di Devis Colombo
da Vie traverse. Lukács e Anders a confronto, a cura di A. Meccariello e A. Infranca, Asterios, Trieste, 2019.
Pubblichiamo qui per la prima volta la traduzione italiana del carteggio fra due rappresentativi esponenti della critica contemporanea all’estraniazione, Günther Anders e György Lukács1. Infatti, sebbene i due pensatori siano caratterizzati da una prospettiva filosofica differente – il primo contribuisce a coniugare l’antropologia filosofica con il dibattito sulla tecnocrazia, mentre il secondo pone le solide basi di un “marxismo occidentale” –, nelle lettere fra loro intercorse a fasi intermittenti, tra il 1964 e il 1971, concordano nel rilevare una significativa affinità teorica nella concezione dell’estraniazione e nelle modalità con cui condurre la battaglia ideologica e pratica volta a un suo superamento. Se il dialogo fra Anders e Lukács su quest’argomento non ha potuto abbandonare la fase delle considerazioni introduttive – restando comunque il più significativo aspetto del loro carteggio –, ciò è accaduto perché l’approfondito confronto sull’argomento che si erano ripromessi di svolgere in prima persona non si è mai potuto verificare per via delle vicissitudini personali dei due autori.
In realtà un dibattito vis-à-vis fra loro avrebbe potuto mettere in luce anche alcune divergenze che, per quanto riguarda Anders, si imperniano perlopiù attorno a due dirimenti questioni2.
In primo luogo egli, in linea proprio con la Scuola di Francoforte implicitamente criticata da Lukács nella prima lettera, inserisce l’estraniazione all’interno della specifica analisi della tecnica odierna, e attraverso tale analisi egli arriva a spingersi sia oltre l’indagine primariamente economica, privilegiata di contro dall’impostazione marxista ortodossa, sia oltre la concezione di classe direttamente scaturita da essa. In effetti per il pensatore ebreo-tedesco è centrale il fatto che l’alienazione sia «per il 90% originata dallo sviluppo tecnico e non dai rapporti di proprietà»3. Un’eventuale modificazione di questi ultimi per mezzo di un processo di trasformazione politica non andrebbe pertanto a intaccare l’impatto di disgregazione sociale dell’essenza antropofrugale della tecnica, da rintracciarsi per Anders prevalentemente in una «dialettica delle macchine»4 in base alla quale i singoli apparecchi tendono a unirsi ad altri simili andando progressivamente a costituire una struttura invasiva di macchine che, trascendendolo, defrauda l’uomo della sua operosità e della diretta efficacia delle sue azioni. Tale aspetto del pensiero di Anders, ad onta di chi tentò di screditarlo come un marxista o un fautore della politica internazionale filosovietica5, lo pone automaticamente al di fuori dei tradizionali canoni del materialismo dialettico. A ciò si aggiunge il fatto che la metodologia tecnofilosofica di Anders privilegia indubbiamente la contingenza e l’occasionalità – cui egli attribuisce un maggior valore ontologico-esistenziale –, piuttosto che l’assoluto e il tutto, dimostrandosi così non compatibile con il «dominio metodologico della totalità sui momenti singoli»6 che, ancora nella Prefazione del 1967 a Storia e coscienza di classe, Lukács identificava come il nucleo irrinunciabile del marxismo scientifico7. Non è un caso che nel dibattito internazionale sviluppatosi nei paesi comunisti a partire dai primi anni Sessanta sul concetto di “rivoluzione tecnico-scientifica” – che a differenza del “progresso tecnico borghese” dei paesi occidentali non sarebbe orientato unicamente al processo di valorizzazione del capitale – Anders non appaia quasi mai citato; e quando ciò accade, oppure vengono descritte posizioni a lui non lontane, queste sono identificate come un sintomo tecnofobico della decadenza “piccolo-borghese”8 che si rifiuta di riconoscere l’uso emancipatore che il proletariato può fare della tecnica in presenza di condizioni di classe a lui favorevoli. Assai lontano dunque dai principi dell’ortodossia marxista9, per Anders l’alienazione si insinua più precisamente in quella discrepanza che egli notoriamente individua tra la capacità dell’uomo di “produrre” e quella di “immaginare” le conseguenze dei propri prodotti, sempre più tecnicamente complessi e sviluppati, a tal punto da sfuggire alla forza illuminante della ragione umana. Conseguentemente in Noi figli di Eichmann (1964) egli preferisce il termine “oscuramento” a quello di estraniazione10: «nonostante il nostro mondo sia fatto dall’uomo e sia mantenuto in movimento da noi tutti, a causa del fatto che esso si sottrae alla nostra immaginazione e alla nostra percezione diviene di giorno in giorno più oscuro»11. In un saggio del 1972 Anders ribadirà ulteriormente la sua perplessità nei confronti dell’efficacia teorica del termine “estraniazione” (Entfremdung) motivandola col fatto che, in virtù del prefisso tedesco privativo ent-, esso «indica esattamente il contrario di ciò che vuol dire: sembra asserire che qualcosa venga spogliato della sua estraneità [Fremdheit]»12.
La seconda questione che qualifica il concetto andersiano di estraniazione allontanandolo dall’impostazione lukacsiana è da rinvenire in quell’“antropologia negativa” da lui sviluppata fin dai saggi giovanili inediti Notizen zu Philosophie des Menschen (1927) e Situation und Erkenntnis (1929): in base a essa l’uomo si configura come quell’essere che a differenza dell’animale – il quale si trova aprioristicamente integrato in un mondo che conosce istintivamente fin dal principio e che gli garantisce direttamente la soddisfazione dei propri bisogni «non è tagliato per nessun mondo materiale, non può anticiparlo nella sua determinazione, piuttosto deve imparare a conoscerlo après-coup, a posteriori»13 tramite la vita dell’“esperienza”, che lo espone inevitabilmente «al possibile e al qualunque»14. Una tale antropologia fa della negazione l’essenza dell’uomo nella misura in cui riconosce proprio nell’indeterminatezza, vale a dire nel non costituire una cosa unica con la pre-datità che lo circonda e nel non essere dotato di una «sola forma prevista in anticipo e valida in generale»15. In questo modo la posizione dell’uomo nel mondo – che per Anders va a costituire contemporaneamente la “natura dell’esistenza”- viene tratteggiata come una contraddittoria «inerenza in quanto inerenza distanziata»16 che gli consente di essere interno al mondo biologico-naturale, ma con un “coefficiente di integrazione” tale da assicurargli la libertà di autodeterminarsi. In questo senso per Anders l’estraniazione dell’uomo non è soltanto il frutto dei processi di produzione, ma è a lui ontologicamente estraneo in modo ancora più originario proprio il mondo materiale in cui si trova più estensivamente a vivere oltreché a lavorare. Esattamente l’incapacità di non potersi metafisicamente identificare con nessun mondo – Anders parla appunto di Weltfremdheit – rappresenta la cifra teorica del suo concetto di estraniazione, che dunque mostra di situarsi su un terreno di riflessione non facilmente assimilabile alle tendenze economiciste presenti, seppur con accentuazioni diverse, nel marxismo classico.
Nel carteggio inoltre sono presenti altri argomenti che avrebbero potuto costituire il fondamento del dialogo purtroppo mancato tra i due autori: il realismo in letteratura, le dinamiche sociali del conformismo e infine quell’«ontologia della vita quotidiana»17 da cui Lukács era partito per espungere dal marxismo la degenerazione stalinista e con cui Anders aveva iniziato a prendere le distanze da Heidegger in direzione di una maggiore concretezza filosofica18. Infine in queste missive emergono una specifica postura politico-morale e un modo particolare di ricoprire il ruolo dell’intellettuale che indubbiamente contribuirono a unire i due pensatori fin dalle primissime righe della loro corrispondenza.
1 Il carteggio fu inizialmente pubblicato, senza gli allegati e i telegrammi ad esso collegati, in F. Benseler, W. Jung (a cura di), Lukács 1997. Jahrbuch der Internationalen Georg Lukács-Gesellschaft, Berna, Peter Lang, 1997, pp. 47-72. Laddove i nomi di alcune personalità citate nel carteggio siano in qualche misura indispensabili per la comprensione dello stesso, questi verranno presentati in nota. Per la gentile concessione dei diritti di pubblicazione delle lettere andersiane si ringrazia qui l’amministratore del Lascito-Anders Gerhard Oberschlick (Vienna), dal 1986 al 1995 direttore della rivista “Forvm” [sic!] con cui Anders collaborò a lungo.
2 In Schauderhaft Banales. Über Alltag und Literatur (Opladen, Westdeutscher Verlag, 1994) Werner Jung arriva a dubitare dell’effettiva fondatezza della visione comune d’insieme espressa da Anders e Lukács nel loro carteggio (p. 71).
3 G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. II, Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale (1980), Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 349.
4 Ivi, pp. 105-115.
5 Ci si riferisce qui in particolare alla polemica, di cui il carteggio con tiene traccia, condotta da Friedrich Torberg contro Anders. Si veda: J. Doli, Günther Anders. La guerre froide et l’Autriche. A propos d’une polémique entre Günther Anders et Friedrich Torberg, in «Austriaca. Cahiers universitaires d’information sur l’Autriche», 35 (1992), p. 58.
6 G. Lukács, Storia e coscienza di classe (1922), Sugarco, Milano 1978, p. 13.
7 Ivi, p. XXVII.
8 Si veda a titolo di esempio: S. Wollgast, G. Banse, Philosophie und Technik, Berlino Est, VEB Deutscher Verlag der Wissenschaften, 1979, p. 201.
9 Detlef Clemens in Günther Anders – ein Marxist?, in “Das Argument”, 2 (1996), p. 265, sostiene opportunamente che Anders, senza essere marxista, ha nondimeno reinterpretato alcune tesi del marxismo, fra cui soprattutto la visione dicotomica dei rapporti di potere: nella versione andersiana tuttavia la contrapposizione borghesia-proletariato lascia il posto a quella tra tecnocrazia-umanità (ivi, p. 273).
10 G. Anders, Noi figli di Eichmann (1964), trad. it. di A.G. Saluzzi, Firenze, Giuntina, 1995, nota 1, p. 105.
11 Ivi, p. 31.
12 G. Anders, Il senso, in Id., L’uomo è antiquato, vol. II, cit., nota 2, p. 423.
13 G. Anders, Patologia della libertà, Palomar, Bari 1993, p. 55.
14 Ibidem.
15 Ivi, p. 65, nota 8.
16 Ivi, p. 36.
17 Si veda soprattutto la lettera di Lukács del 22.11.67 e quella di Anders del 5.12.67.
18 Mi permetto di rimandare al saggio, D. Colombo, La «fame» divora la fenomenologia. Sul desiderio di concretezza nella filosofia di Günther Anders, in M. Latini, A. Meccariello (a cura di), L’uomo e la (sua) fine. Saggi su Günther Anders, Trieste, Asterios, 2014, pp. 9-42.