di György Lukács
da Testamento politico e altri scritti contro lo stalinismo, a c. di A. Infranca e M. Vedda, Edizioni Punto Rosso, Milano 2015.
8 giugno 1957
Caro amico,
la sua lettera mi ha molto rallegrato, malgrado l’“egocentrismo” [Ichbezogenheit]. Credo che non disturberà la nostra amicizia che mi comporti anche come uno “storico della letteratura” oggettivo, di fronte a questa categoria sommamente soggettiva che amico e contemporaneo utilizza. Lei dice che la mia interpretazione oggettiva, sociale di Manzoni provocherà resistenza tra gli psicologisti italiani. Molto bene, credo che trattandosi di questo egocentrismo, è necessario applicare lo stesso metodo: non è una categoria psicologica congenita – o al massimo una tendenza –, bensì un risultato di complicate interrelazioni tra soggetto e realtà sociale oggettiva. Credo che questo sia il metodo per risolvere questo problema, tanto nel passato come nel presente, tanto scientificamente quanto praticamente.
Da un lato, mi ricordo molto bene che l’egocentrismo non sempre ha svolto in lei questo ruolo. Dall’altro, so a partire da una buona esperienza, che nella mia bella casa di riposo a Bucarest dovetti anche condurre una lotta che non vado oltre l’egocentrismo [1]. Non creda che con tali considerazioni, ricorro ad una estetizzatone, a una capitolazione di fronte alla cattiva realtà, così come accadde spesso con la “riconciliazione” del vecchio Hegel. Si tratta, innanzitutto, di seguire la prospettiva. Ricorderà, forse, la mia conferenza su questo tema all’ultimo congresso degli scrittori tedeschi, che si tenne l’anno scorso. In quell’occasione dissi che la prospettiva non è una realtà – se quella è rappresentata in tal modo, allora si produce un happy end – ma è, alle volte, una realtà futura. Pertanto, è reale e irreale allo stesso tempo. Se uno si attiene a questo, allora è possibile trovare, anche sotto le circostanze più sfavorevoli, uno spazio anche minimo per l’attività. Forse conosce, a partire da precedenti conversazioni, che la mia massima favorita è una piccola variazione della famosa frase pronunciata da Zola ai tempi del caso Dreyfus [2]: «La verité est lentment en marche, et à la fin des fins, rient ne l’arrêtrera»[3].
Mi rallegro soprattutto per ciò che scrive su Manzoni. Ho sperimentato qualcosa di simile in Inghilterra in relazione a Walter Scott. Sarebbe molto buono che concretasse qualche volta il piano su Manzoni che abbozza nella sua lettera. Dopo tutto ciò che è pubblicato ne Il romanzo storico può essere soltanto una indicazione, uno stimolo. Una vera valorizzazione marxista di Manzoni può essere soltanto opera di un italiano; ma credo che una valorizzazione concreta sarebbe molto importante per l’Italia, e lei è proprio l’autore indicato per farla.
La traduzione è tratta dall’originale in tedesco conservato presso l’“Archivio Lukács” di Budapest. Traduzione di Antonino Infranca.
[1] Nel 1956, Lukács appoggiò la ribellione ungherese contro il regime comunista ungherese e promosse una profonda trasformazione del sistema. Una volta repressa questo rivolta, fu deportato in un campo di concentrazione a Bucarest, dove rimase fino al 10 aprile 1957.
[2] Alfred Dreyfus (1859-1935), ufficiale dell’esercito francese nato in Alsazia, fu accusato ingiustamente di consegnare a un governo straniero documenti sulla difesa nazionale. Fu sottomesso a corte marziale, degradato e condannato all’ergastolo nell’Isola del Diavolo. Gli sforzi della moglie e degli amici di Dreyfus riuscirono a rivelarne l’innocenza, che era stato vittima della corruzione – e in particolare dell’antisemitismo – dell’esercito e delle istituzioni pubbliche francesi. Zola intervenne attivamente a favore di Dreyfus e scrisse, in questo contesto, un famoso pamphlet J’accuse [Io accuso] (1898). Nel 1906 Dreyfus fu aministiato e riuscì a riprendere i gradi militari.
[3] «La verità è lentamente in marcia e, alla fine dei tempi, nulla la fermerà». La frase di Zola («La verité est en marche, et rien ne l’arrêtrerà») fu uno dei più diffusi slogan durante il caso Dreyfus. Quando il senatore Scheurer-Kestner chiese la revisione di questo caso, Zola scrisse un articolo su Le Figaro (25 novembre 1897) intitolato, precisamente, da questo slogan.