di György Lukács
«Rinascita-Il Contemporaneo», n. 37, 18 settembre 1970
A venticinque anni dalla morte di Béla Bartók
La rivista letteraria ungherese Nagyvilág reca nel suo numero dell’agosto scorso il bellissimo saggio di György Lukács per il 25° anniversario della morte di Béla Bartók, che qui riproduciamo nella traduzione di Marinka Dallas. A 85 anni di età, l’insigne filosofo comunista continua la sua straordinaria attività di riflessione sulla storia, la cultura, le lotte del movimento operaio in questo secolo. La rievocazione di Bartók gli offre qui l’occasione per una rimeditazione su tutte le vicende della sua patria da cent’anni a questa parte e sul suo peso culturale nel mondo.
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Questo testo non è stato scritto da un musicista. Ma neppure da un intenditore di musica. Quindi è diritto dei competenti di non leggerlo. Eppure: credo, o per lo meno spero, che queste righe di un profano siano connesse con il reale significato di Bartók, anche se si limitano ad indicarlo e non lo esauriscono affatto.
Il fatto di appartenere alla stessa epoca non basterebbe a giustificare questo articolo. Sono appena di pochi anni più giovane di Bartók e, come lui, appartengo anch’io a coloro la cui formazione è avvenuta nelle tenebre di una tradizione nazionale riassumibile nel rigido e limitato accademismo degli anni successivi al 1867. A quei tempi si cominciavano appena a intravvedere i primi segni precursori della rivoluzione ideologica; ma su scala mondiale veniva soffocata ogni autentica protesta dell’età giovanile. Quando il movimento di protesta prese inizio, Bartók, insieme ad Ady, accanto ad Ady, fu uno di quegli uomini la cui personalità, il cui modo di creare fece del periodo che va dai primi del secolo agli anni delle rivoluzioni, una vera, grande epoca della cultura ungherese.
Dopo la sconfitta del 1848 la società ungherese, la politica ungherese seguivano la «via prussiana»: nel senso, come scrisse Lenin, che lo sviluppo del capitalismo ungherese e dell’Ungheria borghese avevano cambiato soltanto alla superficie l’autocrazia economica, sociale e politica dei persistenti residui del passato. Fu allora chiamato «liberalismo» la diseguale alleanza tra la grande proprietà e il capitalismo in sviluppo, per il comune sfruttamento degli operai e dei contadini ungheresi; a patto che, nell’ambito dell’alleanza, nella quale il ruolo di guida dell’elemento feudatario era sempre fuori discussione, il grande capitale non venisse più relegato in un ghetto sociale.
In tal modo l’Ungheria capitalistica, salvo il breve episodio della rivoluzione, era rimasta il paese dei signori. Adesso, però (come ebbe a dire un seguace di István Tisza), il signore era un «signore che lavora». Cioè, il signor Pál Pató, se aveva seguito questa strada, poteva diventare un capo anche nel campo economico. Se, invece, era rimasto Pál Pató poteva diventare soltanto impiegato ministeriale o regionale. È noto che solo nel 1945 furono, finalmente, distribuite ai contadini le terre delle grandi proprietà di origine feudale.
L’Ungheria non fu la sola a percorrere questa strada. La stessa sorte toccò alla nazione tedesca dopo la tragica fine del 1848 e ai russi, sino all’Ottobre 1917. Ma questa, sia pur simile, strada sociale e politica produsse un’ideologia diversa in ogni paese. Il 1848 pose termine all’indirizzo radicalmente progressista del pensiero e dell’arte tedesca che fino allora aveva dominato l’ideologia tedesca, da Lessing a Heine. Fu allora che prese avvio la nuova fase di sviluppo della letteratura tedesca che Thomas Mann, giustamente, definì «una intimità difesa dal potere». In Russia si sviluppò una netta contraddizione rivoluzionaria in campo ideologico, che caratterizza la grande epoca della letteratura russa, da Puškin a Čechov. E per quanto riguarda la linea principale dello sviluppo, sarebbe errato contrapporre la linea Bjelinskij-Cernisevskij-Dobroliubov del pensiero russo alle intenzioni finali di Tolstoi o di Dostoevskij. Infatti, il senso reale delle opere di questi ultimi è una protesta decisa e scevra da compromessi, contro le basi della società zarista russa, quanto lo era la critica diretta, aggressiva, dei democratici rivoluzionari.
La letteratura ungherese (poiché in questa epoca quasi non esisteva un pensiero filosofico ungherese indipendente) riunì in sé in modo caratteristico gli estremi più importanti dello sviluppo storico mondiale. Da una parte non è esagerato affermare apertamente che l’indirizzo dominante anche da noi era «l’intimità difesa dal potere». A scanso di equivoci, occorre subito fissare che ciò non significa, necessariamente, una illimitata soddisfazione conservatrice nei riguardi dei residui feudali inestirpabili dell’Ungheria, né nei riguardi del capitalismo costruito su quella base e a quella strettamente collegato. Un simile conservatorismo ideologico, in quest’epoca, si ritrova sia nell’indirizzo «all-deutsch» tedesco, sia nella reazione russa fino ai «Cento Neri»; in Ungheria, questo modo di pensare aveva elevato, spiritualmente, una statua «al cavaliere del Volga». Ma la tendenza dominante è radicalmente diversa: l’atmosfera potrebbe essere caratterizzata da quella sorta di ripugnanza che va dal brontolio all’insoddisfazione. I migliori ideologi, onesti e sinceri e con una visione chiara, in misura e con caratteri diversi ma quasi senza eccezione, intuivano molti aspetti di quella deformazione umana che la alleanza tra feudalesimo sopravvissuto e produzione capitalistica in sviluppo aveva necessariamente generato. I loro sentimenti e i loro pensieri protestavano. Ma, già a priori, persino teoricamente essi ritenevano senza speranza ogni possibilità di una opposizione radicale che passasse o incitasse all’azione. Una rinuncia siffatta, che è uno dei tratti essenziali «dell’intimità difesa dal potere», ha una larga scala oggettiva e soggettiva, che va dalla disperazione apertamente espressa alla rassegnazione cinica. In questi casi anche l’uomo, l’ideologo, diventa di fatto un sostenitore cinico del disprezzato potere. Si veda la Germania dopo il ’48: tra le file della «intimità difesa dal potere» dobbiamo annoverare Richard Wagner (che pure nel ’48 veniva considerato un rivoluzionario), il passaggio da Feuerbach a Schopenhauer, la fondamentale e profonda melanconia, nata su queste basi, dell’arte di Brahms, l’humour autocanzonatorio di Raabe e di Fontane, ecc.
La discriminante, anche in Ungheria, è il ’48, quando nasce l’«intimità difesa dal potere» come corrente guida. Oltre ai nomi di Zsigmond Kemény e Mór Jókai, dobbiamo almeno citare quello del primo grande rappresentante di questo atteggiamento, János Arany. Come uomo, non fu certo mai un rivoluzionario nato come Petőfi; eppure è un fatto che nel corso degli anni rivoluzionari, così ricchi di delusioni umane per Petőfi, costui soltanto con Arany mantenne un rapporto senza conflitti dall’inizio alla fine. E va aggiunto che in Arany il sentimento di solidarietà fatale con Petőfi non vacillò mai. E tuttavia, il suo sentimento fondamentale fu il riconoscimento della giustezza ma insieme della irripetibilità del 1848.
Tutto ciò, con il disprezzo che comporta per la vita ungherese dopo il 1867, può essere riassunto nei noti versi della poesia intitolata «Epilogo»:
Se incontravo di cavalli
un sensale
signorile che mi aveva
fango addosso gettato
Non litigavo, ma
mi spostavo, mi ripulivo.
Nel caso di Mikszáth, la contraddizione della «intimità difesa dal potere» è forse ancora più acuta che nel tardo Arany. Infatti, fu Mikszáth a dare in una poetica, concreta descrizione il più spietato e schiacciante quadro critico dell’Ungheria dei Tisza. Per questo lo onoriamo come uno dei maestri più importanti del grande realismo critico di lingua ungherese. Sarebbe nostro compito tentare di capire, dall’analisi del suo atteggiamento di scrittore, il paradosso, forse il più grande, dello sviluppo ungherese: come è stato possibile che un maestro di simili critiche diventasse lo scrittore più noto di un’epoca decisamente reazionaria, e perché questa critica – non meno tagliente, per il suo contenuto, di quella di Ady – non lo ha reso così scomunicato come è stato Ady agli occhi dell’epoca di Tisza.
Ma il rappresentante più complicato della «intimità difesa dal potere» ungherese rimane sempre Mihály Babits. È noto con quale disgusto il giovane Babits respinse il primo volume di poesia di Ady. Al suo amico Dezső Kosztolányi egli scriveva: «Chissà se Ady proviene da una antica famiglia ungherese?… Ma anche se è così, soltanto con affetto si può toccare questo argomento. Io rispetto Széchenyi, perché biasima l’ungherese; odio Bokányi … Sono ungherese, provengo da una nobile famiglia ungherese (e ne sono molto orgoglioso), sia da parte paterna che da quella materna; e da ambedue le parti, i miei nonni, a memoria d’uomo, erano impiegati regionali (esiste una occupazione più ungherese?); mio padre fu il primo a entrare al servizio dello Stato; ma anche lui è stato un vero e proprio tipo di signore e giurista ungherese». Sarebbe errato dedurre da questo sfogo giovanile le dichiarazioni più mature di Babits su quella che secondo lui è l’autentica natura della cultura ungherese e gli auspicabili indirizzi del suo «sviluppo»; e tuttavia è anche vero che l’orientamento di Babits a proposito dei tratti essenziali del popolo ungherese non si è mai staccato completamente da questo terreno.
Certo che Babits, dopo aver superato l’iniziale rifiuto di Ady, ha sempre cercato di farlo inserire entro quel processo storico che, secondo lui, costituisce l’essenza immutata e immutabile della nazione ungherese. I suoi successivi scritti, i tentativi autobiografici, i saggi dell’antologia intitolata Che cos’è l’ungherese? si muovono tutti, senza eccezione e coerentemente, su questa linea. E questo suo orientamento non si perde neanche quando, contro il fascismo che da noi si stava preparando, egli eleva quella clamorosa protesta che è il Libro di Giona. Su questa importante questione debbo fare anch’io un’autocritica. Quando (nel 1941) salutai con entusiasmo questa eccellente poesia antifascista, mi occupai anche delle contemporanee confessioni di Babits riguardanti l’ideologia e la «ungaricità». E pur avendone notato le contraddizioni, ricondussi quella clamorosa manifestazione antifascista ai motivi soprattutto personali, morali. Non rilevai però allora che in quel testo, in primo luogo, egli respingeva il fascismo per via di quella sua obiettiva particolarità, perché questa – al contrario della reazione conservatrice del diciannovesimo secolo, che rispettava e sviluppava la continuità e le tradizioni storiche – è una reazione che, in quanto ideologia ancora non cosciente della nuova fase del nascente sviluppo capitalistico, non continua a sviluppare semplicemente le vecchie aspirazioni conservatrici, ma spesso le contrasta fortemente. Avrei dovuto accorgermi di questo, tanto più che, nel mio saggio, citai il seguente brano da uno scritto autobiografico di Babits apparso a quei tempi: «Io sono venuto da una vecchia epoca spirituale, davanti alla quale il legame più sacro era il legame della nazione, un legame spirituale. Quest’epoca disprezza lo spirito, e disprezza i legami spirituali. Conosce male questo ventesimo secolo chi lo definisce “secolo del nazionalismo”. Il secolo del nazionalismo è stato il secolo XIX. È stato questo secolo a creare la moderna comunità nazionale proprio rendendone i diversi elementi possessori di uguali diritti, partecipi di una cultura e una tradizione comune. Ora la nostra epoca rompe questi legami spirituali; preferisce il legame fisico rappresentato dalla razza, o la comunità di interessi rappresentata dalla classe».
L’ultimo motivo ideologico di Babits è rimasto, dunque, quello vecchio, ma tale da idealizzare con serio entusiasmo il periodo di transizione, la «via prussiana al capitalismo» disprezzata da Arany.
Tutto ciò non diminuisce affatto la bellezza poetica del Libro di Giona, né il suo significato morale, tanto meno quello sociale. Ma dimostra anche che la base ideologica ultima dell’antifascismo di Babits era pur sempre l’attaccamento alla «intimità difesa dal potere», in sostanza conservatore. Lo sappiamo: anche il conservatore Stefan George era emigrato in Svizzera per poter protestare – silenziosamente – contro Hitler. Babits ha parlato a voce alta, e questo fatto gli assicura, da ogni punto di vita, una notevole superiorità di fronte ai suoi contemporanei tedeschi. Ma questa valutazione – giusta – non può e non deve nascondere la base ideologica, per molti versi pur sempre analoga.
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Abbiamo dovuto fare una lunga digressione prima di arrivare finalmente a Bartók. Ma era necessario, perché soltanto non abbassando con una semplificazione volgare l’ideologia, l’indirizzo artistico che egli si trovò di fronte, possiamo valutare giustamente il vero significato del superamento rivoluzionario della «intimità difesa dal potere». Soltanto sulla base di questa analisi è possibile contrapporre, legittimamente, l’indirizzo «russo» dello sviluppo ideologico ungherese – Csokonai, Petőfi, Ady, Attila József e soprattutto Bartók – alle manifestazioni più notevoli e più progressive della «via prussiana». Questo antagonismo ormai divenuto cosciente ebbe il suo primo grande consapevole proclama nel famoso articolo di Ady intitolato «Petőfi non scende a patti».
Naturalmente, se mettiamo – credo legittimamente – a confronto questa linea dello sviluppo ungherese e il grande sviluppo rivoluzionario russo, non si può perdere di vista neanche la differenza. Lo sviluppo russo ha abbracciato ogni campo significativo della poesia e del pensiero. In esso il grande romanzo, il dramma e persino la commedia hanno realizzato opere di alto livello, creatrici di una «epoca mondiale». Il corrispondente ungherese di questo indirizzo, proprio nei suoi migliori rappresentanti, si limita quasi esclusivamente al genere soggettivo della letteratura, la poesia, per ottenere poi – tramite l’opera di Bartók – nella musica la sua espressione più profonda ed elevata.
I problemi di genere artistico, qui come dappertutto nello sviluppo della letteratura mondiale, hanno la loro base soprattutto nella filosofia della storia. Il modo in cui un popolo in un’epoca determinata cerca di rendere cosciente per sé la sua autoconoscenza, l’autocritica del suo passato e del suo presente e la strada del suo futuro sviluppo, crea possibilità d’espressione estremamente varie, diverse per qualità, persino contrastanti, non soltanto come modi di espressione puramente artistica. Proprio le strutture che stanno alla base di queste differenze e le loro direzioni di movimento stanno in più stretto rapporto con le basi sociali delle correnti ideologiche e soprattutto con l’estensione e la profondità con cui il movimento di protesta riesce a penetrare effettivamente nella vita delle masse. Da questo punto di vista, la prevalenza della poesia nell’arte ungherese è già a priori anche il riflesso della debolezza sociale dei movimenti radicali. Non che lo sviluppo ungherese non conosca le possibilità d’espressione epica e drammatica di alto livello. Le conosce, anzi, le conosce molto bene. Ma gli scrittori ungheresi che si sentivano chiamati a rappresentare obiettivamente la sorte del loro popolo, proprio sotto l’effetto delle loro conoscenze e delle loro esperienze non potevano essere tra gli avversari decisi e combattivi dei residui feudali e del capitalismo che confluiva in essi. Il poeta solitario, ridotto alle manifestazioni esclusive e dirette del proprio essere, a se stesso, malgrado ogni eventuale fama, attinge proprio da questa situazione le ispirazioni fondamentali del proprio pathos. Quando Petőfi scrisse la sua grande ode, in cui dichiara di essere disposto a cadere per la rivoluzione mondiale, inizia il suo poema con la lirica confessione sul modo di morire che personalmente desidera; di qui cresce il desiderio del martirio rivoluzionario, e non viceversa. Ady invoca e rimprovera «il sole rosso, ritardatario, pigro» come se si trattasse di una donna amata, ecc.
Soltanto la musica è capace di obiettivare in una immagine mondiale questo atteggiamento profondamente soggettivo senza indebolire minimamente il pathos soggettivo del poeta abbandonato a se stesso. Anzi, ha persino la possibilità di trasformarlo, in questo modo, in una protesta mondiale contro il suo stato attuale. Così il posto e il significato insuperato di Bartók nella cultura ungherese si costruisce alla lunga proprio sulla sua personalità di musicista.
Per dare una base obiettiva, generale a questa affermazione, mi sia permesso di ricordare una importante categoria della mia estetica: l’oggettività indeterminata. Questa categoria scaturisce dalla quintessenza dell’arte. L’arte riesce a esprimere l’oggettività estensiva e intensiva della realtà eterogenea soltanto con una omogeneizzazione che parte esclusivamente dall’uomo e sfocia nell’uomo. Ma questa omogeneizzazione impedisce a priori ad ogni arte di oggettivare direttamente certi elementi decisivi della realtà. Così impedisce alla letteratura l’evocazione diretta, sensoriale, di uomini e di fatti; alla pittura e alla scultura, la raffigurazione del movimento reale e l’espressione del pensiero; e non consente alla musica di diventare mentalmente percettibile con precisione, la costringe a rimanere nel regno dei puri sentimenti e delle esperienze, non articolabile in modi stabiliti.
Come dappertutto, così anche nello sviluppo dell’arte, proprio i limiti, in queste circostanze insormontabili, delle possibilità d’espressione, non limitano, ma al contrario, allargano e approfondiscono le possibilità dell’espressione artistica. Più di una volta è proprio qui che si realizza la vera base della produzione veramente grande, della produzione intesa in senso storico mondiale. È così che la disgregazione della cultura rinascimentale riceve – in parole formulabili soltanto con circospezione – nella pittura del Tintoretto maturo e tardo, nella musica di Monteverdi, un’immagine unitaria e profonda, altrimenti inesprimibile artisticamente, e che non ha corrispondenze né nella letteratura italiana del tempo, né nella filosofia. Proprio questa oggettività indeterminata rende possibile questa tipicità di alto livello, dove spariscono o almeno vengono relegate in secondo piano numerose determinazioni concrete e direttamente afferrabili che rendono evidenti i cambiamenti delle epoche, persino nella vita quotidiana. Queste, ora, cedono il posto a quelle commozioni umane, profonde, per via delle quali una simile mutazione dell’epoca può significare una svolta reale, eternamente memorabile nello sviluppo del genere umano, nella evoluzione storica dell’uomo.
Come si vede, un tale livello creativo – che ha le sue radici direttamente nei confini artistici delle forme dei generi d’arte – nella sua vera manifestazione si presenta come problema di contenuto. Il semplice occultamento o anche soltanto lo sbiadimento delle forme dei mutamenti direttamente storici possono degradare l’arte soltanto nell’indifferenza. Dove l’oggettività indeterminata trascura queste forme delle immediate manifestazioni oggettuali, sintomatiche, non per profonde ragioni di contenuto, ma, come abbiamo detto, direttamente per ragioni di forma, lì si aprono davanti a noi la noia pura e l’indifferenza. La pittura olandese costituisce un grande esempio dei lati positivi di un simile sviluppo. Questa pittura è nata dalle vittorie delle lotte d’indipendenza olandese contro la monarchia spagnola feudalmente assoluta. Da Van Goyen a Vermeer sono state gettate le basi più sostanziali della nuova pittura del nuovo mondo. Da questa linea di sviluppo rimane fuori soltanto Rembrandt. Perché? Perché Rembrandt, pur utilizzandole, aveva scansato la stragrande maggioranza delle conquiste creatrici di realtà di questo sviluppo e, in base all’oggettività indeterminata, aveva raffigurato la più profonda problematica dell’uomo nuovo, della nuova visione cosmica umana in questo modo realizzata: le manifestazioni di vita decisive, diventate insolubilmente tragiche, dell’uomo nuovo. Non vi è dubbio che la problematica vera, insolubile dell’uomo nuovo, del mondo che tra poco sarebbe divenuto capitalistico, è stata sentita e fatta sentire da molti artisti e pensatori di allora e anche più tardi. Senza riconoscere ciò non si possono capire veramente né Diderot, né Rousseau, e nemmeno Goethe. Eppure: questa grande epoca di transizione non ha un riflesso di pensiero o artistico (eccetto forse l’ultima parte di Gulliver in cui i cavalli sapienti sono contrapposti agli uomini spregevoli), dove la contraddittorietà fondamentale, intima, insolubile dell’uomo nuovo abbia raggiunto un’espressione così univoca, valida, influente anche oggi, come nell’oggettività indeterminata dei quadri di Rembrandt. Anche oggi dobbiamo guardare i suoi quadri se vogliamo rivivere questa problematica nella sua vera profondità, nella sua realtà, se cerchiamo la strada che ci conduce fuori da simili contraddizioni del genere umano.
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Se non comprendiamo questa situazione, corriamo il rischio di passare accanto alla reale grandezza di Bartók senza afferrarla. La Sinfonia Kossuth, anche se è nata da grandi momenti rivoluzionari, ha potuto essere salutata persino dagli Aurél Kern e dai Miksa Falk come la manifestazione di un nuovo genio musicale ungherese. Non senza fondamento, in quanto la particolare realtà degli ungheresi, come la vera sostanza della vita popolare ungherese già qui si fanno sentire, anche se in una forma non ancora matura. Ancora limitatamente, soltanto come forma generalizzata dall’interno del vero popolo ungherese, come il primo tentativo di un popolo che esige un rinnovamento per poter esprimere la propria personalità almeno nella musica. Se il giovane Bartók e i suoi seguaci avevano intrapreso nello stesso tempo una battaglia contro la pretesa della musica zigana di rappresentare la nazione ungherese, l’avevano fatto per le stesse ragioni per le quali Ady aveva attaccato il «Mihály poetino». Benché forse, già allora più radicalmente, maggiormente generalizzando, naturalmente in base all’«oggettività indeterminata» massimale della musica. Così, l’entusiasmo di certi critici retrogradi già allora nasceva da un fraintendimento.
Ma – per esprimere la quintessenza del suo sviluppo in forma breve e naturalmente troppo generalizzata – anche se la musica del popolo ungherese restò sempre la base delle opere di Bartók, egli stesso non si fermò mai a questo primo così grande impulso, ma proseguì verso la comprensione e l’utilizzazione artistica di ogni musica popolare. A questo punto l’approvazione da destra venne meno; è noto che Bartók è stato accusato persino di tradimento, magari perché aveva additato ad esempio la musica popolare rumena. E Bartók andò oltre. Tra i fattori base, sempre più larghi e profondi della nuova musica, incluse la musica popolare ceca, slovacca, araba, portoghese, insomma tutta la musica popolare.
Per Bartók, alla base della questione centrale del rinnovamento del mondo (e dunque della musica) sia la vita reale di ogni popolo e la contrapposizione indissolubile tra questa e l’influenza deformatrice della falsa cultura capitalistica contemporanea: la contraddizione inconciliabile tra il contadino che vive una vita naturale e l’uomo moderno deformato e alienato, gli fornisce il punto di partenza per la ricerca di una soluzione del problema della realizzazione di una vita «umanizzata» dell’uomo di oggi. Se parliamo qui del contadino, come figura centrale che getta le fondamenta della credibilità sociale della ribellione necessaria, allora non è soddisfacente, anzi, è ingannevole concepirlo in una forma puramente sociale o politica. Anche qui si tratta – con l’aiuto dell’oggettività indeterminata della musica – di un punto di svolta nella storia mondiale, come nel caso dei borghesi dipinti da Rembrandt. Si potrebbe quasi dire che nessuno dei due è «esistito» in questa forma artisticamente realizzata, ma, allo stesso tempo tutti e due sono stati l’espressione di una svolta storica mondiale in modo artisticamente perfetto, comprensibile in ogni tempo e rivolto a tutti. Se vogliamo capire in modo giusto, nel suo vero significato, il ruolo storico del contadino, un fondamento soddisfacente non può essere fornito né dal ruolo effettivamente assolto dal contadino nell’attuale vita politica e sociale, né dall’ideologia personale di Bartók. Per parlare solo di Bartók: egli vedeva una forza naturale nei contadini e proprio per questo ha potuto avere la meglio artisticamente, sia nella critica che nell’influenza positiva esercitata sul tipo umano artificioso, alienato, creato dallo sviluppo capitalistico contemporaneo.
Quando Lenin, parlando di Tolstoi con Gorkij, dice che «prima di questo conte non c’è stato ancora un vero contadino nella nostra letteratura», non pensava (o almeno non pensava soltanto) al grande significato sociale e politico della rivoluzione contadina che, proprio con la sua azione aveva giocato un ruolo fondamentale, ma pensava (o pensava anche) al modo in cui il contadino creato da Tolstoi era diventato la misura del carattere popolare della rivoluzione. Se questo ruolo, nel caso di Tolstoi, non era prevalso con quella universalità storica mondiale con cui prevarrà più tardi nel caso di Bartók, questa differenza non è originata soltanto dal fatto che i due grandi creatori occupano posti diversi nello sviluppo della società e che la loro personalità è differente, ma soprattutto dal fatto che l’oggettività indeterminata della musica, persino in senso storico mondiale, è capace talvolta di «generalizzare» più estesamente e più profondamente della più alta letteratura.
Le modalità concrete del sopravvento avuto dal tipo plebeo, popolare, anche nell’arte di Bartók sono, naturalmente, i risultati di un grande sviluppo interno. Non vi è dubbio che alla base dello stile giocoso, favolistico del Principe di legno sta la vittoria finale delle forze popolari sulle deformazioni dell’alienazione. In questo caso, la forza naturale bartokiana è da intendere quasi nel vero senso della parola, in quanto soltanto un’autentica presa di coscienza di noi stessi e l’esperienza sincera della nostra natura di uomini giusti sono necessarie perché il minaccioso castello d’aria dell’alienazione si dissolva nel meritato nulla. Alcuni anni più tardi, la musica del Mandarino meraviglioso già ci presenta in un modo completamente diverso i conflitti interni, le contraddizioni dell’alienazione. L’alienazione si era trasformata in un fenomeno sopportato e da sopportare come seconda natura del mondo del «civilizzato» medio, contemporaneo. Soltanto dall’«esterno» possono irrompere «forze naturali», come il Mandarino, di fronte alle quali l’alienazione generale, estesa a tutti, la separazione generale dell’uomo dalla propria sessualità si troverebbero impotenti. Bence Szabolcsi, nel suo eccellente saggio, pone al centro della sua analisi la rabbia di Bartók contro l’alienazione. Non bisogna però dimenticare che questa rabbia è qualcosa di più di un sentimento personale; è, appassionatamente vissuto, un giudizio su tutto il mondo.
Il Mandarino stesso è tanto poco contadino quanto le figure quasi idillicamente vittoriose del Principe di legno. Ma, secondo me, si può a buon diritto azzardare l’affermazione, che sul piano dell’oggettività indeterminata della musica – in modo diverso, anzi contrario, con esito contrario – tutt’e due le opere sono pur sempre l’incarnazione della ribellione contadina bartokiana contro le «conquiste» della civiltà capitalistica che spoglia l’uomo del proprio sesso, della propria essenza umana, per via delle realizzazioni dell’Io particolare soddisfacibili dal mercato.
Questa tendenza raggiunge il culmine nella Cantata profana. In questa già vediamo presentarsi sulla scena, sempre naturalmente nell’atmosfera dell’oggettività musicale indeterminata, il contadino bartókiano; e la superiorità originale, la rabbia che crescerà, la protesta appassionata – sicuramente non proprio per caso – vengono sostituiti dalla ribellione gonfia di disprezzo, tesa all’estremo, apertamente espressa contro l’alienazione, nel momento in cui i giovani, trasformati in cervi, non vogliono neanche più ritornare in quell’ambiente falsamente umano, deformatore dell’uomo. Bartók qui è forse l’unico grande e deciso rappresentante di quella critica sociale che dichiara apertamente: ciò che viene di solito chiamato e riconosciuto anche se talvolta criticamente, come «civiltà», come forma di vita umana, è la negazione dell’essenza «umana» dell’uomo. I giovani contadini trasformati in cervi non soltanto hanno profondamente ragione se, a nessun prezzo, sono disposti a ritornare in questo mondo, ma – di nuovo, sempre sostenendo la profonda giustezza storica, direttamente applicabile, dell’oggettività indeterminata – come i grandi rivoluzionari, ideologicamente qualificano come nulla la legittimità umana del mondo.
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A circa duecento anni dai cavalli sapienti di Swift, questa negazione rivoluzionaria radicale fino agli estremi della natura disumanizzante della cultura capitalista riavrà di nuovo voce per la prima volta nei cervi di Bartók. È un caso strano (ma si tratta davvero soltanto di un caso?) che la Cantata profana appaia al pubblico quasi contemporaneamente ai grandi romanzi di Kafka che, da questo punto di vista, proseguono il discorso nella direzione dei cavalli swiftiani. Non è qui il caso di fermarsi anche solo di sfuggita sul rapporto che corre tra il significato – e soprattutto la negazione – di Kafka e quello di Bartók. Mi sia permesso però di dire che Kafka, come anche Swift, vedeva una irreversibile esistenzialità nelle situazioni umane da lui raffigurate e condannate. E qui, comunque, occorre fare due considerazioni, inevitabilmente. Primo: che una cosa è prevedere profeticamente un certo sviluppo, come fece Swift, e un’altra cosa raffigurare realisticamente i fattori del già avvenuto, come li troviamo in Kafka. E una cosa è la prospettiva storica mondiale dello sviluppo totale dell’umanità, e un’altra la linea di sviluppo della nostra vita quotidiana messa di fronte a noi nella maniera più diretta, così da provocare immediatamente le nostre azioni. È un’altra cosa, perché ognuno di noi ha un rapporto diverso con la prassi quotidiana degli uomini. Secondo: sarebbe errato concepire come coerentemente fantastica la visione cosmica di Kafka. Egli vedeva ciò che i suoi personaggi non sapevano, che cioè obiettivamente possono esistere vie di uscita individuali, ma che coloro che le frequentano e in esse agiscono non se ne accorgono. Anche qui, però, si tratta solo di vie d’uscita individuali. Al contrario, Bartók qualifica come annientabile a priori tutto questo mondo, questo sistema della realtà sociale.
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Tutti sanno come Bartók sia pervenuto dalle iniziali influenze di Richard Strauss alle file della nuova arte, anche dal punto di vista della forma; come abbia rotto con la continuità ungherese delle tradizioni wagneriana-brahmsiana allora dominanti; come sia diventato, anche dal punto di vista della forma, il grande rappresentante della musica decisamente «nuova». Ma oggi, dopo diversi decenni vediamo chiaramente il vero volto dell’epoca nuova. Hans Eisler, allievo di Schönberg, che aveva ricordato sempre il suo maestro con riconoscente attaccamento, aveva caratterizzato l’atteggiamento fondamentale di Schönberg nei confronti della nuova vita, atteggiamento in cui, naturalmente, sono inclusi anche i contenuti più importanti della sua arte, con queste parole: «Egli aveva espresso i sentimenti degli uomini costretti nel rifugio, già molto prima della scoperta dei bombardieri». Se traduciamo questa caratterizzazione in linguaggio sociale, vediamo che Schönberg aveva condannato profondamente, alla base, il nuovo mondo che si sviluppava insieme con lui, ma contemporaneamente aveva visto la sorte dell’umanità in modo tale da non poter nemmeno tentare di partecipare a un impossibile cambiamento. Soltanto nascondersi nel rifugio, e voler, eventualmente, sopravvivere individualmente ai bombardamenti: questo era, secondo lui, ancora possibile…
Che cos’è questo, però, se non la forma nuova, moderna, dell’«intimità difesa dal potere»? È nuova, sì, non foss’altro che per il fatto che la stessa società è per molti versi cambiata. Ma è nuova, innanzitutto e direttamente, perché la nuova ideologia nata dalla nuova situazione aveva qualificato sempre più come forme definitive dell’esistenza le apparenze di vita raggiungibili nel capitalismo manipolato; aveva considerato come incarnazione definitiva dell’uomo quel dominio illimitato della particolarità che il capitalismo aveva sviluppato e appoggiato con la manipolazione. Per questo aveva propagato la necessità del completo estirpamento di tutte le ideologie e l’opposizione ai vecchi artisti guidati dalle ideologie e che si dibattevano ancora nel rapporto con le ideologie.
A ogni contemporaneo che fosse veramente tale, conveniva il disprezzo delle ideologie, soprattutto di quelle del XIX secolo. Thomas Mann che certo, a causa del suo temperamento, non ha mai appartenuto alla schiera dei rappresentanti delle aperte proteste rivoluzionarie, nel suo ultimo grande romanzo aveva di gran lunga superato questa prevenzione della sua epoca. È noto: il suo eroe è un musicista che da una parte compone opere alquanto simili a quelle di Schönberg, e dall’altra giunge persino alle estreme conseguenze della sua concezione del mondo (che secondo l’autore viene ispirata, in ultima analisi, dall’antiuomo, dal diavolo): e ritira la sua Nona Sinfonia. A questo punto, un grande scrittore che pensi onestamente, tira tutte le conseguenze sugli indirizzi artistici dominanti nella sua epoca. E la situazione particolare di Bartók, nella evoluzione della sua epoca potrebbe, forse, definirsi più precisamente nel seguente modo: egli, non solo non ritira la IX Sinfonia, ma ricerca modi di espressione della musica – veramente contemporanea e veramente musicale – tali che con il loro aiuto si possa realizzare qualcosa che degnamente corrisponda oggi all’arte più grande di ieri. Così, dunque, non si tratta della cosiddetta continuità storica; al contrario, si tratta di riconoscere come Beethoven abbia riunito in sé le possibilità di rinnovamento del genere umano, possibilità fatte emergere nella sua epoca, da una grande rivoluzione in ultima analisi sconfitta, ma i cui contenuti rimangono attuali sino alla loro realizzazione nella presa di coscienza del genere umano, fino ad oggi e oltre. Questa è la reale continuità della storia umana di fronte alla stilizzazione come adempiersi dell’alienazione particolare, attualmente manipolata.
Dalla musica popolare, a Beethoven e a Rembrandt: è questo che divide Bartók dai suoi contemporanei famosi ma arenati in un oggi umanamente avvilito. Non è casuale il fatto che numerosi teorici della nuova musica particolare abbiano criticato Bartók come se fosse lui il rappresentante del compromesso con il vecchio. Non è un caso che Adorno, il teorico dell’unica possibilità di salvazione dell’orientamento schönberghiano, scorga segni sospetti nel populismo di Bartók. È comprensibile, del resto, che gli avversari liberali del fascismo (i quali, con tutte le innovazioni delle forme, si appiattivano acriticamente nei valori generali del rifugio particolarismo, nella «intimità difesa dal potere» capitalistico nuovo) si siano spaventati del vero grande «nuovo», il cui carattere rivoluzionario aveva fatto esplodere le basi umane delle innovazioni puramente formali.
Abbiamo superato ormai da diversi decenni questa fase di sviluppo. Le crisi dei sistemi dominanti, che affiorano sempre più apertamente, sono chiamate a creare nuovi movimenti in ogni campo della ideologia. Così è possibile che Bartók, oggi come oggi, cominci a entrare nella prospettiva storica come il grande rappresentante dell’epoca precedente al 1945, forse tra i più grandi. Anch’egli, come Rembrandt o Beethoven, apparirà come uno di coloro che hanno rappresentato nelle loro opere, nel modo più generale dell’arte, nel modo più duraturo, una grande svolta della evoluzione dell’umanità.
Il popolo ungherese che nella sua cultura non ha affatto risolto ancora il grande dilemma della «intimità difesa dal potere» e della vera protesta umana, anche se già si muove verso la comprensione e lo sviluppo ulteriore dell’opera di Csokonai, Petőfi, Ady e Attila József, soltanto appoggiandosi à Bartók può trovare la via veramente progressista anche per lo sviluppo nazionale. Ma la cultura ungherese potrà appoggiarsi degnamente a Bartók soltanto se alla domanda, che la storia ripropone incessantemente: che cos’è l’ungherese? non risponderà al vecchio modo, cioè non abbellirà persino i più vili compromessi storici trasformandoli in insegnamenti che il popolo ungherese dovrebbe approvare, ma avrà il coraggio, avrà la base sociale e morale per rispondere in questo modo: Bartók è la nostra grande possibilità storica sulla via che conduce alla vera cultura ungherese.