Formalisti che ignorano le forme

di Vittorio Saltini

«L’Espresso», n. 21, 26 maggio 1968


Boris Ejchenbaum, Il giovane Tolstoj La teoria del metodo formale, De Donato, Lire 2000.

Ancora una volta la lettura d’un formalista russo, in questo caso Ejchenbaum, è deludente. Ejchenbaum qui affronta Tolstoj, ma la sua analisi si mostra di troppo inadeguata all’oggetto. Sarebbe utile confrontare queste pagine col più ampio giudizio di Lukács su Tolstoj (nei Saggi sul realismo): si scoprirebbe che proprio sulle differenze formali fra l’epica tolstoiana e le altre forme romanzesche dell’Ottocento, il contenutista Lukács (malgrado lo svantaggio iniziale di voler partire da una tesi di Lenin) ci sa dire cose ben più precise del formalista Ejchenbaum.

Lo stesso Ejchenbaum osserva che il metodo suo e dei suoi amici, che viene detto “formale”, sarebbe più giusto chiamarlo “morfologico”. E in realtà, lo studio delle forme letterarie e della loro evoluzione è stato portato avanti piuttosto da autori come il giovane Lukács o Szondi. che non dai formalisti russi. Questi pongono semplicemente l’esigenza di partire dall’analisi del testo letterario come tale e non da riferimenti esterni. Senonché sono proprio mutati rapporti tra letteratura e realtà (quindi i contenuti ideologici) che impongono, a volte, anche la rottura con forme tradizionali. Proprio a causa del loro rifiuto d’indagare questi rapporti, i formalisti non sono in grado di individuare né l’evoluzione delle forme né, in definitiva, le forme stesse, ma colgono solo particolari “deformazioni”, “stilizzazioni”, modi linguistici. Insistono sul concetto di “convenzione” (e artificio): la forma letteraria è una convenzione che «non coincide con il contenuto reale, extra-verbale, immediato», né con la «vita psichica» dell’autore, ripete Ejchenbaum. Questo anti-psicologismo, questa coscienza che l’opera può essere compresa solo come un prodotto culturale (quindi nell’ambito anche d’una storia delle forme) e non come una manifestazione immedieta del singolo individuo accomunerebbe i formalisti russi ai dialettici. Ma è proprio anche la genericità del loro concetto di convenzione, che impedisce ai formalisti l’approccio a una storia delle forme (ad esempio, delle forme romanzesche). Essi infatti non possono spiegare come un’evoluzione di soluzioni formali esteticamente significative si distingua da una successione di convenzioni arbitrarie, di trovate capziosamente escogitate. La validità o “necessità” estetica d’una soluzione formale si può mostrare solo individuando la sua derivazione da un mutato rapporto tra soggettività letteraria e realtà. Non affrontando i formalisti questo problema di contenuto, anche il loro porre l’accento sulla forma resta più che altro enfatico e dichiarativo. La priorità della forma è semplicemente proclamata. Tuttavia, almeno una volta Ejchenbaum tocca il problema dell’evoluzione delle forme, quando osserva che da Puškin a Turgenev è stata sviluppata «la forma puramente narrativa», mentre «l’epoca di Tolstoj e di Dostojevskij segna la crisi della prosa narrativa. Dostojevskij amplifica il dialogo riducendo al minimo la parte descrittiva e narrativa cui conferisce un carattere di commento soggettivo; Tolstoj elabora una descrizione minuziosa e concreta, abbinata alla generalizzazione. Non sorprende che dopo di loro il romanzo russo non si sia più evoluto e sia stato sostituito dagli aneddoti di Cechov». Ejchenbaum accenna qui a un problema realmente importante ma non può andare oltre questa formulazione imprecisa. Invece proprio Lukács ha indagato la ragione e il senso di questa evoluzione del romanzo dalla forma più concentrata e novellistica di Balzac o di Puškin alla forma di Tolstoj. I formalisti sanno invece analizzare solo certi moduli stilistici ricorrenti, e per lo più elementari, che sono ben meno della “forma” delle opere in cui compaiono. E anche qui essi balbettano alquanto, come dimostra ad esempio il loro equivoco concetto di “straniamento”, sul quale dirò qualcosa un’altra volta.

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