di Franco Fortini
Quando György von Lukács pubblicava, nel 1910, A lélek és a formák in ungherese (e l’anno seguente la traduzione in tedesco: Die Seele und die Formen) era un giovane di venticinque anni, laureato in legge e impiegato al Ministero della Pubblica Istruzione, già molto noto per aver vinto un premio letterario con una importante opera sulla Storia dello sviluppo del dramma moderno, che sarebbe stata pubblicata due anni più tardi.
Quale sia l’importanza storica di questa raccolta di saggi lo ha chiarito in varie occasioni Lucien Goldmann: per lui il tema maggiore di questi scritti (che solo in apparenza hanno come oggetto Rudolf Kassner, Kierkegaard, Novalis, Storm, George, C.L. Philippe, Beer-Hofmann, Sterne, Ernst) è l’indagine delle «strutture dinamiche significanti» che Lukács chiama «forme» delle differenti modalità privilegiate nel rapporto tra anima umana e assoluto. Goldmann ci dice che questa nozione di «forma» veniva al giovane Lukács da Dilthey. Ma per il Dilthey le «forme» avrebbero avuto carattere storico mentre per Lukács (probabilmente sotto l’influenza degli scritti di Husserl) le «forme» sono atemporali. Un passo indietro rispetto al Dilthey, che (dice sempre Goldmann) finisce con l’essere la condizione di un passo in avanti.
Una di quelle forme o «strutture significative» ha particolare rilievo in quest’opera: quella della «visione tragica», recuperata attraverso i rapporti tra «individuo», «autenticità» e «morte», nella definitiva irrilevanza e inautenticità della esistenza mondana. Con questa ripresa di temi che furono di Pascal e Kant, il giovane Lukács va ben oltre le posizioni che erano allora della filosofia accademica tedesca, anticipando di molto il pensiero di Heidegger e ponendosi tra gli anticipatori del moderno esistenzialismo. Fin qui Goldmann. Al che bisogna però non dimenticare di aggiungere l’imponente contributo che la drammatica (Ibsen), il romanzo (Mann) e la lirica simbolista (per non parlare di altri autori del xix secolo come Kierkegaard, Nietzsche, Dostoevskij) davano a chi avesse voluto riscoprire l’universo paradossale della tragedia.
Ma vivere «in tragico» equivale a morire.1
In uno scritto che converrebbe citare largamente, T. Münzer2 ci dice come già nel saggio sulla Povertà di spirito (che Max Weber pregiava singolarmente e che è del 1912) Lukács affermava che si sfugge alla morte solo se la conoscenza si muta in azione; saremmo quindi già prossimi a quel Marx che il giovane ungherese, ripercorrendo le tappe maggiori nel pensiero classico tedesco, avrebbe incontrato dopo il Kant3 di L’anima e le forme e lo Hegel della Teoria del Romanzo; e che negli anni della guerra gli farà scrivere Storia e coscienza di classe.
Tuttavia il Goldmann sottolinea una molto importante contraddizione in questo primo Lukács. È vero che una logica progressione lo porta dalla «vita vera» o vita vissuta tragicamente al superamento dell’impasse tragico, ponendosi dal punto di vista della storia e quindi da quella, fra le storiche «totalità concrete» o classi, che è la «classe dei produttori» (ossia passando dall’Epos e dalla Tragedia al Romanzo…); ma in un altro ed essenziale scritto di questo libro e precisamente in quello che gli altri introduce con titolo di Saggio sul Saggio, l’autore – in contraddizione con l’ultimo capitolo, quello sul tragico, ma non in contraddizione col proprio pensiero futuro – definisce il saggio come una forma autonoma intermedia tra la filosofia e l’espressione letteraria, sì che gli oggetti-occasione del saggista sono realtà e valori complementari rispetto a quelli della verità e dell’errore; e l’operazione saggistica è la «forma» di ogni discorso «ironico» nel quale si dice una cosa per intenderne un’altra. Si è così fuori delle scelte perentorie della «forma» tragica. E Lukács, fin dall’inizio della sua attività, nel momento stesso in cui sperimenta ed esprime l’attimo e la atemporalità tragica, si sceglie anche come saggista, si rifiuta alla «morte», accetta la dimensione del discorso intermedio. Ebbene – questa è la domanda e la ipotesi – non sembra essere, questo discorso intermedio, questa «forma» che è la saggistica, una metafora o anticipazione di quella che, nel successivo pensiero di Lukács, sarà la fondamentale categoria della mediazione? Nelle scelte politiche, nell’esercizio critico e nella meditazione estetica essa assumerà i nomi più diversi: sarà il Partito, universale concreto mediatore fra il «dover essere», che è la coscienza di classe, e l’azione («l’organizzazione è la forma della mediazione fra teoria e prassi»); e sarà il Tipico, mediazione poetica tra universale e particolare. Così trent’anni fa la lotta antifascista e ancor ieri la lotta per la pace e la coesistenza sono state per Lukács le incarnazioni concrete, nate dall’astuzia mediatrice della Storia, di un conflitto fondamentale, quello tra Capitalismo e Socialismo, che non può esser vissuto pienamente come tale perché la sua vista, come l’Iddio tragico e il sole, fulminerebbe l’incauto. Sembra insomma non improbabile che mentre nel pensiero di Lukács c’è una sequenza unidirezionale, quella «estremistica», che lo porta dalla «visione tragica» alla disciplina di partito (e occorre appena dire che i casi storici, come quelli biografici, sono per un tale svolgimento relativamente poco importanti), un’altra le si giustappone fin dalle origini, che teorizza la mediazione e ne fa anche un principio del comportamento. Mentre, secondo la prima sequenza, Lukács può sempre ripetere (e ancora nel maggio del 1956, come l’ha udito chi scrive) «right or wrong, my party», tipico motto della scelta assoluta4 secondo la seconda sequenza egli può compiere invece le autocritiche, vale a dire qualcosa di ben diverso dalla accettazione pura e semplice della disciplina e del suo paradosso, in quanto esse sono, per così dire, interpretazioni «saggistiche», forme «ironiche» della prassi, nel corso delle quali si parla di una cosa per dirne un’altra e il piano di chi parla è e non è quello di chi ascolta.
Se questa ipotesi ha qualche fondamento allora l’errore di Lukács – d’altronde coerente con i princìpi ed inevitabile – è stato quello di aver censurato tutta la propria opera fino a Geschichte und Klassenbewusstsein, compresa quella parte cioè nella quale erano separatamente leggibili gli elementi «estremisti» del suo pensiero e quelli «saggistici», destinati a consentirgli la sopravvivenza; così facendo, egli ha potuto dar l’impressione – come un padre che per malintesa pietà avesse voluto risparmiare al figlio le dure prove della giovinezza – che i grandi temi storiografici della sua opera adulta non fossero stati vissuti da chi aveva pur passato una sua stagione nell’inferno della «decadenza» e anzi le aveva recato un contributo così grande; ma da taluno nato già adulto.
Questo può forse contribuire a spiegare perché il «realismo» Lukácsiano – nelle diverse accezioni, critica, politica ed etica, del termine – abbia cominciato a perdere la sua potenza persuasiva quando la storia socialista, con la fine dell’età staliniana, è parsa uscire da una realtà di scelte assolute e tragiche. Esse, appunto per questo, chiedevano di essere lette e governate non da un pensiero fondato sul metodo del «tutto-o-nulla» ma su mediazioni dialettiche; mentre, al tempo stesso, generalizzandosi gli atteggiamenti tecnologico-scientistici e svalutandosi quelli ideologici (cioè il cosiddetto giudizio sul presente e sul passato a partir dal futuro) i conflitti assoluti sembrano aver lasciato il proscenio del mondo per tornare all’interiorità e al privato.
A quei giovani e men giovani che infastidisce la maschera di sublime filisteo del Lukács della tarda maturità e vecchiezza non farà male leggere l’opera di Lukács giovane. Vi potranno imparare quali fondamenti di aspirazione alla totalità e di apocalissi rivoluzionaria siano struttura dell’opera successiva, di storico e di critico. E potranno anche rendersi conto di quante interessate stoltezze, contro quell’opera, si siano venute scrivendo in questi ultimi anni. E da quale gusto di scrittura e da qual genere di letture, tanto sottili quanto severe, sia venuto l’autore e maestro che più tardi vorrà intenzionalmente «scriver male», cioè rinunciare alle eleganze apparenti e alla possibilità che dai suoi scritti – come ebbe a dire – si potessero ricavare citazioni luccicanti; lo scrittore che la saputa ignoranza di molta nostra canuta o appena pubere avanguardia ha chiamato di scarso o goffo gusto. Altro discorso bisognerebbe invece tenere, ma confidenziale ed amichevole, ad alcuni lettori o studiosi di Lukács che sembrano nati, per cosi dire, a cose fatte, già savi, oggettivi, realisti, agili superatori del tragico e dell’estremismo; e che credono sufficiente altri abbia vissuto e scritto di quel «soggiorno prolungato» accanto alla morte, di quel Verweilen, che secondo Hegel è il solo a fornire la forza magica di sopportarla. Anche a loro può essere utile leggere o rileggere quelle pagine.
1963
note
1 Il lettore italiano potrà rammentare che proprio tra 1909 e 1910 (anno che vede apparire nella nostra lingua due opere, le prime in Italia, di Kierkegaard) Carlo Michelstaedter, di due anni più giovane di Lukács e come lui cittadino dell’Impero austro-ungarico, veniva elaborando, studente a Firenze, la sua unica opera filosofica, dove opponeva «persuasione» a «rettorica» ed il consistere (mènein) dell’eroe nell’essenza alla fatuità dell’inessenziale quotidiano. Michelstaedter si uccideva nella sua città di Gorizia il 17 ottobre 1910, nel mese medesimo in cui da Firenze Lukács scriveva quella «lettera a Leo Popper» sulla Essenza e forma del saggio che apre L’anima e le forme e contiene un implicito tentativo di superare l’identità tragica di morte e di vita (che era nel pensiero di Michelstaedter, a lui certo sconosciuto). Vi scrive infatti Lukács, quasi pensasse a quella «figura» di Werther che lasciava dietro di sé: «Né il vivere né il morire sono mezzi adeguati per esprimere l’essenziale della vita…». Ma si vedano tutte quelle pagine.
E per l’atteggiamento successivo basti ricordare la testimonianza di Victor Serge (Memorie di un rivoluzionario, trad. it., Firenze, 1956, p. 274) che conobbe Lukács a Vienna nel 1924: «Parlavamo un giorno del suicidio dei rivoluzionari condannati a morte (a proposito dell’esecuzione a Budapest, nel 1919, del poeta Otto Korwin, che aveva diretto la Ceka ungherese e di cui l’alta società venne a contemplare l’impiccagione come uno spettacolo di prima scelta). “Al suicidio” disse Lukács “ci avevo pensato al momento in cui mi aspettavo di essere arrestato e impiccato con lui e avevo concluso di non averne il diritto: un membro del Comitato Centrale deve dar l’esempio”».
2 Thomas Münzer, Il giovane L., in «Ragionamenti», n. 9, 1957, pp. 167-172.
3 Una contestazione dell’itinerario che Goldmann attribuisce al giovane Lukács si legge in una recensione di C. Pianciola («Riv. di Filosofia», V. IV, n. 1, 1964, pp. 88-96). Kierkegaard e non Kant sarebbe all’origine della tematica di L’anima e le forme.
4 È curioso notare che proprio questa variante al motto nazionalista inglese fu esplicitamente apportata e giustificata da Trockij nel suo discorso al XIII Congresso, maggio 1924.