Bartók visto da Lukács

di Giampaolo SpinaLuigi Pestalozza

«Rinascita-Il contemporaneo», n. 43, 30 ottobre 1970


Caro direttore, bellissimo, forse, l’articolo di Giorgio Lukács sul Contemporaneo (Rinascita n. 37): ma è un articolo che si stenta a ritenere datato 1970. Potrebbe essere stato scritto vent’anni fa.

Come può stabilirsi la grandezza storica di un musicista senza entrare, sia pure con minima competenza, nel merito della sua musica? Può la valutazione sociologica di un prodotto dell’arte concepirsi ancora come compito di profani? Non può dirsi nemmeno che lo scritto di Lukács operi una «profanazione» dialettica della musica di Bartók: la scorciatoia sociologica che il grande e vecchio Lukács ci indica non è una falsa scorciatoia? Non conduce a un falso traguardo critico? La musica di Bartók non resta sempre oltre il termine di quel discorso? Sarei grato di una risposta di Pestalozza.

Cordiali saluti.

Gianpaolo Spina – Bologna

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Il Mandarino meraviglioso contro l’alienazione

di György Lukács

«Rinascita-Il Contemporaneo», n. 37, 18 settembre 1970


A venticinque anni dalla morte di Béla Bartók

La rivista letteraria ungherese Nagyvilág reca nel suo numero dell’agosto scorso il bellissimo saggio di György Lukács per il 25° anniversario della morte di Béla Bartók, che qui riproduciamo nella traduzione di Marinka Dallas. A 85 anni di età, l’insigne filosofo comunista continua la sua straordinaria attività di riflessione sulla storia, la cultura, le lotte del movimento operaio in questo secolo. La rievocazione di Bartók gli offre qui l’occasione per una rimeditazione su tutte le vicende della sua patria da cent’anni a questa parte e sul suo peso culturale nel mondo.

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Lukács, un eretico senza rogo

di Federico Argentieri e Antonino Infranca

«Corriere della sera» 30 maggio 2021


Il pensatore ungherese scomparve 50 anni fa: fu sempre comunista, pur con atteggiamenti critici. Isolato ma non perseguitato, anche dopo avere partecipato alla rivoluzione del ’56, oggi viene svalutato dalla destra di Orbán

Fino a qualche decennio fa, György Lukács – di cui il 5 giugno ricorre il cinquantennale della morte – era considerato uno dei maggiori filosofi del Novecento, poi il crollo del socialismo realizzato e il generale disinteresse verso il marxismo gli hanno fatto perdere immeritatamente l’importanza che aveva raggiunto. Rispetto ad altri autori, però, Lukács vanta una particolarità: era un pensatore di grande livello prima ancora di diventare marxista. Nato il 13 aprile 1885 in una famiglia dell’alta borghesia ebraica di Budapest il padre József, direttore del Banco Anglo-Ungherese, era uno degli uomini più ricchi del Paese – il giovane Lukács sentiva il vuoto di valori etici della classe sociale a cui apparteneva e se ne sentiva estraneo, andando, quindi, alla ricerca di alternative. Da questa consapevolezza nascono molte riflessioni di Lukács che troveranno sbocco nella sua adesione al marxismo. E che manifestano già una maturità teorica straordinaria. Le sue riflessioni giovanili furono indirizzate verso l’arte, nella speranza di un’emancipazione della società civile ungherese dalle forme culturali e spirituali feudali che ancora vi dominavano.

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E Lukács incantò Thomas Mann

di Vittorio Strada

«Corriere della sera», 31 dicembre 2003


Dalle riflessioni dell’intellettuale marxista sull’etica del terrorismo nasce la figura di Naphta

Il momento più intenso che il terrorismo e la riflessione sulla sua legittimità etica hanno trovato nella cultura europea è legato alla biografia intellettuale di György Lukács, il filosofo marxista ungherese che è stato, assieme ad Antonio Gramsci, l’espressione più alta del «leninismo occidentale». Gli storici che hanno ricostruito la sua vita e il suo pensiero, come Árpád Kadarkay ha fatto nel modo migliore, sono concordi nel riconoscere che la fase centrale della sua formazione coincide con la grande crisi europea che va dalla guerra mondiale alla rivoluzione bolscevica, periodo in cui Lukács scrisse i suoi due capolavori Teoria del romanzo e Storia e coscienza di classe, opere che segnano il suo passaggio da una tormentata ricerca etico-religiosa all’adesione totale al comunismo. Fu, questo, uno degli episodi più straordinari e significativi della coscienza europea di quegli anni a livello sia intellettuale sia esistenziale, tanto che il giovane Lukács divenne il prototipo di un personaggio di uno dei maggiori romanzi del tempo: La montagna incantata di Thomas Mann, dove appare nelle vesti del gesuita rivoluzionario Naphta, avversario di un’altra figura, Settembrini, quintessenza dello spirito democratico. La «conversione» di Lukács al comunismo leniniano fu un vero «salto della fede», una «scelta» kierkegardiana che l’opera successiva di Lukács «razionalizzò» all’estremo, senza però cancellare l’impulso «irrazionale» di base.

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L’enigmatica figura del filoso marxista

di Vittorio Strada

«Corriere della sera», 23 giugno 1989


Una partita a poker nel destino di Lukács

Su György Lukács, il filosofo marxista-leninista che è stato il maggior teorico del «realismo critico» e del «realismo socialista» come tendenze letterarie progressiste in contrapposizione alla reazione «decadente» e «avanguardistica», Michail Lifscits, che gli fu collaboratore e amico durante il lungo periodo che Lukács trascorse a Mosca negli anni Trenta, raccontava un aneddoto impressionante, la cui verità, come si potrà capire, è puramente ipotetica. Bisogna ricordare che nel 1941 Lukács fu arrestato a Mosca e trattenuto in prigione per un brevissimo periodo.

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Ideologia e ragione in un libro di Lukács

di Carlo Bordoni

 «Corriere della sera-La lettura», 15 maggio 2022


In Dialettica dell’irrazionalismo. Lukács tra nazismo e stalinismo (Ombre corte, pp. 135, € n), Enzo Traverso, docente alla Cornell University di Ithaca (New York), tratta di un pensatore dimenticato e del suo libro più controverso, La distruzione della ragione (1954). Un libro che sostiene tesi improponibili: difende il socialismo reale di Stalin e attribuisce la responsabilità dell’origine del nazismo a una serie di intellettuali, tra cui Nietzsche, accusati di irrazionalismo.

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Quando Lukács si ribellò ai mastini del bolscevismo

di Antonio Carioti

«Corriere della sera», 8 luglio 2007


Non si arrese subito György (o Georg, alla tedesca) Lukács. Quando il suo libro Storia e coscienza di classe, uscito nel 1923, fu stroncato dai cani da guardia dell’ortodossia sovietica, che lo accusavano di «soggettivismo», il filosofo marxista ungherese rispose per le rime in un opuscolo dal titolo Codismo e dialettica. Ma quel testo non fu pubblicato e lo stesso autore preferì relegarlo nell’oblio. Solo settant’anni dopo, crollata l’Urss, è stato ritrovato negli archivi sovietici. Ed ora vede la luce in Italia, con il titolo Coscienza di classe e storia (pagine 166, € 22), presso le Edizioni Alegre, a cura di Marco Maurizi, con una postfazione dello studioso sloveno Slavoj Žižek.

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Formalisti che ignorano le forme

di Vittorio Saltini

«L’Espresso», n. 21, 26 maggio 1968


Boris Ejchenbaum, Il giovane Tolstoj La teoria del metodo formale, De Donato, Lire 2000.

Ancora una volta la lettura d’un formalista russo, in questo caso Ejchenbaum, è deludente. Ejchenbaum qui affronta Tolstoj, ma la sua analisi si mostra di troppo inadeguata all’oggetto. Sarebbe utile confrontare queste pagine col più ampio giudizio di Lukács su Tolstoj (nei Saggi sul realismo): si scoprirebbe che proprio sulle differenze formali fra l’epica tolstoiana e le altre forme romanzesche dell’Ottocento, il contenutista Lukács (malgrado lo svantaggio iniziale di voler partire da una tesi di Lenin) ci sa dire cose ben più precise del formalista Ejchenbaum.

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Intervista sul congresso del P.C.U.S.

di György LukácsRenato Nicolai

«l’Unità», 5 maggio 1956


Lukács è fra gli uomini più attivi che io abbia conosciuto. Quando discutiamo, qui in Italia e altrove nell’occidente, dei significati retrospettivi e anticipatori del XX Congresso del PCUS, e quando ci preoccupiamo, con passione e sincerità, di capire quali esigenze nuove essi pongano, o quali ampliamenti essi richiedano del nuovo che già era nel nostro movimento, noi facevamo un onesto e meritevole sforzo di attualizzazione delle nostre idee e dei nostri metodi di lavoro e di lotta. Ebbene, se queste cose per noi sono di recente storia, per Lukács sono state preoccupazioni dei tempi nei quali si è svolta la sua vita di pensatore e di uomo. Numerose, particolarmente in certi anni, furono le critiche aspre e diffidenti, che riguardarono la sua posizione di filosofo e di combattente. Oggi queste ombre Lukács sembra essersele lasciate alle spalle. Parlando con lui si ha la conferma della forza che viene oggi alle nostre posizioni da un atteggiamento di coraggiosa verità, e si avverte quella potentissima sensazione di cose nuove che oggi è nel cuore di ogni operaio e di ogni socialista. Così, attraverso alcuni colloqui, abbiamo potuto porre a lui numerose domande per l’Unità e per Vie Nuove, sulle questioni cui già si è accennato, e sui problemi del realismo, ai quali Lukács ha dato le seguenti risposte:

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I luoghi comuni del realismo

di Vittorio Saltini

«L’Espresso», n. 3, 21 gennaio 1968.


Piero Raffa, Avanguardia e Realismo, Rizzoli, L 1.800.

Nel libro “Avanguardia e realismo), il saggio più ampio vuol essere una contrapposizione della mentalità di Brecht (secondo Raffa, realista, avanguardista e «nihilista») alla mentalità di Lukács, imputato in quanto umanista, «oggettivista» e retrogrado. Quest’antitesi di Brecht e Lukács diventa col tempo sempre meno accettabile. Ed è curioso che Raffa intenda criticare Lukács servendosi di frasi di Brecht come questa: «Quando l’arte rispecchia la vita, lo fa con specchi speciali. L’arte non diventa irreale quando altera le proporzioni». Giacché proprio per Lukács, che è stato il più duro critico di Zola e del naturalismo, l’arte davvero realistica altera appunto le proporzioni del quotidiano. Lukács ha la massima considerazione di scrittori come Swift e Hoffmann, e se fa obiezioni a Kafka non è certo perché Kafka “deforma”, ma per il particolare fondamento ideologico di tale deformazione. Ma dall’alto del suo neopositivismo, Raffa tratta l’«intrepido Don Chisciotte» Lukács con una sufficienza incosciente pari solo a quella con cui Pietro Citati ogni tanto lo liquida con due battute in qualcuna delle sue collezioni di aggettivi sul “Giorno”. Ma anche il tono di Raffa si fa notare: «Il fideismo da me individuato quale tratto caratteristico della mentalità di Lukács…».

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