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György Lukács

~ il primo blog in progress dedicato a Lukács

György Lukács

Archivi della categoria: Bibliografia in inglese

Note sul Marx di Lukács

28 sabato Gen 2017

Posted by nemo in Bibliografia in inglese, Bibliografia su Lukács

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Tag

coscienza, crisi dell'ideologia, economicismo, ideologia, Lenin, lotta di classe, Marx, ontologia, populismo, postmodernismo, sovrastruttura, teleologia


di Carlo Formenti

da C. Formenti, La variante populista. Lotta di classe nel neoliberismo, Derive Approdi 2016.

Come il lettore ha avuto modo di constatare, questo libro è duramente critico nei confronti della visione postmodernista cui la maggior parte degli intellettuali della sinistra radicale ha aderito negli ultimi decenni. Mi riferisco, in particolare, agli effetti della «svolta linguistica» delle scienze sociali e all’influenza che cultural studies, gender studies, teorie del postcoloniale e la pletora dei post (post industriale, post materiale, ecc.) proliferati a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso hanno esercitato sulla cultura dei nuovi movimenti, attribuendo progressivamente al conflitto politico e sociale il carattere di una competizione fra «narrazioni» e fra «processi di soggettivazione». Questa psicologizzazione del conflitto ha rimpiazzato la lotta di classe con una sommatoria di richieste di riconoscimento identitario da parte di soggetti individuali e collettivi sostanzialmente privi di qualsiasi riferimento ai rapporti sociali di produzione, funzionando, di fatto, da involontario quanto potente alleato del progetto egemonico neoliberista. Continua a leggere →

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Nagy e il filosofo Lukács si trovano nei Carpazi.

29 giovedì Ott 2015

Posted by nemo in Bibliografia in inglese, Bibliografia su Lukács

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1956, consigli operai, esilio, Kádár, Lukacs, Nagy, rivolta operaia, ungheria


di Orfeo Vangelista

«L’Unità», 2 dicembre 1956

Nagy e il filosofo Lukács si trovano nei Carpazi. Si precisano i compiti dei Consigli operai

Il Primo ministro Kádár visita le miniere di Tatabanya – Un’intervista con il segretario dei Sindacati ungheresi


 

A Tatabánya, centro minerario a una sessantina di chilometri dalla Capitale ungherese, il primo ministro János Kádár si è incontrato con i rappresentanti dei consigli operai dei minatori.

Tatabánya è una piccola città interamente velata dalla patina scura del carbone. I volti depli uomini recano le tracce del lavoro in miniera: volti duri, permeati dalla polvere sottile dei pozzi. Dopo i moti delle scorse settimane, a Tatabánya è tornata la calma, ma nelle miniere il lavoro viene ripreso con lentezza: la recente paralisi produttiva ha provocato l’allagamento dei pozzi, alcune gallerie e impianti hanno sofferto dello lunga stasi.

Più difficile che altrove si è dunque rivelata la situazione dei bacini minerari, proprio nel momento in cui la ripresa della produzione industriale è subordinata alle forniture di carbone e di materie prime.

Il primo ministro Kádár ha illustrato ai minatori di Tatabánya gli aspetti critici dell’attuale situazione e le cause che l’hanno determinata, sottolineando la necessità di approfondire l’opera chiarificatrice fra le masse lavoratrici, di svolgere una più intelligente attività educativa e orientatrice.

Dal canto loro, i rappresentanti dei consigli hanno parlato con estrema franchezza, esprimendo l’esigenza di un rinnovamento democratico negli apparati amministrativi mediante la gestione autonoma e diretta dei Consigli operai nelle miniere.

In questa occasione, Kádár ha nuovamente ribadito la funzione di direzione economica spettante ai consigli operai.

Su questi ultimi e i loro problemi, ci ha concesso stamane una breve intervista il presidente del Consiglio centrale dei sindacati ungheresi. Sándor Gáspár. «I Consigli operai – ci ha detto Gáspár – sono organi autonomi di direzione della fabbrica, attraverso i quali si realizza la direzione operaia dell’azienda. Essi sono autorizzati a svolgere tutti i compiti relativi alla vita dell’azienda: sistemi di pagamento, piano economico della fabbrica, ripartizione degli utili in base alla quota fissata dagli organi dello Stato, sfruttamento della «capacità libera» della azienda, cioè della parte estranea al completamento del piano, col relativo acquisto delle materie prime e, naturalmente, vendita indipendente dei prodotti.

«Ciò spiepa le caratteristiche principali dei Consigli: essi non sono organi per la difesa degli interessi dei lavoratori, né organi politici, ma di direzione economica.

«Già sono iniziate – ha proseguito Gáspár – le consultazioni per la creazione di organi superiori in ogni settore industriale, simili alle Camere dell’industria. Successivamente, quando la situazione lo permetterà, potrà essere eletto – non su base territoriale – un Consiglio nazionale dei produttori, avente funzioni analoghe a quelle della Camera bassa del Parlamento. Codesti orientamenti sono già largamente condivisi dagli attuali Consigli operai e anche da una parte dei membri del Consiglio centrale provvisorio di Budapest.

«Naturalmente, ciò non vuol dire che in seno agli stessi Consigli provvisori, soprattutto a quelli sorti affrettatamente e su una base scarsamente o per niente rappresentativa, non esistano tendenze ostili a questo orientamento. L’azione chiarificatrice richiederà sicuramente molto tempo, ma è fin d’ora certo che riuscirà ad affermarsi la corrente sorretta dal crescente appoggio delle masse lavoratrici: quella che si ispira ai principi della direzione economica dell’azienda e non a programmi o punti politici di derivazione antidemocratica».

«Quali sono le relazioni – abbiamo chiesto a Gáspár – tra i Consigli operai e i sindacati?»

Gáspár ci ha ricordato l’azione svolta dai sindacati, all’indomani del 23 ottobre scorso, favorevole alla istituzione dei Consigli operai. Furono i sindacati a farsi promotori, sul piano nazionale, di codesta iniziativa. «Oggi – precisa Gáspár – i sindacati appoggiano i Consigli operai. Nella settimana prossima apriremo un corso di studio per presidenti e membri di Consigli, dove verranno approfondite ricerche ed elaborazioni teoriche strettamente pertinenti all’attività e alle nuove esperienze degli organi aziendali. L’obiettivo è di formare presidenti di Consiglio capaci di dirigere una fabbrica».

«Per quale ragione – domandiamo ancora a Gáspár – l’attuale Consiglio centrale provvisorio di Budapest continua a porre al governo questioni e rivendicazioni di carattere politico?»

«Ho già accennato prima alla esistenza di tendenze diverse in seno ai Consigli – ha risposto Gáspár – Lo stesso fatto si verifica evidentemente in seno al Consiglio di Budapest: da una parte vi sono coloro che desiderano collaborare con noi per la ripresa del lavoro, secondo una giusta interpretazione dei compiti e delle finalità proprie di codesti organi, dall’altra si manifestano ancora insofferenze e resistenze di ordine politico, estranee agli interessi immediati del Paese e delle masse lavoratrici».

«E gli operai che ne pensano?»

«La nostra è una situazione di lotta – risponde francamente Gáspár – Nelle maggiori industrie di Budapest, alla Csepel, alla Muvag, alla Ganz, i consigli operai, negli ultimi giorni, meglio orientati da un più attivo intervento delle maestranze, sono sostanzialmente d’accordo con l’impostazione dei sindacati. Sarebbe tuttavia ingenuo pensare che non esistano larghe zone ancora turbate, sconvolte dai recenti avvenimenti. Una settimana fa, quando vi è stata la minaccia dello sciopero di 48 ore la Csepel già assumeva una posizione contraria alla sospensione del lavoro. Oggi la situazione è ulteriormente migliorata».

Le dichiarazioni di Sándor Gáspár, un ex operaio metalmeccanico di 39 anni, eletto lo scorso anno presidente del Consiglio centrale dei sindacati ungheresi, tracciano un profilo esatto della situazione dei Consigli operai, una situazione in lento sviluppo, nella fase iniziale del rinnovamento democratico.

A Budapest frattanto proseguono i lavori di ricostruzione, soprattutto nei quartieri centrali. Accanto a questi sintomi di distensione, bisogna però segnalare episodi di disordine che riaffiorano di tanto in tanto. Gli elementi più irriducibili della controrivoluzione cercano di riaccendere il [illeggibile] col lancio di manifestini ciclostilati annuncianti nuovi scioperi. Non è difficile creare apprensioni e timori in mezzo a gente così turbata dai tragici moti delle scorse settimane: di ciò approfittano i provocatori ed il cammino verso la quiete e la rinascita diviene più lento e difficile. Stasera la radio ha trasmesso un comunicato del Consiglio operaio di Budapest nel quale si attaccano coloro che diffondono manifestini falsi invitanti a scioperi.

Oggi, intanto, abbiamo appreso che l’ex presidente del Consiglio, accompagnato da alcuni suoi amici, tra cui lo scrittore e filosofo Lukács, si troverebbe in una località ai piedi dei Carpazi, nella Transilvania romena, a Sinaia, una ben nota stazione di riposo. Si crede che l’ex primo ministro e i suoi collaboratori siano sistemati in una o più ville della lussuosa stazione climatica, un tempo preferita dai reali di Romania. Un’altra indiscrezione ci ha oggi confermato l’ubicazione della cittadina romena dove attualmente soggiornano Nagy e il suo gruppo. Un collaboratore dell’ex primo ministro avrebbe telefonato ieri direttamente ai suoi parenti a Budapest per informarli della sua ottima sistemazione, del suo buon umore e del tempo magnifico dei Carpazi.

Il Giovane Lukacs: La Formazione Intellettuale e la Filosofia Politica, 1907-1929

25 lunedì Mag 2015

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Grazie a Paolo Emilio.ico

Nel travaglio per costruire una nuova società

24 domenica Mag 2015

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morte di Lukacs


di Bruno Schacherl

«L’Unità», 6 giugno 1971

Ecco. Questa è l’immagine di Lukács che vorremmo pre­servare, al di là delle infinite e anche contraddittorie vicen­de del suo pensiero. Certo, si scontava in queste vicende tutto il dramma del grande intellettuale del nostro secolo: l’ambiguità insita nella sua stessa collocazione al centro della crisi dei valori borghesi e nel travaglio per la costru­zione di una società nuova, la scissione di un mondo irri­mediabilmente diviso e aliena­to, la storicità delle singole conquiste ma anche dei tragi­ci errori, l’impossibilità dun­que di ricostituire, se non a prezzo di una fuga nell’utopia o di una serie di concessioni alla staticità e dunque all’antistoricità dei «modelli», quella «totalità» dell’uomo e del reale che proprio nel giovane Lukács, teorico dell’alienazio­ne capitalistica e della crisi dei valori morali e culturali borghesi, aveva trovato una delle espressioni più alte.

Al centro di tutti i processi culturali europei degli anni dieci e venti, coinvolto più tardi nella tragedia dello stalinismo a cui diede un contributo teorico (e tale è senza dubbio il suo intervento nella polemica iniziale sul «reali­smo socialista») ma insieme oppose una costante resisten­za critica, il filosofo unghere­se dovrà essere certamente di­scusso in tutti gli aspetti del suo pensiero. Ma chi vorrà far­lo, dovrà tener conto del me­todo che egli è stesso ci ha in­segnato, e che è il suo più vero contributo al marxismo del no­stro secolo: il metodo della critica storica concreta, che spiega gli errori non per giu­stificarli, ma per batterli e andare avanti. Gli anni diran­no, e forse hanno già comin­ciato a dire (su poche perso­nalità del nostro tempo la let­teratura critica è più vasta e ininterrotta), quanto di Lu­kács sia caduco. Personalmente penso, ad esempio, che tutta una serie di sue posizioni let­terarie (la critica alle avan­guardie, il sogno balzacchiano e manniano, la polemica con Brecht, ecc.) sia storicamente superata, anche se ha marcato di sé intere generazioni di cri­tici. E tuttavia, sento profondamente la necessità che i conti con queste posizioni non vengano mai considerati chiu­si una volta per tutte.

Una presenza ininterrotta dentro la mischia

È del resto questo un altro aspetto e non dei meno signi­ficativi della presenza inin­terrotta di Lukacs in tutta la cultura mondiale, fino all’ultimo giorno della sua vita operosa. Il rispetto a cui la sua figura ha costretto anche ne­gli anni più duri amici e av­versari, non è il rispetto per un «maestro» indiscusso o l’equivoco che può andare a chi si tiene al di sopra della mischia: è la necessità di fare i conti con posizioni anche av­versate ma nelle quali si av­verte l’espressione di necessi­tà oggettive, di bisogni reali di un’epoca. Più che le sue risposte, contano dunque le sue domande, sempre nuove e sempre vere, avanzate nel cor­so di tutto questo secolo a quelli che ne erano i protagonisti storici. A queste, do­vremo saper dare anche noi – come movimento operaio e come intellettuali d’avanguar­dia – delle risposte che siano all’altezza dei tempi «grandi e terribili» che viviamo. E per poterla dare, dovremo tornare, con pazienza e umil­tà, su tutta la sua sterminata opera, discutere ancora e sem­pre con la grande voce che si e spenta.

Mi sia perdonato, a conclu­sione, il ricordo personale: ri­guarda l’unico incontro che ho avuto cinque anni fa – in occasione della citata intervista a l’Unità – col vecchio filoso­fo nella sua bella casa sul Danubio, in una sera di lu­glio. Quella conversazione che pareva passare da un tema all’altro, come un lento os­sessivo seppure lucidissimo monologo, e che invece all’im­provviso si ricomponeva nel suo ordine logico esemplare e rivelava l’immenso retroter­ra di meditazione, di sofferenza, di lotta da cui era scatu­rita. La discussione durò varie ore. È continuata, in me, da lontano, quella voce, per molti anni. Quella voce che ora è taciuta, risuona oggi come uno dei segni più alti dei nostro tempo.

Un punto di riferimento per la cultura moderna

24 domenica Mag 2015

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morte di Lukacs


Dichiarazioni di Cesare Luporini, L. Lombardo Radice ed Enzo Paci

«L’Unità», 6 giugno 1971

titolo


CESARE LUPORINI

«Lo sapevamo al lavoro, ancora fino a poche settimene orsono, nonostante la tar­da età, ed era un lavoro che ci teneva sempre in attesa. Anche questo faceva parte della sua grandezza. Possia­mo adoperare tale parola sen­za esitazione, nello sgomento per l’improvvisa scomparsa.

È la scomparsa di un punto di riferimento, a cui si guardava; di una straordina­ria, acuta capacità di inter­vento che sapeva comunque tenerci in tensione e faceva parte di noi da decenni. Di noi più anziani: ma era lo stesso per tanti giovani. Perchè credo che il primo elemento della grandezza di Lukács sia il carattere di militante rivo­luzionario, marxista, caratte­re che per più di cinquanta anni, in momenti e modi an­che drammatici, ha impron­tato tutta la sua opera, così come la sua presenza.

Oggi questa presenza en­tra di colpo in un’altra dimen­sione, che non è però sempli­cemente quella della storia, cioè del passato da interpre­tare. Ma è quella di un pen­siero che si è compiuto per­chè si è interrotto e che, sul terreno della filosofia, della politica, della critica, conti­nua e continuerà a lungo a riproporsi. Ma al di là di que­sto vi è un nodo decisivo che sta al centro della vita di Lu­kács. È l’intreccio certo dif­ficile, ma essenziale, tra l’es­sere militante rivoluzionario e l’essere produttore di cono­scenza, ricercatore di verità. Questo è il significato profon­do e organico del suo lavoro, che non è lecito mettere tra parentesi. È anche il pro­blema che egli ci impone, men­tre ci mostra, nello stesso tem­po, che esso non è mai chiuso e risolto definitivamente».


L. LOMBARDO RADICE

In questo momento di com­mozione, non penso tanto al grande patrimonio che la cul­tura europea e mondiale tut­ta eredita dal marxista Lu­kács, quanto all’insegnamento etico politico che il compagno Lukács ha lasciato come ta­cito testamento ai militanti comunisti, in particolare agli intellettuali comunisti. Disci­plina di lotta e autonomia di pensiero: questi sono stati i due poli della dura dialettica che ha stretto nella sua mor­sa la lunga, fedele e libera milizia comunista di György Lukács. Egli era una voce del­la ragione, della critica, del coraggio intellettuale che si le­vava dentro il comunismo e per il comunismo. Criticare il movimento restando parte di esso: questo ci sembra l’in­segnamento del comunista Lukács a tutti gli intellettua­li comunisti, anzi, a tutti i compagni, intellettuali e no.


ENZO PACI

La morte di György Lukács, stranamente, ci trova impre­parati. Forse pensavamo che, anche questa volta, sarebbe stato più forte della sua ma­lattia. Ma la pace è scesa su di lui. Quante ne ha dovute vedere! E sempre ha pensato, anche quando le cose andava­no molto male, che il sociali­smo avrebbe finito per vin­cere.

Per i miei studi devo a Lukács l’approfondimento del te­ma dell’alienazione. Lukács non pensava a un rapporto Husserl-Marx, ma i suoi di­scepoli scrivono oggi che in gran parte la differenza con noi è solo di linguaggio. Così hanno preparato un numero di Aut Aut che, oltre a un saggio di Lukács Sull’ontologia conterrà un dialogo, proprio un dialogo fra personaggi fenomenologi e marxisti. Dob­biamo il dialogo alla viva in­telligenza di Mihaly Vajda.

Ricordo un vivace e lungo dibattito con Lukács, tenuto alla Casa della Cultura il 26 maggio 1966. Lukács difendevaa Thomas Mann contro Kaf­ka. Sapeva del miei studi su Mann e non capiva perché di­fendevo Kafka. Per lui Mann era una soluzione positiva della vita e Kafka una via senza uscita. Mi piacerebbe dirgli che aveva ragione ma che penso anche ad una vit­toria sul mostro kafkiano.

La grande, laboriosa vita di György Lukács ha attraversa­to, nell’arco dei suoi ottantasei anni, la cultura e le guerre di classe del nostro secolo, e ha finito per rappresentare per tutti – amici e avversari – un punto di riferimento ineli­minabile nell’ininterrotto con­fronto del pensiero con la drammaticità della storia. Anche il suo termine ha qual­cosa di emblematico: rifiutan­do, come aveva sempre fatto, di rinchiudessi nel già com­piuto, di autogiustlficare le proprie conquiste e i propri errori, il vecchio filosofo non ha voluto porre la parola fine alla sua opera, e ha conclu­so la serie ormai sterminata delle sue pubblicazioni con una monumentale Estetica che però si presentava solo come la premessa a uno stu­dio ancora più ampio che – era ovvio – non sarebbe mai stato compiuto, e con gli stu­di di ontologia e di etica marxista che, anch’essi, appariva­no piuttosto come prolegomeni all’immenso lavoro che re­sterà ancora da fare… Come se quella totalità del mondo e del pensiero, che tutta la riflessione della sua vita ave­va cercato di abbracciare e ri­comporre, fosse appunto l’obiettivo coscientemente uto­pico da lasciare in eredità al posteri, quasi una ripresa «all’infinito» dell’antico sogno enciclopedistico degli illumi­nisti.

Vi è in questo atteggiamento consapevole la chiave di tutta la sua visione del mondo, così legata alla grande tradizione classica tedesca, a Goethe e a Hegel, ai dati totalizzanti di una grande cultura prima del­la crisi. Ma vi è anche la co­scienza, non utopica ma viril­mente pessimista, della infini­ta complessità del processo storico di cui egli si è tro­vato ad essere testimone e in­terprete non certo marginale, e insieme appunto protagoni­sta: insomma, della fase di transizione come carattere distintivo della nostra epoca, che esige quindi da tutti co­raggio e pazienza, l’eroismo delle rotture e quello dei si­lenzi, la lotta quotidiana e la visione del futuro da costrui­re. Non per nulla, proprio gli ultimi anni di Lukács sono stati – insieme all’attività fi­losofica cui abbiamo accenna­to – tra i più fecondi di inter­venti politici diretti, tutt’altro che «olimpici» e distacca­ti, ma sempre nel vivo della problematica dei paesi socia­listi, dello scontro mondiale tra imperialismo capitalismo e socialismo, di quello che egli chiamava il «rinascimento del marxismo».

Ciò che stupiva in quelle ce­lebri interviste, talora di al­tissimo livello teorico pur nella limpida e piana forma discorsiva, era il continuo e strettissimo legame tra il ge­sto politico, la presa di posizione e la polemica senza ri­guardi per nessuno, e l’elabo­razione dei principi generali. L’un aspetto dava la mano al­l’altro: politico in quanto teo­rico al livelli più alti del pensiero contemporaneo, teorico in quanto politico militante, Lukács era sempre al suo posto di lotta, scelto clnquant’anni prima quando aveva ade­rito alla Repubblica ungherese del Consigli ed era stato commissario del popolo all’struzione nel governo di Béla Kun. Tra questi interventi – oltre la ben nota intervista all’Unità del 1966 sul rapporto tra democratizzazione e ri­forma economica nei paesi so­cialisti (che annunciava il rientro del filosofo tra le file del comunisti ungheresi dopo il dramma del 1956) e a Kortárs (il contemporaneo) sul marxismo e la coesistenza – credo vada dato un posto di grande rilievo alla prefazione all’edizione italiana di Storia e coscienza di classe, che è del 1967. In quello scritto, che rappresenta in un certo senso la sua ultima autobiografia ideale, e non a caso è imper­niato su quella delle sue ope­re che, dopo aver espresso la svolta culturale e politica decisiva della sua vita, era stata negli anni successivi og­getto di aspre polemiche, di scomuniche e anche di ardue ma generose autocritiche, in quello scritto Lukács non guardava tanto al passato, al suo passato di «grande intel­lettuale» arrivato al marxi­smo, alla lotta di classe e alla milizia rivoluzionaria, quanto al presente e al futuro. La sua critica al dogmatismo, serrata, coraggiosa, talora pur­troppo persino profetica nei suoi accenti pessimistici, an­dava al di là delle questioni teoriche e di principio, si so­stanziava di una analisi del tutto persuasiva dello scontro ideale in corso nel mondo e dell’emergere di nuove spinte rivoluzionarie, di nuove e fe­conde ipotesi nell’ambito del marxismo, e in un certo sen­so anche di un rinnovato bi­sogno di sviluppo critico e teorico. Il vecchio Lukács che ripercorreva il proprio «dram­ma faustiano» tra Hegel e Marx, era dunque ancora il giovane Lukács che si misura­va coi giovani d’oggi non dal­l’alto di una saggezza goethiana (o persino crociana, come ha detto con involontario umo­rismo provinciale qualche re­censore italiano), ma dalla sua collocazione nella milizia rivoluzionaria attuale.

Lukács’s theory of the novel

27 venerdì Feb 2015

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romanzo storico, Teoria del romanzo


di Franco Moretti

«New Left Review» 91, January-February 2015
CENTENARY REFLECTIONS

When György Lukács is still mentioned nowadays in connection with the study of the novel, it is either for The Theory of the Novel, composed between 1914 and 1916, or for The Historical Novel, written exactly twenty years later. Either, or: because the two books couldn’t be more different. The Historical Novel is a very good book—a very useful book—written by a serious Marxist professor. The Theory is not useful at all. It is an ‘attempt’ [ein Versuch], declares the subtitle; but ‘Essay’ would be more to the point. The essay: the ‘ironic’ form, where ‘the critic is always talking about the ultimate questions of life’, Lukács had already written in Soul and Forms(1911), but ‘in such a tone, as if it were just a matter of paintings or books’. And in fact, whenever the Theory talks about the ‘novel’, the reader senses that—through the oblique refraction of ‘books’—something much more momentous is at stake. But what? What is the ‘ultimate question’ that the Theory is trying to address?

An initial answer could be: it is the transformation of social existence—at some unspecified moment between Dante and Cervantes—into a ‘world of convention’ whose abnormality Lukács tries to capture through the metaphor of the ‘second nature’. Nature, because the ‘all-embracing power’ of convention subjects the social world to ‘laws’ whose ‘regularity’ can only be compared to that of physical nature: ‘strict’ laws, ‘without exception or choice’, that are—this is the decisive passage—‘the embodiment of recognized but meaningless necessities’.

Meaningless necessities. That is to say: in second nature, ‘meaning’ is present only in the recollection of its loss. It’s the disenchantment of the world first diagnosed by German culture around 1800. When the earth was still ‘the abode of the Gods’, wrote Novalis in the fifth Hymn to the Night:

Rivers and trees,
Flowers and beasts
Had human meaning

But now ‘the Gods have vanished’—they live ‘in another world’, echoes Hölderlin’s Bread and Wine, written in the same years—and ‘human meaning’ has vanished with them. ‘Lonely and lifeless / Stood nature’, continues Novalis:

Deprived of its soul by the violent number
And the iron chain
Laws had come into being
And in concepts
As in dust and draught
Disintegrated the unmeasurable flowering
Of manysided life.

Meaning, laws, iron chain, life, soul . . . Novalis’s presence in Theory of the Novel—whose world, too, ‘has been abandoned by God’—is unmistakable: after all, his name appears in the very first paragraph of the book, and remains for many pages the only one mentioned by Lukács. And yet, the present-absent ‘meaning’ of the Theory differs in one crucial respect from that of the Hymns: it is not the sign of a (past) divine presence, but of a (past) human activity. Second nature consists ‘of man-made structures’, writes Lukács; ‘structures made by man for man’. True, their ‘complex of meanings has become rigid and alien’, and may even appear as a ghostly ‘charnel-house of long-dead interiorities’. But it was nonetheless created by those interiorities—those ‘souls’—and in this, it’s incompatible with what Novalis had in mind.

In fact, Lukács’s ‘meaning’ comes from a source—Max Weber’s sociological theory—that couldn’t be more distant from Novalis’s lyric. Weber, who had been a crucial presence in the Heidelberg years from which the Theory emerged, had published in 1913 the first theoretical exposition of his ‘comprehending’ sociology, as the usual translation has it. ‘Comprehending’, explains Economy and Society, in the sense that the central object of sociology—social ‘action’—exists only ‘in so far as the acting individual or individuals attach to it a subjective sense’; as a consequence, the comprehension of the ‘subjectively intended meaning’ is the very precondition of sociological knowledge. Somewhat surprisingly, ‘meaning’ turns out to be as important in Weberian sociology as in romantic aesthetics.

A subjectively intended meaning as the foundation of social interactions. But of course the world of The Theory of the Novel is characterized by the opposite state of affairs—by the ‘refusal of the immanence of meaning to enter into empirical life’. In placing a Weberian category at the centre of his analysis, only to show its insoluble contradictions, the Theory marks Lukács’s break with Weber (which was probably precipitated by their bitter disagreement over the First World War). A few years later, the analysis of reification of History and Class Consciousness (1919–1923) will offer a Marxist way out from those contradictions; but in 1916 this solution was still nowhere in sight, and the problematization of Weber’s thesis had a purely negative quality: a path had been closed, period. In this claustrophobic consequentiality, Theory of the Novel belongs to the small circle of masterpieces—Baudelaire’s tableaux, Flaubert’s novels, Manet’s paintings, Ibsen’s plays, or, indeed, Weber’s last lectures—where the rules of bourgeois existence are at once ineluctable and bankrupt. It sounds, often, like the work of an exile.

Such, drastically simplified, is what The Theory of the Novel has to say. But just as important as ‘what’ the book has to say is the way it says it. Here are its opening words: ‘Happy are those ages when the starry sky is the map of all possible paths—ages whose paths are illuminated by the light of the stars.’ Weber could never have written this. ‘The world is wide and yet it is like a home, for the fire that burns in the soul is of the same essential nature as the stars . . . Thus each action of the soul becomes meaningful and rounded . . . complete in meaning—in sense—and complete for the senses . . . ’

Happy are those ages . . . What kind of a book is this? Certainly, not one that worries solely about knowledge. Make no mistake: there is plenty of knowledge in the pages of the Theory, dispensed in countless well-wrought allusions by its prodigiously cultivated young author. Yet that is not what the book is about. The Theory is not after knowledge: it is after meaning. After meaning, by way of its style.

The style of the essay: reflection, plus emotions: from that ‘happy’ that opens the book to the ‘homesickness’, ‘weariness’, ‘despair’, ‘madness’ that we encounter on page after page. It’s the heat of emotions that extracts meaning from this world that has become ‘rigid and alien’. Or perhaps, better: the heat generated by the collision of emotions and concepts. Of Novalis and Weber. Enigmatically bewitching lyric, and unadorned positive knowledge. ‘Every art form’, we read in the central section of the Theory, ‘is defined by the metaphysical dissonance of life . . . every form is the resolution of a fundamental dissonance of existence.’ Lukács, too, placed a metaphysical dissonance as the foundation of his book, and then tried to resolve it with the prodigious plasticity of his style. That his style could hold Novalis and Weber together—beauty and knowledge—was a miracle that would not be repeated. But perhaps, it should not be repeated. Perhaps, the future of literary theory lies in accepting its fundamental dissonance, without looking for a resolution.

The Master and the Slave: Lukács, Bakhtin, and the Ideas of their Time

21 domenica Dic 2014

Posted by nemo in Bibliografia in inglese, Bibliografia su Lukács

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Tag

Bachtin, Dostoevskij, Goethe, Hegel, Lukacs, Rabelais, realismo, romanzo


41kfMF4SYrL._SY344_BO1,204,203,200_This book is a comparative study in the history of ideas. It is an innovative examination of the intellectual background, affiliations and contexts of two major twentieth-century thinkers and an historical interpretation of their work in aesthetics, cultural theory, literary history, and philosophy.
Unlike all existing texts on Lukacs and Bakhtin, this book offers a comparison of their writings at different stages of their intellectual development and in the broad context of the ideas of their time. The book introduces unknown archival material and discusses hitherto disregarded or overlooked texts by Lukacs and Bakhtin. It puts forward new readings of best-known work on Dostoevsky, Rabelais, and Goethe and treats in an original way the question of the coherence of Bakhtin’s ouevre. The book offers valuable insight into the sources of Bakhtin’s terminological repertoire and through examination of Bakhtin’s and Lukacs’s intellectual affiliations–of the limits and substance of their originality as thinkers.
Lukacs and Bakhtin emerge from the book as thinkers, whose intellectual careers followed strikingly similar paths. They both were confronted with similar agendas and questions posed for them by their time. Bakhtin however, had to find answers not only for this common agenda but also to the answers that Lukacs himself had already provided.

Lukacs Reads Goethe: From Aestheticism to Stalinism

21 domenica Dic 2014

Posted by nemo in Bibliografia in inglese, Bibliografia su Lukács

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Engels, Estetica, Etica, Goethe, L'anima e le forme, Lukacs, Mann, marxismo, stalinismo, Storia e coscienza di classe, umanesimo


41XP3VWQD6LLong recognized as one of the foremost literary critics of the twentieth century, the Hungarian-born Georg Lukacs (1885-1971) shocked many by turning to Marxism in 1918. Having adopted German as his language of choice, he used his formidable knowledge of European cultural history to revitalize Marxist theory with History and Class Consciousness (1923), and continued to write extensively about literature. His essays on Goethe and Thomas Mann are particularly well known. Even now, discussions about the novel, realism, and literary theory are incomplete without references to his work. The ultimate question posed by Vazsonyi’s book is how Lukacs in the 1930s was able to write enthusiastically about Goethe, citing him as an ideal exponent of humanism, while simultaneously accepting, even condoning Stalinism. To solve this riddle, Vazsonyi’s book begins with Lukacs’ early works ‘Aesthetic Culture’ (1910) and Soul and Forms (1911) tracing the concurrent development of Lukacs’ aesthetics and ethics. Both his response to contemporary literature and his growing interest in ethics reflect a critique of modernity and a vague desire to overcome cultural despair. Goethe emerges as his constant reference point, because Goethe too had rebelled against modernity but, unlike the authors of Romanticism, had found a solution expressed both in his writings and his life. The later Lukacs continued to use Goethe, this time as an intellectual precursor to Marx, as a model for successful realist literature (according to theories developed by Engels), and as an ideological foil against National Socialism. His readings in Goethe and His Age (1936) and the Faust Studies (1940) apply a Hegelian notion of history in which individual tragedies, though regrettable, are necessary for the teleological development of the human species.

Georg Lukács and Thomas Mann. A study in the sociology of literature

14 domenica Dic 2014

Posted by nemo in Bibliografia in inglese, Bibliografia su Lukács

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bolscevismo, Lukacs, Mann, Montagna incantata, Naphta


icoGeorg Lukacs, the philosopher and literary critic, and Thomas Mann, the creative artist, were two towering figures in twentieth-century European intellectual life. Although they enjoyed a fruitful literary relationship, the two men never established an intimate friendship. In fact, Lukacs once said that the only “dark spot” and “unsolved mystery” in his life was Mann’s life-long unresponsiveness to him as a person.

Based primarily on Lukacs’s and Mann’s early work, plus correspondence, unpublished archival materials, and interviews with Lukacs, Katja Mann, Ernst Bloch, Arnold Hauser, and others, Part I of this study traces the development of the “spiritual-intellectual symbiosis” between Lukacs and Mann that lasted at least until the First World War.

Part 2 turns to the question of the inspirational sources for Mann’s fictional character, Leo Naphta, in his novel The Magic Mountain. Exploring the claim that Lukacs himself was the model for this protagonist, Judith Marcus looks at the “Jewish intellectual” as an ideal type throughout Mann’s oeuvre. She concludes that Naphta’s totalitarian personality was inspired by the radicalism, rigidity, dogmatism, and asceticism of the young, then non-Marxist Lukacs, and that it was in part these very traits in Lukacs that stymied the growth of personal intimacy between the two men.

Georg Lukacs: The Fundamental Dissonance of Existence: Aesthetics, Politics, Literature

14 domenica Dic 2014

Posted by nemo in Bibliografia in inglese, Bibliografia su Lukács

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Lukacs


dissonanceThe end of the Soviet period, the vast expansion in the power and influence of capital, and recent developments in social and aesthetic theory, have made the work of Hungarian Marxist philosopher and social critic Georg Lukács more vital than ever.

The very innovations in literary method that, during the 80s and 90s, marginalized him in the West have now made possible new readings of Lukács, less in thrall to the positions taken by Lukács himself on political and aesthetic matters. What these developments amount to, this book argues, is an opportunity to liberate Lukács’s thought from its formal and historical limitations, a possibility that was always inherent in Lukács’s own thinking about the paradoxes of form. This collection brings together recent work on Lukács from the fields of Philosophy, Social and Political Thought, Literary and Cultural Studies. Against the odds, Lukács’s thought has survived: as a critique of late capitalism, as a guide to the contradictions of modernity, and as a model for a temperament that refuses all accommodation with the way things are.

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At the meeting of the Petöfi Cercle on June 27,1956, Arpad Szakasits, social democrat, talks to philosopher George Lukacs.
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