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György Lukács

~ il primo blog in progress dedicato a Lukács

György Lukács

Archivi della categoria: Traduzioni italiane

Riflessioni per una estetica del cinema 

12 martedì Apr 2022

Posted by nemo in I testi, Traduzioni italiane

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Tag

Arnim, Barbery d’Aurevilly, corpo e anima del cinema e del teatro, fantasticità, fantastico, Hofmann, metafisica del cinema, metafisica del teatro, Poe, tecnica, Tempo


di György Lukács

[Gedanken zu einer Aesthetik des Kino pubblicato per la prima volta sul quotidiano “Pester Lloyd” il 16 aprile del 1911, ora in Scritti di sociologia della letteratura, Mondadori, Milano 1976]


Emanciparsi dalla confusione dei concetti è un’operazione molto difficile: qualcosa di nuovo e di bello è nato ai nostri giorni, ma invece di prenderlo così com’è, “come qualcosa di nuovo e di bello”, si vuole a tutti i costi comprenderlo attraverso vecchie e inappropriate categorie, svestendolo del suo vero significato e del suo valore. Oggi il cinema è infatti solamente inteso come lo strumento di una pedagogia illustrativa, oppure come una nuova e economica forma di spettacolo concorrente al teatro: da un lato quindi come qualcosa di educativo, dall’altro di economico. Bisogna invece partire dal fatto che la determinazione e la valutazione di un nuovo modo di creare bellezza appartiene soprattutto all’estetica. 

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Rivoluzione e psicologia della vita quotidiana 

11 lunedì Apr 2022

Posted by nemo in I testi, interviste, Traduzioni italiane

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Tag

Aristarco, Balázs, Bartók, Bloch, Chaplin, cinema, contenuto e forma, Jancsó, Rivoluzione ungherese, Semprun


di György Lukács

[Rivoluzione e psicologia della vita quotidiana è il testo di un’intervista realizzata a Lukács da András Kovács pubblicata su “Film Kúltura” e poi in italiano su “Cinema nuovo”, n. 217, maggio-giugno 1972.]


Nel 1919, durante la Repubblica ungherese dei consigli, lei partecipò al governo e, come commissario del popolo, per primo nella storia nazionalizzò la cinematografia. Quali ricordi ha di quell’avvenimento? 

Ho pochissimi ricordi. Non possiamo dimenticare che la storia della dittatura del proletariato venne scritta, in genere, in modo stalinista. Sotto questo aspetto si pretendeva una specie di potente sovrano, molto intelligente, in grado di mettere a posto tutto. In realtà non ero assolutamente un tale sovrano. Nella dittatura proletaria del 1919, mio unico merito fu quello di far intervenire, nell’ambito del Commissariato del popolo, con un ruolo di guida, i dirigenti di tutte le correnti progressiste nei vari campi, dall’insegnamento alla musica. Se lei ora mi volesse chiedere chi ha nazionalizzato il cinema, dopo cinquant’anni non potrei proprio rispondere. Personalmente mi occupavo molto di particolari questioni – istruzione pubblica, università, letteratura, arte – ma, le confesso, so pochissimo di quanto è avvenuto nel campo cinematografico. Non si può dimenticare, naturalmente, che nel 1919, il peso del cinema nella vita artistica e culturale era molto minore di quello di oggi. 

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L’anima e l’azione. Scritti su cinema e teatro

10 domenica Apr 2022

Posted by nemo in I testi, Inediti, interviste, segnalazioni, Traduzioni italiane

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La prima antologia in italiano degli scritti di György Lukács sullo spettacolo riunisce le pagine più importanti della riflessione del filosofo ungherese su alcuni dei nodi cruciali delle estetiche novecentesche: la crisi del dramma, la separazione tra forme teatrali e drammaturgiche, la nascita della regia, l’emergere delle esperienze postdrammatiche, l’origine e l’ontologia del cinema. Scritti nel corso di più di mezzo secolo, i testi di Lukács ripercorrono criticamente l’evoluzione dei cinema e del teatro nel passaggio dal classico al moderno, dalle rivoluzioni delle avanguardie storiche a quelle delle neoavanguardie. Messa da parte ogni lettura ideologica, attraverso un percorso di storicizzazione e riattualizzazione, il volume offre al lettore uno strumento indispensabile di comprensione del presente, riscoprendo la straordinaria, e per certi versi sorprendente, modernità del pensiero di Lukács.

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Il desiderio addomesticato della libertà

29 sabato Feb 2020

Posted by nemo in I testi, Traduzioni italiane

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Tag

concezione trotskista del sindacato, democratizzazione, democrazia formale, Lenin, numero parlamentari, partito, Polonia, rapporto rappresentati e rappresentanti, sciopero spontaneo, sindacato, ungheria


di György Lukács  

«il manifesto» 3 gennaio 2004.

Brani tratti da Intervista per il Partito apparso in Testamento politico (gennaio 1971), Edizioni Punto Rosso, Milano, 2015.


Se devo dare la mia opinione riguardo a quanto accaduto prima, durante e dopo il X Congresso [del Partito Operaio Socialista Ungherese], posso semplicemente asserire che, se bastasse porsi sul piano del puro desiderio, allora si potrebbe dire che sono al cento per cento d’accordo su tutto. Mi sembra invece che molte cose sono pensate come se fossero reali, ma restano per noi solo un desiderio lontano. Questo ha a che vedere principalmente con tutte le questioni relative alla democratizzazione. In realtà formalmente c’è una certa democratizzazione, ma non dimentichiamo che questo aspetto è presente in ogni dittatura; formalmente nell’era di Rákosi [segretario del Partito Comunista Ungherese fino al 1956] eleggevamo «liberamente» un deputato (e dico «liberamente» tra virgolette), come avviene adesso. E posso giudicare ciò a partire dal mio atteggiamento di allora: consideravo una questione importante il fatto che le percentuali elettorali registrassero il maggior numero possibile di votanti, quindi partecipai a tutte le votazioni, consegnando la mia scheda; ma devo ammettere che, in 25 anni, neanche una volta ho prestato attenzione al nome che compariva nella scheda. Credo che questo, in qualche modo, sia una fotografia di quanto fosse democratico il sistema di votazione: non è affatto democratico il fatto che a me non importasse assolutamente chi mi rappresenti alla Camera dei Deputati. Debbo ammettere che avevo la stessa sensazione durante il governo di István Tisza [Primo Ministro al tempo dell’impero asburgico]. Continua a leggere →

Crisi parallele. Intervista a György Lukács

24 mercoledì Ott 2018

Posted by nemo in I testi, Inediti, interviste, Traduzioni italiane

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autobiografia, consigli operai, crisi dell'occidente, democrazia socialista, filosofia, Jugoslavia, Lenin, movimento studentesco, riforma socialismo, rinascita marxismo, rivoluzionario, rivoluzione russa, specie muta, stalinismo


di György Lukács

in «L’utopia concreta. Rivista quadrimestrale», I, n. 1, ottobre 1993
[da «New Left Review», n°60, marzo – aprile 1970].


Compagno Lukács, come giudica la sua vita e l’epoca storica in cui ha vissuto? In cinquantanni di lavoro scientifico e rivoluzionario ha avuto la sua parte di onori e di umiliazioni. Sappiamo anche che è stato in pericolo dopo l’arresto di Béla Kun nel 1937. Se dovesse scrivere un’autobiografia o delle memorie personali, quale lezione fondamentale ne trarrebbe?

Per rispondere brevemente, direi che è stata una mia grande fortuna aver vissuto una vita intensa e densa di avvenimenti. Lo considero come un particolare privilegio di cui ho avuto esperienza negli anni 1917/1919. Poiché provenivo da un ambiente borghese – mio padre era un banchiere di Budapest – e pur attuando un’opposizione piuttosto individuale in «Nyugat»1 – facevo parte tuttavia dell’opposizione borghese. Continua a leggere →

I consigli operai

24 giovedì Mar 2016

Posted by nemo in Traduzioni italiane

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Tag

consigli operai, legalità, parlamentarismo


di György Lukács

da «L’Ordine Nuovo», 12 giugno 1920

[brano tratto da La questione del parlamentarismo]

 

Lukacs - Ordine nuovo

La responsabilità sociale del filosofo

21 domenica Feb 2016

Posted by nemo in I testi, Traduzioni italiane

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actus purus, altruismo, apragmosini politic, astuzia della ragione, azione, bourgeois e citoyen, Bucharin, Cernysevskij, classe, comportamento etico dell’individuo «gettato» nella vita, dialettica dell'agire sociale concreto, dualismo di ragion «pura» e ragion «pratica», egoismo, Engels, Epicuro, esistenzialismo, generalità, genere, George, Hegel, Hitler, imperativo categorico, innocenza, intenzione, Kant, Kierkegaard, lavoro, Lenin, Machiavelli, Marx, marxismo, neutralità, Platone, prassi e teoria, responsabilità, rifiuto dell’utopismo, Rivoluzione francese, Schiller, Schopenhauer, socialità socialista, Stoa, tecnica


di György Lukács

[Die soziale Verantwortung des Philosophen, 1960 ca., inedito, trad. it. Vittoria Franco, in G. L., La responsabilità sociale del filosofo, Pacini Fazzi, Lucca 989]

Si ringrazia Toni Infranca per aver messo a disposizione questo testo.


Devo scusarmi subito in apertura se arriverò a rispondere alla questione solo dopo lunghi giri. Primo, [perché] mi sembra che la questione in sé non sia stata finora sufficientemente chiarita. Secondo, e più importante, perché scorgo nella situazione attuale problemi del tutto particolari, che rinviano oltre una specificazione normale della questione generale e la cui analisi soltanto consente teoricamente una risposta concreta.

I nostri ragionamenti devono dunque culminare nelle due questioni seguenti, fra di loro strettamente connesse: esiste una responsabilità specifica del filosofo, che va oltre la responsabilità normale di ogni uomo per la propria vita, per quella dei suoi simili, per la società in cui vive e il suo futuro? E inoltre: tale responsabilità nella nostra epoca ha acquistato una forma particolare? Per la teoria dell’etica, entrambe le questioni implicano il problema se la responsabilità contenga un momento storico-sociale costitutivo. È un interrogativo che va posto subito all’inizio, giacché proprio l’etica moderna, specialmente quella che si è sviluppata sotto l’influenza di Schopenhauer prima e di Kierkegaard poi, pone l’accento sul fatto che il comportamento etico dell’individuo «gettato» nella vita mira proprio a tenersi lontano da tutto ciò che è storico-sociale per pervenire all’essere ontologico, in contrapposizione netta a tutto l’essente. È ovviamente impossibile trattare qui, sia pure per grandi linee, tutto questo complesso di problemi. Possiamo occuparci solo di quegli aspetti che riguardano oggettivamente il nostro problema.

1. Nell’etica, così come si è configurata sinora, possiamo osservare – grosso modo* – due correnti decisive. La prima considera rilevante esclusivamente l’atto in sé della decisione etica, del comportamento. Questa concezione ha assunto nel corso dello sviluppo della nostra moralità incarnazioni così diverse che troviamo un tale atteggiamento fondamentale nella Stoa come in Epicuro, in Kant come nell’esistenzialismo, ecc. In base alla nostra impostazione del problema, concentreremo l’attenzione soprattutto sul tratto comune che abbiamo rilevato e tralasceremo di proposito le differenze, il cui significato non deve essere ovviamente sottovalutato; esse non sono tuttavia decisive per le questioni da chiarire in questa sede. Il momento decisivo ci sembra consistere nel fatto che l’atto della decisione etica, dell’assunzione di un comportamento eticamente rilevante viene posto come indipendente dal corso causale della realtà storico-sociale, viene cioè considerato come fondamento dell’etica la completa indipendenza reciproca dei due «mondi» dell’essere e del dover essere. Dei grandi filosofi, Kant è colui che ha compiuto nella maniera più decisa, fino al paradosso, questo sdoppiamento della realtà. La frattura attraversa la personalità che agisce e il suo atto. I presupposti e le conseguenze, anche quelle puramente spirituali, appartengono tutti al mondo fenomenico e sono perciò sottoposti incondizionatamente alla connessione inesorabile della causalità. L’actus purus della decisione etica è invece un noumenon, un momento dell’esistenza intellegibile dell’uomo, completamente indipendente dal fenomeno e dalla sua causalità.

Sembra spezzarsi così ogni collegamento fra l’esistenza interna (etica) dell’uomo e quella esterna (naturale, sociale), per cui, secondo una tale concezione, il nostro problema perderebbe ogni senso persino come questione. Non è assolutamente questo il caso in Kant. La riduzione di ciò che è eticamente rilevante alla personalità puramente intellegibile ha piuttosto, come vedremo subito, lo scopo di subordinare la totalità della vita umana al dover essere etico, di conferire ad essa una razionalità morale più elevata di quanto sia possibile – secondo Kant – sul terreno fenomenico. Solo se, come in Kierkegaard, l’abisso fra interno ed esterno acquista l’ampiezza metafisica di un assoluto, solo se, di conseguenza, l’incognito impenetrabile diviene la forma originaria dell’esistenza umana, la sua essenza ontologica, il sacrificio di Isacco da parte di Abramo, con l’impossibilità di separare dall’esterno il delitto dalla santità devota a Dio, può divenire il paradigma più elevato della prassi, l’espressione della sua irrazionalità ontologica e quindi della sua – altrettanto ontologica – essenza asociale, astorica. Non è così in Kant. Già l’analisi dell’imperativo categorico dimostra che la separazione rigida del fenomeno dal noumeno è rivolta proprio a fornire all’uomo sociale della realtà criteri saldi per la prassi della vita quotidiana. Questa intenzione è ciò che per noi è importante. Se dunque contraddizioni insuperabili vengono in essere, allora vuol dire che la problematica che qui emerge è una dimostrazione indiretta delle nostre tesi. Si tratta del contenuto dell’imperativo, che deve scaturire proprio dalla sua essenza puramente formale. Tutti conoscono il famoso esempio della – presunta – contraddizione logica che sorge necessariamente quando si voglia sottrarre un deposito. Nella sua critica, divenuta altrettanto famosa, Hegel rileva che, in questo modo, Kant abbandona il campo dell’etica, che egli stesso aveva rigidamente delimitato, e vuole determinare la questione se il deposito debba essere e che cosa debba essere con categorie che sono inadatte a questo scopo secondo i suoi stessi principi. (Del tutto diversamente per l’etica e per lo stesso Hegel).

Questo rinviare oltre l’actus purus dell’io noumenico in Kant non è però un caso o una inconseguenza. Proprio i postulati della ragione pratica mostrano che una tale trascendenza è per lui necessaria, se non vuole far sfociare la sua etica nel vicolo cieco dell’individuo ontologicamente isolato. Possiamo richiamarci di nuovo a connessioni universalmente note. Primo, al postulato di una coincidenza, in ultima istanza, fra l’applicazione delle norme etiche purificate da ogni ammiccamento alla fortuna e la felicità come stato permanente; secondo, a quello di un progresso infinito della perfettibilità: ai postulati dell’esserci di Dio e dell’immortalità dell’anima. Si tratta perciò di una trascendenza. Non soltanto si va oltre il mondo terreno, per poter porre la realizzazione di colui che si perfeziona eticamente come parte costitutiva del sistema, ma – in contrapposizione con molte religioni che prevedono la realizzazione dell’essere terreno in un al di là – si deve anche abbandonare l’intero ambito dell’essere, ritornare al dover essere del postulato. Non ci interessa qui la problematicità di una tale posizione. Ciò che abbiamo cercato di dimostrare si limita alla costatazione, che resta molto astratta, che perfino l’etica più decisamente formale e più ostinatamente orientata sull’atto puramente individuale della decisione è costretta a trascendere questo suo punto di partenza e ad elevare le categorie decisive della vita storico-sociale degli uomini (gli oggetti del loro agire, la fortuna, il loro perfezionamento) a momenti integranti del suo sistema. È chiaro che, in questo modo, l’uomo stesso in quanto essenza sociale, la sua relazione con i suoi simili e quindi, in maniera mediata o immediata, la stessa socialità, devono stare – indipendentemente se nell’al di qua o nell’al di là – al centro della sistematica anche in un’etica costruita in maniera soggettivo-formale.

Tale connessione risulta ancora più chiara, quasi fino alla trivialità, in quel gruppo di teorie etiche, che si è soliti etichettare sinteticamente (e in maniera non molto convincente), come utilitarismo. Anch’esse hanno come punto di partenza le intenzioni degli individui. Solo che qui l’altro è posto sin dall’inizio ineliminabilmente come partner. La dialettica fra egoismo e altruismo (non importa come queste espressioni appaiono dal punto di vista terminologico) costituisce necessariamente il tema centrale dell’etica, e pertanto il carattere sociale è metodologicamente assicurato. Da un lato, il motivo egoistico può venire assolutamente in primo piano, specialmente finché la regolazione automatica dell’agire individuale, egoistico, mediante l’economia complessiva vale come dogma incrollabile; dall’altro, proprio per questo, una tale struttura della società può essere astratta dal divenire storico e idealizzata a condizione «eterna» della relazione fra uomo e società. In casi estremi di tal genere, questa considerazione etica si trasforma a tal punto che appaiono rilevanti solo le conseguenze delle azioni umane. Ma ritorneremo fra breve su questa possibilità.

In generale, si tratta tuttavia di una relazione reciproca reale fra egoismo e altruismo; per meglio dire, si tratta del tentativo di far derivare da motivi egoistici le intenzioni e le azioni disinteressate e cariche di abnegazione fino all’eroismo. Ragionamenti siffatti potrebbero apparire spesso estremamente artefatti, sofisticati. Questo non può tuttavia offuscare la grande idea che vi è insita. Cioè che un’etica, che ha come punto di partenza uomini «naturalmente» egoisti, fa scendere tutto ciò che vi è di grande e progressivo nello sviluppo dell’attività umana dal cielo della trascendenza su questa terra della socialità reale, dei doveri e della responsabilità puramente sociali. Se tale concezione ha avuto talvolta, finché si è combattuto in suo nome per il «regno della ragione», un accento sovrastorico, con la vittoria della borghesia si è trasformata in una superficiale apologetica, mentre già con la teoria dell’«egoismo razionale» dei democratici rivoluzionari russi è emerso chiaramente il suo carattere progressivo. Il pensatore guida di questa tendenza, Cernicewskji, nel suo romanzo Che fare? ha indicato vari tipi che, in quanto rappresentanti dell’«egoismo razionale», [che va] da un’attività riformatrice nella vita quotidiana propria e altrui fino all’eroismo rivoluzionario ascetico e pieno di abnegazione, rendono chiare quelle conseguenze della responsabilità individuale e storico-sociale, che derivano con necessità logica dai principi di questa dottrina correttamente intesi.

Sebbene la trattazione adeguata dell’etica marxista sia possibile solo più oltre e anche se essa, per sua essenza, non parte assolutamente dall’intenzione, dall’atto etico, dobbiamo accennare brevemente già a questo punto alla sua relazione con la dottrina dell’«egoismo razionale». Già il giovane Engels, in una lettera a Marx, criticava il rifiuto astratto di ogni egoismo da parte degli idealisti «veri socialisti» e rilevava che anch’essi «sono comunisti anche per egoismo». Non è questa la sede per soffermarsi sul come tale dottrina si sia formata innanzitutto attraverso lo sviluppo della lotta di classe, degli interessi di classe, ecc. È importante solo che, in questo modo, si è sostanzialmente concretizzata la corrente storico-sociale in cui è inserita ogni vita individuale, che la vita etico-individuale deve farsi carico inevitabilmente di una responsabilità storico-sociale verso le decisioni, i comportamenti, ecc. e – ciò che è più decisivo – che perfino le virtù più elevate, le più socialmente determinanti, non sono contrapposte in maniera ascetico-dualistica all’uomo «naturale», ma in circostanze favorevoli possono essere sviluppate organicamente dalle sue proprietà «naturali». Questo è il fondamento etico-sociale del fatto che, per Lenin, anche nel socialismo gli uomini devono diventare uomini nuovi attraverso la realizzazione dei loro interessi individuali all’interno della nuova società; tutte le misure economiche di una corretta via al socialismo hanno una tale intenzione pedagogico-sociale: incanalare l’egoismo giustificato su base naturale in una socialità socialista. Potremo tornare solo più oltre sul come queste tendenze, qui rapidamente sfiorate, diventino le determinazioni più prossime della responsabilità sociale.

2. L’unità dell’etica si manifesta ancora più chiaramente là dove essa ha come punto di partenza l’estremo opposto, l’accentuazione solo o prevalentemente delle conseguenze. Una tale concezione, considerata in senso stretto nella sua applicazione coerente, dovrebbe negare ogni etica, considerarla irrilevante per l’essere e il divenire della società, in quanto la dottrina del diritto e dello Stato (o magari l’economia) farebbero le sue funzioni. Questa dottrina non è mai stata applicata in maniera conseguente. Essa emerge nel paradosso di Machiavelli, secondo cui il legislatore deve partire dal fatto che tutti gli uomini sono cattivi (amorali); sta, cioè, alla base della concezione machiavellica secondo cui azioni individuali cattive possono avere conseguenze socialmente utili. Ma una dottrina orientata semplicemente sulle conseguenze, che esclude completamente l’intenzione soggettiva, non può essere applicata nemmeno a livello giuridico. Anche un’imputazione puramente giuridica è costretta a prendere in considerazione momenti soggettivi come l’intenzione, la convinzione, il quadro reale o possibile delle circostanze, ecc. La questione del perché un uomo possa essere considerato responsabile delle conseguenze del suo agire non può essere dedotta dalla semplice catena delle cause e degli effetti, nemmeno da un punto di vista giuridico. Ha, dunque, ragione Hegel quando rifiuta tanto la priorità dell’intenzione quanto quella delle conseguenze.

Il necessario inserimento dell’intenzione nell’elaborazione etica delle conseguenze mostra però già al primo sguardo una dialettica alquanto complicata. Sarebbe ovvio e semplice affermare che nessuno è eticamente responsabile per le conseguenze imprevedibili delle sue azioni. Sarebbe comunque sostenibile una tale affermazione? Supponiamo che un uomo voglia sparare a Pietro, la sua pallottola manca l’obiettivo e colpisce a morte Paolo. Non vi è nessuna intenzione, e però non può nemmeno essere negata la responsabilità morale appellandosi al caso. Infatti, ogni azione si stacca – più o meno – da colui che la compie, acquista un suo proprio sviluppo immanente nel mezzo delle relazioni reciproche degli uomini. «Un proposito è condiviso, non è più tuo», dice il Wallenstein di Schiller. Il problema della responsabilità consiste in questo, che la dialettica propria dell’azione non [ne] elimina la paternità nel soggetto, nella sua intenzione e convinzione. Diventa un problema solo questo: fino a che punto, sotto quale aspetto, fino a quali conseguenze, diramazioni e implicazioni esiste una responsabilità? Non vi sono dubbi sul collegamento in genere fra azione e agente anche nelle mediazioni più complesse. Ciò che andrebbe concretamente elaborato in una casistica etica sono la misura e la proporzione.

Ma naturalmente ciò è impossibile in questa sede. È tuttavia necessario fornire almeno alcuni accenni metodologici sulle linee di soluzione. Sotto questo aspetto, Hegel ha intravisto l’essenza della questione quando ha detto: «devo conoscere la natura generale della singola azione». Entrambe queste determinazioni, la natura generale e la conoscenza, sono ugualmente importanti e problematiche.

Infatti, una semplice generalizzazione unilineare dell’azione non fa fare un solo passo avanti dal punto di vista etico. Il paragrafo del codice sotto cui deve essere giuridicamente sussunta un’azione singola esprime nella maniera più chiara questa generalità astratta e dimostra, nel contempo, che esso non può dare il minimo suggerimento per la soluzione etica. (E d’altra parte, si può viceversa dire: le grandi difficoltà, che emergono talvolta in tali sussunzioni giuridiche, derivano dal fatto che l’opinione pubblica, e anche la coscienza giuridica della problematica etica, si rendono conto della semplificazione). La generalità (die Allgemeinheit) eticamente proficua, che illumina la responsabilità, può essere trovata solo se noi consideriamo l’azione singola come momento mosso di un agire storico-sociale nella sua concreta e altrettanto mossa totalità e continuità. Infatti, solo sotto tale aspetto, la generalizzazione non è un’astrazione formale e priva di contenuto, ma è un tipo di astrazione che viene compiuto dallo stesso processo e riprodotto più o meno correttamente dalla coscienza esterna (anche da quella dell’agente). La generalità ha cioè, in una decisione etica, il suo passato storico-sociale e un futuro che sorge dallo stesso processo. È dunque importante il posto che occupa nel processo storico-sociale, in virtù della dialettica interna del suo nucleo essenziale, l’intenzione «di per se stessa» – quella che è, in maniera oggettivamente immanente, alla base della singola azione e che non è affatto necessariamente identica all’intenzione consapevole dell’azione in questione –, in quale connessione essa si inserisce, quali tendenze favorisce o ostacola. Solo così può venire in essere con chiarezza crescente una generalità concreta, eticamente vincolante. Prendiamo la relazione del poeta Stefan George con Hitler. L’esteta aristocratico ha comprensibilmente rifiutato con asprezza la grettezza plebea di Hitler ed è morto in esilio volontario piuttosto che divenire il poeta laureatus dell’hitlerismo. E tuttavia, nella sua poesia più tarda si esprime un’idea, un atteggiamento, la cui intenzione intima è orientata verso l’essenza storico-sociale dell’hitlerismo incombente ed è oggettivamente parte della preparazione di quest’ultimo. Il fatto che George abbia forse salutato un fascismo aristocratico alla Mosley e rifiutato solo l’aspetto ordinario delle forme fenomeniche tedesche non può diminuire la sua responsabilità, in quanto il generale, nel senso in cui lo intendiamo noi, dell’hitlerismo è, in tutti i fenomeni piccolo-borghesi, un aristocraticismo irrazionalistico, una generalizzazione dell’intenzione più profonda di George.

Non è naturalmente necessario che questa generalità acquisti una forma così chiara solo nel corso della storia. Può essersi già delineata nel corso dello sviluppo sociale fino a questo momento. Si pensi ancora una volta all’esempio del deposito di Kant. Simmel l’ha criticato in questi termini: se l’individuo che lo sottrae nega in generale la proprietà privata, l’argomentazione di Kant perde il suo fondamento. Io credo che qui Simmel non colga il reale senso profondo di Kant. Egli è rispetto a Hegel nel torto quando chiarisce che la sua sottrazione contraddice logicamente il concetto oggettivo di deposito; ma l’intenzione – nel senso stabilito sopra – di colui che se ne appropria contiene un’affermazione della proprietà privata e, insieme, del deposito e fa emergere quindi una contraddizione etica.

Proprio queste analisi delle conseguenze dimostrano che Hegel ha rigettato con buone ragioni entrambe le concezioni etiche, unilaterali ed estreme. Infatti, la responsabilità etica deriva da una particolare sintesi che unifica in sé tanto l’intenzione quanto la conseguenza, ma in un modo che le supera e le modifica entrambe. L’idea che così ne deriva si rafforza ancora se riflettiamo sul momento soggettivo della determinazione hegeliana trattata sopra: sulla conoscenza (della generalità). Che cosa conosciamo e come? Non si tratta nemmeno, in questo caso, di un concetto di imputazione astrattamente giuridico, come forse nella cura previdente del diligens pater familias. La conoscenza appartiene da un lato alla vita storico-sociale, è dunque momento di un processo; dall’altro non è identica alla previsione delle conseguenze attese nel momento dell’azione. Ciò è impossibile già per il fatto che l’oggetto di questa conoscenza è il generale già trattato. Se però, d’altro canto, vogliamo prendere in considerazione la dialettica soggettiva strettamente collegata con questa dialettica oggettiva, dalla quale deriva, dobbiamo tener conto del fatto che è possibile prevedere il corso della storia – e anche questo soltanto col marxismo – solo in modo molto generale. Dietro l’espressione hegeliana, che suona forse mitologica, dell’«astuzia della ragione», vi è il fatto indiscutibile della vita storico-sociale: che, cioè, le conseguenze delle azioni umane – siano esse individuali o collettive – non corrispondono alle intenzioni, che esse vanno qualitativamente oltre queste ultime.

Se questo è giusto – e si tratta di un fatto fondamentale dell’essere umano – quale senso può ancora avere il «conoscere» hegeliano? Noi crediamo che proprio in questo si esprime il giusto significato etico del generale. Se le conseguenze fossero esattamente prevedibili – per un intelletto addestrato a tale scopo –, l’agire sociale diventerebbe qualcosa di meramente tecnico. La responsabilità per il sì o per il no riguarderebbe un semplice calcolo e non necessiterebbe di un’analisi etica, proprio come l’ingegnere è responsabile del fatto che il ponte non crolli. Ciò che viene affermato o negato è tuttavia un generale più o meno determinato, ma in ogni caso concreto; ad esempio, i seguaci o gli oppositori della Rivoluzione francese non sapevano, e non potevano sapere, che favorivano o ostacolavano oggettivamente il sorgere del capitalismo francese. Per la loro responsabilità etica, questa conoscenza a posteriori non entra nemmeno in discussione.

L’«astuzia della ragione» determina dunque un orizzonte – storicamente diversificato – ma sempre ampiamente definito, nel cui ambito si può parlare di responsabilità in senso etico. In questo ambito di vita essa tuttavia sussiste e l’individuo non vi si può sottrarre. Certo, possono sopravvenire circostanze che provocano un pentimento, un cambiamento, ma neanche ciò può cancellare completamente la responsabilità precedente. I girondini a partire da un dato momento hanno combattuto contro i giacobini, ma una tale svolta non poteva annullare la loro corresponsabilità per tutto ciò che era accaduto fino a quel momento. Proprio l’accanimento con cui gli apostati lottavano contro coloro che erano stati loro compagni di ideali dimostra come questa struttura sia profondamente ancorata all’essenza dell’uomo.

Il medesimo stato di cose emerge, in maniera forse ancora più chiara, se tentiamo di chiarire ulteriormente l’essenza etico-sociale dell’agire. Finora abbiamo parlato solo di quella responsabilità che si lega ai fatti concreti degli uomini. Il concetto sociale di agire ha però anche un’altra dimensione. Nessun atto umano si esaurisce, infatti, in un ambiente sociale esattamente determinabile, ma è nel contempo e inseparabilmente, nei limiti in cui si riconnette alla vita pubblica, un momento che favorisce e ostacola un processo sociale. Da ciò consegue che il concetto di neutralità, dell’astenersi dall’agire qui non ha senso; sotto questo aspetto, anche il non agire è un agire che – in relazione alla responsabilità – non si differenzia, in linea di principio, dall’agire attivo vero e proprio. Hegel ha formulato in maniera molto plastica questa costellazione nella Fenomenologia: «Innocente è quindi soltanto il non operare come l’essere, non di un fanciullo, ma addirittura di una pietra». Questo vuol dire che l’astenersi dall’agire implica sempre un’accettazione o una negazione di quella situazione, struttura, istituzione, ecc., ciò che di solito in un’azione attiva, orientata positivamente o negativamente, forma il nocciolo dell’intenzione.

Vi sono qui naturalmente differenziazioni, che possono perfino avvicinarsi a zero, se l’azione in questione ha un carattere prevalentemente privato. (Va qui notato di passaggio che una simile dialettica si ha anche nella vita privata, solo che oggetto dell’intenzione sono gli individui singoli). Naturalmente, le situazioni che la vita sociale produce sono, proprio sotto questo aspetto, enormemente diverse. E questo già in relazione alla semplice possibilità del non agire; se, ad esempio, scioperano le maestranze di una fabbrica, vi è oggettivamente solo un sì o un no; l’«astensione» è qui semplicemente identica al no. Ma anche là dove la situazione, considerata in astratto, consente molto bene una neutralità, questa ha comunque, a seconda dello stadio dello sviluppo storico, una convergenza sull’accettazione o sul rifiuto della generalità in questione e questa tendenza si fa strada o si blocca a seconda della situazione storica. Il giovane Hegel si richiama al fatto che ad Atene, all’epoca delle rivolte, era stata pronunciata la sentenza di morte contro gli «apragmosini politici» e prosegue, nella direzione delle nostre considerazioni iniziali: «l’apragmosina filosofica, per sé [non disposta] a scegliere un partito, è per se stessa carica di morte per la ragione speculativa». Per lo stadio attuale della nostra ricerca, da ciò consegue, in primo luogo, che per quel che riguarda la responsabilità, tutti questi modi di comportamento devono essere straordinariamente differenziati anche a seconda dell’individualità, della sua situazione sociale, ecc. Può variare profondamente non solo il reale giudizio degli individui, ma – ciò che è più importante – anche la possibilità oggettiva della conoscenza di quella generalità che è in ultima analisi alla base dell’intenzione espressa nell’azione. L’espressione di Cristo «non sanno ciò che fanno» indica qui un polo [della questione], mentre l’espressione hegeliana citata sopra sull’apragmosina politica e filosofica indica l’altro.

Tuttavia, la differenziazione storica procede ancora oltre. Si pensi alla nostra conoscenza attuale circa la mancanza di sbocchi economici dell’economia schiavistica antica. È chiaro che dobbiamo, di conseguenza, giudicare le utopie reazionarie dell’antichità in maniera storicamente diversa da quelle dell’epoca moderna, con le prospettive oggettive dell’economia capitalistica che si allargano; dunque Platone diversamente da De Maistre. Sebbene in nessuno dei due casi potesse essere presente questa idea né su un piano oggettivamente sociale, né su quello soggettivo personale, resta tuttavia aperta la questione se essa non sia stata attiva, e non in maniera latente-immanente, in ciò che sin qui abbiamo chiamato intenzione dell’azione. Perfino in un consenso condizionato la responsabilità dovrebbe essere formulata diversamente. Oppure, prendiamo l’esempio del don Chisciotte. La inevitabile comicità delle sue azioni, che scaturisce dalla sua convinzione più pura, rinvia a una tale ignoranza oggettiva della generalità che è impossibile trascurarla completamente nell’analisi della responsabilità.

Tutto questo deve circoscrivere semplicemente l’ambito della problematica che sorge a questo punto e non vuole affatto significare che si pretenda di elencare anche solo le possibilità tipiche più importanti e, ancora meno, di trattarle concretamente.

Ma già questo quadro astratto rinvia a tratti essenziali del modo etico di trattare la responsabilità. Vediamo che la storia crea per l’etica un Giano bifronte di continuità e cambiamento qualitativo della struttura. Prendere in considerazione soltanto il secondo momento potrebbe portare facilmente a un relativismo storico. Solo nella inseparabilità dialettica dal primo – e quindi dalla continuità dell’eredità etica, dei valori etici – può sorgere quell’assoluto etico, i cui tratti essenziali sono da un lato una contraddittorietà dialettica (quindi, all’opposto di Kant: il conflitto dei doveri, il conflitto all’interno della responsabilità come uno dei punti centrali dell’etica); e, dall’altro, un assoluto che contiene in sé sempre la relatività storico-sociale come momento superato e da superare. Una trattazione soddisfacente di un problema quale il conflitto Antigone-Creonte ci sembra altrimenti impossibile. E anche a un livello più generale della connessione e del conflitto nella trasformazione storica del bourgeois e del citoyen, incontriamo la stessa connessione, la quale può essere chiarita solo mediante il riferimento dialettico reciproco e il superamento reciproco di continuità e trasformazione qualitativa e strutturale.

3. Crediamo: con l’entrata in scena del marxismo tutte le questioni qui trattate, che riguardano la responsabilità, si pongono in una luce nuova. Sembra dunque opportuno discutere brevemente almeno i principi più generali della nuova impostazione. Cominciamo con una delimitazione negativa: la dissoluzione, divenuta necessaria e di cui abbiamo parlato finora, delle due polarizzazioni unilaterali dell’etica non è una proprietà distintiva del marxismo. La si trova – sia pure in termini contenutistici e metodologici diversi – in Aristotele, nella Scolastica, in Hegel; il marxismo dà a questa tendenza solo un accento nuovo. In quanto detto finora, abbiamo mostrato che qualunque sia il punto di partenza ideologico e metodologico dell’etica, le sue sintesi sfociano sempre necessariamente nello sviluppo storico-sociale dell’umanità. Fra atto etico, convinzione etica e responsabilità da un lato, e destino sociale dall’altro, vi è dunque una connessione che, sia pure complessa e mediata, è tuttavia ineliminabile. L’elemento comune a ogni etica premarxista è tuttavia che in questa relazione reciproca le tendenze etiche che privilegiano l’individuo detengono il primato su quelle sociali. Anche quando i singoli sistemi sono contrapposti sotto tutti gli altri aspetti – pensiamo semplicemente a Platone e a Epicuro –, su quest’unica questione regna tuttavia un accordo generale. E nemmeno eventi così violenti come la grande Rivoluzione francese sono riusciti a smuovere completamente tale convinzione. Si può tutt’al più notare in alcune rappresentazioni pessimistiche, come le lettere estetiche di Schiller, una ritirata appena accennata. Resta comunque predominante l’etica dell’individuo, sia pure in una relazione più o meno conseguente col suo destino sociale.

Si esprime qui una grande idea: l’uomo, in quanto creatore responsabile del suo proprio destino, determina così il destino dell’umanità, di quel tipo di uomo che diventa predominante. Molte tendenze significative dell’etica concentrano le forze essenziali nell’elaborazione dei tratti fondamentali di quei tipi che sono adatti a condurre l’umanità sulla strada giusta. È sufficiente richiamare qui: l’antico saggio, il suo ritorno sotto diversa forma nel sage dell’Illuminismo, la dottrina dei discepoli di Cristo. (Anticipando ciò che sarà detto più oltre, emerge già qui almeno un lato del nostro problema specifico. La questione non è, infatti, che il filosofo in certi casi si assuma una particolare responsabilità per la dimostrazione sociale del tipo da lui indicato come modello). Solo per accennare alla ricchezza dei problemi che qui sorgono, si pensi al dramma di Tolstoj La luce nelle tenebre.

Ritorniamo al tema specifico: il marxismo ha una posizione radicalmente nuova proprio sulla questione del primato: in breve, è lo sviluppo sociale, più precisamente lo sviluppo delle forze produttive, che crea gli uomini ad esso necessari. Poiché, sin da quando il marxismo è sorto, si è sentito ripetere l’obiezione che non ha un’etica e che sostituisce questa con l’economia o la sociologia, vogliamo inserire qui alcune note chiarificatrici. Prima di tutto: non si può scambiare il principio sociale del marxismo con nessuna delle teorie del milieu sociale, ecc. Queste rispecchiano la cosificazione delle relazioni umane nel capitalismo e le fanno irrigidire concettualmente molto oltre il modello; contrappongono perciò l’individuo (l’uomo) a un ambiente codificato soggetto a una legalità propria, estranea all’uomo, inumana. Le leggi dell’economia e quelle della società sono certo anche per il marxismo leggi oggettive, cioè tali che funzionano indipendentemente dalla coscienza conoscente. Però non è un’oggettività estranea all’uomo a costituire l’oggetto e il sostrato dell’economia, bensì solo e soltanto il sistema (e il mutamento) delle relazioni fra gli uomini, le cui leggi essi – considerati individualmente – non hanno creato, ma che possono essere poste esclusivamente mediante il loro agire, le loro influenze reciproche, il loro influsso individuale e comune sulla natura in movimento. Nel marxismo viene dunque elaborata per la prima volta in maniera coerente l’idea che economia, società, storia non sono altro che lo sviluppo del sistema delle relazioni umane, che le leggi oggettive specifiche che in esse sorgono – d’altronde complicate e largamente mediate – sono sintesi delle azioni umane. Ciò che in Hegel appare ancora in forme mitologiche, acquista qui un’oggettività scientifica.

Questa presentazione sommaria, piuttosto unilaterale, deve semplicemente servire a dare una prospettiva ai problemi dell’etica e prima di tutto, naturalmente, a quelli che riguardano la responsabilità. Se dianzi abbiamo definito una grande idea la considerazione che l’uomo è il creatore del suo proprio destino, il marxismo diventa sotto questo rispetto la concretizzazione e il coronamento dello sviluppo dell’etica fino a questo momento. Infatti, la tesi secondo cui l’uomo crea se stesso viene condotta fuori dalla concezione idealistica hegeliana solo dal materialismo dialettico: il lavoro, in cui l’uomo diventa uomo, fa di se stesso un uomo, può acquistare un significato universale solo quando venga considerato alla lettera come lavoro fisico (che è nello stesso tempo anche spirituale, il demiurgo della spiritualità), se dunque dall’ontologia dell’uomo sparisce ogni trascendenza sovrumana.

Non è oggetto della nostra ricerca approfondire una concezione immanente del mondo. Sia consentita solo un’osservazione: che in questo modo anche dal concetto etico di responsabilità viene eliminato altrettanto radicalmente ogni rinvio a elementi trascendenti – abbiano questi il carattere di un essere trascendente, come in molte religioni, o quello di un postulato trascendente come in Kant. Questa negazione si trasforma però qui in un’affermazione concreta: il rifiuto di ogni al di là non fa ricadere su un’individualità isolata né conoscenza, né coscienza, come nel vecchio materialismo, ma, all’opposto, stabilisce un’unione intima, anche se certamente contraddittoria e alquanto mediata, fra l’uomo in quanto personalità e in quanto ente generico; e qui è da notare che per il marxismo il genere è un concetto non soltanto biologico-antropologico, ma anche, e soprattutto, storico-sociale. Non si deve dunque costruire un ponte complicato – come in ogni etica idealistica – su un dualismo autocreato; l’unità dialettica delle tensioni è, piuttosto, data naturalmente e socialmente. «L’individuo è – dice Marx – l’essenza sociale (…) La vita individuale e quella generica dell’uomo non sono distinte». Solo la loro forma relativa di realizzazione, la dialettica dell’unità delle contraddizioni si trasforma costantemente nel corso dello sviluppo storico-sociale. Il fondamento di questa unità, che si ottiene e si riproduce continuamente nel mutamento, è il lavoro. Dice Marx: «L’oggetto del lavoro è (…) l’oggettivazione della vita generica dell’uomo».

Questa immanenza in tutto ciò che riguarda l’uomo, la stringente necessità oggettiva in tutto ciò che segue dalle leggi di movimento delle relazioni umane, sono state molto spesso equivocate come fatalismo e, perciò, come esclusione dell’etica dal sistema del marxismo. Le due cose sono connesse e sono facilmente confutabili. Anche chi conosce Marx solo superficialmente deve sapere che nella sua economia le leggi si trasformano continuamente in tendenze, che esse in casi decisivi delimitano solo uno spazio oggettivo all’interno del quale l’azione umana prende la decisione. Si pensi alla definizione della giornata lavorativa. Marx mostra le tendenze capitalistiche che spingono verso il massimo e quelle proletarie che aspirano al minimo, un’antinomia i cui due termini «vengono entrambi stabiliti allo stesso modo dalla legge dello scambio delle merci». È dunque la lotta fra capitalista complessivo e operaio complessivo che decide sulla giornata lavorativa.

Non si dica che qui si tratta solo di categorie «sociologiche»; una tale affermazione non tiene, infatti, in nessun conto l’essenza della cosa: che, secondo la concezione di Marx, il sociale non è altro che una determinazione precisa dell’uomo stesso, della sua relazione con gli altri uomini. Capitalista complessivo e operaio complessivo sono dunque qui solo sintesi sociale; in realtà, si tratta del fare e del tralasciare degli uomini, i quali, nella grandezza come nella miseria, fanno la propria storia, però «non in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinata dai fatti e dalla tradizione». Per quanto le leggi dell’economia, le mediazioni fra individuo e ente generico possano essere così molteplici e mediate, la struttura indicata sopra di uno spazio concreto – entro il cui ambito concreto vengono prese dall’uomo decisioni concrete – di un’antinomia concreta che lo induce a una scelta responsabile, continua a sussistere per la totalità della vita umana.

Non possiamo qui naturalmente nemmeno accennare a tutta la ricchezza delle determinazioni che così sorgono. Basti solo ricordare il fatto che Marx, per l’individuo, concepisce perfino l’appartenenza di classe, che l’idea fondamentale di Lenin, per quel che riguarda la concezione del partito e di altre organizzazioni sociali, negli aspetti decisivi, prende questa direzione. Se noi dunque concludiamo la nostra breve panoramica con l’accenno alla relazione del marxismo con l’utopia, lo facciamo prima di tutto per mettere in luce in maniera ancora più chiara di quanto sia stato fatto finora la sua essenza determinante per l’etica. Il rifiuto dell’utopismo ha qui due momenti importanti. Il primo contesta al marxismo la possibilità di una predeterminazione utopica di quelle concrete forme di società che sono chiamate a sciogliere le contraddizioni di una formazione sociale. Proprio perché qui, per la prima volta, sta al centro la conoscibilità scientifica delle leggi e della tendenza di sviluppo della vita sociale, viene sottolineato con forza il suo carattere di approssimazione, la sua riduzione ai principi della linea evolutiva. Lenin rifiutò, perché metodologicamente impossibile, l’ideale conoscitivo di Bucharin, di una sociologia capace di fare previsioni «astronomicamente esatte». In secondo luogo, questo rifiuto teoretico-conoscitivo dell’utopismo è collegato con i processi di pensiero che, attraverso la mediazione della concezione generale della storia, sfociano nei problemi dell’etica. L’utopia come forma pone uno stadio già pronto, i cui contenuti e le cui forme devono garantire la convivenza armonica degli uomini, la quale – in qualche modo sempre – agli uomini, in quanto singoli e in quanto genere umano totale, piove dal cielo. Al contrario, il marxismo sottolinea, anche per il futuro, che gli uomini fanno da sé la loro storia, che essi e il sistema di riferimento ai loro simili sono il risultato della loro propria attività, che tutti i contenuti e le forme del futuro si sono sviluppate e si svilupperanno dal concreto fieri dell’umanità, indipendentemente dal fatto che questo avvenga con falsa o giusta coscienza. La giusta coscienza del socialismo fondato da Marx è dunque, prima di tutto, quella della giusta strada: dello scopo nei suoi principi generali, dei rispettivi mezzi nella loro particolare, spesso mutevole specificità, dei passi successivi nella loro particolarità. Che da qui seguano differenziazioni specifiche della responsabilità lo si può vedere – crediamo – già da questo brevissimo schizzo. La teoria della conoscenza del marxismo, secondo cui la prassi fornisce il criterio della teoria, ha conseguenze profonde anche per l’etica (supera, in un certo senso, il dualismo di ragion «pura» e ragion «pratica»).

Non è questo il luogo per trattare dell’influsso del marxismo sul pensiero filosofico. Esso è molto più forte di quanto di solito si supponga ufficialmente; se, infatti, la polemica impone a una filosofia una determinata struttura nell’impostazione dei problemi, uno spettro di posizioni, uno svuotamento della concezione dell’uomo che non porta a nulla, allora è presente un influsso, proprio come nel caso di filiazioni che tendono a sminuirlo. Inoltre, determinate analogie sorgono anche dal fatto che il marxismo, come molte altre correnti, è una reazione alla crisi dell’umanità iniziatasi nella metà del XIX secolo. In tali casi, possono sorgere parallelismi metodologici nella domanda e nella risposta, anche nella totale contrapposizione delle direzioni. Quanto più acuta diventa questa crisi, quanto più chiaramente si delineano le divergenze, tanto più fortemente tali tendenze possono giungere a espressione.

4. Tralasciamo la storia dello sviluppo del marxismo con i suoi molteplici punti di svolta, per riuscire a concretizzare il problema che ci siamo posti partendo dalla situazione del presente, dalle decisioni di cui essa ci fa carico, dalla responsabilità che queste ultime comportano.

Considerato dal punto di vista della nostra questione, neanche il marxismo è lo stesso di un secolo fa. Proprio a partire da questa distanza, non è la stessa cosa se si tratta di un piccolo gruppo, spesso illegale, di un partito di massa nel capitalismo, di un partito dominante della lotta per il socialismo in un paese minacciato da un intervento armato, ecc. Il presente è certamente il risultato di tutta questa storia. Esso contiene però – crediamo – anche qualcosa di qualitativamente nuovo. Bisogna perciò prima di tutto domandarsi: l’attuale situazione dell’umanità contiene effettivamente momenti che si possono con ragione considerare realmente nuovi nella storia? Giacché, altrimenti, il problema dovrebbe essere riferito primariamente alla generalità della storia e solo determinate applicazioni contenutistiche designerebbero l’esigenza del giorno. Mentre, a nostro avviso, si tratta di molto di più: che il problema dell’oggi si fonda naturalmente sui risultati della storia, è accresciuto da questi.

In che cosa consiste il nuovo per un agire responsabile ai nostri giorni? Cominciamo con lo sviluppo della tecnica: durante le due guerre mondiali essa ha imposto una crescente totalizzazione della strategia di guerra. È superfluo parlare del suo ulteriore sviluppo dopo il 1945. È noto che, con l’entrata nell’epoca atomica, si è affermata sempre più a livello di massa la sensazione della decadenza della cultura umana. Non senza fondamento oggettivo. Certo, a livello politico è spesso al servizio di un dominio imperialistico del mondo, a livello ideologico si mescola altrettanto spesso con gli accenti fatalistici secondo cui la tecnicizzazione è già andata molto in là nel controllo dell’umanità e la «massificazione», altrettanto fatale, costituisce il tratto fondamentale della vita sociale della nostra epoca. Questa tendenza è stata ancora più rafforzata da un’altra caratteristica essenziale della guerra divenuta totale. Mentre ancora la prima guerra mondiale scoppiò cogliendo di sorpresa l’opinione pubblica, ora la guerra ha bisogno di un’ampia preparazione ideologica di tutte le masse. È allora un contrassegno importante del nostro tempo che la propaganda ideologica dell’annientamento fatale inevitabile si sia trasformata in una rivolta senza precedenti contro tale fatalità. Centinaia di milioni credono ormai fermamente che lo scoppio della guerra si possa evitare, che il raggiungimento di tale obiettivo dipenda dall’attività delle masse – e quindi degli individui che le compongono. E queste non sono cieche speranze, illusioni infondate. Si tratta piuttosto di un prodotto di importanti eventi storico-mondiali. Sarà sufficiente elencare semplicemente i più rilevanti: il superamento del socialismo in un solo paese, costantemente minacciato, e la formazione di Stati socialisti con una popolazione di 800 milioni di persone; la lotta di liberazione dei popoli coloniali che trasforma una riserva materiale e umana esclusiva dell’imperialismo aggressivo in una zona potenzialmente neutra. La volontà sempre più determinata e consapevole delle masse a conquistare la pace poteva crescere solo su questo terreno; il suo rafforzamento retroagisce, tuttavia, sul solidificarsi di tali condizioni.

Viene così disegnato – crediamo – lo spazio storico e delineato l’ambito reale per esprimere chiaramente il problema della specifica responsabilità sociale oggi. Il contenuto centrale ci è già divenuto chiaro: è la responsabilità della guerra o della pace. Ciò che prima era la responsabilità di una cerchia relativamente ristretta, ora è diventata una questione dell’umanità. Soprattutto nell’epoca moderna, le masse sono diventate sempre più semplici oggetti della guerra. A partire dal contromovimento, il pacifismo ha annunciato una pura etica dell’intenzione: il rifiuto individuale di ogni partecipazione ad esso ha l’accento di un modello, di un comportamento intenzionalmente imitativo. Poiché, tuttavia, la struttura ideologica scaturisce da azioni individuali – e passive – ed è esclusivamente da ciò spinta a scatenare una reazione a catena, e poiché il rifiuto generalmente astratto della guerra elimina ogni concretezza sociale, dall’etica dell’intenzione sorge necessariamente un utopismo. Il tipo di comportamento socialista rivoluzionario (trasformazione della guerra imperialistica in una guerra borghese) pone certamente il problema storico-sociale in termini affatto concreti; contiene la negazione della guerra concepita in termini determinati e concreti e carica l’individuo che agisce di una grande responsabilità: egli non deve fermarsi alla semplice negazione e alle conseguenze che ne derivano per il suo proprio destino, ma porta una responsabilità anche per il mezzo a cui ricorre nella sua mediazione e per il risultato degli atti compiuti. Già queste linee molto generali mostrano la complicata dialettica nell’agire sociale concreto. La responsabilità primaria decisiva è per la deliberazione stessa: nella decisione qui presa viene infatti negato un determinato fenomeno storico-sociale, la guerra imperialistica. La responsabilità della deliberazione contiene dunque già la responsabilità per la giustezza del giudizio che vi è sotteso. Inoltre, il no qui espresso non è più una negatività astratta come nel pacifismo; esso contiene in maniera inseparabile un controstrumento sociale, il dovere di suscitare un contropotere sociale di opposizione alla guerra. La responsabilità si allarga e si concretizza dunque anche qui a partire dal contenuto sociale del movimento di opposizione da porre in moto. Infine, poiché suscitare un agire sociale concreto di quanti più uomini possibile è lo scopo posto, i mezzi impiegati, il destino degli uomini che vi prendono parte sono allo stesso modo oggetto di responsabilità.

*Così nel testo. (N.d.T.)

Grand Hotel «Abisso»

20 sabato Feb 2016

Posted by nemo in I testi, Traduzioni italiane

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di György Lukács

[Grand Hotel „Abgrund”, Világosság, no.8/9, 1977, p.572-79; trad. it. in La responsabilità sociale del filosofo, a c. di V. Franco, Pacini Fazzi, Lucca 1989]

Si ringrazia Toni Infranca per aver messo a disposizione questo testo.


Hans de Bruijn - Hotel Abgrund

Hans de Bruijn – Hotel Abgrund


Infine, nei periodi in cui la lotta di classe si avvicina al momento decisivo, il processo di dissolvimento in seno alla classe dominante, in seno a tutta la vecchia società, assume un carattere così violento, così aspro, che una piccola parte della classe dominante si stacca da essa per unirsi alla classe rivoluzionaria, a quella classe che ha l’avvenire nelle sue mani. Perciò, come già un tempo una parte della nobiltà passò alla borghesia, così ora una parte della borghesia passa al proletariato, e segnatamente una parte degli ideologi borghesi che sono giunti a comprendere teoricamente il movimento storico nel suo insieme.

K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito Comunista.

Hell wogt der saal vom spiel der seidnen suppen.
Doch eine berg ihr fieber unterm mehlle
Und sah umwirbelt von den tollen gruppen
Dass nicht mehr viel am aschermittwoch fehle.

Sie schleicht hinaus zum öden park, zum flachen
Gestade. winkt noch kurz dem mummenschanze
Und beugt sich frostelns übers eis. ein krachen
Dann stumme kälte, fern der ruf zum tanze.

Keins von der artigen rittern oder damen
Ward sie gewahr bedeckt mit tang und kieseln.
Doch als im frühling sie zum garten kamen
Erhob sich oft vom teich ein dumpfes rieseln.

Die leichte schar aus scherzendem jahrundert
Vernahm wohl dass es drunten seltsam raune.
Nur hat sie sich nicht sehr darob gewundert
Sie hielt es einfach für der wellen laune.

S. George, Die Maske1

L’accostamento di queste due citazioni sorprenderà sicuramente la maggior parte dei lettori. In effetti, esse possono andare insieme solo in quanto sono entrambe espressione chiara e pregnante dei due poli del movimento di dissoluzione ideologica di una classe dominante in un periodo di crisi rivoluzionaria. L’intellighenzia, cioè quello strato della società che a causa della divisione sociale del lavoro fa della produzione e della propaganda ideologica un’occupazione di vita, il fondamento materiale e spirituale della propria esistenza, reagisce con straordinaria prontezza e sensibilità a tutte le svolte che si compiono nella realtà materiale della società. Ma proprio perché fa della produzione della ideologia la sua massima occupazione, all’interno della società di classe essa reagisce sempre con una falsa coscienza; e tanto più è falsa quanto più è sviluppata la divisione sociale del lavoro, quanto più è avanzata la dissoluzione materiale della classe dominante. La divisione sociale del lavoro comporta necessariamente che gli ideologi si ricolleghino sempre alle ideologie immediatamente precedenti o contemporanee, che la loro critica del presente si compia nella forma di una critica delle ideologie presenti e passate. E nella maggior parte dei casi non è una faccenda semplicemente formale. Il produttore borghese di ideologie, proprio in ragione delle necessità materiali della sua situazione sociale, è vissuto nell’illusione che le trasformazioni sociali siano nella loro essenza trasformazioni ideologiche e che, in ultima analisi, vengano da queste provocate. Da questa illusione deriva anche la sua credenza del ruolo guida, a livello sociale, dello strato a cui appartiene. Dalla contraddizione tra questa illusione e la situazione materiale del suo sorgere e della sua esistenza deriva una delle cause più importanti delle oscillazioni di questa intellighenzia. Reagendo ai rapidi alti e bassi dello sviluppo economico, della lotta tra le classi decisive della società – la borghesia e il proletariato – con straordinaria rapidità e violenza, e tuttavia con più o meno falsa coscienza, essa da un lato rispecchia l’oscillazione della piccola borghesia tra rivoluzione e controrivoluzione e le dà una forma ideologica, dall’altro però, nella sua produzione ideologica esprime – almeno in parte – la propria situazione specifica nella lotta di classe. La sua reazione immediata ai nuovi mutamenti, alle nuove tendenze, che la fa sempre andare avanti rispetto alla media della sua classe, le dà l’illusione di aver prodotto essa stessa tali tendenze. E come se si considerasse il termometro causa del freddo e del caldo o il barometro causa del buono e del cattivo tempo.

Questa situazione generale dei produttori di ideologia si inasprisce fortemente nel periodo di decadenza della loro classe. Sul piano economico, la decadenza è dovuta al fatto che i rapporti di produzione, e quindi anche l’intera sovrastruttura, sono divenuti le catene delle forze produttive che su di essi si erano sviluppate, al fatto che l’economia della classe sinora dominante è stata battuta da quella della classe che rappresenta il futuro. Sul piano ideologico, e specialmente nei produttori di ideologia, questa situazione si rispecchia nel fatto che essi sono costretti a riflettere profondamente sull’ideologia della classe rivoluzionaria, ad assumere elementi di quest’ultima nella propria e quindi a ricostruirla come se fossero loro a realizzare l’aspirazione progressiva della società. Quanto più è avanzato il processo di decadimento di una classe, tanto meno essa è disposta a sostenere e spesso a difendere la propria ideologia originaria, un tempo rivoluzionaria. La classe non crede più nel carattere progressivo dei suoi fondamenti economici e perciò crollano anche le sue precedenti categorie ideologiche fondamentali. E ovvio che essa continui a difendere fino all’ultimo sangue la sua vecchia economia, il suo antico metodo di sfruttamento. Ma la difesa più brutale e cinica dello sfruttamento può compiersi solo nella forma demagogica dell’occultamento, del mascheramento delle sue forme mediante qualcosa di completamente opposto. I produttori di ideologia, che rispecchiano sul piano ideologico questo processo spontaneo, dal punto di vista soggettivo spesso in maniera del tutto onesta, rendono anche – spesso involontariamente – i più grandi servizi al mantenimento di forme sclerotizzate di sfruttamento e di dominio. Mutuando gli elementi della critica della società dall’ideologia della classe rivoluzionaria, diventano da un lato strumento della demagogia della classe dominante e dall’altro ricadono anch’essi nell’illusione generale, tipica della piccola borghesia, di stare non in mezzo alle classi decisive, bensì al di sopra di tutte le classi sociali.

Questo processo di decadenza produce necessariamente un’ideologia pessimistica, disperante. La disperazione è, infatti, in questi ideologi particolarmente forte e si sviluppa talvolta addirittura prima che ne emergano in tutta la loro chiarezza e ampiezza le cause economiche. Essa spinge la parte più onesta di loro a tentare di staccarsi dall’ideologia della classe di origine. E però il loro essere sociale rende questo processo di separazione assai complicato, ineguale e contraddittorio. Il partire dall’ideologia, l’arrestarsi ai problemi ideologici, rende straordinariamente difficile proprio per degli ideologi una cosa in sé molto semplice: la chiara individuazione del punto essenziale della lotta di classe, della divisione fra le classi, della rivoluzione e della controrivoluzione: la questione dello sfruttamento. E fin quando non si sarà trovato questo punto archimedico, essi sono per forza soggetti a una continua oscillazione. Se per ideologi quali Bernard Shaw e Upton Sinclair, che avevano sempre fatto professione di fede socialista e che per un certo tempo si erano anche mossi decisamente nell’ambito del pensiero socialista, fu possibile essere impressionati il primo dal «socialismo» di Mussolini e di Hitler, il secondo da quello di Roosvelt, diventa chiaro come l’oscillazione, lo zig-zag tra rivoluzione e controrivoluzione, dovesse essere molto più impetuosa e ampia in ideologici meno coscienti, in quelli che si sono occupati ancora meno dei problemi economici del presente e che più si sono arrestati alla mera ideologia. E quanto più profonda diventa la crisi del sistema capitalistico, quanto più fortemente emerge la barbarie delle forme fasciste di mantenimento dello sfruttamento capitalistico, tanto maggiore deve divenire la disperazione di quegli ideologi che non vogliono prestarsi a diventare sicofanti di un sistema fascista e che però non riescono a decidersi a compiere il salto vitale2 dalla parte della classe rivoluzionaria.

Salto vitale e disperazione totale sono evidentemente poli estremi che, proprio per questo, si verificano relativamente di rado nella realtà. Tra di essi vi è il movimento degli intellettuali nelle forme più diverse della disgregazione, dell’autocritica, del restare saldamente aggrappati alle svuotate ideologie del passato della loro classe (la democrazia borghese), dell’autostordimento e dell’autoinganno mediante immagini mitiche, ecc. L’approfondirsi della crisi generale del capitalismo, la crescente energia della lotta di classe proletaria e quindi la maggiore diffusione dell’ideologia rivoluzionaria mediante soprattutto l’esempio luminoso dell’emergente società senza classi in Unione sovietica, agiscono con forza crescente all’interno di questo sviluppo ineguale nella direzione di avvicinare gli elementi migliori dell’intellighenzia alla lotta di classe rivoluzionaria del proletariato, di farne un suo alleato. Significherebbe tuttavia disconoscere la situazione sociale oggettiva degli ideologi pensare che questo processo di disgregazione dell’ideologia borghese avvicini spontaneamente, «da sé», automaticamente, l’intellighenzia al proletariato in lotta. No, questo sviluppo è molto ineguale, vi sono molte svolte e molte stazioni intermedie sulla strada che va dal distacco della borghesia al proletariato. E queste stazioni intermedie sono disposte in maniera tale da trattenere una parte dell’intellighenzia – in stato di disperazione cronica, sull’orlo dell’abisso –, da indurla ad arrestarsi; in maniera tale, cioè, che una parte di essa – nello stato di disperazione cronica, sull’orlo dell’abisso – si stabilisce qui e non vuole più procedere oltre.

Per meglio dire: ha il gesto di chi prosegue in maniera radicale, la presunzione – spesso sincera – di procedere in maniera radicale. Ma nei fatti gira continuamente su se stessa, nello stato di disperazione cronica sull’orlo dell’abisso.

Posizione e allestimento dell’Hotel

Si tratta qui della letteratura degli ideologi per gli ideologi. Quindi di una letteratura la cui influenza sulle masse è a-priori piuttosto improbabile e che si rivolge direttamente all’élite dell’intellighenzia. Questo suo carattere specifico non deve però indurci a minimizzare aprioristicamente la sua efficacia. E innanzitutto perché in certi casi è possibile che questi libri abbiano un effetto di massa. (Si pensi solo alla Montagna incantata di Thomas Mann, la cui tiratura in Germania ha superato il milione). In secondo luogo, essi possono avere un’influenza indiretta relativamente vasta e le idee che vi sono espresse, mediante la volgarizzazione su giornali, riviste, ecc., possono essere adattate e rese accessibili alla grande massa della piccola borghesia. Questa letteratura per l’élite intellettuale borghese è dunque parte di quei dispositivi di sicurezza ideologici che, si potrebbe dire, funzionano automaticamente e che la società borghese produce ininterrottamente. È evidente che la parte del leone dell’autodifesa ideologica della borghesia viene da essa prodotta coscientemente: la diffamazione del proletariato rivoluzionario e della sua teoria, il materialismo dialettico, le varie forme dell’apologetica dell’economia e dell’ideologia capitalistiche, la falsificazione delle conseguenze ideologiche delle scienze naturali in religione e dell’intera storia in leggende storiche reazionarie, ecc. vengono compiute da manovali ideologici più o meno ben pagati, a servizio della borghesia. È comunque chiaro che questi dispositivi di sicurezza, specialmente in periodi di crisi, non sono sufficienti ad impedire alla piccola borghesia e all’intellighenzia di staccarsi dal capitalismo. Si rendono perciò necessari metodi più raffinati, più mediati e complicati che la società capitalistica produce spontaneamente in virtù della sua divisione sociale del lavoro e che la borghesia sfrutta più o meno abilmente per il proprio scopo. In questo sfruttamento un appoggio diretto ed esplicito da parte della borghesia non è affatto necessario, anzi è talvolta persino dannoso. Non si tratta perciò di fare degli intellettuali dei seguaci troppo entusiasti dell’ordine sociale borghese, dei fanatici ammiratori della cultura attuale. Al contrario. Questa letteratura corrisponde in tutto agli scopi della borghesia quando, per suo tramite, a uno strato dell’intellighenzia, che in seguito agli effetti della crisi economica e culturale è divenuto un nemico e un denigratore della società attuale, viene impedito di tirare tutte le conseguenze pratiche di questa posizione. Questa parte degli intellettuali può dunque tranquillamente occupare un posto nell’opposizione radicale alla società e alla cultura.

Quando questa opposizione non è diretta al superamento dello sfruttamento, quando tutta la sua linea ideologica mira ad «approfondire» la critica e l’analisi della crisi culturale in maniera tale che in questa «profondità» scompaia completamente un fenomeno così «superficiale» come lo sfruttamento economico, allora una tale opposizione può essere molto ben accetta alla borghesia. E in certi casi lo è tanto più, perché maggiormente efficace, quanto più è radicale la linea che persegue.

Questa situazione non muta per il fatto che tali oppositori devono talvolta sopportare delle persecuzioni. È ben noto dalle grandi lotte di classe, quale importante ruolo svolgano nella conservazione del sistema capitalistico le manovre diversive delle opposizioni apparenti. Si pensi solo alla socialdemocrazia. Hitler o Dollfuss possono anche sciogliere l’organizzazione socialdemocratica e rinchiudere i suoi funzionari nei campi di concentramento, la socialdemocrazia resta pur sempre, in Germania o in Austria, il principale sostegno sociale della borghesia, proprio perché, col suo atteggiamento di opposizione solo apparente, ha frenato le masse lavoratrici nella loro lotta di classe realmente rivoluzionaria contro il sistema fascista; da qui la particolare pericolosità della «sinistra» socialdemocratica e delle sue frasi «rivoluzionarie». Ciò non significa che la letteratura che qui stiamo caratterizzando debba essere usata come parallelo meccanico della socialdemocrazia. I suoi esponenti migliori – solo con questi vale la pena di confrontarsi – sono critici e detrattori sinceramente convinti della cultura attuale e non corrotti impostori come i capi socialfascisti. Non si deve tuttavia dimenticare che nell’epoca imperialistica i confini tra l’opposizione ideologica più onesta sul terreno della borghesia e la corruzione diretta o indiretta ad opera del capitalismo sono talvolta molto fluidi e si presentano sotto varie forme intermedie difficilmente definibili. L’emergenza di un largo strato di intellettuali parassitari, la penetrazione del capitalismo in tutti i campi dell’industria dei mezzi di consumo e quindi, contemporaneamente, in tutti i campi della produzione materiale della cultura ha trasformato radicalmente la situazione materiale dei movimenti di opposizione borghesi. Mentre, nei periodi precedenti, gli ideologi di opposizione dovevano superare un lungo periodo di gavetta prima di riuscire a imporsi oppure a capitolare di fronte agli orientamenti dominanti o ad arrivare con questi a un compromesso, nell’epoca imperialistica molte correnti di opposizione vengono invece fin dall’inizio finanziate dal capitalismo, ricevono un anticipo materiale sulla loro validità futura, e talvolta può persino essere vantaggioso per un imprenditore capitalista finanziare le correnti di opposizione in letteratura o nell’arte, anche quando è molto probabile che la loro efficacia non vada al di là di una ristretta cerchia di intellettuali. Non si tratta del fatto che con ciò per le correnti di opposizione, in specie nell’ambito della letteratura e dell’arte, viene creato uno spazio di partecipazione più ampio e apparentemente più libero che nei periodi precedenti. Non vi è tuttavia dubbio che, proprio per questo, la libertà diviene più apparente che mai. Il che non va inteso, almeno in moltissimi casi, nel senso della corruzione diretta. La corruzione più raffinata e non intenzionale, la riduzione delle opposizioni ideologiche a parte costitutiva dell’intero sistema parassitario, nasce proprio da questa illusione di disporre di uno spazio più ampio di attività libera, dall’illusione, materialmente e moralmente certa, di poter esercitare una critica radicale e appassionata della situazione esistente. La corruzione raffinata e non intenzionale consiste proprio in questo, che la tendenza naturale dell’intellighenzia, dei produttori di ideologia, a limitare «aristocraticamente» la loro critica del presente all’ambito della mera ideologia riceve un sostegno invisibile, ma all’occorrenza assai brutale e tangibile. Il limite che in quest’ambito è invisibile e che separa il lecito dall’illecito, ciò che è sopportabile per la borghesia da ciò che non lo è, l’opposizione – oggettivamente – apparente dai veri rivoluzionari, diventa in questo modo il limite della tolleranza materiale da parte della borghesia, un problema di esistenza materiale di questo strato di intellettuali. E l’esperienza nel campo delle misure di repressione ideologica dei movimenti di opposizione dimostra che tali meccanismi materialmente consolidati di autocensura sono talvolta più raffinati e affidabili di una repressione diretta e brutale dell’espressione delle opinioni. Specialmente quando, all’interno di questi limiti invisibili, sono consentiti senza nessuna rappresaglia il radicalismo più rumoroso, la critica più ingrata della situazione esistente, il convincimento rivoluzionario più appassionato. Questo limite invisibile si allarga o si restringe a seconda del livello della lotta di classe. Ma è certo anche che questo movimento non procede meccanicamente in una direzione rettilinea. Nello sviluppo della borghesia vi sono periodi in cui la sua esistenza viene messa in pericolo, perciò il suo punto di vista è: «chi non è contro di me è con me», altri, come l’attuale fascismo in Germania, in cui questa parola d’ordine suona al contrario: «chi non è con me è contro di me». Tra questi due estremi, vi sono ovviamente numerosissimi e molteplici passaggi. E naturalmente è anche possibile, nonostante le rappresaglie, installare queste stazioni ideologiche di passaggio, queste organizzazioni di intercettazione. E oggi è anche possibile arredarle comodamente sia materialmente che spiritualmente. L’elemento decisivo e comune a questi stadi intermedi è proprio il limite invisibile che abbiamo sottolineato, e che in nessun caso può essere valicato, entro cui è tuttavia concesso il radicalismo più rumoroso e audace.

È questa la situazione sociale del Grand Hotel «Abisso». I problemi del capitalismo in dissoluzione diventano sempre più chiaramente insolubili. Strati sempre più vasti della parte migliore dell’intellighenzia non possono più nascondere a se stessi quest’incubo dell’insolubilità di quei problemi la cui soluzione è il loro specifico motivo di vita e le risposte ai quali costituiscono il fondamento materiale e spirituale della loro esistenza. Proprio la parte migliore e più seria di loro è giunta sino all’abisso della visione dell’insolubilità di questi problemi. All’abisso da cui scorge una doppia prospettiva: da una parte, l’irrimediabile vicolo cieco intellettuale, l’autosuperamento della propria esistenza intellettuale, la caduta nell’abisso della disperazione; dall’altra, il salto vitale nel campo del proletariato rivoluzionario, verso un futuro luminoso. Per gli ideologi questa scelta è in ogni caso straordinariamente difficile. Eppure, proprio loro, più di ogni altro strato sociale, dovrebbero trasformarsi spiritualmente in misura sempre maggiore, per essere in grado di compiere questo salto. Dovrebbero liberarsi di quell’illusione che è stata il prodotto necessario della loro situazione di classe e la base di tutta la loro Weltanschauung ed esistenza spirituale: l’illusione della priorità dell’ideologia rispetto all’elemento materiale, all’economico; dovrebbero abbandonare l’«aristocratica» altezza del modo in cui sinora hanno posto e risolto i problemi e imparare a vedere come il modo «brutale», «ordinario», «grossolano» di porre i problemi economici nella vita quotidiana costituisca l’unico punto fermo a partire dal quale i problemi finora considerati insolubili possono trovare una soluzione.

Il Grand Hotel «Abisso» è stato – involontariamente – creato per facilitare questo salto. Abbiamo già parlato dei comforts, certamente relativi, che può offrire ai suoi oppositori ideologici la borghesia parassitaria dell’epoca imperialistica. Ma il carattere relativo di questi comforts materiali, la loro modestia e incertezza rispetto a quelli che essa offre ai suoi manovali ideologici diretti sono elementi di comfort spirituale. Essi rafforzano l’illusione di indipendenza dalla borghesia e soprattutto di essere al di sopra delle classi, l’illusione del proprio eroismo, della propria abnegazione, di aver già rotto con la borghesia e la sua cultura, mentre si è ancora con tutti e due i piedi sul suo terreno! Il comfort spirituale dell’Hotel si concentra allora sulla stabilizzazione di questa illusione. In esso si vive nella più dissoluta libertà spirituale: tutto è permesso, niente si sottrae alla critica. Per ogni tipo di critica radicale – sempre all’interno dei limiti invisibili – viene creato uno spazio specifico. Se uno vuole fondare una setta per la soluzione ideologica brevettata di tutti i problemi culturali, gli sono messi a disposizione i relativi spazi per le riunioni. Se c’è un tipo «solitario» che, incompreso da tutti, cerca da solo la sua strada, riceve la sua stanza riservata ben arredata, in cui può vivere circondato da tutta la cultura del presente, sia egli «nel deserto» o nella «cella di un convento». Il Grand Hotel «Abisso» è accuratamente arredato per tutti i gusti e per tutte le tendenze. È lecita ogni forma di ubriacatura intellettuale, ma nel contempo anche ogni forma di ascetismo e di autoflagellazione, e non solo ciò è permesso, ma vi sono bar splendidamente attrezzati per i primi e attrezzature da ginnastica di eccellente produzione e camere di tortura per il bisogno dei secondi. Ci si preoccupa non solo della solitudine, ma anche della socievolezza di ogni tipo. Ognuno può essere testimone non visto dell’attività di tutti gli altri, ognuno può avere la soddisfazione di essere l’unica persona ragionevole, in una torre di Babele della follia generale. La danza macabra delle ideologie che si svolge in questo Hotel tutti i giorni e tutte le sere diventa, per i suoi abitanti, una piacevole ed eccitante jazz band, in cui trovano ristoro dopo una giornata faticosa. È un miracolo se molti intellettuali alla fine di una strada faticosa e disperata, per venire a capo dei problemi della società borghese, dal punto di vista borghese irrisolvibili, giunti sull’orlo di questo abisso, si stabiliscono in questo Hotel piuttosto che spogliarsi delle vesti splendenti e osare il salto vitale al di là dell’abisso? È un miracolo se questo Hotel, così splendidamente arredato per le cime più elevate dell’intellighenzia, trova i suoi imitatori meno brillanti e più provinciali specialmente nell’intellighenzia e nella borghesia? Nell’attuale società borghese vi sono una serie di passaggi, che vanno dalla jazz band finemente orchestrata della danza macabra delle ideologie fino alle orchestre e ai grammofoni dei veri bar, dove – completamente ignorati dai piccoli borghesi attuali – si suona e si beve alla danza macabra delle ideologie borghesi.

Il Grand Hotel «Abisso» non chiede ai suoi ospiti nessuna legittimazione, se non quella dei livelli spirituali. Ma proprio in questa libertà totale agisce al massimo il limite invisibile. Per l’intellighenzia borghese, il livello spirituale consiste proprio nel considerare i problemi ideologici in maniera puramente ideologica, nel restare avvinti nel circolo incantato dell’ideologia. Queste stazioni intermedie sulla strada dal passato al futuro per l’intellighenzia ci sono sempre state, sin da quando il proletariato è entrato nella lotta di classe come forza autonoma e la questione del superamento dello sfruttamento è diventata la parola d’ordine di battaglia della lotta delle «due nazioni». Marx ha riconosciuto chiaramente questa ideologia al suo nascere e l’ha aspramente criticata nei giovani hegeliani radicali. E la sua critica costituisce la base di qualsiasi altra critica di queste stazioni intermedie e del loro significato politico sociale. Scrive Marx: «Poiché questi giovani hegeliani considerano le rappresentazioni, i pensieri, i concetti, e in genere i prodotti della coscienza da loro fatta autonoma, come le vere catene degli uomini (…), s’intende facilmente che i giovani hegeliani devono combattere soltanto contro queste illusioni della coscienza. Poiché secondo la loro fantasia le relazioni fra gli uomini, ogni loro fare e agire, i loro vincoli e i loro impedimenti sono prodotti della loro coscienza, i giovani hegeliani coerentemente chiedono agli uomini, come postulato morale, di sostituire alla loro coscienza attuale la coscienza umana, critica o egoistica, e di sbarazzarsi così dei loro impedimenti. Questa richiesta, di modificare la coscienza, conduce all’altra richiesta, d’interpretare diversamente ciò che esiste, ossia di riconoscerlo mediante una diversa interpretazione (il corsivo è mio, G.L.). Nonostante le loro frasi che, secondo loro, «scuotono il mondo» gli ideologi giovani-hegeliani sono i più grandi conservatori. I più giovani tra loro hanno trovato l’espressione giusta per la loro attività, affermando di combattere soltanto contro delle frasi. Dimenticano soltanto che a queste frasi essi stessi non oppongono altro che frasi, e che non combattono il mondo realmente esistente quando combattono soltanto le frasi di questo mondo (…). A nessuno di questi filosofi è venuto in mente di ricercare il nesso esistente tra la filosofia tedesca e la realtà tedesca, il nesso tra la loro critica e il loro proprio ambiente materiale»3.

Questo singolare riconoscimento dell’esistente mediante una critica della coscienza e un salto radicale al rivoluzionamento della coscienza ha assunto già nei giovani radicali, in Bruno Bauer e Stirner, la forma di voler superare la teoria del proletariato rivoluzionario quanto a radicalità nella riflessione su tutti i problemi. Con l’inasprirsi della lotta di classe, questa tendenza si manifesta in forme sempre nuove. La discrepanza della situazione sociale della piccola borghesia comporta necessariamente che quelle ideologie che l’allontanano dal proletariato rivoluzionario si muovano verso l’estremo opposto. Mentre il piccolo bottegaio di fronte alla perdita della sua bottega trema e di fronte al socialismo si spaventa perché con esso vengono socializzate anche le donne, il piccolo borghese, divenuto furente, deve essere ideologicamente guidato «al di là del socialismo». Gli si deve dimostrare quanto sia inconseguente, dogmatico e meschino il socialismo del movimento operaio, come uno «spirito libero» debba cercare e trovare qualcosa di molto più radicale, se vuole che i problemi siano risolti «realmente» e non in maniera compromissoria come nel socialismo. È questo il motivo per cui il radicalismo è straordinariamente adatto alla critica ideologica. Dunque, da un lato non vi è qui alcun limite alla progettazione utopica; dall’altro, il rovesciamento così progettato è incomparabilmente «più profondo» della rivoluzione proletaria, giacché non vengono rivoluzionati solo i fenomeni economici «superficiali» della vita (o meglio, questi non lo sono), ma anche l’uomo, l’anima, lo spirito, la concezione del mondo. E siccome il rivoluzionamento economico «superficiale» viene considerato indifferente, può partecipare a questo «rivoluzionarismo radicale» qualsiasi parassita redditiero, senza dover temere che la rivoluzione, «la giusta rivoluzione», metta in pericolo il godimento della sua rendita.

Questo «andare al fondo delle cose in maniera radicale» si esprime ideologicamente nella trasformazione della dialettica oggettiva in sofistica soggettiva, in un relativismo radicale. Dice Lenin: «La differenza tra il soggettivismo (scetticismo, sofistica, ecc.) e la dialettica consiste nel fatto che nella dialettica (oggettiva) anche la differenza tra relativo e assoluto è relativa. Per la dialettica oggettiva anche nel relativo è contenuto l’assoluto. Per il soggettivismo e la sofistica, il relativo è solo relativo ed esclude l’assoluto»4. L’esclusione radicale di qualsiasi assoluto dal pensiero non è solo un grandioso gesto rivoluzionario, che agli occhi degli abitanti dell’Hotel e dei loro ammiratori si lascia molto indietro la teoria «dogmatica» del proletariato come qualcosa di piccolo borghese. Essa crea anche quell’atmosfera dello stare eternamente in sospeso, di timidezza di fronte a qualsiasi decisione derivante dall’«onestà intellettuale», dalla scrupolosità scientifica, dalla profondità etica, che rende così piacevole la vita nell’Hotel «Abisso», perché si è riusciti felicemente a stravolgere la propria incapacità di scegliere tra le classi in lotta in superiorità rispetto alle piccole lotte di ogni giorno. E il fatto che con ciò si sia compiuta una scelta – quanto più inconsapevole tanto meglio – e che la scelta sia caduta sul partito degli oppressori e degli sfruttatori, giustifica proprio il valore che questo Hotel e i suoi abitanti hanno per la borghesia in determinati periodi.

Ma, nonostante tutto, il valore di questo relativismo per la conservazione dell’ordine borghese e della sua ideologia non si è ancora esaurito. Lo stare in sospeso della scepsi radicale può essere mantenuto in maniera conseguente solo in periodi molto particolari e solo eccezionalmente. L’assoluto cacciato dalla porta rientra dalla finestra. Si tratta però di un altro assoluto. Si allontana dal pensiero l’assoluto della realtà oggettiva e ciò che si introduce di soppiatto è il finto assoluto del mito religioso. Se è scientificamente indimostrabile se è la terra a girare intorno al sole o il sole intorno alla terra, stanno per il momento allo stesso livello di indimostrabili «ipotesi di lavoro» la storia della creazione di Mosè e la teoria di Kant e Laplace. Si può tuttavia affermare subito che, delle due ipotesi, quella mosaica è superiore quanto ai valori umani, morali, metafisici. Ed è in particolare chiaro che le «esperienze» religiose dei profeti o dei santi sono «fatti» esattamente come quelle dei fisici o dei chimici durante i loro esperimenti. Poiché in entrambi i casi viene «posto fra parentesi», in maniera scettica e relativistica, il contenuto di verità, il riferimento alla realtà oggettiva, è possibile indagare in maniera imparziale queste esperienze religiose e il loro contenuto «umano generale» o eticamente esemplare, senza fondarlo ulteriormente in una concezione relativistica (William James, Scheler, ecc.). Nasce così a poco a poco, in maniera «scrupolosamente scientifica», una nuova religione per i dotti. Per coloro che sono già divenuti inaccessibili per il pesante e costante stordimento religioso della chiesa. È perciò lo stesso se viene creata una nuova religione settaria oppure si predica una forma di ateismo religioso, poiché in entrambi i casi questa nuova religiosità ha la stessa funzione sociale della vecchia, si rivolge solo a quegli strati che non possono più essere da loro conquistati. «Un prete cattolico che violenti fanciulle (…) è molto meno pericoloso per la democrazia di uno senza abiti sacri, di uno senza religione grossolana, un prete ideale e democratico che predica la creazione di un nuovo Dio. Poiché smascherare il primo prete è facile, non è difficile condannarlo e scacciarlo, ma il secondo non si lascia scacciare così semplicemente, è mille volte più difficile smascherarlo e nessun piccolo borghese fragile e incostante si dichiarerà disposto a condannarlo»5.

Questo slittamento del relativismo scettico nella mistica reazionaria acquista sempre più significato col progredire del processo di decadenza della borghesia. Tale processo ha il suo riflesso ideologico nella crescente disgregazione dell’ideologia borghese del progresso. Nel periodo di ascesa della borghesia, l’idea di progresso fu criticata – talvolta in maniera molto spiritosa – solamente dagli ideologi delle classi feudali e semifeudali in declino e spodestate. L’intellighenzia che si è staccata dalla borghesia, posta tra questa e il proletariato, da un lato ha lottato contro la limitata uniformità e il limitato ottimismo di questa idea di progresso, dall’altro ha tentato di superare quest’ultima in radicalismo. (Che questo radicalismo non porta necessariamente all’idea materialistica di progresso, che, anzi, all’opposto, può trasformarsi in posizione reazionaria, lo dimostra l’esempio della critica di Marx a Bruno Bauer).

Nella crisi generale del capitalismo anche questo problema acquista tratti nuovi. Già col parassitismo imperialistico l’ideologia del progresso ha perso la sua forza attrattiva anche all’interno della borghesia. Fra gli intellettuali la generale incredulità riguardo al progresso è cresciuta in maniera incredibilmente rapida; e, nel contempo, è cresciuta, parallelamente, la tendenza sempre più accentuata a civettare con le ideologie reazionarie. La crisi generale del capitalismo fa emergere questo complesso di problemi dal ristretto circolo dell’intellighenzia e lo pone al centro dell’arena della lotta di classe. La piccola borghesia, minacciata e scossa nei suoi fondamenti materiali dalla crisi generale, passa in uno sconvolgente lasso di tempo a un anticapitalismo spontaneo e confuso. Nasce su questo terreno, spontaneamente, un’ideologia reazionaria nella forma e nel contenuto, che tuttavia ha come elemento specifico la possibilità di sbarazzarsi in ogni momento del suo contenuto reazionario e trasformarsi in rivoluzionaria. La tendenza a questo cambiamento viene accelerata, oggettivamente, dalla crisi generale, che diventa sempre più profonda, del sistema capitalistico; soggettivamente, dall’influsso crescente del partito comunista. La borghesia deve impiegare ogni mezzo per mantenere questo movimento su un terreno reazionario e impedire la chiarificazione della confusione spontanea. Non possiamo qui analizzare, nemmeno per cenni, l’intero sistema di questi sviamenti e inganni dal socialfascismo al fascismo aperto. Ma è chiaro che in questa situazione la compenetrazione di relativismo e misticismo all’interno dell’Hotel «Abisso» deve diventare sempre più forte e che lo scetticismo relativistico dell’élite intellettuale deve trasformarsi sempre più velocemente in una mitologia religiosa mascherata da radical-rivoluzionaria. E proprio all’interno di una tale crisi, che mina sempre più le vecchie autorità, e in cui le masse, anche quelle piccolo-borghesi, sono desiderose di un nuovo orientamento e di una guida per trovare una via d’uscita dalla loro situazione divenuta insopportabile, devono accrescersi il valore ed il significato che l’Hotel «Abisso» ha per la borghesia. Dunque, finché la lotta oscilla così spesso, finché la crisi del sistema diviene chiara alle masse, è per la borghesia una questione vitale tenere lontano dalla lotta aperta contro il sistema quello strato che essa non riesce a conquistare alla difesa dichiarata del suo sistema. Solo il fascismo appena giunto al potere si immagina di non usare più tali appoggi. Esso tenta con tutti i mezzi dell’ubriacatura demagogica della folla di indurre la suggestione dell’avvento di una nuova epoca, che non ha niente a che vedere con la vecchia «borghesia liberale». Finché i fascisti credono che questa suggestione regge, l’intellighenzia disgregata viene scacciata o repressa e il Grand Hotel «Abisso» demolito. Ma la necessità sociale della sua esistenza non scompare. Nell’emigrazione sono già sorte filiali e dependences del vecchio Hotel, sia pure arredate materialmente in maniera meno splendida. Ma non appena diverranno pubbliche la diminuzione e la dissoluzione della sua base sociale, anche il fascismo dominante sarà costretto a erigere un nuovo Hotel «Abisso» – sia pure con un’altra facciata e con una diversa disposizione interna – o almeno a non impedirne più la costruzione.

Il progredire della crisi economica e culturale, l’inasprimento della lotta di classe, il crescente influsso del partito comunista, la crescente forza attrattiva della costruzione socialista e della rivoluzione culturale nell’Unione sovietica devono perciò necessariamente agire sull’ideologia borghese sempre più in dissoluzione. Il miscuglio eclettico delle ideologie reazionarie dell’epoca imperialistica, che il fascismo dominante «sintetizza» in teoria e prassi della barbarie, non può in nessun modo soddisfare l’onesta intellighenzia svegliatasi solo a metà strada. Essa deve cercare un nuovo orientamento, si deve muovere tra borghesia e proletariato, e quanto più questo movimento diventa forte, tanto più grande deve divenire il bisogno di portarlo a un punto di arresto, di evitare che si avvicini al proletariato rivoluzionario. E, proprio in questo periodo di controrivoluzione fascista, il fatto che l’orizzonte spirituale sia limitato alla mera ideologia e la Weltanschauung sia coerentemente idealistica acquista un accresciuto significato di classe. La demagogia sociale del fascismo, il «socialismo tedesco» è perciò possibile solo sul fondamento ideologico di un’accentuata supremazia dell’ideologia rispetto alla base materiale. Uno smascheramento e una distruzione reali dell’ideologia fascista sono possibili solo sulla base del contrasto materialmente elaborato tra parole e fatti. Ma ogni ideologia che impedisce il risveglio delle masse per quest’unico punto di vista, che corrisponde ai loro interessi reali, va ad appoggiare – volente o nolente – la demagogia sociale, distoglie le masse da una sua reale comprensione. Poiché il relativismo sofista del periodo imperialistico è sorto sul terreno di tutte quelle tendenze ideologiche (agnosticismo, irrazionalismo, «filosofia della vita», mito, sostituto più moderno della religione, ecc.) che il fascismo ha riunito ecletticamente in una sua filosofia della barbarie; poiché questo relativismo sofista ha resistito proprio contro queste tendenze, in tutti i suoi gesti ipercritici e iperradicali, nella confusione ideologica più totale, allora esso non può condurre una reale lotta ideologica contro il fascismo. Su questo terreno ideologico, il Grand Hotel «Abisso» deve necessariamente risorgere sempre di nuovo, spontaneamente, non importa se nell’emigrazione o nell’illegalità della Germania di Hitler, oppure magari tollerata in forme nuove dal fascismo. Diventa sempre più forte la necessità di una rottura radicale con questo allestimento ideologico della vita interiore, la necessità di distruggere questo allestimento e di compiere il salto vitale della salvazione. Essa è avvertita in maniera sempre più forte dagli elementi migliori dell’intellighenzia tedesca. Il radicamento nel capitalismo di una parte considerevole dell’élite intellettuale è dunque così forte che il Grand Hotel «Abisso» non può essere in realtà distrutto nemmeno dal fascismo.

La danza macabra delle ideologie

Di tutto ciò che diciamo in genere non va bene niente!
Robert Musil

Il grande romanzo di Robert Musil, ancora incompiuto6, costituisce un paradigma dell’ideologia dell’élite intellettuale tedesca che abbiamo sinora analizzato in generale, e cioè di quella parte di questa intellighenzia che non intende – almeno consapevolmente – fare concessioni alla generale fascistizzazione della vita spirituale in Germania. Nella sua carriera di scrittore non si manifesta alcuna concessione al gusto del grande pubblico, alle tendenze di moda dominanti. Egli è sempre stato un convinto scrittore per l’élite, per gli stendhaliani «happy few».

Schernisce di continuo, nel modo culturale e letterario che gli è proprio – e che conosceremo subito più da vicino –, la maggior parte delle tendenze dominanti fra gli intellettuali e nella letteratura moderna. Egli si è sempre contrapposto ai suoi contemporanei anche sul piano stilistico: non ha partecipato né della confusione impressionistica, né dell’affettazione espressionistica della prosa tedesca, scrive in uno stile quasi scientificamente trasparente, chiaro, semplice ed equilibrato di chi ha dimestichezza coi classici, nonostante la grande plasticità delle sue figure e delle sue descrizioni. E anche per questo che col suo ultimo romanzo è però divenuto una celebrità «esoterica» per gli iniziati, per l’avanguardia spirituale dell’intellighenzia di sinistra degli anni precedenti alla presa del potere da parte di Hitler.

La scientificità del suo stile non è qualcosa di esteriore. Musil si differenzia dalla maggior parte dei suoi contemporanei e dei suoi compagni di classe per il fatto che nel periodo dell’imperialismo e della fascistizzazione egli non partecipa del disprezzo crescente della filosofia della vita per l’intelletto. Egli si rifiuta di accettare l’indimostrabile, vuole sempre avere il terreno solido sotto i piedi; è un razionalista. La particolarità della tematica letteraria e quindi del metodo creativo di Musil consiste invece nel fatto che, con questa Weltanschauung e con questo metodo, si avvicina ai problemi spirituali dell’odierna élite intellettuale. Coi metodi di una scienza esatta, così come egli la intende, vuole verificare quale intima coerenza e quale contenuto di verità contengono questi problemi spirituali. Egli è dunque uno sperimentatore precisissimo, un ingegnere che razionalizza le più raffinate emozioni dell’élite intellettuale contemporanea. Niente si sottrae alla sua critica acuta, non vi è niente che egli consideri così sacro e indimostrabile da non sottoporlo all’analisi più esatta.

Tuttavia, questo radicalismo intellettuale, che non si arresta di fronte a nulla, si arresta proprio di fronte alle questioni fondamentali. E cioè, Musil accetta questo suo oggetto di indagine acriticamente, come un fatto. Non gli viene nemmeno in mente di domandarsi in generale su quale terreno reale possano sorgere queste emozioni spirituali che egli analizza. Esse vanno, secondo lui, assunte come già date nei singoli individui viventi, come fatti da analizzare. Non che in questo modo ricada in un empirismo volgare. Egli confronta esattamente tali fatti gli uni con gli altri, fa emergere con acutezza l’elemento comune, il tipico, anche nei fenomeni apparentemente distanti gli uni dagli altri. Non gli sfugge mai, come vedremo, che i fenomeni spirituali sono legati al mondo economico-sociale, che tra l’atteggiamento spirituale e le azioni sociali di un uomo esistono relazioni contraddittorie, paradossali e tuttavia tipiche. Ma tutto questo si svolge per lui nell’ambito dello spirito. Ciò che egli persegue non è dunque l’indagine della genesi reale di tali fenomeni, né la loro derivazione reale dalle loro cause effettive, bensì una esattezza immanente e una fondatezza delle emozioni spirituali. Egli cerca l’«autenticità» delle esperienze spirituali della vita interiore dell’uomo nel nostro tempo, distrugge con la critica più acuta tutto ciò in cui nasconde un’intima contraddizione, una menzogna consapevole o inconsapevole, un autoinganno più o meno consapevole, ecc. Questa critica è però puramente immanente. Essa vuole fondare esattamente questi stessi contenuti e queste stesse forme della vita spirituale, vuole trovare in questa vita spirituale un fondamento solido per i medesimi, o molto simili, sentimenti, esperienze, pensieri, azioni. Egli dice del suo eroe, in chiusura della parte sinora pubblicata: «Ulrich sapeva di non avere infatti un’idea chiara. Non intendeva né una vita di sperimentatore né una vita “alla luce della scienza”, bensì una “ricerca del sentimento” simile alla ricerca della verità, solo che non si trattava della verità». E proprio in questo senso, in un «dialogo sacro» con sua sorella, il protagonista dice a proposito dello scopo delle sue ricerche, della sua vita: «Mi addottrino sulle vie della vita santa (…) Non c’è niente da ridere. Non sono religioso; considero la strada della santità chiedendomi se non la si potrebbe percorrere anche in automobile».

Musil difende dunque qui una particolare nuance dell’ateismo religioso. I contenuti immediati delle vecchie religioni per lui, come per la maggior parte dei migliori esponenti del suo ceto, non sono più seriamente presi in considerazione. Per contro, egli, come la maggioranza di questo ceto, ha un’esperienza molto viva di come la vita interiore dell’uomo odierno (che Musil in maniera ingenuamente inconsapevole identifica per lo più con l’intellettuale) sia divenuta inconsistente, disgregata, insincera e di come la morale delle vecchie religioni abbia dato ad essa una grande stabilità. Si tratta dunque della solita nostalgia romantica per la religione dell’intellettuale disgregato. È una reazione spontanea e immediata, non ulteriormente analizzata, di questo ceto alla decadenza ideologica nel periodo di declino del capitalismo, che qui si manifesta in maniera ovviamente immediata e spontanea nell’ambito ideologico e specialmente in quello morale. I fenomeni conseguenti al declino del capitalismo vengono vissuti in modo molto violento, le sue cause restano ignote e quindi la reazione spontanea è una fuga nell’ideologia precapitalistica. Considerato socialmente, questo fenomeno è analogo all’assalto ai grandi magazzini da parte dei piccoli commercianti. E nonostante la differenza del livello culturale dell’argomentazione, il contenuto sociale, il livello dell’indagine delle cause sociali della condizione della propria classe, disgregata dal capitalismo, restano gli stessi. Certo, in Musil il caso è qualcosa di diverso che nella maggior parte dei suoi contemporanei e compagni di classe, i quali, di fronte alla dissoluzione dell’ideologia borghese nella crisi generale del capitalismo, si rifugiano a precipizio nelle vecchie religioni o nei nuovi miti del generale movimento di fascistizzazione. La fuga è tuttavia presente anche in Musil. Solo che egli – da intellettuale soggettivamente onesto – non vuole abbandonare il terreno traballante dell’ideologia senza trovare col suo metodo di misuratore ingegneristico delle più sottili disposizioni dell’anima un terreno solido, un ponte che resista a tutte le prove circa tali materiali e tali carichi. Il protagonista, che diventa sempre più identico a lui, studia perciò accuratamente tanto le vecchie esperienze «religiose» dei santi e dei profeti, quanto quelle dei contemporanei che accettano ciecamente il mistico-religioso. Anch’egli, come costoro, dalle prescrizioni morali religiose crea norme morali per la critica del presente. Perciò sospira scettico: «È un gran peccato che gli studiosi di scienze esatte non abbiano delle visioni!». Fin qui, finché tale questione resta non chiarita e finché la «vita santa» non è costruita in maniera tanto solida da poterla percorrere in automobile, Musil ed il suo eroe restano sospesi in un posizione tutta relativistica e radicalmente scettica.

Questa scepsi di Musil è però una scepsi satirica e battagliera. Egli disprezza profondamente gli intellettuali moderni che, molto alla leggera e senza provarne la resistenza, costruiscono un ponte fra la religione e i bisogni degli uomini moderni, che per la dissolutezza dei sentimenti o persino per scopi egoistici, ingannevoli o autoingannevoli, praticano la confusione impura e inesatta fra religione e scienza, fra religione e bisogni umani odierni. Il suo odio più profondo – e qui si manifesta la personale onestà del suo sentimento inconsapevolmente anticapitalistico – si concentra su quei tipi che si servono di questa confusione fra sentimento e pensiero per fare l’apologia del sistema vigente, per operare la «sintesi» tra affari e anima, tra capitalismo e religione. Nel suo romanzo Musil raffigura questo tipo – mutuando tratti facilmente riconoscibili da Walter Rathenau per descriverne il mondo di idee e il destino esteriore – come un «commerciante principesco» che vuole intrecciare in un’unità armonica «affari e idealismo», «idee e potere», «anima ed economia». Musil vede molto chiaramente che la base di una tale sintesi nella Weltanschauung è l’esatta separazione nella vita. Egli dice di Arnheim (così egli chiama la figura di Rathenau nel suo romanzo): «Quando in uno dei suoi uffici direttoriali esaminava un bilancio preventivo si sarebbe vergognato di ragionare altrimenti che da mercante e da tecnico; ma appena il denaro della ditta non era più in gioco si sarebbe vergognato di non ragionare nel modo opposto e di non proclamare che l’uomo deve essere reso idoneo a elevarsi per una strada diversa da quella ingannevole della metodicità, della regola, dell’unità di misura e simili, i cui risultati sono affatto esteriori e in ultima analisi senza importanza. Non v’è dubbio che quell’altra strada si chiama religione; egli aveva scritto libri sull’argomento».

Questa religione è allora per Arnheim-Rathenau un eccellente mezzo per ottenere personalmente fama mondiale di scrittore, per brillare come uomo di fama internazionale in alcuni salotti europei e, nel contempo, usare la gloria di queste relazioni per una grandiosa diplomazia commerciale. L’acuto occhio satirico di Musil, che qui chiarisce il nesso fra irrazionalismo imperial-fascista e commercio nel capitalismo monopolistisco, mostra tuttavia subito come egli si limiti alla mera ideologia non appena abbandona il campo delle pure e giuste osservazioni. Infatti, la sua satira non si rivolge al parassita dall’anima bella del capitalismo monopolistico reazionario in dissoluzione, bensì alla mancanza di «onestà intellettuale» di Arnheim; non odia in lui lo sfruttatore, l’apologeta del capitalismo, disprezza semplicemente la sua confusione di pensiero e sentimento, la bassezza dei suoi principi morali. Ma, nonostante tutto, qui si raggiunge una satira talvolta brillante. Musil dà diversi primi piani di questo suo personaggio. Lo rappresenta, fra l’altro, in una conversazione col suo dio e lo fa esprimere in questi termini sull’organizzazione migliore del mondo: «“Il capitalismo, come organizzazione dell’egoismo secondo il grado della capacità di procurarsi denaro è l’ordinamento più grandioso e tuttavia più umano che noi abbiamo saputo elaborare in Tuo onore; la condotta umana non porta in sé una misura più esatta”. E Arnheim avrebbe suggerito al Signore di organizzare il Regno millenario secondo i criteri commerciali e di affidare la sua amministrazione a un grande uomo di affari che avesse naturalmente anche cultura filosofica ed educazione mondana». La satira di Musil su questo tipo risulta perciò – nonostante i limiti a cui abbiamo accennato – sottile, ben riuscita e vivace, in quanto non solo descrive la separazione esatta fra commercio e anima nella vita e il predominio dell’anima nel pensiero, ma al tempo stesso dimostra sempre di nuovo come nei sentimenti, nelle azioni e nei sublimi pensieri di Arnheim, dietro il mantello metafisico con cui è coperto, riaffiori sempre il calcolo capitalistico. Così egli fa dire ad Arnheim, dopo una grande tragedia d’amore: «Un uomo cosciente delle proprie responsabilità quando fa dono della sua anima può sacrificare soltanto gli interessi e giammai il capitale».

Queste due figure, le cui continue schermaglie costituiscono una parte importante del romanzo musiliano, sono inserite in un’azione la cui invenzione dimostra le non indifferenti qualità satiriche di Musil. Il romanzo è ambientato negli anni immediatamente precedenti alla guerra e descrive i maggiori esponenti intellettuali dell’alta società austriaca. Tratta di una grande «Azione patriottica» che, ideata da un aristocratico austriaco, viene realizzata dall’alta burocrazia e dall’intellighenzia. L’Azione consiste nel dover preparare una grande festa nazionale per il settantesimo giubileo dell’ascesa al trono dell’imperatore Francesco Giuseppe I. Tutti sono entusiasti di questa «grande festa». Si tratta solo di trovare un’idea concreta, un contenuto concreto per questa azione. Davanti a noi si agitano vorticosamente tutti i tipi dell’élite culturale austriaca, ciascuno avanza proposte «straordinariamente spirituali» o «particolarmente profonde» e tutte vengono discusse a fondo e con partecipazione, al massimo livello della spiritualità moderna, e tutte le volte si conclude che non si possono ancora prender decisioni definitive, che è necessario nominare un comitato apposito che elabori una proposta definitiva, che è necessaria una preparazione particolare. Tutti dicono che l’«idea centrale» della grande azione deve nascere subito, ma nessuno sa dire quale debba essere questa idea. Tutti dicono che qualcosa deve accadere subito, ma nessuno è in grado di dire che cosa.

La forza satirica di questa azione principale si esprime innanzitutto nel fatto che Musil è capace di far esibire tutti i circoli della più alta spiritualità, dal clero all’alta burocrazia, ai letterati e ai professori universitari, nel fatto che in ogni discussione essi mettono in azione l’intera flotta delle loro ideologie, che vengono eseguiti tornei spirituali al livello più alto su tutte le questioni che interessano gli intellettuali e che da tutto questo non viene mai fuori niente. Già il contrasto tra il grande sfoggio culturale e la ridicolaggine aulico-burocratica dell’occasione produce forti effetti satirici. Effetto che è vieppiù accresciuto dal contrasto fra la serietà degli sforzi spirituali e la totale improduttività dei loro risultati. L’«impotenza dello spirito», su cui Max Scheler nel dopoguerra ha scritto cose che hanno avuto molta influenza, l’impotenza dello spirito intellettuale borghese di fronte ai problemi più semplici della realtà pratica forse in nessun altro romanzo moderno è stata rappresentata con tanta efficacia. Musil sembra stare al di sopra di tutti i suoi personaggi. Egli è capace di esprimere, nel modo intellettualmente e culturalmente più elevato, ogni sfumatura ideologica dell’odierna intellighenzia borghese, in maniera tale che non solo viene espressa adeguatamente la tendenza ideologica in questione, ma viene anche chiarita in chiave satirica la sua dialettica immanente: vengono così chiaramente in luce tanto le sue contraddizioni interne, quanto le contraddizioni rispetto alla realtà. Intorno all’«Azione patriottica», ugualmente ridicola all’esterno e all’interno, si svolge una vera e propria danza macabra delle moderne ideologie borghesi. Ciascuna sfumatura ideologica insegue se stessa e quella avversaria in un girotondo fra il serio e l’ironico verso la morte e scopre impietosamente la nullaggine, l’assenza di contenuti e l’intima insincerità propria e degli avversari.

La grottesca ridicolezza di questa danza macabra viene ancor più accresciuta dal fatto che i partecipanti fanno convergere nell’azione tutti i loro interessi privati e di affari. Il «commerciante principesco» Arnheim tiene nei saloni le conferenze più brillanti sul regno dell’anima al fine di acquistare per la sua ditta, con l’aiuto e dietro il paravento dell’Azione, i giacimenti di petrolio galiziani e ottenere certe ordinazioni dal ministero della guerra. Un dotto generale del Ministero della guerra partecipa in maniera tanto assidua quanto goffa a tutte le discussioni, si sforza di capire i diversi orientamenti culturali, però si serve dell’Azione anche per ottenere finanziamenti per il Ministero della guerra e incrementare l’artiglieria. E l’aristocratico conservatore, che aveva avuto l’idea dell’azione, la usa d’altro lato per rovesciare, attraverso intrighi di corte, il ministro degli interni a lui antipatico. Intorno a questi intrighi maggiori, se ne svolgono molti altri amorosi e carrieristici. Il grande rogo delle ideologie serve praticamente a cuocere minestre private.

La satira sociale e di critica ideologica di Musil sarebbe dunque interessante, coraggiosa e bella. Ma quel limite invisibile, di cui abbiamo parlato dettagliatamente, riaffiora di continuo e spezza proprio le punte decisive di ogni slancio satirico. Tale limite non è il risultato di un compromesso, bensì il limite proprio della sua concezione del mondo. Egli ironizza acutamente sull’Austria del periodo prebellico e la sua satira si estende a tutte le questioni attuali dell’intellighenzia tedesca nel periodo di fascistizzazione. Ma questa ironia è lo spirito di uno che sta dentro alla cosa fino in fondo, di un uomo il cui orizzonte non va più in là di quello di coloro su cui ironizza. Egli schernisce, ad esempio, il dilettantismo politico del suo aristocratico per quel che riguarda la questione nazionale austriaca. Quando però, come autore, a queste fantasie dilettantesche vuole contrapporre lo stato di cose reale, vengono fuori i luoghi comuni degli editoriali dei giornali liberali, solo formulati ironicamente e autoironicamente travestiti. E così in tutte le altre questioni. È, ad esempio, molto spiritoso che Musil faccia fare a un’isterica dilettante d’arte la proposta di celebrare l’anno del giubileo come l’anno di Nietzsche. Ma alcune pagine prima o dopo affiorano idee e metodi nietzschiani, con o senza riferimento esplicito a Nietzsche, su cui Musil non ironizza affatto, ma anzi considera come una seria applicazione della condotta di vita etica da lui cercata.

Il fatto che l’autore resti impigliato dentro i limiti invisibili rende discorde l’intera opera. E, in particolare, il personaggio principale. Questi (Ulrich) deve essere l’oppositore intellettuale onesto di questo cabaret delle ideologie, il suo onesto cercare un fondamento solido deve rappresentare il contrasto dal quale vengono ironicamente illuminate la nullità, la stupidaggine e la disonestà degli altri. Ma che cosa Ulrich contrappone praticamente alla farsa dell’«Azione patriottica?» Innanzitutto, egli si trova a partecipare all’Azione per varie disavventure personali; diviene segretario dell’aristocratico da cui era partita l’iniziativa e quindi segretario di tutta l’azione. Naturalmente, egli stesso non prende troppo sul serio questo suo ruolo. Raccoglie tutti gli incartamenti e le proposte che arrivano e riferisce al suo conte nella forma ironica: «Pare che il mondo intero s’attende da noi miglioramenti e riforme e una metà incomincia con le parole: “Bisogna abolire…” mentre l’altra metà proclama: “Bisogna instaurare…” Ho qui esortazioni che vanno da “basta con l’influsso di Roma” fino a “è giunta l’ora dell’orticoltura!” Lei che cosa sceglierebbe?» Ma questo sabotaggio ironico, questa partecipazione con riserva canzonatoria non significa affatto che le convinzioni più serie di Ulrich siano a un livello di conoscenza delle connessioni reali più elevato rispetto a quello di coloro che egli irride e sui quali ironizza. Si scopre, infatti, che egli pensa e presenta con riserva ironica anche le sue convinzioni più serie e che ne fa continuamente scherno. E tuttavia questo scherno è amaramente impotente. Musil, infatti, da vero artista, una volta voluto e creato un personaggio, fa venir fuori tutto ciò che vi sta dentro e solo questo ed è costretto a dare una certa direzione alla linea di sviluppo del pensiero del suo eroe, nonostante la continua autoironia e la riserva ironica. E questa direzione è molto significativa non solo per il personaggio, ma anche per lo stesso Musil, in quanto in esso si esprimono chiaramente i limiti del suo pensiero, il restare all’interno dell’orizzonte del mondo che irride.

In un’importante conversazione privata fra i massimi rappresentanti dell’Azione, Ulrich avanza la seguente proposta: «…porre mano a un inventario generale dello spirito! Dobbiamo fare suppergiù quello che sarebbe necessario se il 1918 fosse l’anno del Giudizio Universale e bisognasse farla finita con lo spirito antico e dare vita a uno spirito più alto. Istituisca in nome di Sua Maestà un segretariato terreno dell’esattezza e dell’anima; tutti gli altri problemi prima di questo sono insolubili o sono soltanto problemi apparenti!» E più avanti, in uno dei «dialoghi sacri» con sua sorella, l’unica persona che egli ami e prenda sul serio, spiega questa proposta nei termini seguenti: «che cosa si dovrebbe fare? Una volta, in casa di nostra cugina, io suggerii al conte Leinsdorf di istituire un Segretariato mondiale dell’esattezza e dell’anima affinché anche coloro che non vanno in chiesa sappiano che cosa devono fare. Naturalmente lo dissi soltanto per scherzo, perché già da gran tempo abbiamo creato la scienza per il bisogno di verità, ma se si volesse pretendere qualcosa di simile per quel che rimane scoperto, bisognerebbe oggi quasi vergognarsi di una pazzia. Eppure tutto ciò che noi due abbiamo detto finora, ci condurrebbe a quel Segretariato!» In una successiva conversazione fra le stesse personalità dell’Azione, egli ritorna ancora su questa proposta: «Lei nota, dice al suo conte, che il mondo non ricorda oggi quello che voleva ieri, che le sue disposizioni d’animo cambiano senza un motivo convincente, che è in perpetua agitazione, che non giunge mai a un risultato; e che se ci si figurasse raccolto in un solo cervello quel che accade nei cervelli degli uomini, ne risulterebbe innegabilmente una serie di manifestazioni deteriori che si potrebbero definire di imbecillità».

Vediamo dunque che si tratta del percorrere in automobile la strada santa. Ulrich ironizza continuamente sulla morale odierna in favore di una morale più elevata, di una «fantastica esattezza». Ciò che vi contrappone è, però, semplicemente questa «esattezza fantastica». Musil dice delle sue intenzioni: «La morale per lui non era né costrizione né saggezza, bensì l’infinito complesso delle possibilità di vivere. Egli credeva a un potere d’accrescimento della morale… Egli credeva nella morale senza credere in una morale definita. Di solito s’intende per essa una specie di regolamento di polizia che serve a mantenersi in ordine la vita; e poiché la vita non obbedisce neppure a tali regole, esse appaiono quasi impossibili a seguirsi, e, pur in questo modo meschino, acquistano l’apparenza di un ideale. Ma non è lecito mettere la morale su questo piano. La morale è fantasia… E in secondo luogo: la fantasia non è arbitrio. Se abbandonata all’arbitrio, la fantasia si vendica». Ulrich vuole dunque porre ordine nella confusione ideologica del periodo di decadenza del capitalismo mediante questo «segretariato terreno dell’esattezza e dell’anima», attraverso la morale, e questa sua intuizione non è solo una sua convinzione profonda e onesta, ma anche – nonostante tutta l’autoironia – quella del suo autore.

Dove porta questa strada? Abbiamo visto che Musil incalza la confusa stupidaggine delle ideologie intellettuali borghesi con l’ironia più amara. E, in particolare, un nemico dichiarato del disprezzo dell’intelletto e dell’esattezza, della dissoluzione dei sentimenti, dell’irrazionalismo mistico, della canonizzazione della razza, in una parola di tutte quelle correnti ideologiche che più tardi sono confluite nel fascismo. A giudicare dalle sue intenzioni, egli è dunque tutto tranne che un reazionario o un oscurantista. E, in quanto intellettuale di livello culturale superiore, egli disprezza altrettanto gli insignificanti residui dell’ideologia liberal-borghese. Ma, poiché egli cerca la sua strada in questo groviglio e ha come bussola solo la sua «fantastica esattezza», deve necessariamente approdare nelle vicinanze del misticismo religioso. Che poi questo misticismo sia ateo non cambia nulla nella realtà dei fatti. Abbiamo già sentito che il famoso segretariato terreno ha il compito di sostituire, per gli uomini divenuti irreligiosi, i comandamenti della chiesa, la soggezione dei loro atti a quest’ultima. L’aristocratico conservatore e religioso di cui è segretario non si lascia ingannare dai paradossi ironici di Ulrich. E con la perfetta coscienza di classe di un convinto reazionario gli dice: «Del resto ho sempre saputo che lei, in fondo in fondo, non è affatto un cattivo cattolico!» E Ulrich ribatte: «Pessimo! Io non credo che Dio sia venuto, bensì che debba ancora venire. Ma solo se gli si renderà il cammino più breve di quanto sia stato finora!». E in una conversazione con sua sorella egli fa la seguente confessione: «Mi hai chiesto che cosa credo. Credo che anche se mi si dimostra mille volte che, per i motivi in vigore, una cosa è buona oppure è bella, io sono e rimango indifferente, e l’unico segno sul quale regolerò il mio giudizio è: se la sua presenza mi abbassa o mi innalza… Ma anch’io non posso dimostrare nulla. E anzi sono convinto che un uomo che cede a questo, è perduto. Si smarrisce nel crepuscolo. Nella nebbia e nella puerilità. In una noia indistinta. Se tu togli dalla nostra vita l’univoco, non resta che uno stagno di carpe senza carpione… Dunque io non credo! Non credo, prima di tutto, all’inibizione del male mediante il bene, che rappresenta il miscuglio della nostra civiltà e mi fa schifo! Dunque io credo e non credo! Ma forse credo che fra un po’ di tempo gli uomini saranno parte molto intelligenti e parte dei mistici. Forse avverrà che anche ai nostri giorni la morale si divida in queste due componenti. Potrei anche dire: in matematica e mistica. In miglioramento pratico e avventura ignota!».

Dove porta allora questa strada? Abbiamo visto che essa ideologicamente porta a una relazione ironica, da buon vicinato, con la reazione colta, spiritualmente altolocata. I reazionari intelligenti capiscono molto bene che la nuance matematica dell’ateismo religioso di Musil, della creazione di Dio come massima occupazione per gli intellettuali è un ottimo apparecchio di sicurezza per il sistema esistente. Nonostante tutti i suoi paradossi ironici, questo Ulrich (e il suo autore) resta un supporto della società. Il ruolo conservatore del suo iperradicalismo intellettuale viene alla luce con chiarezza ancora maggiore se diamo un breve sguardo anche al suo modo di agire. Abbiamo già visto il suo ruolo di segretario dell’«Azione patriottica». Contemporaneamente, egli ha delle banali avventure con donne, movimentate solo da ironiche osservazioni. Il disprezzo per la morale vigente lo induce a protestare un paio di volte.

Il disprezzo per la morale gli rende talvolta attraente il delitto e colui che lo commette. Gli viene così l’idea di salvare l’omicida di una prostituta condannato a morte. Ma anche questa azione, la cui insensatezza non ha bisogno di commento, si dissolve nell’ironico e diventa per lui persino scomoda e spiacevole, quando viene spinta oltre il dovuto da un’isterica ammiratrice. Allo stesso modo, insieme con la sorella egli si trastulla con l’idea della vendetta contro l’odiato e filisteo cognato. Quando però sua sorella prende sul serio la vendetta e falsifica il testamento del padre in maniera che il cognato venga estromesso, anche questa azione nella sua mente si dissolve in riflessioni ironiche e autoironiche.

Dunque, non accade nulla. Nemmeno nell’ambito ristretto della vita privata. Quando uno stupido amico di gioventù in una conversazione gli rimprovera che tutta la sua filosofia sfocia in pratica in quella del «tirare a campare» della vecchia Austria, va molto vicino alla verità. Il misticismo scettico di Ulrich (e di Musil) conduce persino a una sanzione teorica del non fare nulla. Il suo radicalismo intellettuale si concentra spesso nella formula della «abolizione della realtà», cioè sull’esigenza di forgiare e vivere la realtà come fa la poesia; in altre parole, sul principio della rigida e inconciliabile contrapposizione fra interpretazione e trasformazione della realtà, in un rifiuto radicale del tentativo di trasformazione come un’attività vuota e solo apparentemente importante. (Negli esempi pratici del mondo che egli fa vi è naturalmente il giudizio di Musil). L’iperradicalismo di Ulrich opera nella maniera più peculiare e significativa proprio in questo rifiuto di qualsiasi prassi. Non solo nella disgregazione e dissoluzione ironiche della vuota attività degli uomini, dell’insensatezza del loro fare e del loro impulso, ma anche in linea di principio. «Perché una persona buona, dice Ulrich, non migliora affatto il mondo, né influisce in alcun modo su di esso; se ne allontana soltanto!». E dopo una lunga conversazione ironico-mistica con sua sorella sul «Regno millenario», fra i due si svolge il seguente dialogo: «Viviamo in un tempo in cui la morale è in crisi o in dissoluzione. Ma dobbiamo mantenerci puri, in vista di un mondo che può ancora venire! — Credi che questo influisca sul suo avvento o non avvento?, interrogò Agathe. — No, non lo credo purtroppo. Tutt’al più credo questo: se gli uomini che vedono e intendono non agiscono rettamente, quel mondo non verrà certo e la decadenza non si potrà arginare! — Che cosa t’importa se fra cinquecento anni le cose saranno cambiate o no? — Ulrich esitò. “Io faccio il mio dovere, capisci? Come un soldato, direi”».

Dove porta dunque questa strada? La risposta non è tanto difficile, crediamo: diritti in una bella camera del Grand Hotel «Abisso». L’intero dispiegamento di energia intellettuale, morale e poetica di Musil in questo romanzo – che rappresenta la sintesi degli sforzi ideali e letterari di tutta la sua vita – serve semplicemente a mantenere gli intellettuali, disperati per la crisi culturale e all’inizio della loro dissoluzione da parte della cultura capitalistica, in una disperazione narcisistica e autocompiaciuta, a insegnar loro a stabilirsi sull’orlo dell’abisso e a guardare dall’alto i compagni di classe che non sono capaci di innalzarsi all’altezza di questo pessimismo ironico-quietistico, che non si accontentano di contribuire col loro «restar puri» all’avvento del «Regno millenario», al quale neppure loro credono.

E un destino tragicomico di Musil che egli, che odia tanto la dissolutezza dei sentimenti dell’intellighenzia disgregata, che durante tutta la sua attività di scrittore si è rifiutato tenacemente di offrire passatempi intellettuali a degli sfaccendati, offra invece oggettivamente nient’altro che divertimento a dei parassiti. Egli considera la danza macabra delle ideologie moderne da lui rappresentata in un modo amaramente serio e amaramente tragico. Non costituisce un suo difetto personale il fatto che ciò che egli ha descritto come una grande «tragedia comica» del presente sia oggettivamente diventata una Jazz-Band intellettuale del Grand Hotel «Abisso». Infatti, all’interno dei limiti invisibili del suo modo di porre i problemi, Musil sta al livello più alto che sia possibile raggiungere alla sua classe, sia per la capacità artistica e intellettuale di dominare la materia che per l’onestà e sincerità delle sue convinzioni personali. Il carattere relativamente così elevato della sua produzione fa della sua opera un esempio interessante della situazione spirituale di una determinata parte dell’élite dell’intellighenzia tedesca. E d’altro canto, proprio questa elevatezza della sua opera dà la misura della profondità della crisi culturale della borghesia odierna, della profondità del livello che ha raggiunto il generale processo di decadenza della sua classe. Non è pertanto difficile mostrare questo processo di decadenza nella produzione media degli scrittori contemporanei; esso è molto evidente. Ma qui, dove tutti i dettagli sono realmente elaborati sia sul piano intellettuale che su quello artistico, emerge con chiarezza impressionante a che cosa ha già condotto tale processo di decadenza. Non parliamo della disperazione, né dell’autodissoluzione delle ideologie. La letteratura borghese già da tempo ha prodotto opere la cui tendenza fondamentale è stata la distruzione di tutti i possibili punti di vista e le prese di posizione della classe dominante. Bouvard et Pécuchet e La tentation de Saint Antoine di Flaubert, Wildente di Ibsen valgano qui da esempi particolarmente pregnanti di tali tendenze alla disperazione. Ma Flaubert e Ibsen erano realmente e sinceramente in una situazione di disperazione verso la loro classe, hanno realmente e sinceramente odiato la loro classe e la sua ideologia, hanno realmente e sinceramente cercato una via d’uscita da essa; la loro disperazione è dunque profonda e commovente poiché sta alla fine di uno sforzo disperato quanto vano di staccarsi dalla classe odiata e di elevarsi al di sopra del suo orizzonte. La tendenza parassitaria, che – come ha dimostrato Lenin – è la tendenza fondamentale generale dell’epoca imperialistica, nel nostro caso consiste nel fatto che da un lato la dissoluzione oggettiva dell’ideologia della classe è divenuta molto più violenta, per cui per ogni possibilità oggettiva ne è stata data una maggiore di superare i limiti ristretti dell’orizzonte borghese. Ma, dall’altro lato, il parassitismo si manifesta proprio nel fatto che l’autocritica della dissoluzione, la non credenza nell’ideologia della propria classe, il rifiuto e il disprezzo delle sue forme sociali perdono in veemenza e pathos, nel fatto che tale tendenza si adegua con compiaciuta ironia al sistema che disprezza ed escogita un’ideologia che consenta loro, nonostante tutto il disprezzo per la propria classe, la pacifica tolleranza del permanere del suo dominio e del disfacimento che esso comporta. Ci si salva la coscienza intellettuale e morale con una critica ironica radicale, ma ci si arresta a questa ironia. Nei primi anni del dopoguerra Thomas Mann ha scritto qualcosa di simile a un romanzo ideologico-parassitario, sia pure non del livello intellettuale di quello di Musil, La montagna incantata. Anche qui le varie ideologie borghesi si dissolvono reciprocamente in un nulla. Ma Thomas Mann è ancora un ideologo consapevole della borghesia: alla generale e totale dissoluzione intellettuale egli contrappone il semplice e laconico «comportamento» di un semplice cittadino e fa guarire moralmente i suoi personaggi, distrutti in interminabili e sterili discussioni, nei «bagni ferruginosi» della guerra mondiale. In Musil il processo di dissoluzione si trova a uno stadio molto più avanzato. Davanti ai suoi occhi non vi è più niente di borghese che abbia un valore positivo, ma proprio da questa disperazione generale egli trae i suoi argomenti scettico-mistici sull’esistente tanto disprezzato. Per il mondo borghese che egli vede, e il modo in cui lo vede, esiste ancora solo il problema: con quale ideologia critica o ribelle ci si adatta praticamente all’esistente; e dunque solo il dilemma se questo adattamento debba avvenire nella forma filistea o patologica, in quale mistura di autoinganno consapevole o inconsapevole. L’onestà personale e di scrittore di Musil è fuori discussione, la sua opera non è però altro che una sofistica dominata con strumenti notevoli: «Di tutto ciò che diciamo in genere non va bene niente».

1 Chiara ondeggiata la sala per il gioco delle bambole di seta/Però una nasconde la sua febbre sotto la farina/E ha visto circondata dai gruppi scatenati/che non mancava più tanto alle Ceneri./Lei esce di soppiatto verso lo spoglio parco, verso la piatta/Riva; fa ancora brevi cenni con la mano verso la festa in maschera/E si inchina infreddolita sul ghiaccio, uno scricchiolio/La raffredda muta, lontano il richiamo alla danza. Nessuno dei cortesi cavalieri o delle dame/La scorgeva coperta dalle alghe e alla ghiaia/Però quando in primavera si dirigevano verso il giardino/si alzava spesso dallo stagno un cupo mormorio. La leggera schiera del secolo scherzoso/Ben percepiva laggiù questo strano bisbigliare/Solo non se ne meravigliava/Lo considerava semplicemente un rumore delle onde. (Stefan George, La maschera).

2 In italiano nel testo.

3 K. Marx, F. Engels, Opere, cit., V, p. 16.

4 Lenin, La questione della dialettica, XIII, p. 376 [Cfr. Lenin, Quaderni filosofici, a cura di I. Ambrogio, Ed. Riuniti, Roma 1971, p. 363].

5 Lenin a Gorki, 14 novembre 1913.

6 I primi due volumi del romanzo sono apparsi nel 1930 e nel 1933 presso l’editore Rohwolt di Berlino [Le citazioni nel testo sono tratte dalla traduzione it. di Anita Rho, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1962].

Il retaggio di questa epoca

22 venerdì Gen 2016

Posted by nemo in I testi, Traduzioni italiane

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di György Lukács

da Problemi teorici del marxismo, «Critica marxista», 1976.

Il saggio di cui diamo qui la traduzione italiana non risulta sia stato mai pubblicato altrove. L’originale tedesco (20 cartelle dattiloscritte con correzioni di pugno dell’autore) è stato rintracciato fra le carte di Lukács dopo la sua morte e si trova ora registrato sotto la sigla LAK 11/94, nell’Archivio e Biblioteca Lukács dello Istituto di filosofia dell’Accademia ungherese delle scienze. La stesura del saggio viene fatta risalire ad un periodo che intercorre fra il 1935 ed il 1938. È da supporre, comunque, che sia stato scritto dopo il VII Congresso dell’Internazionale comunista, in un’atmosfera politico-culturale che sollevava, fra l’altro, il problema del rapporto fra il movimento operaio e la cultura borghese. Il significato di questo scritto va dunque oltre la semplice presa di posizione critica verso un libro e un autore, pur importante come Ernst Bloch. Per una breve presentazione critica del testo vedi F. Görgényi, «E. Bloch e i limiti del concetto di utopia», in Világosság, 1975, n. 8-9, pp. 524-525. Ringraziamo András Knopp e i dirigenti dell’Archivio Lukács per averci permesso di pubblicare questo saggio, (n.d.r.).

***

Ernst Bloch, l’autore del libro Erbschaft dieser Zeit (Il retaggio di questa epoca) (Oprecht e Helbing, Zurigo, 1935) che ci accingiamo a recensire, è una delle personalità più interessanti della letteratura teorica tedesca contemporanea. Il suo periodo giovanile cade nell’ultimo decennio antecedente la guerra mondiale, quando nella filosofia tedesca era generale l’aspirazione alla «Weltanschauung», quando procedeva vigorosamente il superamento del neokantismo. (Il primo scritto di Bloch, la sua tesi di laurea, è una critica a Rickert).

La tendenza di fondo di quel processo fu imperialistico-reazionaria. Spengler e Klages, Leopold Ziegler e il conte Keyserling sono i personaggi filosofici, ora celebri, che questo movimento ha prodotto. Bloch, il quale condivideva con i suoi contemporanei molte premesse gnoseologiche, se ne distinse fin dal principio su un punto estremamente importante. Il suo tendere all’idealismo oggettivo, quantunque assai di frequente si convertisse anche in lui in aperto misticismo, non aveva mai un intendimento apologetico. Nei confronti della propria epoca aveva un atteggiamento di opposizione, pur se ancora abbastanza confuso. La guerra imperialistica, poi, e il processo che porta alla guerra sono andati sempre più rafforzando questo atteggiamento di opposizione, hanno spinto Bloch sempre più a sinistra.

Già i saggi da cui nasce il suo primo libro, Geist der Utopie (Spirito di utopia), sono diretti contro la Germania della guerra mondiale. Vero è che Bloch allora criticava la guerra imperialistica della Germania dal punto di vista di un pacifismo largamente mistico, orientato in senso democratico-occidentale. Il secondo libro, Thomas Münzer als Theologe der Revolution (Thomas Münzer teologo della rivoluzione), contiene però ormai un’adesione alla rivoluzione, alla «figura liebknechtiana» di Münzer. Anche questo libro opera con un concetto idealistico-mistico della rivoluzione. Bloch crede che la dottrina economica del marxismo debba essere «approfondita» enucleando gli «eterni» momenti della ribellione umana contro lo sfruttamento e l’oppressione. Il suo Thomas Münzer, perciò, non è un personaggio storico, quale fu descritto da Engels. Al contrario, proprio per la sua «teologia» egli dev’essere indicato a modello delle lotte odierne: l’attuale lotta di liberazione del proletariato, secondo Bloch, dovrebbe pervenire all’altezza e profondità münzeriane del «pensiero utopico», per conseguire un potere realmente vittorioso.

In tal modo Bloch assume nella letteratura teorica tedesca una originale posizione di outsider. Egli combatte da anni lo svolgimento filosofico reazionario della Germania, ma lo combatte a partire da premesse filosofiche che hanno moltissimo in comune con gli orientamenti contro cui muove. Cosicché è finito in una posizione intermedia, abbastanza isolata, fra i due campi avversi.

Ma proprio questa discordia del suo atteggiamento di fondo, non superata dalla sua evoluzione verso sinistra, gli garantisce un’influenza ideologica nell’emigrazione antifascista. Infatti la discordia di fondo della posizione di Bloch è tipica di tutta una corrente nel campo dell’antifascismo borghese di sinistra. Il processo di fascistizzazione della Germania e in particolare la presa del potere da parte di Hitler hanno fatto non solo di Bloch, ma anche di molti altri scrittori borghesi di sinistra degli accaniti nemici del fascismo. Tuttavia questa evoluzione politica verso sinistra in molti di essi non è andata di pari passo con una revisione della base filosofica su cui poggia la loro attuale concezione del mondo, con una critica dell’idealismo e specialmente delle sue specifiche forme di manifestazione imperialistiche. Anche l’avvicinamento al marxismo da parte di Bloch, che ha proceduto molto più avanti rispetto alla gran maggioranza degli antifascisti borghesi di sinistra, non contiene nessuna critica dell’idealismo. Ma appunto per questo egli diviene una presenza affascinante per una grande parte di questa emigrazione. Per costoro Bloch diviene un’incarnazione del «marxismo» ad essi più agevolmente accessibile, più congeniale alla fase di sviluppo ideologico in cui si trovano. Come tale, come marxista e rivoluzionario che, però, possiede la giusta sensibilità per tutte le finezze della coltura, lo celebra Klaus Mann sulla rivista di Amsterdam Die Sammlung, parlando del suo nuovo libro come di «un ardito inventario del nostro patrimonio spirituale»; e altrettanto fa F. Burschell sulla Neue Weltbühne.

Bloch è sul piano politico notevolmente più a sinistra di quegli intellettuali che egli influenza sul piano spirituale. Egli non soltanto è un risoluto antifascista, ma è in più un avversario convinto del sistema capitalistico. Per lui non vi sono dubbi che solamente il proletariato rivoluzionario è la potenza in grado di abbattere Hitler e che il socialismo subentrerà al fascismo.

Quando, dunque, Bloch pone al centro del suo libro la questione del retaggio, egli lo fa a partire da tali convinzioni storico-politiche. Il problema centrale di questo libro, da cui scaturisce poi quello del retaggio, concerne gli alleati della rivoluzione proletaria, la conquista dei piccoli borghesi urbani e dei contadini alla rivoluzione socialista. Già l’aver posto energicamente tale questione onora il pensatore e combattente Bloch. Già questo atto mostra che egli, dopo i suoi primi libri, si è decisamente mosso verso sinistra.

Per rispondere a tale questione Bloch intende scegliere come filo conduttore il marxismo. Il lettore marxista, tuttavia, è subito colpito dal fatto che egli non collega la conquista degli alleati con quella della maggioranza della classe operaia alla rivoluzione proletaria sotto la guida del partito comunista, ma pone invece la prima del tutto indipendentemente dalla seconda. Questa debolezza di metodo, che qui appare in piena luce, nasce da una concezione volgarizzata e stravolta dell’economia marxista, che ha legami assai profondi con l’atteggiamento fondamentale, filosofico-idealistico, di Bloch. La conseguenza è che, laddove il marxismo vede problemi dell’essere materiale, Bloch è capace di osservare soltanto problemi meramente ideologici. A dispetto di questa debolezza fondamentale della sua posizione, su cui torneremo diffusamente, Bloch pone il problema del retaggio con chiarezza e nei suoi termini di principio. Egli guarda al tramonto del capitalismo e insieme a quello della cultura del capitalismo, quindi domanda: che cosa prenderà il proletariato, il costruttore del nuovo mondo, del socialismo, da questo mondo tramontante? Che cosa vi è che valga la pena di prendere? Che cosa diverrà parte integrante della nuova cultura? E considera l’entrare in possesso di questa eredità come una lotta ideologica. Solo più avanti ci fermeremo a criticare il metodo e il contenuto della sua teoria del retaggio. Qui dobbiamo anzitutto sottolineare il merito di Bloch per aver comunque posto la questione nei suoi termini di principio.

«La sassaia aurifera» – Anche nella concretizzazione dei suoi problemi Bloch parte da una piattaforma nettamente antifascista. Per lui, correttamente, il carattere del Terzo Reich è di essere una dittatura aperta e infame del capitale monopolistico. E da questa visione corretta sorgono per lui gli ulteriori problemi. Dopo aver riscontrato una «spinta» anticapitalistica anche fuori del proletariato, il suo sforzo onestamente rivoluzionario e antifascista è diretto a incanalare questa «spinta» anticapitalistica nella corrente della rivoluzione proletaria. Si tratta dunque di lottare per le vittime della propaganda demagogica del fascismo.

Si comprende allora come Bloch parta dalla ideologia di queste vittime traviate. Rincresce però che rimanga fermo all’ideologia. Tanto più rincresce, in quanto non si tratta di uno sbaglio casuale, ma invece della conseguenza necessaria dell’attuale metodo di Bloch. Abbiamo già indicato quale sia il suo rapporto con l’economia politica marxista. La concezione ristretta ed errata dell’economia politica marxista è tanto più pericolosa per Bloch in quanto vi è in essa qualcosa che si avvicina molto alla ideologia dell’anticapitalismo romantico, nella forma oggi assai diffusa. I piccoli borghesi, tormentati dai colpi di una terribile crisi economica, nella loro disperata impotenza vanno sognando di un assetto «senza economia»; molti credono che l’«economia» da cui vengono torturati sia una maligna invenzione di ebrei, liberali e marxisti, ma che per l’appunto debba essere, allora, qualcosa che è possibile abolire. Ora, tentando di dare chiarezza rivoluzionaria alla nostalgia anticapitalistica presente in tali torbide ideologie, Bloch finisce in un vicolo cieco ideologico, giacché egli stesso subisce l’influsso di questa ideologia. Bloch disconosce il nesso fra l’esistenza dell’uomo e la produzione materiale. Perciò non sottolinea nel socialismo il superamento dell’«asservente subordinazione» dell’uomo alla divisione del lavoro, il superamento della divisione sociale del lavoro fra città e campagna, fra lavoro fisico e intellettuale, ma opera invece con un concetto astratto, borghese, dell’«economia», la quale nel socialismo dovrebbe degradare a un’importanza periferica.

In tal modo Bloch non coglie a fondo il complicato nesso dialettico fra la situazione sociale dei «ceti medi» e la loro ideologia romantico-anticapitalistica. In tal modo egli finisce invece per riallacciarsi a questa ultima acriticamente. È vero che tenta, e persino con passione, di darne una critica, ma questa critica, priva di base materiale, non ha alcuna possibilità di essere realmente dialettica. Il suo metodo si riduce, alla fin fine, a una contrapposizione fra i lati «buoni» e quelli «cattivi» di questa ideologia.

È, questo, in generale un tratto caratteristico della mera critica ideologica al fascismo, che non parte dall’analisi realmente concreta della base materiale. E.H. Gast, ad esempio, nella sua recensione del romanzo di Thomas Mann su Giacobbe contrappone il «giusto» e «superiore» mito di Thomas Mann al «falso» e «inferiore» mito dei fascisti, l’irrazionalismo «autentico» di Mann all’«inautentico» e «barbaro» irrazionalismo dei fascisti. (Die Sammlung, 1934, gennaio). Altrettanto fa il filosofo socialdemocratico Herbert Marcuse, il quale mette a contrasto l’«autentica filosofia della vita» di Dilthey e Nietzsche con la falsa filosofia della vita dei fascisti (Zeitschrift für Sozialforschung, III, 2). I punti di vista di Bloch sono molto più profondi che non quelli di Gast o di Marcuse. Costoro vogliono separare completamente il fascismo dal «normale» sviluppo ideologico della borghesia, mentre Bloch intende mettere in luce tanto le connessioni quanto le differenze. Cosicché egli vede quanto c’è di reazionario e controrivoluzionario anche nella fase prefascista dell’imperialismo e al fascismo contrappone non un capitalismo «normale», ma la rivoluzione proletaria. Tuttavia l’erroneità del metodo spinge Bloch molto lontano dall’obiettivo cui mira, la dialettica rivoluzionaria, e conduce anche lui a un eclettico da-un-lato/dall’altro.

Questo restare impaniato di Bloch nell’ideologia dell’anticapitalismo romantico produce in lui una concezione fondamentalmente falsa del marxismo e del retaggio marxista. Dice: «Quando il socialismo scientifico si trasferì in Francia e Inghilterra, nell’illuminismo francese e nell’economia politica inglese, quando il marxismo volgare ebbe dimenticato, qui le guerre dei contadini tedeschi, là il retaggio della filosofia tedesca: i nazisti dilagarono nelle regioni originariamente münzeriane, ora vuote…» (p. 96). È molto probabile che Bloch intenda qui polemizzare contro il revisionismo, contro la liquidazione della dialettica rivoluzionaria, contro il completo abbandono dei contadini, ecc. Nel suo discorso, tuttavia, questo rimprovero rivolto al marxismo volgare trapassa in un rimprovero al marxismo stesso per aver raccolto l’eredità di Smith e Ricardo e dello sviluppo materialistico da Bacone a Feuerbach. A causa di questa falsa concezione Bloch perde ogni possibilità di condurre un’analisi reale delle correnti ideologiche da lui indagate. Può analizzarle soltanto come ideologie e, come tali, può «approfondirle» filosoficamente. Così resta, però, sempre sul terreno delle ideologie che va criticando.

Questo metodo falso non può che produrre nel concreto contenuti falsi. Bloch vede chiaramente come l’ideologia dei piccoli borghesi e dei contadini stia in contraddizione con i loro interessi reali, che dovrebbero renderli alleati della rivoluzione proletaria. Egli vede che queste ideologie sono fuorvianti, che portano i piccoli borghesi e i contadini in un vicolo cieco, e cerca di mettere allo scoperto tali contraddizioni in modo tale da aiutare i traviati a trovare la retta via. A questo scopo costruisce una sua teoria delle «contraddizioni inattuali». Contraddizione «attuale» è per Bloch l’antagonismo fra borghesia e proletariato; e perciò è possibile esprimerlo adeguatamente nel linguaggio del marxismo. L’esistenza dei contadini è invece una contraddizione «inattuale»: questi vivono «fuori» dal mondo del capitalismo e delle sue odierne contraddizioni «attuali». Da questa situazione sorge da un lato la possibilità per i fascisti di conquistare i contadini e i piccoli borghesi con la loro scadente demagogia, dall’altro il compito per il marxismo di assumere nella propria dialettica i problemi specifici che ne risultano, di farsi realmente «totale», di elaborare dialetticamente la contraddizione «inattuale».

Riscontriamo qui tutto un groviglio di false affermazioni. Anzitutto la piccola borghesia urbana e particolarmente il ceto impiegatizio è, anche secondo quanto dice lo stesso Bloch, un prodotto del capitalismo, e perciò dovrebbe, anche secondo la sua teoria, per ragioni di coerenza, essere oggetto della contraddizione «attuale». Ma Bloch, che ha letto sia Marx sia Lenin, dovrebbe sapere e, se non fosse impegolato nei pregiudizi idealistici dell’anticapitalismo romantico, saprebbe che nonostante tutti i residui precapitalistici la specifica situazione odierna delle campagne è prodotto e risultato dello sviluppo capitalistico. Se avesse inteso l’economia marxista in tutta la sua reale estensione e profondità, avrebbe visto che dovunque egli pensa di dover applicare la sua nuova teoria della «contraddizione inattuale», la teoria di Marx e Lenin ha già messo in luce i problemi concreti dello sviluppo capitalistico e della strategia rivoluzionaria del proletariato.

Bloch non vede come ciò che egli definisce «passato inelaborato» sia di continuo riprodotto dal capitalismo. Proprio il fatto che il fascismo sugli istinti ribellistici dei piccoli borghesi e dei contadini innesti una ideologia che è il rinascimento di ogni arretratezza e barbarie dovrebbe ammonire un onesto e convinto antifascista come Bloch alla massima cautela proprio su questo punto. In quanto nemico della bugiarda ebrezza dei fascisti, dovrebbe contrapporre a questa il sobrio pathos della reale conoscenza rivoluzionaria.

Purtroppo, fa il contrario. Nel torbido miscuglio di queste ideologie egli pensa di trovare, con i mezzi della critica ideologica, un contenuto autentico, rivoluzionario, non ancora scoperto dal marxismo. Questo contenuto rivoluzionario sarebbe il fondamento della «contraddizione inattuale», sarebbe quella «irratio autentica» che Bloch contrappone all’irrazionalismo bugiardo delle ideologie imperialistiche e fasciste. Tale concezione è un’eredità del suo periodo precedente. Egli prende le mosse dalla giusta idea secondo cui la rivoluzione proletaria si fa erede di tutte le lotte di classe contro lo sfruttamento e l’oppressione. Tuttavia proprio nella mistica confusione dei vecchi moti insurrezionali egli vede un retaggio attuale ancora non utilizzato dal marxismo, un elemento di sviluppo del marxismo.

Sfugge a Bloch quale sia il modo in cui procede l’elaborazione critica del retaggio, il suo superamento, nel materialismo dialettico. Il problema del superamento è inteso da lui in maniera puramente idealistico-ideologica. Gli sfugge il processo reale della storia nel quale vengono superate realmente contraddizioni reali. Certo, né nella storia reale, nel suo adeguato rispecchiamento nel pensiero, il marxismo-leninismo, questo superamento si verifica in modo lineare e meccanico. Tutto il problema marx-leniniano della liquidazione ad opera della rivoluzione proletaria dei problemi della rivoluzione borghese rimasti insoluti (questione agraria, questione nazionale, ecc.) è un esempio di questa concreta ineguaglianza dello sviluppo. Mentre però i problemi reali della rivoluzione borghese rimasti insoluti vengono realmente superati (superati anche nel senso di conservati) nella strategia della rivoluzione proletaria, questa conservazione superante non riguarda invece le ideologie che li accompagnano. Infatti queste ultime sono inseparabilmente connesse con la situazione economica dei contadini e dei piccoli borghesi, che presenta elementi ambigui e perciò necessariamente reazionari. Tale connessione non può non farsi sentire anche nelle ideologie dei loro più significativi rappresentanti rivoluzionari del passato. Il marxismo-leninismo eredita le reali tradizioni rivoluzionarie di questi vecchi movimenti popolari, le porta a un livello superiore (ed è, questo, un altro importante momento del superamento che Bloch trascura del tutto), ma va totalmente oltre le vecchie forme delle loro ideologie. Bloch, per contro, vede proprio in tali ideologie il momento da conservare. «Mancando però alla propaganda marxista ogni contraltare al mito, ogni trasformazione degli inizi mitici in sogni reali, dionisiaci, in sogni rivoluzionari: per effetto del nazionalsocialismo diviene visibile anche un pezzo di colpa, quella cioè del troppo corrente marxismo volgare» (p. 55). Fin quando egli critica il «settarismo compiaciuto di sé» di molti marxisti prima dell’avvento al potere di Hitler, ha ragione. E tanto maggiore è il suo merito, in quanto egli si è pronunciato con il suo libro prima del VII Congresso internazionale. Fin quando polemizza contro il fatto che molti comunisti hanno misconosciuto che «il fascismo specula anche sui migliori sentimenti delle masse, sul loro senso di giustizia e talvolta persino sulle loro tradizioni rivoluzionarie» (Dimitrov), egli si trova ancora sulla strada giusta. Ma in Bloch, nel corso della battaglia in difesa della propria linea, vanno confondendosi i confini tra il marxismo volgare e il marxismo reale. L’avversario primo di questa sua teoria del retaggio rivoluzionario è infatti Friedrich Engels, il quale in una lettera definisce quella ideologia, di cui Bloch vuol sapere quale sia il contenuto aureo, semplicemente e ruvidamente come «stupidità». Engels così prosegue: «Il basso
livello dello sviluppo economico nel periodo preistorico ha come complemento, ma anche in parte come condizione, e persino come causa, le false rappresentazioni della natura» (Lettera a C. Schmidt del 27 ottobre 1890), e Bloch polemizza assai aspramente contro questa proposizione «troppo illuministica». Egli dice sintetizzando: «Inverosimile che la qualità di tutte le mitologie e occultismi – nel loro lato esorcizzante e dissolvente – sia stata esclusivamente di essere ipostatizzazioni di un’economia indecifrata e non anche un concorrere di una natura indecifrata, ancora indecifrata in se stessa» (p. 137). È chiara, qui, la concezione ristretta che Bloch ha della economia marxista, un aspetto per lui fatale. Giacché misconosce il nesso dialetticamente enunciato da Engels fra lo sviluppo storico dell’economia e quello della conoscenza della natura, le rappresentazioni che gli uomini si fanno della natura acquistano per lui una mistica oggettività apparente. Nella sua visione la natura, che esiste indipendentemente dalla coscienza umana, non viene conosciuta sempre più adeguatamente in concomitanza con il processo di produzione materiale, ma invece proprio le rappresentazioni dei primi e primissimi gradi della conoscenza umana della natura rimanderebbero a connessioni ormai divenute di nuovo irraggiungibili per i gradi superiori (capitalismo). L’idealismo di Bloch qui si tramuta direttamente in fatto reazionario; perfino nell’occultismo egli rintraccia elementi da ereditare, «un segmento di contenuti designati (solo designati) mitologicamente che sono, a dir poco, estranei al segmento meccanico, anzi in parte forse giacciono al di sotto di ogni orizzonte monoblocco» (p. 130).

Tali brani mostrano a sufficienza a quali pericolose conseguenze pervenga Bloch andando fino in fondo con il suo metodo errato. Il che tanto più rincresce in quanto nella sua analisi della cultura contemporanea è rilevabile non soltanto una tendenza antifascista, ma anche un sano istinto plebeo. Proprio a causa della sua ampia e profonda cultura Bloch è lontanissimo da una cieca sopravvalutazione della cultura e civiltà del periodo odierno. Egli si distingue notevolmente, a suo vantaggio, da quegli antifascisti borghesi che, pur combattendo l’ideologia del fascismo, cercano di salvare l’ideologia imperialistica. La condanna blochiana della cultura borghese risale molto addietro rispetto al periodo imperialistico e intende costituirsi come critica dell’ideologia dell’intera epoca della decadenza. Quantunque anche qui si introduca a disturbare il discorso l’anticapitalismo romantico, facendogli dirigere il fuoco principale dell’attacco contro il periodo liberale dello sviluppo borghese, senza una critica abbastanza netta delle controtendenze reazionarie. Il tentativo blochiano di scoprire un nuovo metodo di lotta contro la ideologia del fascismo deve quindi considerarsi fallito. È fatica vana cercare l’«oro» nella ideologia di contadini e piccoli borghesi arretrati. L’«oro» è contenuto per questi ceti negli istinti anticapitalistici che scaturiscono dalla loro condizione sociale scissa, dall’oppressione e lo sfruttamento che esercita su di loro il capitalismo monopolistico. Questo «oro» non è però rintracciabile per la via di Bloch, – tale via conduce soltanto a eternare la loro confusione ideologica, – ma invece su quella della teoria e prassi marxiste-leniniste (come assai persuasivamente mostrano l’andamento delle cose in Urss e gli effetti della tattica del Fronte popolare). Esse, chiarendo le loro esperienze, li aiutano a superare nella pratica, nella lotta per i loro interessi reali, la confusione ideologica.

Montaggio dialettico – Il secondo importante problema posto dal libro di Bloch è quello del retaggio dell’attuale cultura capitalistica. Tale questione è per noi assai interessante perché Bloch fornisce molto materiale concreto sul formalismo nell’arte e tratta di numerosissimi problemi che nell’odierna discussione contro il formalismo sono di grande peso.

Egli vede chiarissimamente lo stato di catastrofico dissolvimento in cui si trova l’attuale cultura capitalistica. «Insegnanti, artisti, scrittori non trovano più nessuna cultura sul terreno del capitale, ad eccezione di quella ironica o stravagante, una cultura che è mancanza di patria, che s’identifica con la mancanza d’oggetto stessa» (p. 305). E ancora più decisamente sulla collocazione dei poeti nell’epoca attuale: «Così, importanti poeti non trovano più nei materiali da impiegarsi subito, ma solo dopo averli spezzati. Il mondo imperante non diffonde più per loro uno splendore rappresentabile, che sia da affabulare, ma solo vuotezza, e dentro scarti mescolabili». Aggiunge poi, alludendo in specie a Joyce, che questa situazione si verifica «perché all’uomo manca qualcosa, la cosa più importante…» (pp. 189-190).

Tale corretto giudizio, confermato da un’ampia analisi dei più significativi scrittori, musicisti e filosofi contemporanei, induce Bloch a considerare il problema stilistico del montaggio come il punto centrale delle attività artistiche e filosofiche attuali. E ovviamente egli pone il problema del retaggio a partire di qui. La questione in sé è certamente legittima. Molto meno lo è la risposta di Bloch. Il quale infatti afferma: «Pure alcunché, come anzitutto il singolare “montaggio” tardoborghese, comporta senza dubbio più che il tramonto» (p. 13). Dobbiamo perciò anzitutto conoscere la concezione blochiana del montaggio. Il concetto di montaggio – e ciò è assai interessante – per Bloch ha una estensione enorme: «Esso va dai collages a Joyce, fino a Brecht e oltre»; persino la filosofia ha attualmente il montaggio come suo principio metodologico fondamentale.

La sua teoria del montaggio prende le mosse dalla concezione, cui abbiamo fatto cenno, del rapporto degli artisti e del loro pubblico con la realtà contemporanea. Il punto basilare è la perdita di connessione. Secondo Bloch il montaggio ha di positivo che non tenta di mascherare la perdita della connessione, come fa ancora la Nuova oggettività, ma invece parte apertamente e consapevolmente dalla sconnessione della realtà per gli intellettuali borghesi dei nostri giorni. «Le parti non concordano più luna con l’altra, sono divenute distaccabili, rimontabili… Nel montaggio tecnico e culturale tuttavia viene disvelata la connessione della superficie vecchia… il montaggio appare sul piano culturale come la forma più alta di intermittenza spettrale sopra la dispersione, anzi in dati casi come forma attuale di inebriamento e irrazionalità… esso non simula una qualche stabilità, con cui s’intenda rendere solido il davanti… Da ruderi che non trovano il coraggio di fosforeggiare, da parte del vecchio mondo che vengono di continuo mutate di funzione solo per usarle nel vecchio mondo» (pp. 162-164).

Il montaggio in tal modo viene fissato concettualmente come tipico prodotto decompositivo dell’ultimo sviluppo ideologico della borghesia. Anzi per Bloch proprio la coerenza con cui tiene fermo alla sconnessione della realtà apparente dà al montaggio preminenza e superiorità rispetto alla Nuova oggettività. «C’è qui un’interruzione e una nuova connessura in un senso che va molto oltre lo scambio di parti tecniche o addirittura il fotomontaggio, eppure questa forma obbedisce ancora come a una vera “opera frammentaria”… esso improvvisa con la connessione scoppiata, trasforma gli elementi divenuti puri, con cui la Oggettività forma rigide facciate, in tentazioni e tentativi entro uno spazio vuoto. Questo spazio vuoto è sorto appunto perché è franata la cultura borghese; e in esso gioca non solo la razionalizzazione di un’altra società, ma più visibilmente una nuova figurazione nascente dalle particole del retaggio culturale divenuto caotico» (p. 156).

Tuttavia, quanto è corretta la messa a nudo che Bloch fa dei fondamenti ideologici del montaggio, tanto sono errate le conseguenze che tira dalle proprie costatazioni. Ma queste conclusioni sbagliate non tolgono valore alla sua analisi. Proprio il nostro dibattito sul formalismo ha mostrato quanto siano pochi gli artisti e i critici in possesso di una certa chiarezza sui presupposti ideologici del formalismo. Ecco perché ha valore durevole la sottolineatura blochiana dell’importanza ideologica che spetta al riflesso del mondo lacerato nella sua connessione e, di conseguenza, alla fine dello «splendore estetico». Coloro i quali, criticando apparentemente il contenuto del formalismo, glorificano però la «maestria» dei suoi rappresentanti, potrebbero imparare dall’analisi di Bloch che il formalismo deve necessariamente distruggere tutti i presupposti di una reale maestria (senza virgolette). Vale a dire la raffigurazione del tipico, il suo sviluppo artistico-organico dalla raffigurazione dell’individuale. Purtroppo l’analisi di Bloch anche in questo ambito resta ferma al piano idealistico. Egli anche qui distingue semplicemente in maniera eclettica il «lato buono» del montaggio dal «lato cattivo» e non si accorge che, laddove l’assenza di connessione viene sostituita da una connessione astratta, questa può essere appunto solo una «sostituzione» e non un reale superamento. E proprio per questo non vede la profonda affinità artistica che intercorre fra il montaggio «marxista» e quello borghese. Il primo argomento apparentemente di gran peso addotto da Bloch a favore della sviluppabilità del montaggio per la cultura socialista è il suo criterio generale dell’eredità. Egli trae questo criterio dal proprio orientamento di opposizione al capitalismo imperialistico, ma lo trae ancora una volta in modo astratto e formale. «Questo è anche qui il criterio delle parti di eredità utilizzabili: esse nel tardocapitalismo, che le forma, non possono non essere tanto imperfette e impedite quanto sospette» (p. 167). Il montaggio è quindi sospetto per l’odierno capitalismo, il quale ne impedisce lo sviluppo. Questo argomento, però, cade quando si approfondisce l’analisi. È tipico, cioè, della cultura borghese nel suo periodo tardo il fatto che nuovi fenomeni artistici o filosofici vengano dapprima sbeffeggiati e derisi, per essere poi considerati, in base a una fortissima sopravvalutazione, parti integranti della cultura capitalistica. Abbiamo qui un caso – interessantissimo e nelle sue cause concrete certamente meritevole di studio – di sviluppo ineguale. Tuttavia da questo fatto in sé non consegue per nulla che tali fenomeni artistici «sospetti» o «impediti» abbiano un significato che realmente indichi il futuro. A nessun marxista verrà in mente di considerare come retaggio in tale senso il poeta Maeterlinck o il filosofo Nietzsche, quantunque essi al loro apparire siano stati respinti dalla borghesia come molto «sospetti». Né Bloch ha argomenti per dimostrare che la borghesia del capitalismo monopolistico abbia combattuto il montaggio nell’arte con maggior energia rispetto a un qualsiasi indirizzo borghese precedente. Al contrario, il corteo trionfale del montaggio è stato assai più rapido e meno impedito che non quello dei precedenti indirizzi artistici. Se poi Bloch vuol discutere il problema del «sospetto» come criterio di ereditabilità, dovrebbe fare attenzione a quanto chiaramente sospetto e odioso sia per la borghesia fascista e in via di fascistizzazione il vero realismo. Naturalmente la borghesia reazionaria protesterà sempre quando un artista userà il metodo del montaggio per esprimere con esso contenuti scomodi o pericolosi. In tal caso, però, è «sospetto» il contenuto e non il metodo. Cosicché Bloch dovrebbe indagare nel concreto rispettivamente che cosa tale contenuto significhi sul piano di classe e artistico, e che cosa la forma espressiva del montaggio abbia da dire a questo contenuto. Ma per Bloch la questione sembra risolta a priori. E in un senso positivo per il montaggio. La sua prova a favore è null’altro che la prassi letteraria di Bert Brecht e quella «filosofica», fondata sul montaggio, di Walter Benjamin. Il secondo esempio è impossibile prenderlo sul serio. Il caso Brecht richiederebbe un’indagine molto accurata. Bloch invece non comincia neppure l’indagine: è tanto profondamente persuaso del puro carattere socialista dei contenuti di Brecht che ne difende persino gli «spregiudicati usi di modelli neomachisti». E quanto al carattere socialrealistico del montaggio brechtiano, non va più in là di una nuda asserzione.

Dietro tali argomenti formalistici e dogmatici c’è ancora una volta la blochiana teoria generale del salvataggio della «irratio autentica». Questa teoria è però ancora più storta e fragile qui, se possibile, di quanto non fosse quand’era applicata alle tradizioni ribellistiche dei piccoli borghesi e dei contadini. Bloch parla del montaggio come della forma «dell’inebriamento e della irrazionalità attuali». Ora, noi abbiamo già discusso la teoria blochiana delle contraddizioni «attuali» e «inattuali», concludendo che è insostenibile. Ma anche secondo l’ottica di questa teoria risulta incoerente attribuire un valore alla «irrazionalità attuale» (grande-borghese). Bloch stesso, infatti, nella prima parte della sua critica ha propugnato la teoria secondo cui questo residuo irrazionale, non-superato e valido, si riferisce soltanto a classi la cui esistenza, a suo giudizio, non è legata al capitalismo, alla lotta di classe fra borghesia e proletariato. Se dunque, come dice la teoria blochiana, la «irratio autentica» discende dalla «inattualità», con quale legittimità egli d’un tratto considera la «irrazionalità attuale» come valore e non come prodotto di decadenza all’interno della assai «attuale» grande borghesia? Quantunque, perciò, la sua teoria debba essere rifiutata come teoria anche in questa sua applicazione, nondimeno tale rifiuto non ci impedisce di riconoscere il valore del molto e ricchissimo lavoro compiuto da Bloch. Egli critica la letteratura, la musica e la filosofia moderne sulla base di una loro conoscenza intima e profonda, e spesso le critica con acutezza distruttiva e spirito abbagliante.

Bloch mostra come, nell’espressionismo, sia nata la forma del montaggio. Un ulteriore sviluppo verso la disintegrazione della forma si ha nel surrealismo. Quindi abbiamo la descrizione estremamente efficace del modo in cui il montaggio surrealistico si presenta in Joyce, che egli giustamente considera, accanto a Green e Proust, come punto culminante di queste tendenze. Sul linguaggio di Joyce dice: «Una bocca senza io è qui all’interno del meccanismo in scorrimento, li in mezzo lo beve, lo balbetta, lo fa sfogare. Il linguaggio si adegua pienamente a questa disintegrazione, è non finito e già formato, perfettamente regolare, ma aperto e confuso. Ciò che vedi nei periodi di stanchezza, nelle pause fra i discorsi o quando uno è sognante o anche distratto, parla, s’ingarbuglia, fa giochi di parole: qui tutto è fuor di misura. Le parole sono divenute disoccupate, licenziate dal loro rapporto di senso, ora il linguaggio va come un verme tagliuzzato, ora si condensa come in un cartone animato, ora sta sospeso e si ficca nell’azione come un soffitto teatrale» (p. 184). Ecco un’eccellente descrizione del linguaggio joyceano, forse la migliore dataci finora. Ma al contempo essa è, proprio per la sua penetranza descrittiva, la critica più distruttiva che sia finora stata scritta sul linguaggio di Joyce. Tale giudizio annientante, infatti, questa volta non è «montato» in un’analisi, ma è contenuto organicamente nella descrizione stessa. Altrettanto interessante, ma anche molto più consapevolmente critica, è l’analisi che Bloch conduce del musicista Stravinskij. Bloch inizia questa analisi con immagini del tutto caratteristiche: «Su una cosa cava si può fischiare bene. Così appunto fa Stravinskij con se stesso e le sue cose. Ha già sperimentato molto. Il vuoto rimbomba su se stesso seducente, si veste anche, indossa roba vecchia, diviene come una maschera e risuona in quella guisa». E dopo questa introduzione ci dà un contributo assai interessante sul nesso fra l’Edipo di Stravinskij e la stabilizzazione relativa. «La musica qui approva… il nastro scorrevole della necessità, nobilita il lavoro a catena senza pause, il destino senza luce… Questa rigidità è il tributo del successivo Stravinskij alla reazione parigina, anzi, alla stabilizzazione capitalistica del mondo, da cui discende anche quel che viene definito l’“oggettivismo” di questa musica». È ancora una volta una strana ironia che proprio qui, dopo questa analisi distruttiva dell’apologetica capitalistica nella musica di Stravinskij, proprio su costui egli applichi il suo criterio del retaggio autentico. Quanto nel caso concreto sia privo di valore il suo criterio, è dimostrato appunto dalla descrizione riassuntiva dell’effetto provocato da Stravinskij: «Sebbene alla Nuova oggettività abbia aggiunto la musica-macchina, insomma l’inumanità musicale, Stravinskij appare alla borghesia non meno sospetto che up to date; il “fascista” fa l’effetto di un “bolscevico della cultura”» (pp. 173-177).

Le medesime contraddizioni fra splendide descrizioni e analisi, da un lato, e false conclusioni, dall’altro, le ritroviamo quando Bloch si occupa della filosofia contemporanea. Vero è che di fronte a determinati fenomeni assume un atteggiamento inequivoco di rifiuto e che spesso conforta tale rifiuto con azzeccatissime irrisioni. Così definisce Klages un «deciso filosofo da fine-settimana»; sulla filosofia di questi dice in modo liquidatorio: «Un fiume cosmico deposita sulle rive frutti di letture» (p. 243). Con altrettanta pertinenza e arguzia a proposito di Spengler: «Lo storico Spengler è, non un profeta rivolto indietro, ma un antiquario rivolto in avanti» (p. 234). Tuttavia è nel medesimo tempo molto caratteristico che Bloch sia in Klages sia in Spengler critichi non le basi gnoseologiche, l’agnosticismo e la mistica, ma soltanto le conseguenze grottesche che, derivando da tali basi, vengono alla luce nella loro stravolta e apologetica «immagine del mondo». Questo non casuale difetto di critica nei confronti dell’idealismo indebolisce talvolta anche l’asprezza della sua critica verso l’essenza reazionaria di questi scrittori. In tali casi la critica si ferma alla battuta spiritosa e arguta, invece di svelare realmente l’elemento pericoloso delle tendenze reazionarie. Particolarmente chiara emerge tale debolezza quando la sua presa di posizione non è di netto rifiuto. In Nietzsche, per esempio, Bloch vuol salvare come retaggio il «lato buono» del principio dionisiaco. A tale scopo nel «dionisiaco» egli scopre un tratto plebeo: «…tuttavia “Dionisio” è appunto per la “morale da schiavi” un dio non ignoto, ma invece lieto, anzitutto un dio esplosivo. Saturnali si chiamavano le feste degli antichi schiavi, e la vite di Gesù, per quanto la Chiesa l’abbia completamente svigorita, nella cristianissima guerra dei contadini ha mostrato meno morale da schiavi di quel che piaccia ai signori» (p. 270). Bloch sa bene che tali vedute non hanno nulla a che vedere con Nietzsche. Il fine di Nietzsche è un fine «privato, camuffato in maniera aristocratico-reazionaria, un’utopia romantica, senza contatto con la storia, e per nulla con la classe oggi decisiva; ma la storia si prende da sé il suo contatto, l’astuzia della ragione è grande» (ibidem).

Qui la debolezza idealistica della concezione della storia in Bloch risulta straordinariamente chiara. In primo luogo, infatti, vuol dire sottovalutare fortemente il significato reazionario della filosofia di Nietzsche negarle il «contatto con la storia». Essa invece ha contatti addirittura saldissimi, ma per l’appunto puramente ed esplicitamente reazionari. In secondo luogo, non ci si può immaginare nulla di più antistorico di questa blochiana «astuzia della ragione» nella storia. Persino se Bloch avesse dimostrato un significato rivoluzionario dei Saturnali per le insurrezioni degli schiavi romani (cosa che egli non fa), dove sarebbe la loro relazione reale con il Dioniso «rivoluzionario»? E con le guerre dei contadini?! La prevenzione idealistica di Bloch, che nell’ideologia cristiana dei contadini insorti nel XVI secolo gli fa vedere, non un riflesso della debolezza e arretratezza del loro movimento, ma un valore attuale, da restaurare, per il moderno movimento operaio, lo conduce qui in una brutta confusione. Egli collega del tutto arbitrariamente l’un mito all’altro nell’intento di pervenire a una connessione storica generale. Cosicché perde ogni terreno reale, storico, sotto i piedi, soggiace in questo punto pienamente a quel «metodo» arbitrario, idealistico-mistico, divenuto predominante nella filosofia reazionaria in specie a partire da Nietzsche. Invece di aprire la strada a un nuovo retaggio per il marxismo, egli si pone nel quadro di quelle pseudofilosofie reazionarie la cui vuotezza e arbitrarietà in altri luoghi del suo libro combatte vivamente, la cui indole reazionaria egli, antifascista convinto, altrimenti respinge con passione. Tuttavia la contraddizione da noi individuata in Bloch opera anche in questi casi. Egli descrive, per esempio, con grande penetrazione, e non senza un certo rispetto e una certa simpatia, lo sviluppo della moderna Fenomenologia, la scuola di Husserl. Quando però analizza l’ultimo galoppino di questa scuola, Martin Heidegger, il suo istinto rivoluzionario lo costringe a descrivere in un modo distruttivamente ironico l’apologetismo formalmente complicato, ma assai scarso nel contenuto, di questa celebrità della Germania fascista. «La morte eterna rende alla fine il concreto assetto sociale “dell’uomo” così indifferente, che esso può anche restare capitalistico. L’affermazione della morte come destino assoluto e dell’unico “verso dove” è per la controrivoluzione di oggi quel che in passato era per essa la consolazione di un aldilà migliore» (pp. 220-221). Tale critica dei singoli rappresentanti della cultura borghese è l’aspetto più valido del libro di Bloch. Ed essa sta in stridente contrasto con la sua concezione generale del retaggio. A Bloch accade il contrario di ciò che accadde a quel mago del vecchio Testamento il quale era andato per maledire gli ebrei, ma le cui maledizioni furono mutate in benedizioni da Jahveh. Bloch vuol salvare il «contenuto in oro» della cultura borghese disintegrantesi. Siccome però in questa spedizione di salvataggio egli va con un reale dispendio di sapere e di intelligenza, distrugge strada facendo con critiche spietate tutto quel che vorrebbe salvare. Quando, dunque, dal mucchio di rovine, che egli stesso davanti agli occhi del lettore ha ulteriormente demolito, cerca di levar fuori un retaggio positivo, appare non organico, non convincente. Ed è appunto un suo merito che le sue stesse conclusioni appaiano tanto poco persuasive, che queste siano invalidate dalle sue stesse esposizioni. Tale contraddittorio autosopprimersi del suo metodo tramite l’applicazione al materiale concreto dà al lettore una speranza: che questo metodo idealistico-mistico non sia l’ultima fase dello sviluppo di Bloch, che la sua onesta e coraggiosa collaborazione alla lotta contro il fascismo lo aiuti a superare la odierna brusca contraddizione fra la sua chiara presa di posizione politica contro il fascismo e le sue concessioni filosofiche alle correnti idealistiche reazionarie.

(traduzione di Alberto Scarponi)

Solženitsyn: Una giornata di Ivan Denisovič

15 domenica Nov 2015

Posted by nemo in I testi, Traduzioni italiane

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di György Lukács

[Solschenizyn «Ein Tug in Leben des Iwan Denissowitsch» (1964), trad. it. di Fausto Codino, in «Belfagor», n. 3, 1964, ora in G. L., Marxismo e politica culturale, Einadui, Torino 1968].


1. Il rapporto estetico della novella col romanzo è già stato studiato più volte, anche dall’autore di queste pagine. Molto meno si è parlato del suo rapporto storico, dei suoi effetti alterni nel corso dello sviluppo letterario. Eppure questo è un problema quanto mai interessante e istruttivo, che illumina e caratterizza particolarmente proprio la situazione attuale. Intendiamo accennare al fatto, spesso ricorrente, che la novella appare o come anticipatrice di una conquista della realtà da parte delle grandi forme epiche e drammatiche, o alla fine di un periodo, come retro-guardia, come un’ultima eco. Cioè: o nella fase del non-ancora, nel dominio poetico universale sul mondo sociale di una data epoca, o in quella del non-più.

Sotto questo aspetto il Boccaccio e la novella italiana appaiono come i precursori del moderno romanzo inglese. Essa rappresenta il mondo in un’epoca in cui le forme di vita borghesi avanzano vittoriose, in cui esse cominciano a distruggere sempre più, nei campi più diversi, le forme di vita medievali e a prenderne il posto, mentre tuttavia non può esistere ancora una totalità degli oggetti, una totalità delle relazioni umane e dei comportamenti nel senso della società borghese. Dall’altra parte, la novella di Maupassant appare come un’eco affievolita del mondo di cui Balzac e Stendhal avevano descritto la nascita, Flaubert e Zola il molto problematico compimento.

Questo rapporto storico può sorgere solo in virtù di peculiarità del genere. Si è già detto della totalità degli oggetti come tratto caratteristico dell’universalità estensiva del romanzo; la totalità drammatica ha un altro contenuto e un’altra struttura, ma entrambe sono rivolte all’integrità comprensiva della vita rappresentata, in entrambe il pro e contra universalmente umano di fronte alle questioni centrali del tempo produce una totalità di tipi che contrastandosi e integrandosi a vicenda occupano i posti giusti negli avvenimenti del tempo. La novella muove invece dal caso singolo e, nell’estensione immanente della raffigurazione, resta ferma ad esso. La novella non pretende di raffigurare completa la realtà sociale, neppure in quanto questa totalità risulta dall’aspetto di un problema fondamentale e attuale. La sua verità deriva dal fatto che un caso singolo – per lo più estremo – è possibile in una società determinata, e nella sua mera possibilità è caratteristico di essa. Perciò essa può tralasciare la genesi sociale degli uomini, delle loro relazioni, delle situazioni in cui agiscono. Perciò non ha bisogno di mediazioni, per avviare i fatti, e può rinunciare a prospettive concrete. Questa particolarità della novella, che tuttavia dal Boccaccio a Čechov ammette variazioni interne all’infinito, consente che storicamente essa appaia tanto come anticipatrice quanto come retroguardia delle forme grandi, come espressione artistica del non-ancora o del non-più della totalità rappresentabile.

Qui naturalmente non cercheremo di discutere, neppure per accenni, questa dialettica storica. Ma dobbiamo dire, per evitare malintesi, che l’accennata alternativa di non-ancora e non-più, importantissima per le considerazioni che faremo più avanti, non esaurisce affatto i rapporti storici di romanzo e novella. Ne esistono numerosi altri che questa volta dobbiamo tralasciare. Per accennare alla molteplicità dei nessi possibili, basterà ricordare Gottfried Keller. Enrico il Verde, per potersi sviluppare come totalità di romanzo, dovette abbandonare la Svizzera del giovane Keller. La gente di Seldwyla presenta come ciclo, nel contrasto e nell’integrazione reciproci, il quadro di quella totalità non rappresentabile in forma di romanzo. E la patria diventata capitalistica non può offrire, corrispondentemente alla visione kelleriana dell’uomo, alcuna totalità ricca e non artificiosamente articolata; invece le novelle tra loro polemiche dell’Epigramma, considerate come cornice narrativa, sanno mostrare gli alti e bassi, i pro e contra della maturazione di una coppia che si sviluppa verso il vero amore, mentre la vita immediata del mondo accessibile a Keller non avrebbe permesso di riuscirvi in forma di romanzo. Qui dunque si ha uno specialissimo intreccio di non-ancora e di non-più, che non sopprime radicalmente i nessi storici sopra accennati fra romanzo e novella, ma non può affatto trovare immediatamente il suo posto in essi. E la storia letteraria presenta altre alternative, affatto diverse, sulle quali non ci possiamo soffermare.

Con questa riserva, si può dire che l’epica contemporanea e recente, nei suoi tentativi di rappresentare affermazioni umane autentiche, spesso recede dal romanzo alla novella. Penso a capolavori come Tifone e La linea d’ombra di Conrad, al Vecchio e il mare di Hemingway. La recessione appare già nel fatto che la base sociale, l’ambiente sociale del romanzo scompare, e le figure centrali devono fare i conti con un mero fenomeno naturale. Questo duello dell’eroe isolato, affidato a se stesso, con la natura, per esempio con la tempesta o la bonaccia, può anche finire con la vittoria dell’uomo, come in Conrad, ma anche se la fine è una sconfitta, come in Hemingway, l’affermarsi degli uomini è il contenuto centrale della novella. Con queste novelle, i romanzi degli stessi scrittori (e anche di altri) stanno in netto contrasto: i rapporti sociali divorano, schiacciano, distruggono, falsificano ecc. l’uomo. Su questo terreno non sembra che si possa trovare una forza di resistenza efficace, sia pure condannata a una tragica rovina. E siccome scrittori di talento non possono rinunciare a qualsiasi integrità umana, a qualsiasi grandezza interiore, essi ricorrono a questo tipo di novella, combattimento di retroguardia nella lotta per la salvezza dell’uomo.

Anche nella letteratura sovietica oggi le forze del progresso si concentrano sulla novella, oltre che sulla lirica. Solženitsyn non è certo l’unico, ma è quello che, per quanto sappiamo, è riuscito ad aprire una vera breccia nel baluardo ideologico della tradizione stalinista. Nelle considerazioni seguenti vogliamo mostrare che nel suo caso – e nel caso di chi si muove nella stessa direzione – si tratta di un inizio, di un primo sondaggio della realtà, e non della conclusione di un periodo, come nel caso dei notevoli narratori borghesi sopra ricordati.

2. Oggi il problema centrale del realismo socialista è l’elaborazione critica dell’età staliniana. Questo naturalmente è il compito principale di tutta l’ideologia socialista, ma qui mi limiterò al campo della letteratura. Se il realismo socialista, che a causa del periodo staliniano è diventato talvolta un termine offensivo e dispregiativo, anche nei paesi socialisti, vuole risalire all’altezza che aveva raggiunto negli anni venti, esso deve ritrovare la strada della rappresentazione dell’uomo contemporaneo. Ma questa strada deve passare inevitabilmente attraverso una fedele descrizione dei decenni staliniani, con tutti i loro aspetti disumani. I burocrati settari obiettano: non si deve rivangare il passato, ma soltanto rappresentare il presente; il passato è passato, già del tutto superato, scomparso dall’oggi. Tale affermazione non è solo falsa – il solo fatto che venga enunciata dimostra che la burocrazia culturale staliniana è ancora presente con tutta la sua influenza –, ma è anche priva di qualsiasi senso. Quando Balzac o Stendhal descrivevano il periodo della Restaurazione, sapevano di rappresentare uomini che in maggioranza erano stati formati dalla rivoluzione, dal Termidoro e dalle sue conseguenze, dall’Impero. Julien Sorel o Père Goriot sarebbero semplici ombre e schemi se fosse descritta soltanto la loro esistenza presente nella Restaurazione, senza le loro vicende, il loro sviluppo, il loro passato. Tanto vale anche per il periodo di ascesa del realismo socialista in letteratura. Le figure principali di Šolochov, di A. Tolstoj, del giovane Fadeev ecc. provengono dalla Russia zarista; nessuno potrebbe capire il loro comportamento nella guerra civile senza aver visto come essi, attraverso l’anteguerra, le esperienze della guerra imperialista, i mesi della rivoluzione, siano arrivati alla posizione in cui si trovano, e soprattutto al modo in cui vi si trovano.

Nel mondo attuale del socialismo ancora pochi vivono attivamente che non abbiano vissuto in qualche modo il periodo staliniano, pochi che non siano stati formati dalle esperienze di quegli anni nella loro odierna fisionomia spirituale, morale e politica. «Il popolo» che si sarebbe sviluppato socialisticamente e che avrebbe edificato il socialismo restando «immune» dagli eccessi del «culto della persona» non è neppure una falsa utopia; proprio quelli che fanno queste affermazioni e che operano con esse sanno meglio di tutti – per propria esperienza – che il sistema dell’autorità staliniana aveva penetrato tutta la vita quotidiana, che tutt’al più i suoi effetti si sentivano con minor forza in villaggi remoti. Detto così, questo sembra un luogo comune. Ma nelle diverse persone esso è stato sentito in modo diverso, e nelle reazioni degli individui appare una varietà infinita di prese di posizione. Le alternative di tanti ideologi occidentali, come: Molotov o Köstler, solo nelle sfumature sono più irreali e stupide dell’atteggiamento burocratico che abbiamo detto.

Se questo riuscisse a dirigere la letteratura, avremmo una continuazione diretta della «letteratura illustrativa» dell’età staliniana. La quale era una manipolazione grossolana del presente: non nasceva dalla dialettica del passato e degli obiettivi reali, delle azioni di uomini reali, ma era determinata di volta in volta, nel contenuto e nella forma, dalle risoluzioni dell’apparato. Poiché la «letteratura illustrativa» non nasceva dalla vita, ma serviva a commentare le risoluzioni, le marionette costruite per questo scopo non dovevano e non potevano avere un passato, a differenza degli uomini. Esse invece avevano soltanto personality tests che venivano riempiti a seconda che si dovesse considerarle «eroi positivi» o «cattivi».

La manipolazione grossolana del passato è soltanto una parte della generale manipolazione grossolana delle figure, delle situazioni, delle vicende, delle prospettive ecc. nelle opere della «letteratura illustrativa». Perciò l’insensato indirizzo cui sopra abbiamo accennato è soltanto una continuazione coerente, e adeguata ai tempi, della politica letteraria staliniano-ždanoviana, un nuovo impedimento contro la rinascita del realismo socialista, contro la riconquista della sua capacità di rappresentare tipi autentici di un periodo, che prendano posizione di fronte ai problemi grossi e piccoli del loro tempo movendo dalla necessità della propria personalità, dalla necessità della loro esistenza passata. Che in ultima analisi la loro personalità sia socialmente e storicamente condizionata, appare soprattutto chiaro nel rapporto passato-presente-prospettiva del futuro. Proprio se fa sorgere gli uomini di oggi dal loro passato vissuto, la letteratura porta alla superficie sensibile con la massima chiarezza il rapporto fra uomo e società all’interno della sua personalità. Infatti un passato uguale – dal punto di vista storico – assume in ogni vita umana una forma variata: gli stessi avvenimenti sono vissuti in modo diverso da uomini diversi per origine, per cultura, per età ecc. Ma anche lo stesso avvenimento ha sugli uomini effetti straordinariamente differenziati: vicinanza o lontananza, centro o periferia, anche la pura e semplice casualità dei momenti della mediazione personale, creano un più vasto campo di variazioni. E di fronte a questi avvenimenti nessun uomo è proprio spiritualmente passivo; ma si trova sempre di fronte ad alternative, le cui conseguenze possono portare dalla fermezza fino a compromessi astuti o sciocchi, giusti o falsi, e fino alla capitolazione. Ma avvenimenti e reazioni non sono mai fatti isolati: essi sono concatenati, e la reazione passata è sempre un momento non trascurabile di quella successiva. Se non si mette in chiaro il passato, dunque, non si può scoprire il presente. Una giornata di Ivan Denisovič, di Solženitsyn, è un notevole avviamento a questo reperimento letterario di se stessi nel presente socialista.

Non si tratta, almeno principalmente, delle rivelazioni sugli orrori dell’età staliniana, sui campi di concentramento ecc. Queste rivelazioni esistevano già da lungo tempo nella letteratura occidentale, ma hanno perduto l’iniziale capacità di sbalordire, specialmente nei paesi socialisti, dopo che il XX Congresso ha messo all’ordine del giorno la critica del periodo staliniano. Il merito di Solženitsyn è di aver fatto di una giornata priva di avvenimenti, in un campo qualsiasi, il simbolo letterario del passato non ancora superato, non ancora rappresentato nella letteratura. Benché i lager siano un aspetto estremo dell’età staliniana, il settore da lui scelto, e ritratto artisticamente tenendosi al grigio su grigio, diventa un simbolo della vita quotidiana sotto Stalin. Ciò perché egli si è posto da poeta queste domande: quali esigenze ha posto questo periodo agli uomini? Chi ha superato positivamente la prova, da uomo? Chi ha salvato la propria dignità e integrità umana? Chi ha resistito, e come? In chi si è conservata la sostanza umana? E dove, invece, essa è stata deformata, spezzata, distrutta? Limitandosi rigorosamente alla vita immediata del lager, Solženitsyn ha potuto porre la questione in maniera affatto generale e concreta nello stesso tempo. Naturalmente restano escluse le sempre mutevoli alternative politico-sociali di fronte alle quali la vita metteva gli uomini rimasti in libertà, ma la resistenza o il crollo sono così immediatamente concentrati sull’essere o non essere concreto di uomini vivi, da elevare ogni singola decisione al livello di una generalizzazione e di una tipizzazione aderenti alla vita.

L’intera composizione, di cui più avanti vedremo i particolari, serve a questo scopo. La sezione ivi descritta della vita quotidiana del lager rappresenta in essa una «buona» giornata, come dice alla fine il personaggio centrale. E in realtà quel giorno non avvengono fatti eccezionali, non ci sono atrocità particolari. Vediamo soltanto l’ordinamento normale del campo e le reazioni tipiche dei suoi abitanti. Così i problemi tipici possono assumere una figura ben delineata, e si lascia alla fantasia del lettore d’immaginare gli effetti provocati nei personaggi da costrizioni più gravi. A questa semplicità della composizione, a questa concentrazione quasi ascetica sull’essenziale, corrisponde esattamente l’estrema economia dell’esecuzione letteraria. Del mondo esterno è mostrato solo ciò che è indispensabile, per gli effetti che suscita nella vita interna degli uomini; di quest’ultima solo quelle reazioni – e anch’esse in una scelta estremamente sobria – che sono legate direttamente, attraverso mediazioni subito perspicue, al loro nucleo umano. Così quest’opera – non nata da un’impostazione simbolica – può avere forti effetti simbolici; e questa rappresentazione può valere anche per i problemi quotidiani del mondo staliniano, anche per quel che essi non hanno rapporti immediati con la vita dei lager.

Già da questa descrizione sommaria e astratta della composizione di Solženitsyn appare che stilisticamente essa è un racconto, una novella, e non un breve romanzo, benché la narrazione tenda concretamente ad essere il più possibile completa, a giungere all’integrazione reciproca dei tipi e delle vicende. Solženitsyn rinuncia di proposito ad ogni prospettiva. La vita del lager è vista come condizione permanente; i rari cenni alla scadenza del periodo di reclusione per alcuni restano quanto mai indeterminati (l’idea di una soppressione dei lager non affiora neppure nei sogni ad occhi aperti); nella figura centrale si fa vedere solo che intanto il paese è molto cambiato e non può affatto tornare al vecchio stato: e anche per questa via si mette in risalto l’isolamento del lager. Così il futuro resta avvolto, sotto ogni aspetto, da una fitta oscurità. Si possono soltanto prevedere giorni simili, migliori o peggiori ma non radicalmente diversi. Anche il passato affiora raramente. Un paio di cenni sul modo in cui alcuni sono finiti nel lager rivelano, proprio nella loro oggettiva laconicità, l’arbitrio delle autorità giudiziarie, amministrative, militari e civili. Nessuna parola sulle questioni politiche di fondo, per esempio sui grandi processi, che sono scomparsi in un buio passato. E anche l’ingiustizia personale della deportazione, solo sfiorata in momenti isolati, non è criticata direttamente, ma appare come una dura realtà, come un presupposto necessariamente accettato di questa esistenza da lager. Si esclude dunque – con piena consapevolezza artistica – tutto ciò che in futuro potrebbe e dovrebbe essere compito di grandi romanzi o drammi. Si ha qui una somiglianza stilistica formale – ma meramente formale – con le notevoli novelle che sopra abbiamo ricordato. Ma in questo caso non si ha una recessione dalle forme grandi, bensì un primo sondaggio della realtà nella ricerca delle forme grandi ad essa adeguate.

Oggi il mondo socialista è alla vigilia di una rinascita del marxismo, che non solo è chiamata a restaurarne i metodi deformati da Stalin, ma soprattutto tenderà ad afferrare adeguatamente i nuovi fatti della realtà col metodo antico e nuovo del marxismo autentico. Altrettanto avviene, in letteratura, per il realismo socialista. Una continuazione di ciò che nell’età staliniana veniva lodato ed esaltato come realismo socialista sarebbe un’impresa disperata. Ma crediamo che si sbaglino anche quanti vorrebbero seppellire prematuramente il realismo socialista, quanti ribattezzano realismo tutto ciò che è sorto nell’Europa occidentale dopo l’espressionismo e il futurismo, e vogliono anche sopprimere l’attributo «socialista». Se la letteratura socialista riprende coscienza di se stessa, se torna a sentire una responsabilità artistica di fronte ai grandi problemi del suo presente, possono liberarsi grandi forze che spingerebbero verso una letteratura socialista attuale. Sulla via di questo processo di trasformazione e di rinnovamento, che rappresenta una netta svolta di fronte al realismo socialista dell’età staliniana, ci pare che il racconto di Solženitsyn costituisca una pietra miliare.

Queste prime rondini di una primavera letteraria possono certo avere un’importanza storica, per quello che annunciano, senza avere tuttavia un particolare valore artistico. Si possono ricordare Lillo e dopo di lui Diderot, come primi scopritori del dramma borghese. Ma crediamo che la posizione storica di Solženitsyn sia diversa. Ponendo teoricamente al centro dell’interesse drammaturgico le circostanze (conditions) sociali, Diderot conquistò alla tragedia un repertorio importante di temi: la sua parte di scopritore, limitatamente al riconoscimento astratto di una tematica, non appare diminuita se si ammette la mediocrità dei suoi drammi. Ma Solženitsyn non ha conquistato alla letteratura, come repertorio di temi, la vita nei campi di concentramento. Il suo modo di esporre, orientato verso la vita d’ogni giorno nell’età staliniana e le sue alternative umane, indica invece una reale terra vergine nei problemi umani del successo e del fallimento; il campo di concentramento, come simbolo della vita d’ogni giorno nell’età staliniana, permetterà in futuro di ridurre proprio questa vita di lager a un mero episodio nell’universalità della nuova letteratura che ora si annuncia, in una universalità in cui tutto ciò che ha importanza per la prassi individuale e sociale del presente deve prendere forma come sua preistoria individuale.

3. In quest’unica giornata di Ivan Denisovič i lettori hanno visto il simbolo dell’età staliniana. Tuttavia la maniera narrativa di Solženitsyn non contiene traccia di simbolismo. Egli presenta una sezione autentica, reale della vita, in cui nessun elemento cerca di acquistare una speciale evidenza, un’eccessiva evidenza, di assumere un valore simbolico. D’altra parte in questa sezione è conservato e concentrato il destino tipico, il comportamento tipico di milioni di persone. Questa schietta verità naturale di Solženitsyn non ha niente del naturalismo immediato, né del naturalismo mediato da una tecnica raffinata. Le discussioni attuali sul realismo e soprattutto sul realismo socialista tra l’altro ignorano la vera questione centrale perché non tengono conto dell’antagonismo fra realismo e naturalismo. Nella «letteratura illustrativa» dell’età staliniana si sostituiva il realismo con un naturalismo di Stato, combinato con un cosiddetto romanticismo rivoluzionario, statale anch’esso. È vero che in sede di teoria astratta, negli anni trenta, si contrapponeva il naturalismo al realismo; ma solo in astratto, e questa astrazione poteva acquistare vera concretezza solo in un’opposizione alla «letteratura illustrativa», perché nella prassi la manipolazione della letteratura diffamava come naturalismo tutti i fatti non conformi alle prescrizioni, e solo questi; in omaggio a questa prassi, un superamento del naturalismo si poteva avere soltanto se lo scrittore per la sua opera sceglieva esclusivamente fatti che direttamente o indirettamente giustificassero quelle risoluzioni che la sua opera era chiamata a illustrare sul terreno letterario. La tipizzazione diventava così una categoria meramente politica. Indipendentemente dalla dialettica particolare dei personaggi, della loro sostanza umana, nella tipicità s’incarnava un giudizio universale positivo o negativo su atteggiamenti considerati utili o sfavorevoli per l’esecuzione di una data risoluzione. Intrecci e figure erano costruzioni estremamente artificiose, ma dovevano essere naturalistici in quanto questo modo di procedere ha proprio di caratteristico che i particolari non sono collegati, per organica necessità, né tra loro né con i personaggi, con le loro vicende ecc. Essi restano sbiaditi, astratti o eccessivamente concreti, a seconda del carattere dello scrittore, ma non si compongono in unità organica col materiale creativo, poiché per principio vi sono introdotti dall’esterno. Ricordo quando si discuteva scolasticamente fino a che punto un eroe positivo potesse o dovesse avere anche qualità negative. Ciò significa negare che in letteratura l’uomo concreto, particolare, sia l’elemento primario, il punto di partenza e d’arrivo, della creazione. Qui uomini e vicende possono e debbono essere manipolati a piacere.

Se ora, come molti desiderano, modi poetici moderni, occidentali, devono prendere il posto dell’invecchiato realismo socialista, resterà fuori causa in generale, nell’uno e nell’altro campo, il fondamentale carattere naturalistico delle correnti dominanti nella letteratura moderna. Io ho fatto osservare più volte, in vari contesti, che i diversi ismi che a suo tempo hanno preso il posto del naturalismo vero e proprio hanno lasciato immutata proprio questa interna mancanza di nessi, questa incoerenza compositiva del naturalismo, la rottura dell’unità immediata di essenza e fenomeno. Se si supera l’aderenza naturalistica alle osservazioni immediate, se la si sostituisce con proiezioni unilateralmente oggettive o unilateralmente soggettive, non si tocca, in linea di principio, questo problema fondamentale del naturalismo. (Parliamo della generale prassi letteraria, non dei notevoli casi eccezionali). Nei Tessitori o in Pelle di castoro Gerhart Hauptmann non è naturalista, in senso estetico, mentre la gran massa degli espressionisti, dei surrealisti ecc. non ha mai superato il naturalismo. Pertanto è facile capire, da questo punto di vista, perché gran parte dell’opposizione al realismo socialista dell’età staliniana cerchi e creda di trovare un rifugio nella letteratura moderna. Si può infatti compiere questo passo sul piano di una spontaneità meramente soggettivistica, senza rovesciare il rapporto degli scrittori verso la realtà sociale, senza uscire dalla fondamentale attitudine naturalistica, senza vivere e meditare a fondo i grandi problemi dell’epoca. Non è neppure necessario romperla con la «letteratura illustrativa»; già negli anni trenta c’erano romanzi dell’industrializzazione «fedeli alla linea», che usavano tutti i ritrovati dell’espressionismo, della neue Sachlichkeit, del montaggio alla moda, ma si distinguevano dalla media della produzione ufficiale di allora solo per questa tecnica esteriore. Da certi indizi appare che il fatto si può ripetere anche oggi, per quanto si debba dire che un puro rifiuto di tipo meramente soggettivo è ben lungi dal significare un superamento ideale e artistico dell’accettazione delle linee ufficiali.

Il racconto di Solženitsyn sta in netto contrasto con tutte le tendenze interne del naturalismo. Abbiamo già parlato dell’estrema parsimonia del suo stile. In virtù di essa, tutti i particolari sono in lui altamente significativi. Come in ogni opera d’arte autentica, la particolare sfumatura di questo significato scaturisce dalla peculiarità della materia. Ci troviamo in un campo di concentramento: ogni pezzo di pane, ogni straccio, ogni frammento di pietra o di metallo che possa servire da utensile serve a prolungare la vita; il raccoglierlo mentre si va al lavoro, il nasconderlo da qualche parte comporta il rischio di essere scoperti, di subire la confisca o anche la cella di rigore; ogni espressione, o gesto di un superiore esige una reazione specifica immediata, che se è sbagliata può provocare anch’essa i più gravi pericoli; d’altra parte ci sono situazioni, per esempio nelle ore dei pasti, in cui con un atteggiamento opportunamente risoluto si può ottenere una porzione doppia, ecc. Hegel osserva che la grandezza epica dei poemi omerici deriva anche dall’importanza che ha in essi la vistosa e giusta descrizione del mangiare, del bere, del dormire, del lavoro materiale ecc. Nella vita borghese ordinaria queste funzioni perdono per lo più questo peso specifico e solo i grandissimi, come Tolstoj, sono capaci di restaurare queste mediazioni complicate. (Naturalmente questi confronti servono solo a chiarire il problema letterario che c’interessa e non devono essere presi come giudizi di valore).

In Solženitsyn il particolare significativo ha una specialissima funzione, derivante dal carattere speciale della materia: esso rende concreta l’angustia soffocante di questa giornata nel lager, la sua monotonia sempre avvolta da pericoli, gl’incessanti movimenti capillari che tendono a salvare la pura sopravvivenza. Qui ogni particolare è un’alternativa fra salvezza o rovina; ogni oggetto un suscitatore di fatti salutari o funesti. Così la natura peculiare dei singoli oggetti, in sé sempre casuale, è visibilmente e inseparabilmente legata alle singole curve dei destini umani. Da mezzi maneggiati con parsimonia sorge così la totalità concentrata della vita nel lager: la somma e il sistema di questi dati di fatto semplici e miseri costituisce una totalità simbolica, umanamente significativa, che illumina una tappa importante della vita umana.

Su questa base di vita sorge qui una forma speciale di novella; se la mettiamo a confronto e in contrasto con le grandi novelle del mondo borghese che abbiamo citato, riusciamo a chiarire la situazione storica dell’una e delle altre. Nell’uno e nell’altro gruppo si lotta con un ambiente sopraffattore e nemico di una crudeltà e disumanità che ne rivelano il carattere «naturale». In Conrad o Hemingway questo ambiente ostile è realmente la natura. (In Conrad la tempesta o la bonaccia, ma, quando operano destini puramente umani, come nella Fine del canto, anche la cecità, la crudeltà della propria natura biologica, con cui il vecchio capitano deve lottare). La socialità delle relazioni umane si ritira sullo sfondo, spesso sbiadisce fino a scomparire. L’uomo è contrapposto alla stessa natura, di fronte alla quale egli deve salvarsi con le proprie forze o perire. Perciò in questo duello ogni particolare è importante: oggettivamente incarna il destino, soggettivamente pone un’alternativa di salvezza o di rovina. Ma siccome qui l’uomo e la natura sono direttamente contrapposti, le immagini naturali possono conservare un’ampiezza omerica senza che si attenui la loro intensità fatale, perché proprio in questo modo il rapporto fatale col personaggio torna sempre a condensarsi in decisioni importanti. Ma proprio per questo le relazioni eminentemente sociali tra gli uomini sbiadiscono, e queste novelle diventano fenomeni conclusivi di uno sviluppo letterario.

Anche in Solženitsyn la totalità rappresentata ha caratteri «naturali». Essa semplicemente esiste, come factum brutum, senza genesi apparente dai moti della vita umana, senza ulteriore sviluppo in un’altra forma dell’essere sociale. Tuttavia essa è sempre e dovunque una «seconda natura», un complesso sociale. Per quanto i suoi effetti possano apparire affatto «naturali», spietati, crudeli, insensati, disumani, essi derivano pur sempre da azioni umane, e l’uomo che si difende deve atteggiarsi di fronte ad essi in modo affatto diverso che di fronte alla natura. Il vecchio pescatore di Hemingway può provare addirittura simpatia e ammirazione per il grosso pesce che con la sua tenace resistenza gli fa correre gravi rischi. Di fronte ai rappresentanti della «seconda natura» ciò non sarebbe possibile. Solženitsyn evita ogni espressione troppo aperta di rivolta interiore; ma essa è contenuta implicitamente e compostamente in tutte le parole e in tutti i gesti. Infatti le manifestazioni naturali della vita fisica, come il freddo, la fame ecc., in ultima analisi procedono attraverso relazioni fra uomini. Anche il riuscito o mancato superamento della prova è sempre immediatamente sociale: anche se non è mai detto apertamente, esso si riferisce sempre alla futura vita reale, alla vita nella libertà fra altri uomini liberi. Qui naturalmente è presente anche l’elemento «naturale» della salvezza o della rovina fisica immediata, ma il motivo dominante è, oggettivamente, quello sociale. La natura, infatti, è realmente indipendente da noi uomini: può essere sottoposta alla conoscenza umana, trasformatasi in pratica, ma per necessità la sua essenza non è modificabile. La «seconda natura», per quanto «naturale» possa apparire a prima vista, è però formata da relazioni umane, è opera nostra. Perciò verso di essa appare sensato, in ultima istanza, l’atteggiamento di chi la vuole mutare, migliorare, rendere umana. Anche la verità dei particolari, la loro sostanza, il loro manifestarsi, i loro influssi reciproci, i loro nessi ecc. sono sempre di carattere sociale, anche se la loro genesi non sembra avere direttamente questo carattere. Anche qui Solženitsyn, nella sua riservatezza ascetica, si astiene da qualsiasi presa di posizione. Ma proprio l’oggettività del suo stile, la crudeltà e disumanità «naturali» di un’istituzione umano-sociale, rappresentano un giudizio più distruttivo di quello che potrebbe enunciare qualsiasi declamazione patetica. E, del pari, nel silenzio ascetico in fatto di prospettiva è tuttavia contenuta una prospettiva latente. Tutte le prove superate e non superate additano tacitamente i modi futuri e normali delle relazioni umane; esse sono anticipazioni silenziose di una futura vita reale fra uomini. Perciò questa sezione della vita rappresenta non una fine, ma il prologo di un avvenire sociale. (In un ambito puramente individuale anche la lotta con la natura reale può essere in qualche modo umanamente formativa, come nella Linea d’ombra di Conrad, ma solo limitatamente a un individuo. Il comportamento positivo del capitano in Tifone resta un episodio interessante senza conseguenze, e come tale lo stesso Conrad lo mette in evidenza).

Si torna così all’effetto simbolico del racconto di Solženitsyn: esso ci offre, tacitamente, un’anticipazione concentrata della futura resa dei conti poetica con l’età staliniana, in cui queste sezioni rappresentavano realmente un simbolo della vita quotidiana. Esso anticipa la rappresentazione poetica del presente, del mondo degli uomini che sono passati per questa «scuola» – direttamente o indirettamente, attivamente o passivamente, uscendone rafforzati o spezzati –, che in essa sono stati preparati alla vita odierna, all’attività. Questa è la sostanza paradossale della posizione letteraria di Solženitsyn. La sua espressione laconica, il suo astenersi da ogni allusione che esca dalla vita immediata dei lager, delineano però i contorni dei fondamentali problemi umano-morali senza i quali gli uomini del presente sarebbero oggettivamente impossibili, soggettivamente incomprensibili. Proprio per il suo riserbo parco e concentrato questa sezione limitatissima della vita anticipa la grande letteratura del futuro.

Le altre novelle a noi note di Solženitsyn non sono di un’apertura così compenetrata dal simbolo. Ma proprio per questo forse, il sondaggio del passato, alla ricerca della strada che guidi alla comprensione del presente, vi appare con chiarezza non minore e infine, come vedremo, anche maggiore. Nella bella novella La casa di Matrjona questo orientamento verso il presente è meno sensibile che altrove. Qui Solženitsyn, come alcuni contemporanei, descrive un remoto mondo rurale, le cui genti e le cui forme di vita sono state scarsamente influenzate dal socialismo e dalla sua forma staliniana. (Per il quadro complessivo del presente l’esistenza di simili possibilità ha qualche importanza, ma non centrale). È il ritratto di una vecchia che ha molto vissuto e sofferto, è stata spesso ingannata, sempre sfruttata, ma nulla ha potuto scuotere la sua profonda bontà e serenità interiore. È il modello di una persona di cui nulla poteva spezzare o deformare l’umanità; un ritratto nello stile della grande tradizione realistica russa: ma in Solženitsyn si sente soltanto la tradizione in generale, non l’influsso stilistico di un determinato maestro. Questo legame con le migliori tradizioni russe è sensibile anche in altre novelle. Per esempio la composizione di Una giornata di Ivan Denisovič poggia sulle somiglianze e gli antagonismi morali di più figure centrali. La principale figura di contadino, saggio, tatticamente abile, contrasta da un lato col passionale capitano di fregata che rischia tutta la sua esistenza perché non vuole lasciar passare senza protesta un’indegnità, dall’altro con l’astuto capo della brigata che di fronte ai superiori rappresenta abilmente gli interessi dei suoi collaboratori, ma si serve anche di loro per consolidare la propria posizione relativamente privilegiata.

Più dinamica e molto più legata alla problematica dell’età staliniana è la novella Alla stazione di Krecetovka, al centro della quale sta l’aspetto etico-sociale del periodo di crisi, la «vigilanza». Essa mostra da due lati, dialetticamente, come la trasformazione in routine delle parole d’ordine staliniane distorca tutti i veri problemi della vita. Anche qui – secondo il principio autentico della novella – c’è soltanto un conflitto unicamente individuale e la sua soluzione immediata, senza che si accenni ai successivi effetti che la decisione qui presa avrà avuto nella vita, nello sviluppo ulteriore degli interessati, fino ad oggi. Ma qui la collisione è tale che la tensione da essa provocata solleva onde più ampie, oltre l’ambiente vero e proprio della novella. L’alternativa della «vigilanza», la spinta alla «vigilanza», non fu soltanto un problema scottante di quei giorni scomparsi: le sue ripercussioni agiscono anche oggi, come forze che hanno formato la personalità morale di tante persone. Il racconto del lager, nella sua coraggiosa rassegnazione, poteva rinunciare non solo a fare qualsiasi riferimento esplicito al presente, ma anche a ispirare di questi riferimenti nella fantasia integratrice del lettore; qui invece ci è posta alla fine, con una chiarezza volutamente dolorosa, la domanda: come verrà a capo di questa esperienza il giovane ufficiale entusiasta? Che uomo diventerà – e tanti altri come lui – dopo aver commesso quest’azione?

Questo tipo di novella, che è di una forma artistica riuscita come l’altro tipo, appare anche più nettamente delineato nell’ultimo scritto di Solženitsyn, Per la causa, che nella stampa sovietica è stato accolto con grande entusiasmo e violenta disapprovazione. Qui egli raccoglie coraggiosamente il guanto gettato dai settari agli amici della letteratura progressista: cioè l’invito a rappresentare anche per il periodo del «culto della persona», «indipendentemente» da esso, l’entusiasmo con cui le larghe masse costruivano. Si tratta della costruzione di una nuova scuola tecnica in una città di provincia; i vecchi locali sono del tutto insufficienti, gli scolari non vi possono trovar posto, e le autorità ritardano burocraticamente i lavori necessari per la nuova scuola. Ma c’è un autentico collettivo d’insegnanti e scolari, legati da fiducia e amore reciproco: durante le ferie essi compiono volontariamente la maggior parte dei lavori e li completano all’inizio del nuovo anno scolastico. L’inizio della novella descrive con vivacità la conclusione dei lavori, i rapporti di schietta fiducia, le discussioni leali fra insegnanti e scolari, la lieta attesa di una vita migliore nell’ambiente creato con le proprie mani. All’improvviso compare una commissione statale che, dopo un’ispezione più che superficiale dei vecchi locali, trova tutto «in perfetto ordine» e assegna il nuovo edificio a un altro istituto. I tentativi disperati del direttore, che persino un funzionario benevolo dell’apparato del partito cerca di aiutare, sono naturalmente inutili: contro l’arbitrio burocratico dell’apparato dell’età staliniana è inutile lottare anche per la causa più giusta.

Questo è tutto. Anche così è confutata, in maniera definitivamente giusta, la leggenda settario-burocratica dell’entusiasmo autentico e attivo nell’età staliniana. Nessuna persona ragionevole ha mai contestato che esso ci fosse sempre. La leggenda comincia quando si vuole che questo entusiasmo socialista possa svilupparsi produttivamente «accanto» al «culto della persona», non ostacolato (ma anzi stimolato) da esso. In Solženitsyn vediamo divampare una di queste fiammate di entusiasmo, ma seguita dalla sorte tipica che l’apparato staliniano le riserva. Come gli altri scritti di Solženitsyn, la novella si conclude al punto in cui il problema sta di fronte a noi con tutto il suo rilievo, ma anche qui senza che siano indicate, neppure per accenni, le fila del destino umano che porta all’uomo di oggi. Anche i limiti esterni sono molto stretti, sempre secondo il principio della novella autentica: né il sabotaggio precedente delle autorità, né l’atto arbitrario finale dell’apparato superiore si concretizzano in una descrizione che non sia strettamente oggettiva, seppure quanto mai convincente. Anche qui Solženitsyn, con i mezzi della sua narrazione scarna e oggettiva, senza commenti, riesce a mettere in luce il tipico in una descrizione di puri fatti. Non è una questione meramente tecnica, senza dubbio: questo risultato importante può essere raggiunto solo in quanto Solženitsyn è capace di conferire per mezzo di accenni una vitalità tipica a tutti i suoi personaggi e alle loro situazioni. La genesi e l’articolazione interna della burocrazia, gl’interessi personali di carriera che operano dietro la «sublime» oggettività della «causa», restano al difuori della cornice narrativa; nella novella essi compaiono soltanto come un presupposto evidente ma generico. I burocrati ci sono si presentati con la massima evidenza – nella loro disumanità mascherata dall’oggettività – ma non sono illuminati dall’interno, né dal punto di vista sociale né da quello umano. Più individualizzato, sempre però nei limiti di questo laconismo novellistico, appare l’entusiasmo iniziale degli insegnanti e degli scolari: al punto che l’occasionale ricordo dei «sabati comunisti» del periodo della guerra civile non suona affatto retorico. Ancora una volta la conclusione è improvvisa, come è giustificata dalla forma della novella: il sipario cade dopo che i puri fatti si sono svolti, e non c’è risposta per i problemi attuali e urgenti: che influsso hanno avuto queste e simili esperienze su maestri e scolari? In che senso esse hanno formato la loro esistenza successiva? Che uomini sono diventati nella vita di oggi? La conclusione si concretizza solo fino al momento che queste domande si pongono nei lettori accorti, nei quali esse riecheggeranno e resteranno vive per lungo tempo. Ancora una volta, dunque, dal passato staliniano si leva un accenno imperativo ai problemi centrali di oggi; ma questa volta esso appare molto più concreto, più forte, più autoritario, più inequivocabile che in tutti i racconti precedenti. Perciò questa novella non può essere intimamente conclusa e perfetta come Una giornata di Ivan Denisovič, e dal punto di vista puramente artistico non sta allo stesso livello. Ma come anticipazione di sviluppi futuri questa novella costituisce un grande passo avanti rispetto alle precedenti.

4. Oggi nessuno può dire quando si compirà un altro passo avanti, e se lo farà lo stesso Solženitsyn, o altri, o un altro. Solženitsyn non è l’unico che saggia questi nessi fra l’ieri e l’oggi. (Basta pensare forse a Nekrasov). Oggi nessuno può ancora sapere come riuscirà questo deciso avvio alla decifrazione del presente attraverso la chiarificazione dell’età staliniana, di quella che è la preistoria etico-umana di quasi tutte le persone che oggi agiscono nella realtà. Sarà decisivo il corso dell’esistenza sociale, dell’auto-rinnovamento e del rafforzamento della coscienza sociale nei paesi socialisti, soprattutto nell’Unione Sovietica, ma ogni marxista dovrà tener conto dello sviluppo ineguale dell’ideologia, in particolare della letteratura e dell’arte.

Nelle nostre considerazioni dobbiamo dunque fermarci a constatare che per la nostra questione è inevitabile il «che cosa», e lasciare completamente da parte le questioni del «come» e del «chi». Certo è che questo nuovo sviluppo del realismo socialista incontra forti ostacoli e impedimenti, soprattutto la resistenza di quanti sono rimasti fedeli alle dottrine e ai metodi di Stalin o almeno agiscono così. Intanto la loro opposizione aperta contro ogni rinnovamento è stata bensì attenuata da molti fatti, ma alla scuola staliniana essi hanno imparato l’abilità tattica, e in certe circostanze gli ostacoli creati per via indiretta possono arrecare al nuovo che deve ancora venire, e che spesso è intimamente malsicuro, più danni dei provvedimenti amministrativi vecchio stile (sebbene anche questi non manchino e possano fare i loro danni).

D’altra parte questo movimento verso qualche cosa di veramente nuovo può essere ostacolato e sviato dalle contese intellettualmente provinciali, oggi prevalenti, sulla modernità in senso tecnico-espositivo. Abbiamo già accennato che per questa via non si può ottenere alcunché di essenziale, giacché sul piano artistico ciò che interessa è di superare – nel senso più largo – quella visione della vita donde sono scaturiti in maggior parte gli stili di base naturalistica. Finché tanti scrittori restano fermi a queste soluzioni tecniche, se i seguaci settari di Stalin adottano una tattica un poco più elastica può ripetersi molto facilmente l’accennata situazione degli anni trenta, cioè si può utilizzare lo «stile» durrelliano, per esempio, per eludere i problemi reali del tempo. Anche in questo campo, naturalmente, ci sono fenomeni da prendere sul serio. In tante persone il periodo staliniano ha scosso la fede nel socialismo. I dubbi e le delusioni che così sono sorti possono essere affatto onesti, soggettivamente, ma quando cercano di esprimersi possono portare assai facilmente a una semplice imitazione di tendenze occidentali. E anche quando queste opere sono interessanti, come prodotti artistici, per lo più non riescono a superare il livello di un certo epigonismo. La visione di Kafka era rivolta in realtà al tenebroso nihil dell’età hitleriana, a qualche cosa di fatalmente reale; il nulla di Beckett invece è un mero gioco con abissi fittizi, ai quali nella realtà storica non corrisponde più nulla di essenziale. So che da oltre un secolo in certi ambienti intellettuali lo scetticismo e il pessimismo sono considerati molto più rispettabili della fede in una grande causa dello sviluppo del genere umano, la quale per suo conto, in certe fasi di transizione, può certo avere assunto aspetti problematici. Tuttavia le parole di Goethe a Valmy indicano il futuro più chiaramente di una trasformazione di donne in iene e anche nell’opera di Goethe esse rinviano all’ultimo monologo del Faust. Shelley è più originale e durerà più a lungo di Chateaubriand; Keller ha tratto dal 1848 insegnamenti maggiori e più fecondi di Stifter. Allo stesso modo oggi interessano soprattutto – in senso storico e letterario universale – coloro che dall’età staliniana sono stati stimolati ad approfondire e attualizzare la loro convinzione socialista. Anche i più onesti e i più dotati fra quelli che hanno perso questa convinzione e che producono cose «interessanti» sulla scia di tendenze occidentali, sembreranno semplici epigoni quando si spiegheranno le forze oggi nascoste, che ancora si devono rivelare.

Ripetiamo che qui non è nostro compito di porre il problema dell’avanguardismo. Sappiamo che scrittori come Brecht, l’ultimo Thomas Wolfe, Elsa Morante, Heinrich Böll e altri hanno creato opere importanti, originali e destinate probabilmente a durare. Ma qui vogliamo soltanto dire che quando una convinzione socialista delusa s’incontra con forme stilistiche dello scetticismo estraniato occidentale, alla fine ne risulta di solito un epigonismo. Non sarà necessario dire che solo nella vita stessa, nella propria vita, nel confronto con la realtà storico-sociale, le persone oneste possono superare le delusioni provocate in loro da fenomeni della vita. Qui le argomentazioni letterarie devono restare impotenti e le misure amministrative servono soltanto a rafforzare la moda come esoterismo aristocratico e ad allontanare ancor più dal socialismo chi si dedica a oneste ricerche.

Ci pare che Solženitsyn e quanti nutrono le stesse aspirazioni siano lontani da tutti gli esperimenti formali che abbiamo detto. Essi cercano di aprirsi la strada, sul piano umano e intellettuale, sociale e artistico, verso quelle realtà che nell’arte hanno sempre costituito il punto di partenza per rinnovamenti formali autentici. Ciò appare finora nella produzione di Solženitsyn, i cui nessi con i problemi di un rinnovamento attuale del marxismo potrebbero del pari essere illustrati senza difficoltà. Ma ogni ulteriore giudizio che volesse anticipare il futuro, prevedere lo stile del prossimo periodo, sarebbe teoricamente pura scolastica, artisticamente meschina pedanteria degna di un Beckmesser. A tutt’oggi si può constatare quanto segue: in avvenire la grande letteratura del socialismo oggi rinnovantesi non può essere – proprio nei suoi ultimi e decisivi aspetti formali – una continuazione diretta del primo slancio degli anni venti, un ritorno ad esso: infatti la struttura delle collisioni, la sostanza qualitativa degli uomini e le loro relazioni sono radicalmente mutate da allora. E ogni stile autentico sorge in quanto gli scrittori colgono nella vita del loro presente quelle specifiche forme dinamiche e strutturali che la caratterizzano più profondamente, in quanto essi sono capaci – qui si rivela l’originalità autentica – di trovare per esse una forma equivalente di rispecchiamento, in cui abbia espressione adeguata la loro peculiarità più profonda e più tipica. Gli scrittori degli anni venti rappresentavano il passaggio tempestoso dalla società borghese a quella socialista. Dalla sicurezza del tempo di pace, sia pure oggettivamente malsicura, a quell’epoca si andava attraverso la guerra e la guerra civile verso il socialismo. Gli uomini si trovavano in una situazione manifestamente drammatica, dovendo decidere per proprio conto da che parte stare; spesso dovevano passare – e anche in modo assai drammatico – da un’esistenza di classe in un’altra. Questi e simili fatti della vita determinavano lo stile del realismo socialista degli anni venti.

Oggi struttura e dinamismo delle alternative hanno una natura affatto diversa. Le collisioni esteriormente drammatiche sono rare eccezioni. La superficie della vita sociale sembra mutare di poco anche in periodi lunghi, e anche i mutamenti visibili procedono lentamente, per gradi. Da decenni invece, nella vita interiore degli uomini avviene un rivolgimento radicale che naturalmente influenza già ora anche la superficie della società e che in seguito plasmerà in misura sempre crescente le forme di vita. Ma nel passato, come oggi, l’accento cade sulla vita interiore, etica, degli uomini, sulle loro decisioni morali, che però possono non manifestarsi all’esterno. Ma si sbaglierebbe a vedere in questa predominanza artistica dell’interiorità un fatto analogo a certe tendenze occidentali, nelle quali l’assoluto dominio dell’estraniazione genera una vita interiore apparentemente illimitata, in realtà impotente. Qui noi pensiamo a una catena di decisioni interiori che – per il momento – non può scaricarsi, se non in casi eccezionali, in azioni visibili. Ma il suo aspetto caratteristico è una drammaticità che spesso può elevarsi a tragedia. Ciò che interessa è di vedere con quale rapidità e fino a che profondità questi uomini riconoscono il pericolo del periodo staliniano, come reagiscono ad esso e in che modo le esperienze così accumulate, le prove superate con successo o con la sconfitta, la loro fermezza, il loro crollo o il loro adattamento, la loro capitolazione, influiscano sul loro modo di agire attuale. Ed è chiaro che la soluzione più giusta consiste nel rifiutare le deformazioni staliniane per consolidare la certezza realmente marxista, realmente socialista, approfondirla e in pari tempo aprirla a nuovi problemi.

Non occorre proseguire, perché qui non possiamo pretendere di delineare neppure sommariamente tutta la situazione attuale, la sua genesi storica, le variazioni tipiche dei comportamenti umani. La nostra intenzione era di mostrare che oggi la base di esistenza impone assolutamente al realismo socialista uno stile diverso da quello che la realtà degli anni venti prescriveva alla letteratura di allora; e ci sembra che ciò risulti chiaro anche da questi scarsi cenni. E questo risultato deve bastare. Possiamo solo aggiungere che la forma novellistica di Solženitsyn nasce realmente da questo terreno. La scelta dei prossimi spunti è cosa che riguarda gli scrittori. «Je prends mon bien où je le trouve» è sempre stato il motto degli scrittori importanti e originali, che hanno sempre accettato volentieri e con responsabilità il rischio celato in ogni scelta: se cioè il «mon bien» sia realmente un bene; per i minori questo rischio può essere anche inconsistente e superficiale. Per quanto la teoria sia in grado di tracciare in anticipo i più generali lineamenti sociali di un simile mutamento, essa tuttavia è costretta a parlare solo post festum di tutti i fatti artistici concreti.

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Lukacs (da Il Contemporaneo)
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Casa di Lukács a Budapest
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Tomba di Lukács
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Taerga (Casa di Lukács a Budapest)
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Lukács studente universitario
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Lukács e la moglie
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Lukacs (da Il Contemporaneo)
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Bundesarchiv Bild 183-15304-0097, Berlin, Tagung Weltfriedensrat, Georg Lukacz, Anna Seghers
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Lukács e Fortini
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Lukács e Fortini
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Balla Demeter (1931- ) Lukács György (1971)
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Berlin, Tagung Weltfriedensrat, Georg Lukacz, Anna Seghers
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Lukács e Fortini
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Al centro, mani in tasca
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Casa di Lukács a Budapest
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Lukács nel suo studio
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Festschrift zum achtzigsten Geburtstag von Georg Lukács by Benseler, Frank
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Lukács al Congresso della pace di Helsinki 1955
Lukács al Congresso della pace di Helsinki 1955
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At the meeting of the Petöfi Cercle on June 27,1956, Arpad Szakasits, social democrat, talks to philosopher George Lukacs.
At the meeting of the Petöfi Cercle on June 27,1956, Arpad Szakasits, social democrat, talks to philosopher George Lukacs.
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Al tempo del suo amore per Irma
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