Lettere agli italiani

Copertina de libro Lettere agli italiani, in cui si vedono due foto: una di Lukacs, l0altra di Cases.
a cura di Antonino Infranca

L’Italia è sempre stata al centro dell’interesse personale di Lukács, fino al punto che poco prima di morire ebbe a scrivere: «Ho sempre preferito l’Italia alla Germania per la vita quotidiana». Si possono comprendere facilmente le ragioni di tale preferenza (clima, cibo, bellezze artistiche e naturali). Rimase, però, per tutta la vita l’ostacolo della comprensione della lingua: nonostante Lukács abbia vissuto un anno a Firenze tra il 1911 e il 1912 non imparò mai l’italiano. La conoscenza della nostra cultura e dei suoi intellettuali avvenne, quindi, sempre attraverso il filtro del tedesco, la lingua che usava per la sua produzione culturale. Non si può, quindi, affermare che conoscesse molto profondamente la cultura italiana. Eppure, come scritto sopra, l’interesse verso l’Italia è sempre stato vivace e vissuto. In pratica, al di fuori del mondo mitteleuropeo e della Russia, Lukács viaggiò soltanto una volta in Francia, Svizzera e Scandinavia e molte più volte in Italia.

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Film, ideologia e culto della personalità

di György Lukács

[Intervista realizzata da Guido Aristarco a Lukács pubblicata su “Cinema nuovo”, n. 188, luglio-agosto 1967].


Abbiamo rivolto a György Lukács le seguenti domande:

1. In varie circostanze, e anche di recente, lei si è riferito con insistenza ai problemi talora angosciosi che il culto della personalità ha proposto al mondo socialista. Non ritiene che nella critica a tale culto ci sia stata e ci sia tuttora una deformazione strumentale e che questa accezione abbia servito da copertura a forme revisionistiche e di sostanziale sfiducia nella metodologia marxiana?

2. Anche noi, con lei, riteniamo che la situazione culturale così come si presenta oggi, esiga una coerente, integrale, razionalmente fiduciosa ricerca marxiana. A cosa attribuire il diffondersi, fra strati intellettuali della “sinistra” di questa sorta di sfiducia nel marxismo?

3. Ci sembra che il cinema rifletta e registri abbastanza esplicitamente (in ispecie attraverso opere di giovani e delle cosiddette “nuove ondate”) tale crisi. Non crede che questa teorizzazione del disimpegno costituisca un appoggio – non sempre disinteressato – offerto alla cultura reazionaria dall’interno dello schieramento di sinistra?

4. Dei film che ella ha avuto occasione di vedere di recente, quali le sembrano più significativi nell’ambito di una indicazione rinunciataria e quali di una indicazione di prospettiva?

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Tecnica, contenuti e problemi di linguaggio

di György Lukács

[Intervista di Yvette Biró e Szilárd Ujhelyi a Lukács apparsa sulla rivista ungherese “Film Kúltura” e poi in traduzione italiana su “Cinema nuovo”, n. 196, novembre-dicembre 1968]


Nei mesi scorsi il filosofo György Lukács ha assistito alla proiezione di quei nuovi film ungheresi che hanno ottenuto particolari riconoscimenti in patria e all’estero, e che sono considerati tra i più rappresentativi. Tra le opere di Miklós Jancsó, Igy jöttem (Sono venuto così), Szegénylegények (I disperati di Sandor), Csillagosok, katonák (Stellati, soldati [L’armata a cavallo, Ndr]) e Csend és Kiáltás (Silenzio e grido); tra quelle di András Kovács, Nehéz emberek (Uomini difficili), Hideg napok (I giorni freddi) e Falak (I muri); di István Szabó, Apa (Il padre); e di Zoltán Fábri, Húsz óra (Venti ore); di Ferenc Kósa, Tizezer nap (Diecimila soli). Il complesso dei film ungheresi con i loro temi variati solleva un grande numero di problemi sia artistici, sia legati alla nostra società di oggi, sui quali “Film Kúltura” ha posto alcune domande a Lukács. L’intervista – che pubblichiamo integralmente, per gentile concessione della rivista ungherese e nella traduzione di Ivan Lantos – ha avuto luogo il 10 maggio in casa del filosofo; le domande sono state poste dai redattori Yvette Biró e Szilárd Ujhelyi.

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Manipolazione culturale e ruolo della critica

di György Lukács

[Introduzione scritta da Lukács al libro di Guido Aristarco, Il dissolvimento della ragione, Feltrinelli, Milano 1965. Il testo è poi anche apparso su “Cinema nuovo”, n. 178, novembre-dicembre 1965, e nuovamente come Introduzione a G. Aristarco, Marx, il cinema e la critica del film (Feltrinelli, Milano 1979)].


Di fronte al compito, per me certo lusinghiero, di scrivere un’introduzione per il Suo nuovo libro1, non nasconderò il mio imbarazzo e le inibizioni che mi colgono. Esse nascono da ben fondata consapevolezza della mia incompetenza quando si tratti di formulare giudizi concreti in concrete discussioni sui problemi del cinema.

Vero che dei problemi del cinema io mi sono occupato già nella giovinezza. Se, anche oggi, non posso che considerare come unilaterale e d’occasione lo scritto che allora vi dedicai2, pure esso resta testimonianza di un vitale interesse alla nascita di un nuovo genere d’arte, e in un’epoca in cui erano ancora pochi, anche tra i produttori e critici, a credere che un’arte nuova fosse nata. Da allora ho continuato a seguire l’evoluzione del cinema con grande interesse, benché la mancanza di tempo e il campo centrale della mia attività non mi abbiano permesso mai di addentrarmi concretamente in problemi particolari, cosa che mi sembra l’unico modo per acquisire una competenza autentica e non fittizia. Ultimamente, nella prima parte3 della mia estetica (Die Eigenart des Ästhetischen), ho tentato di prender posizione su quelli che mi paiono essere i problemi per principio più importanti di un’estetica del cinema. E anche in quell’occasione cercando di non farmi passare per un competente nelle questioni particolari, che sono quelle in definitiva che in sede artistica rivestono spesso importanza eccezionale, e senza la possibilità di esaminare partitamente l’evoluzione storica della nuova arte. Devo dire che allora credevo – e lo credo ancor oggi – che i più rilevanti problemi sociali ed estetici connessi con l’arte cinematografica potessero esser colti nel loro insieme anche da chi, non potendo diversamente, si ponesse a considerarli da un punto di vista astratto.

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Diavolo azzurro o diavolo giallo?

di György Lukács

[risposta di Lukács alle critiche rivolte da Umberto Barbaro all’articolo Lukács, il film e la tecnica, apparse sul quotidiano “L’Unità” il 22 gennaio 1959. Il testo è stato pubblicato su “Cinema nuovo”, n. 154, novembre-dicembre 1961]


Ne “L’Unità” del 22 gennaio Umberto Barbaro dedica un articolo ad alcune mie osservazioni provvisorie, in origine puramente epistolari (erano espresse in una lettera al mio ex-scolaro István Mészáros), intorno al film, che sono state pubblicate dalla rivista “Cinema nuovo”1. L’articolo stesso, come si mostrerà subito, non meriterebbe una replica. Tuttavia la sede in cui è apparso gli conferisce un certo peso, e può forse essere utile rimettere a posto i problemi che in quell’articolo sono stati interamente capovolti. Umberto Barbaro cita alcune righe della presentazione redazionale che introduceva le mie osservazioni senza nemmeno addentrarsi nel testo vero e proprio (il lettore vedrà che si tratta qui del metodo critico da lui costantemente adoperato). Egli cita dunque le parole della presentazione secondo cui io do ragione a Mészáros quando egli distingue la tecnica dalla forma, e aggiunge subito la conseguenza che io contesterei senz’altro l’importanza della tecnica nell’arte. Devo confessare che, benché non nutra un’opinione troppo alta della logica dei neopositivisti, questo volo pindarico mi ha egualmente sorpreso.

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Riflessioni per una estetica del cinema 

di György Lukács

[Gedanken zu einer Aesthetik des Kino pubblicato per la prima volta sul quotidiano “Pester Lloyd” il 16 aprile del 1911, ora in Scritti di sociologia della letteratura, Mondadori, Milano 1976]


Emanciparsi dalla confusione dei concetti è un’operazione molto difficile: qualcosa di nuovo e di bello è nato ai nostri giorni, ma invece di prenderlo così com’è, “come qualcosa di nuovo e di bello”, si vuole a tutti i costi comprenderlo attraverso vecchie e inappropriate categorie, svestendolo del suo vero significato e del suo valore. Oggi il cinema è infatti solamente inteso come lo strumento di una pedagogia illustrativa, oppure come una nuova e economica forma di spettacolo concorrente al teatro: da un lato quindi come qualcosa di educativo, dall’altro di economico. Bisogna invece partire dal fatto che la determinazione e la valutazione di un nuovo modo di creare bellezza appartiene soprattutto all’estetica. 

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Rivoluzione e psicologia della vita quotidiana 

di György Lukács

[Rivoluzione e psicologia della vita quotidiana è il testo di un’intervista realizzata a Lukács da András Kovács pubblicata su “Film Kúltura” e poi in italiano su “Cinema nuovo”, n. 217, maggio-giugno 1972.]


Nel 1919, durante la Repubblica ungherese dei consigli, lei partecipò al governo e, come commissario del popolo, per primo nella storia nazionalizzò la cinematografia. Quali ricordi ha di quell’avvenimento? 

Ho pochissimi ricordi. Non possiamo dimenticare che la storia della dittatura del proletariato venne scritta, in genere, in modo stalinista. Sotto questo aspetto si pretendeva una specie di potente sovrano, molto intelligente, in grado di mettere a posto tutto. In realtà non ero assolutamente un tale sovrano. Nella dittatura proletaria del 1919, mio unico merito fu quello di far intervenire, nell’ambito del Commissariato del popolo, con un ruolo di guida, i dirigenti di tutte le correnti progressiste nei vari campi, dall’insegnamento alla musica. Se lei ora mi volesse chiedere chi ha nazionalizzato il cinema, dopo cinquant’anni non potrei proprio rispondere. Personalmente mi occupavo molto di particolari questioni – istruzione pubblica, università, letteratura, arte – ma, le confesso, so pochissimo di quanto è avvenuto nel campo cinematografico. Non si può dimenticare, naturalmente, che nel 1919, il peso del cinema nella vita artistica e culturale era molto minore di quello di oggi. 

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L’anima e l’azione. Scritti su cinema e teatro

La prima antologia in italiano degli scritti di György Lukács sullo spettacolo riunisce le pagine più importanti della riflessione del filosofo ungherese su alcuni dei nodi cruciali delle estetiche novecentesche: la crisi del dramma, la separazione tra forme teatrali e drammaturgiche, la nascita della regia, l’emergere delle esperienze postdrammatiche, l’origine e l’ontologia del cinema. Scritti nel corso di più di mezzo secolo, i testi di Lukács ripercorrono criticamente l’evoluzione dei cinema e del teatro nel passaggio dal classico al moderno, dalle rivoluzioni delle avanguardie storiche a quelle delle neoavanguardie. Messa da parte ogni lettura ideologica, attraverso un percorso di storicizzazione e riattualizzazione, il volume offre al lettore uno strumento indispensabile di comprensione del presente, riscoprendo la straordinaria, e per certi versi sorprendente, modernità del pensiero di Lukács.

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