annientare il loro stesso mondo. In termini heideggeriani, la tecnologia è diventata la nostra condizione ontologica, il nostro destino. Siamo prigionieri di un apparato incoercibile (Ge-Stell)20.
Inutile dire che questo non era l’approccio di Lukács, per il quale il socialismo reale incarnava ancora una promessa di progresso storico, ma la concezione di Anders del nichilismo era senza dubbio una definizione più convincente della “nuova forma di irrazionalismo nascosta sotto l’involucro di un’apparente razionalità”. Più convincente era anche l’analisi della mercificazione moderna sviluppata da Marcuse in diverse opere, da Eros e civiltà (1954) a L’uomo a una dimensione (1961), che sottolinea il carattere irrazionale della razionalità tardo capitalista. Il capitalismo, sostiene Marcuse, combina “una produttività crescente e […] una crescente capacità di distruzione”; la sua “razionalità travolgente” che spinge all’efficienza e alla crescita è essa stessa “irrazionale”21.
Oggi non siamo di fronte a una nuova forma di irrazionalismo filosofico, ma a una contro-razionalità in cui la facciata esterna dell’Illuminismo (democrazia liberale, diritti umani, libertà individuale, progresso scientifico, ecc.) nasconde il dominio della ragione strumentale neoliberale (ratio). In questo inizio del XXI secolo, l’irrazionalismo non consiste più in una religione della Natura che idealizza misticamente “sangue e suolo”; consiste piuttosto in una civiltà che distrugge la natura stessa. Questo irrazionalismo non nasce esclusivamente, come sosteneva Marx, dal conflitto tra le forze produttive e i rapporti di produzione borghesi (le forme di proprietà) della società capitalista; esso deriva da una contraddizione parallela e ancor più profonda tra le condizioni di produzione (lavoro, popolazione, terra, clima, ecc.) e i rapporti di produzione. Ciò significa che l’antico e ancora terribilmente presente antagonismo tra lavoro e capitale si combina a uno scontro permanente tra natura e capitalismo. In questo contesto, l’anticapitalismo romantico potrebbe offrire armi efficaci a una ragione emancipatrice capace di combinare lotta di classe e lotta ecologica22.
1 Su questa costellazione intellettuale si veda Enzo Traverso, I nuovi volti del fascismo, trad. it. di G. Morosato, Ombre Corte, Verona 2017. A Rolf-Peter Sieferle, l’ideologo di Alternative für Deutschland, che si è suicidato dopo la pubblicazione di Finis Germania (Antaios Verlag, Steigra 2017), si deve uno studio che sottolinea la dimensione modernista sia della Rivoluzione conservatrice che del nazionalsocialismo: Die Konservative Revolution: Fünf biographische Skizzen, Fischer, Frankfurt 1995, pp. 29-31, 43.
2 Si veda il classico studio di Fritz Stern, The Politics of Cultural Despair: A Study in the Rise of the German Ideology, University of California Press, Berkeley 1961.
3 Alex Callinicos, Against Postmodernism: A Marxist Critique, Polity Press, Cambridge, UK 1989, pp. 162-171; Terry Eagleton, Le illusioni del postmodernismo, trad. it. di F. Salvatorelli, Editori Riuniti, Roma 1998; Perry Anderson, The Origins of Postmodernity, Verso, London-New York 1998, pp. 80-81, 115.
4 Ellen Meiksins Wood, What is the “Postmodern” Agenda?, in Ellen Meiksins Wood e John Bellamy Foster (a cura di), In Defense of History: Marxism and the Postmodern Agenda, Monthly Review Press, New York 1997, p. 8.
5 “L’erranza è la dimora aperta e il fondamento dell’errore (Irrtum)”: Martin Heidegger, L’essenza della verità. Sul mito della caverna e sul “Teeteto” di Platone, a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 1997, p. 6
6 Jacques Derrida, Della grammatologia, a cura di G. Dalmassi, Jaca Book, Milano 1969, p. 219.
7 Ranajit Guha, History at the Limit of World History, Columbia University Press, New York 2002, p. 2 (trad. La storia ai limiti della storia del mondo, a cura di M. Guareschi, Sansoni, Milano 2003).
8 Ivi, p. 72.
9 Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, trad. it. di M. Bortolini, Meltemi, Roma 2004, p. 334.
10 Niall Ferguson, Occidente. Ascesa e declino di una civiltà, Mondadori, Milano 2012 (Il titolo originale è Civilization: The West and the Rest, Penguin Books, London 2011).
11 Vivek Chibber, Postcolonial Theory and the Specter of Capital, Verso, London-New York 2013, p. 291. Critiche analoghe in Jean-Loup Amselle, L’Occident décroché. Enquête sur les colonialismes, Pluriel, Paris 2008, pp. 134-137, e Jean-François Bayard, Les études postcoloniales. Un carnaval académique, Karthala, Paris 2010, pp. 44-45.
12 Eagleton, Le illusioni del postmodernismo, cit.
13 Sulla nozione di “presentismo”, si veda Francois Hartog, Régimes d’historicité. Présentisme et expériences du temps, Seuil, Paris 2003.
14 Anderson, The Origins of Postmodernity, pp. 54, 84-85.
15 Fran-François Lyotard, La condizione postmoderna, trad. it. di C. Formenti, Feltrinelli, Milano 1999, p. 6.
16 Si veda in particolare i loro interventi raccolti in Judith Butler, Ernesto Laclau e Slavoj Žižek, Dialoghi sulla sinistra. Contingenza, egemonia, universalità, ed. it. a cura di L. Bazzicalupo, Laterza, Roma-Bari 2010.
17 Edward W. Said, Umanesimo e critica democratica, trad. it. di M. Fiorini, il Saggiatore, Milano 2007.
18 Ibidem.
19 Lukács, La distruzione della ragione, cit., vol. II, p. 784.
20 Günther Anders, L’uomo è antiquato, vol. I, trad. it. di L. Dallapiccola, Bollati Boringhieri, Torino 2007. Si veda in proposito Martin Heidegger, La questione della tecnica (1953), in Saggi e discorsi, a cura di Gianni Vattimo, Mursia, Milano 1976, pp. 5-27
21 H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 11.
22 Si veda Razmig Keucheyan, La natura è un campo di battaglia. Saggio di ecologia politica, trad. it. di G. Di Domenicantonio e G. Morosato, ombre corte, Verona 2019.