Prefazione 1967

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PREFAZIONE

In un vecchio scritto autobiografico (1933) ho definito il mio primo momento evolutivo come la mia via verso Marx. Gli scritti riuniti in questo volume caratterizzano i miei veri e propri anni di apprendistato del marxismo. Raccogliendo e pubblicando qui i documenti più importanti di questo periodo (1918-1930), vorrei mettere l’accento proprio su questo loro carattere di tentativi, senza attribuire ad essi in alcun modo un significato attuale nella lotta del presente per un marxismo autentico. Infatti, se si considera quanto grande sia oggi l’incertezza su che cosa si debba intendere come nucleo essenziale, come metodo permanente del marxismo, una simile restrizione è un imperativo di onestà intellettuale. D’altro lato, anche oggi i tentativi di cogliere correttamente l’essenza del marxismo possono avere una certa importanza documentaria, purché sussista un sufficiente atteggiamento critico sia rispetto ad essi, sia nei confronti della situazione attuale. Per questo gli scritti qui raccolti non illustrano soltanto i momenti del mio sviluppo personale, ma mostrano al tempo stesso le tappe di un cammino più generale che non possono essere prive di significato, una volta che si sia assunta una sufficiente distanza critica, anche per la comprensione della situazione odierna e per procedere oltre.

Non mi è naturalmente possibile caratterizzare correttamente la mia posizione rispetto al marxismo intorno al 1918 senza rinviare brevemente alla sua preistoria. Come ho sottolineato nello schizzo autobiografico or ora citato, lessi qualcosa di Marx già come studente liceale. In seguito, intorno al 1908, presi in considerazione anche Il capitale per dare un fondamento sociologico alla mia monografia sul dramma moderno. I miei interessi andavano infatti a quel tempo al Marx «sociologo» visto attraverso lenti metodologiche ampiamente condizionate da Simmel e da Max Weber. Ripresi gli studi marxiani durante la prima guerra mondiale, questa volta tuttavia già guidato da interessi filosofici generali; e non più sotto l’influsso prevalente degli studiosi contemporanei di «scienze dello spirito», ma di Hegel.

Certo, anche questa influenza hegeliana era molto discorde. Da un lato, nel mio sviluppo giovanile, un ruolo rilevante venne svolto da Kierkegaard; negli ultimi anni dell’anteguerra a Heidelberg intendevo addirittura occuparmi della sua critica a Hegel in un saggio monografico. D’altro lato, la contraddittorietà delle mie idee politico-sociali mi poneva in relazione spirituale con il sindacalismo, ed anzitutto con la filosofia di Sorel. Io cercavo di andare al di là del radicalismo borghese, ma mi sentivo respinto dalla teoria socialdemocratica (soprattutto kautskiana). Erwin Szabó, la guida spirituale dell’opposizione ungherese di sinistra nella socialdemocrazia, richiamò la mia attenzione su Sorel. A ciò si aggiunse durante la guerra la conoscenza delle opere di Rosa Luxemburg. Da tutto ciò derivava un amalgama internamente contraddittorio nella teoria, che doveva diventare decisivo per il mio pensiero negli anni della guerra e del primo dopoguerra.

Credo che ci si allontanerebbe dalla verità effettiva se si tentasse di volta in volta di ricondurre ad un unico denominatore «dal punto di vista delle scienze dello spirito» le palesi contraddizioni di questo periodo e di ricostruire così un’evoluzione spirituale organica ed immanente. Se si ammette nel caso di Faust che due anime possano albergare nello stesso petto, perché mai non dovrebbe essere possibile accertare l’azione simultanea e contraddittoria di tendenze spirituali opposte in uno stesso uomo, peraltro normale, ma che passa da una classe all’altra all’interno di una crisi mondiale? Io almeno trovo nel mio mondo ideale di allora, nella misura in cui sono in grado di ritornare con la memoria a questi anni, tendenze simultanee, da un lato, ad un’assimilazione del marxismo e ad un’attivazione politica e, dall’altro, ad una costante intensificazione di impostazioni problematiche caratterizzate nel senso di un puro idealismo etico.

La lettura dei miei articoli di allora non può far altro che confermare questa simultaneità di netti contrasti. Quando ripenso, ad esempio, ai saggi di carattere letterario di questo periodo, che non sono né troppo numerosi né troppo importanti, trovo che essi superano spesso nel loro idealismo aggressivo e paradossale i miei primi lavori. Ma contemporaneamente avanza anche il processo di inarrestabile assimilazione del marxismo. Così, quando scorgo in questo dualismo disarmonico la linea fondamentale che caratterizza lo spirito di questi miei anni, non si deve per questo arrivare all’estremo opposto, a presentare una sorta di quadro in bianco e nero, quasi che una positività rivoluzionaria in lotta contro la negatività delle sopravvivenze borghesi esaurisca la dinamica di queste opposizioni. Il passaggio da una classe alla classe che è ad essa specificamente nemica è un processo molto complicato. Guardando a me stesso indietro nel tempo, posso notare che nell’atteggiamento verso Hegel, nell’idealismo etico con tutti i suoi elementi di anticapitalismo romantico vi era anche qualche cosa di positivo per la mia immagine del mondo sorta da questa crisi: naturalmente, soltanto dopo che queste tendenze vennero superate in quanto tendenze dominanti o anche co-determinanti, dopo che esse – più volte modificate, e in modo radicale – si trasformarono in elementi di una nuova immagine del mondo ormai unitaria. Anzi, forse è questa l’occasione per affermare che la mia stessa intima conoscenza del mondo capitalistico interviene nella nuova sintesi come qualcosa di parzialmente positivo. Io non sono mai incorso nell’errore che ho spesso potuto osservare presso molti operai ed intellettuali piccolo-borghesi, un errore ad essi imposto ancora, in ultima analisi, dal mondo capitalistico. Da ciò mi ha preservato il mio odio derivante dal periodo della fanciullezza, un odio pieno di disprezzo, contro la vita nel capitalismo.

Ma non sempre la confusione è caos. In essa vi sono tendenze che possono certamente talora rafforzare temporaneamente le contraddizioni interne, ma che operano infine nel senso della loro esplicitazione. Così l’etica rappresentava uno stimolo in direzione della praxis, dell’azione e quindi della politica. E questa a sua volta in direzione dell’economia, cosa che condusse ad un approfondimento teoretico, e quindi, in ultima analisi, alla filosofia del marxismo. Si tratta naturalmente di tendenze che di solito si sviluppano solo lentamente e in modo non omogeneo. Un orientamento di questo genere cominciò a farsi sentire già nel corso della guerra dopo l’esplosione della rivoluzione russa. La Teoria del romanzo, come ho illustrato nella prefazione alla nuova edizione, è sorta ancora in uno stato di generale disperazione; non vi è da meravigliarsi che il presente appaia in essa fichtianamente come una condizione di totale contaminazione e che qualsiasi prospettiva o via d’uscita riceva il carattere di una vana utopia. Solo con la rivoluzione russa si è aperta anche per me, nella realtà stessa, una prospettiva per il futuro; già con il crollo dello zarismo, ed a maggior ragione      con quello del capitalismo. Benché la nostra conoscenza dei fatti e dei principi fosse allora molto limitata e poco sicura, noi vedemmo tuttavia che – finalmente! – si era aperta per l’umanità una via che conduceva al di là della guerra e del capitalismo. Certo, nel parlare di questo entusiasmo, non si deve nemmeno abbellire il passato. Anch’io – e parlo qui assolutamente a titolo proprio – vissi un momento breve di transizione: in quanto l’ultima esitazione di fronte alla decisione definitiva, e definitivamente corretta, fece nascere provvisoriamente una malriuscita cosmesi spirituale adorna di argomenti di compiaciuta astrattezza. Eppure la decisione non poteva essere arrestata. Il breve saggio Tattica ed etica mostra i suoi interni motivi umani.

Sui pochi saggi del periodo della repubblica ungherese dei consigli e della sua preparazione non è necessario dire molte cose. Noi eravamo – ed io lo ero forse meno di tutti – molto poco preparati spiritualmente a dominare i grandi compiti; l’entusiasmo tentò, semplicemente ma onestamente, di sostituire la scienza e l’esperienza. Mi limito a ricordare gli unici dati di fatto qui particolarmente importanti: noi avevamo una scarsa conoscenza della teoria leninista della rivoluzione, della sua essenziale prosecuzione del marxismo in questi campi. Allora erano stati tradotti ed a noi accessibili soltanto pochi articoli ed opuscoli, e coloro che avevano partecipato alla rivoluzione russa in parte erano poco dotati dal punto di vista teorico (come Szamuely), in parte si trovavano sostanzialmente, dal punto di vista intellettuale, sotto l’influenza dell’opposizione russa di sinistra (come Béla Kun). Solo durante l’emigrazione viennese mi fu possibile una più approfondita conoscenza di Lenin come teorico. Così, anche nel mio pensiero di allora vi è un’operazione dualistica. Da un lato non riuscii ad assumere una posizione in linea di principio corretta nei confronti dei fatali errori opportunistici della politica di allora, così come nei confronti della soluzione puramente socialdemocratica della questione agraria. Dall’altro, le mie proprie tendenze intellettuali nel campo della politica culturale mi spingevano in un senso astrattamente utopistico. Oggi, dopo quasi mezzo secolo, mi meraviglio del fatto che riuscimmo a dar vita relativamente a non poche cose passibili di sviluppo. (Per restare a questo proposito nell’ambito della teoria, vorrei notare che i due saggi Che cosa è il marxismo ortodosso? e Il mutamento di funzione del materialismo storico ricevevano già in questo periodo la loro prima redazione. Per Storia e coscienza di classe essi vennero certamente rielaborati, ma non nel loro orientamento di fondo).

L’emigrazione viennese inaugura un periodo di studio, orientato in primo luogo ad una conoscenza delle opere di Lenin. Uno studio naturalmente che non si distaccò per un solo istante dall’attività rivoluzionaria. Era anzitutto necessario ridare continuità al movimento operaio rivoluzionario in Ungheria; trovare parole d’ordine e provvedimenti che fossero capaci di mantenere la loro fisionomia anche sotto il terrore bianco e di promuovere lo sviluppo, di respingere le calunnie contro la dittatura – sia di parte puramente reazionaria sia di parte socialdemocratica – e di avviare al tempo stesso un’autocritica marxista della dittatura proletaria. Intanto a Vienna ci imbattemmo nella corrente del movimento rivoluzionario internazionale. L’emigrazione ungherese era a quel tempo forse la più numerosa e la più divisa, ma non l’unica. Vissero a Vienna come emigranti, più o meno stabilmente, molte persone provenienti dai paesi balcanici e dalla Polonia; ed inoltre Vienna era anche un centro internazionale di transito, in cui ci trovavamo in costante contatto con comunisti tedeschi, francesi, italiani, ecc. Non vi è quindi da meravigliarsi se la rivista «Kommunismus», sorta in queste circostanze, divenne per un certo tempo l’organo principale delle tendenze di estrema sinistra nella Terza Internazionale. Oltre ai comunisti austriaci, agli emigranti ungheresi e polacchi, che formavano il nucleo direttivo interno ed il gruppo costante di collaboratori, simpatizzarono con i loro sforzi anche italiani di estrema sinistra come Bordiga e Terracini, olandesi come Pannekoek e Roland Holst, ecc.

In queste circostanze, quel dualismo delle mie tendenze evolutive di cui si è già parlato non raggiunse soltanto il suo punto culminante, ma assunse anche una nuova e duplice forma di cristallizzazione sul terreno pratico e su quello teorico. Come membro del collettivo interno di «Kommunismus» presi vivacemente parte all’elaborazione di una linea politico-teorica «di sinistra». Essa poggiava sulla fiducia, allora ancora molto viva, che la grande ondata rivoluzionaria che avrebbe dovuto condurre in breve tempo il mondo intero, o almeno l’intera Europa, al socialismo, non era affatto rifluita per via delle sconfitte subite in Finlandia, in Ungheria ed a Monaco. Avvenimenti come il putsch di Kapp, l’occupazione delle fabbriche in Italia, la guerra sovietico-polacca, ed infine l’«azione di marzo», rafforzarono in noi questa convinzione del rapido approssimarsi della rivoluzione mondiale, di una vicina e totale trasformazione dell’intero mondo civile. Certo, quando si parla del settarismo all’inizio degli anni venti, non si deve pensare a quella forma specifica di settarismo che prese sviluppo nella praxis staliniana. Quest’ultimo intende anzitutto mettere al sicuro da qualsiasi riforma i rapporti di potere già costituiti, ed ha quindi un carattere conservatore nei suoi scopi e burocratico nei suoi metodi. Il settarismo degli anni venti si proponeva invece degli scopi caratterizzati da un utopismo messianico, ed al fondo dei suoi metodi si trovano tendenze nettamente antiburocratiche. Queste due correnti entrambe settarie hanno dunque in comune soltanto il modo in cui vengono designate, mentre dal punto di vista interno esse presentano decisi contrasti. (Che già allora siano state introdotte nella Terza Internazionale le consuetudini burocratiche di Zinoviev e dei suoi seguaci, è certamente un dato di fatto, così come è un dato di fatto che gli ultimi anni della malattia di Lenin siano stati attraversati dalla preoccupazione di vedere in che modo potesse essere combattuta sulla base della democrazia proletaria la burocratizzazione crescente, che sorgeva in modo spontaneo, della repubblica dei consigli. Ma anche qui è visibile l’opposizione tra il settarismo attuale e quello di allora. Il mio saggio sui problemi dell’organizzazione nel partito ungherese è diretto contro la teoria e la praxis del seguace di Zinoviev, Béla Kun).

La nostra rivista contribuiva al settarismo messianico perché metteva in pratica il metodo più radicale in tutte le questioni, proclamando in ogni campo una rottura totale con tutte le istituzioni e le forme di vita derivanti dal mondo borghese. Si trattava perciò di potenziare maggiormente una coscienza di classe senza falsificazioni nelle avanguardie, nei partiti comunisti, nelle organizzazioni giovanili comuniste. Un esempio tipico di questa tendenza è il mio saggio polemico contro la partecipazione ai parlamenti borghesi. Il suo destino – la critica di Lenin – fece sì che io potessi compiere il mio primo passo verso il superamento del settarismo. Lenin richiamava l’attenzione su una differenza, anzi su un’opposizione decisiva: dal fatto che un’istituzione sia superata dal punto di vista storico-universale – ad esempio, il parlamento per opera dei soviet – non consegue per nulla il rifiuto della partecipazione tattica ad essa; all’opposto. Questa critica, di cui io riconobbi immediatamente la validità, mi costrinse a collegare le mie prospettive storiche alla tattica quotidiana in modo più differenziato e più mediato, ed essa rappresenta dunque l’inizio di una svolta nelle mie idee. Ma si trattava di una svolta all’interno di una visione del mondo che permaneva ancora sostanzialmente settaria. Ciò appare un anno dopo, quando, pur considerando criticamente alcuni errori tattici particolari dell’«azione di marzo», tuttavia la sostenni ancora nella sua totalità con un atteggiamento acriticamente settario.

Proprio qui arriva ad esprimersi direttamente l’opposizione dualistica, sia oggettiva che interiore, presente nelle mie concezioni politiche e filosofiche di allora. Mentre nella vita internazionale tutta la passionalità intellettuale del mio messianismo rivoluzionario poteva dispiegarsi liberamente, il movimento comunista, che si andava a poco a poco organizzando in Ungheria, mi poneva di fronte a decisioni delle cui conseguenze di ordine generale e personale, immediate e di prospettiva, era necessario prendere atto, ponendole alla base delle decisioni successive. Naturalmente mi trovai in questa situazione già nella repubblica dei consigli. E già allora la necessità di non orientare il pensiero soltanto secondo prospettive messianiche, mi impose più di una decisione realistica, sia nel commissariato del popolo per l’istruzione, sia nella divisione di cui mi incombeva la direzione politica. Il confronto con i fatti, la necessità di ricercare ciò che Lenin aveva chiamato «l’anello più vicino della catena», divenne tuttavia ora un’esigenza incomparabilmente più immediata e più urgente di quanto lo fosse mai stata nella mia vita sino a quel momento. Proprio il carattere in apparenza puramente empirico del contenuto di tali decisioni ebbe le più ampie conseguenze per il mio atteggiamento teorico. Quest’ultimo dovette commisurarsi alle tendenze ed alle situazioni sussistenti oggettivamente; se si voleva arrivare ad una decisione correttamente fondata in linea di principio, non si doveva restare mai prigionieri dell’immediatezza dei fatti, ma cercare costantemente di mettere allo scoperto quelle mediazioni, spesso celate, che avevano condotto a quella situazione, ed in primo luogo tentare di prevedere quali situazioni sarebbero presumibilmente sorte di qui, determinando la praxis successiva. La vita stessa mi dettò dunque un atteggiamento spirituale che molto spesso si trovava in contrasto con il mio messianismo rivoluzionario, idealisticamente utopistico.

Il dilemma si rafforzava ancor più per la presenza dalla parte opposta nella direzione pratica del partito ungherese di una tendenza settaria di tipo burocratico-moderno; il gruppo del seguace di Zinoviev, Béla Kun. Sul piano puramente teorico, avrei potuto contestare le sue concezioni come concezioni falsamente di sinistra, ma in concreto le sue proposte poterono essere combattute soltanto con un appello alla realtà quotidiana spesso molto prosaica e ricollegabile solo attraverso mediazioni molto ampie alla grande prospettiva della rivoluzione mondiale. Come spesso è accaduto nel corso della mia vita, anche in questo caso ho avuto una fortuna personale: alla testa dell’opposizione contro Kun si trovava Eugen Landler, un uomo dotato di una notevole-intelligenza, soprattutto pratica, ed anche di molta sensibilità per i problemi teorici, purché essi fossero realmente collegati, attraverso mediazioni per quanto ampie, con la praxis rivoluzionaria, un uomo il cui più profondo atteggiamento interiore era determinato dai suoi intimi legami con la vita delle masse. La sua protesta contro i progetti burocratico-avventuristici di Kun mi convinse immediatamente fin dall’inizio e fui sempre al suo fianco fin dal momento in cui esplose la lotta di frazione. Pur non avendo qui la possibilità di diffondermi neppure sui particolari più importanti e spesso anche interessanti dal punto di vista teorico di questa lotta interna di partito, vorrei notare soltanto che la scissione metodologica nel mio pensiero si potenziò trasformandosi in una scissione teorico-pratica: nelle grandi questioni internazionali della rivoluzione continuai a sostenere le tendenze di estrema sinistra, mentre come membro del partito ungherese divenni un avversario accanito del settarismo di Kun. Ciò appare chiaramente alla luce nella primavera del 1921. In rapporto alla linea ungherese io sostenni, seguendo Landler, una politica energicamente anti-settaria, mentre sul piano internazionale e su quello teorico ero al tempo stesso un sostenitore dell’«azione di marzo». Questa simultaneità di tendenze opposte raggiungeva così il suo punto culminante. Con l’approfondimento delle divergenze all’interno del partito ungherese, con i primi movimenti spontanei degli operai più radicali in Ungheria, crebbe naturalmente anche nel mio pensiero la forza dell’influsso delle tendenze teoriche che di qui avevano origine, senza tuttavia acquisire, a questo livello, la superiorità su ogni altra, ed anche se la critica di Lenin aveva scosso fortemente le mie concezioni sull’«azione di marzo».

In un simile periodo di transizione e di crisi interiore è sorta Storia e coscienza di classe. La stesura avvenne nel 1922. Essa consisteva in parte di rielaborazioni di testi precedenti: agli scritti del 1918 si aggiunse anche quello sulla Coscienza di classe (del 1920). Entrambi i saggi su Rosa Luxemburg, così come Legalità e illegalità vennero inclusi nella raccolta senza sostanziali modificazioni. Del tutto nuovi sono soltanto i due studi importanti ed indubbiamente di maggior peso La reificazione e la coscienza del proletariato e il saggio sulle questioni organizzative. (Per quest’ultimo è servito come studio preparatorio il saggio Questioni organizzative dell’iniziativa rivoluzionaria, scritto subito dopo l’«azione di marzo» e pubblicato nella rivista «Die Internationale» nel 1921). Perciò Storia e coscienza di classe rappresenta, dal punto di vista letterario, la conclusione e la sintesi del mio periodo di sviluppo a partire dagli ultimi anni di guerra. Una conclusione, certamente, che conteneva già in sé, almeno in parte, tendenze di uno stadio di transizione verso una maggiore chiarezza, anche se tali tendenze non riuscirono a dispiegarsi in modo effettivo.

Questa lotta non decisa tra orientamenti opposti, a proposito dei quali non sempre si può parlare di una vittoria o di una disfatta, rende anche oggi tutt’altro che semplice il compito di una valutazione e di una caratterizzazione unitaria di questo libro. Tuttavia si deve tentare qui se non altro di mettere brevemente in rilievo i suoi motivi dominanti. Colpisce anzitutto che Storia e coscienza di classe – senz’altro in discordanza con le intenzioni soggettive dell’autore – rappresenta oggettivamente una tendenza all’interno della storia del marxismo che, pur mostrando differenziazioni molto notevoli nella fondazione filosofica e nelle conseguenze politiche, è diretta contro i fondamenti dell’ontologia del marxismo. Penso qui a quella tendenza ad interpretare il marxismo esclusivamente come teoria della società, come filosofia del sociale, e ad ignorare o a respingere la posizione in esso contenuta rispetto alla natura. Questa tendenza era rappresentata già negli anni precedenti alla prima guerra mondiale da marxisti peraltro di orientamento molto diverso, come Max Adler e Lunaciarski; ai giorni nostri essa la si incontra – probabilmente non senza una certa influenza di Storia e coscienza di classe – anzitutto nell’esistenzialismo francese e nel suo ambito spirituale circostante. Su questo problema il mio libro assume una posizione molto decisa: in vari passi si asserisce che la natura è una categoria sociale e la concezione complessiva è orientata nel senso secondo cui soltanto la conoscenza della società e degli uomini che vivono in essa sarebbe filosoficamente rilevante. Già i nomi dei sostenitori di questa tendenza indicano che non si tratta di una vera e propria corrente; io stesso conoscevo allora Lunaciarski solo per nome ed ho sempre rifiutato Max Adler come kantiano e come socialdemocratico. Ciò nonostante, una considerazione più attenta esibisce certi tratti comuni. Appare chiaro, da un lato, che proprio la concezione materialistica della natura comporta una separazione realmente radicale tra concezione del mondo borghese e socialista e il sottrarsi a questo nodo agisce su questi contrasti filosofici nel senso di una loro attenuazione, ad esempio impedisce una decisa elaborazione del concetto marxista della praxis. D’altro lato, questa apparente superiorità delle categorie sociali si ripercuote sfavorevolmente sulle loro autentiche funzioni conoscitive; anche il loro carattere peculiare specificamente marxista viene attenuato e spesso si fa inconsciamente regredire il loro reale superamento del pensiero borghese.

In questa critica mi limito qui naturalmente a Storia e coscienza di classe, non volendo con ciò affatto sostenere che questa divergenza dal marxismo in altri autori di atteggiamento analogo sia stata meno determinante. Nel mio libro essa si ripercuote immediatamente, introducendo confusioni decisive, sulla concezione dell’economia stessa che, in rapporto al metodo, avrebbe dovuto naturalmente rappresentare qui il punto centrale. È vero che si tenta di rendere intelligibili tutti i fenomeni ideologici a partire dalla loro base economica, ma l’ambito dell’economia viene tuttavia ridotto, essendo ad esso sottratta la sua categoria marxista fondamentale: il lavoro come mediatore del ricambio organico della società con la natura. Questa è tuttavia un’ovvia conseguenza di un simile atteggiamento metodologico di fondo. Da esso consegue che si dissolvono i più importanti e reali pilastri della visione marxista del mondo, e il tentativo di trarre le ultime conseguenze rivoluzionarie del marxismo con estrema radicalità resta necessariamente senza un’autentica fondazione economica. Va da sé che si dissolve necessariamente anche quell’interazione che sussiste tra il lavoro considerato in senso autenticamente materialistico e l’evoluzione degli uomini che lavorano. La grande idea di Marx secondo la quale «la produzione per la produzione non significa altro se non sviluppo delle forze produttive umane, e quindi sviluppo della ricchezza della natura umana come fine in sé» si trova al di fuori dell’ambito che Storia e coscienza di classe è in grado di considerare. Lo sfruttamento capitalistico perde questo suo aspetto oggettivamente rivoluzionario e non si comprende il dato di fatto che «questo sviluppo delle facoltà del genere uomo, benché si compia in primo luogo a spese della maggioranza degli individui e di certe classi di uomini, rompe infine questo antagonismo e coincide con lo sviluppo del singolo individuo, e quindi un più alto grado di sviluppo dell’individualità viene raggiunto solo a prezzo di un processo storico in cui gli individui vengono sacrificati» (Theorien über den Mehrwert, II, I, Stoccarda 1921, pp. 309-10). Con ciò, sia la presentazione delle contraddizioni del capitalismo, sia quella del rivoluzionamento del proletariato ricevono involontariamente l’accento di un prevalente soggettivismo.

Ciò influisce anche in senso restrittivo e deformante sul concetto di praxis che è centrale proprio per questo libro. Anche in rapporto a questo problema volli prendere le mosse da Marx e tentai di liberare i suoi concetti da ogni deformazione borghese più tarda, in modo da renderli atti alle esigenze del grande balzo rivoluzionario nel presente. Anzitutto, era per me un fatto certo a quel tempo che dovesse essere radicalmente superato il carattere meramente contemplativo del pensiero borghese. Così, la concezione della praxis rivoluzionaria in questo libro ha appunto qualcosa di eccessivo, e ciò corrispondeva bensì all’utopismo messianico del comunismo di sinistra di allora, ma non all’autentica teoria marxiana. In modo comprensibile dal punto di vista del periodo storico, nella lotta contro le concezioni borghesi ed opportunistiche all’interno del movimento operaio che esaltava una conoscenza isolata dalla praxis, presuntivamente oggettiva, ma che era effettivamente separata da qualsiasi praxis, la mia polemica – giustificata in modo relativamente ampio – si rivolgeva contro l’esaltazione e la sopravvalutazione della contemplazione. La critica marxiana di Feuerbach rafforzò ancora questo mio atteggiamento. Solo che io non notai che senza una base nella praxis reale, nel lavoro come sua forma originaria e suo modello, l’esaltazione del concetto di praxis si converte necessariamente in quella di una contemplazione idealistica.

Così intesi distinguere da qualsiasi «sondaggio d’opinione» empiristico (naturalmente tale espressione non era allora in uso) la giusta ed autentica coscienza di classe del proletariato, conferendo ad essa un’incontestabile oggettività pratica. Tuttavia, mi fu possibile arrivare solo alla formulazione di una coscienza di classe «attribuita di diritto». Io avevo di mira ciò che Lenin indica in Che fare? quando dice che, a differenza della coscienza trade-unionista che sorge spontaneamente, la coscienza di classe socialista viene introdotta «dall’esterno», «cioè, al di fuori della lotta economica, della sfera delle relazioni tra operai e imprenditori» (Lenin, Werke, Vienna-Berlino, TV, II, pp. 216-17). Ciò che dunque era in me un’intenzione soggettiva ed in Lenin invece il risultato di un’analisi autenticamente marxista di un movimento pratico all’interno della totalità della società, divenne nella mia esposizione un risultato puramente spirituale e quindi qualcosa di essenzialmente contemplativo. La conversione della coscienza «attribuita di diritto» in praxis rivoluzionaria, appare qui – considerata oggettivamente – come un puro e semplice miracolo.

Questa trasformazione di un’intenzione – considerata in se stessa corretta – nell’opposto di ciò che avevo di mira, è una conseguenza della concezione astrattamente idealistica già ricordata della praxis stessa. Ciò si rivela chiaramente nella polemica – ancora una volta non del tutto ingiustificata – contro Engels, che vede nell’esperimento e nell’industria i casi tipici in cui la praxis si dimostra come criterio della teoria. Da allora mi è divenuto chiaro, come base teorica dell’incompletezza della tesi engelsiana, che il terreno della praxis (senza che si modifichi la sua struttura fondamentale) diventa nel corso del suo sviluppo sempre più ampio, più complesso e più mediato che nel puro e semplice lavoro, ragione per cui il semplice atto del produrre l’oggetto può certamente diventare la base per una realizzazione immediatamente corretta di una assunzione teorica, ed in questa misura valere come criterio della sua correttezza o falsità. Tuttavia, non per questo può dirsi assolto il compito che Engels assegna qui alla praxis immediata, cioè quello di porre fine alla teoria kantiana della «cosa in sé inafferrabile».

Può facilmente accadere infatti che il lavoro stesso si arresti alla pura e semplice manipolazione, trascurando spontaneamente o consapevolmente la soluzione del problema dell’in sé oppure ignorandolo del tutto o in parte. La storia ci mostra casi di un’azione praticamente corretta sulla base di teorie del tutto false che non contengono un arenamento dell’in sé nel senso di Engels. Anzi, la stessa teoria kantiana non nega affatto il valore conoscitivo, l’oggettività degli esperimenti di questo genere, solo che essa li relega nell’ambito dei puri e semplici fenomeni, mentre l’in sé resta inconoscibile. Ed il neopositivismo odierno pretende di allontanare dalla scienza ogni problema di realtà (dell’in sé), respingendolo come «non scientifico», e questo pur riconoscendo tutti i risultati della tecnologia e della scienza naturale. Affinché dunque la praxis possa esercitare quella funzione che Engels giustamente richiede, essa deve elevarsi, restando ancora praxis, e trasformandosi anzi in una praxis più ampia, al di sopra di questa immediatezza.

Le mie perplessità di allora di fronte alla soluzione engelsiana non erano quindi infondate. Tanto più falsa era tuttavia la mia argomentazione. Era del tutto scorretto asserire che «proprio l’esperimento implica un comportamento per eccellenza contemplativo». La mia propria descrizione confuta questa argomentazione. Infatti, la produzione di una condizione in cui le forze naturali da indagare possano agire senza essere disturbate dai momenti frenanti del mondo oggettivo e dagli errori di osservazione del soggetto è – come il lavoro stesso – una posizione teleologica, naturalmente di genere particolare, e quindi per essenza anche una praxis. Altrettanto scorretto era negare la praxis nell’industria e scorgere in essa «in senso storico-dialettico, solo l’oggetto, e non il soggetto delle leggi sociali». Ciò che in questa frase è – parzialmente, molto parzialmente – giusto, riguarda soltanto la totalità economica della produzione capitalistica. A ciò non contraddice tuttavia affatto che ogni singolo atto di produzione industriale, oltre ad essere la sintesi di atti lavorativi teleologici, sia anche, al tempo stesso e proprio in questa sintesi, un atto teleologico, e quindi pratico. Queste storture filosofiche si ripercuotono nel fatto che, analizzando i fenomeni economici, Storia e coscienza di classe non cerca il proprio punto di partenza nel lavoro, ma soltanto nelle strutture più complesse dell’economia merceologica evoluta. Con ciò viene reso fin dall’inizio senza prospettive l’approccio filosofico a problemi decisivi come quello del riferirsi della teoria alla praxis, del soggetto all’oggetto.

In queste premesse estremamente problematiche ed in altre analoghe si rivela l’influenza dell’eredità hegeliana non elaborata coerentemente in senso materialistico, e quindi non superata, in un senso duplice. Ricordo ancora una volta un problema centrale e di principio. È senz’altro un grande merito di Storia e coscienza di classe quello di aver ridato alla categoria della totalità, che la «scientificità» dell’opportunismo socialdemocratico aveva fatto cadere del tutto nell’oblio, quel posto metodologicamente centrale che essa ha sempre avuto nelle opere di Marx. Che in Lenin agissero tendenze analoghe mi era ignoto a quel tempo. (I frammenti filosofici sono stati pubblicati nove anni dopo Storia e coscienza di classe). Ma mentre Lenin anche su questo problema rinnovava effettivamente il metodo marxiano, io incorrevo invece in un eccesso (hegeliano) contrapponendo alla priorità della sfera economica la centralità metodologica della totalità: «Ciò che distingue in modo decisivo il marxismo dalla scienza borghese non è il predominio delle motivazioni economiche nella spiegazione della storia, ma il punto di vista della totalità». Questa paradossalità metodologica si accresce ancor più per il fatto che si scorge nella totalità il veicolo categoriale del principio rivoluzionario nella scienza: «Il dominio della categoria della totalità è il veicolo del principio rivoluzionario nella scienza» (Storia e coscienza di classe, p. 44). Senza dubbio, tali paradossi metodologici hanno svolto un ruolo non irrilevante e per molti aspetti persino progressivo nell’azione esercitata da Storia e coscienza di classe. Il ricorso alla dialettica hegeliana rappresenta intanto un duro colpo contro la tradizione revisionistica; già Bernstein pretendeva anzitutto di espungere dal marxismo, sub titulo di «scientificità», tutto ciò che ricordava la dialettica hegeliana. E nulla è più estraneo ai suoi avversari teorici, anzitutto Kautsky, che la difesa di questa tradizione. Per un ritorno rivoluzionario al marxismo era dunque un dovere ovvio quello di rinnovare le tradizioni hegeliane del marxismo. Storia e coscienza di classe rappresenta il tentativo forse a quel tempo più radicale di riattualizzare l’aspetto rivoluzionario di Marx attraverso il rinnovamento e lo sviluppo della dialettica hegeliana e del suo metodo. Questa impresa divenne ancora più attuale per il fatto che, nello stesso tempo, nella filosofia borghese si facevano sentire con forza sempre maggiore correnti che tentavano di rinnovare Hegel. Naturalmente, queste non hanno mai dato un rilievo fondamentale alla rottura filosofica di Hegel con Kant, e d’altra parte, sotto l’influsso di Dilthey, erano orientate nel senso di gettare un ponte nella teoria tra la dialettica hegeliana e l’irrazionalismo moderno. Poco dopo la comparsa di Storia e coscienza di classe, Kroner caratterizzava Hegel come il massimo irrazionalista di tutti i tempi e nella successiva trattazione di Löwith, si fa di Marx e di Kierkegaard dei fenomeni paralleli, emersi entrambi dalla dissoluzione dell’hegelismo. Il contrasto rispetto a tutte queste correnti mostra come era attuale l’impostazione di Storia e coscienza di classe. Dal punto di vista dell’ideologia del movimento operaio radicale, essa era attuale anche perché passava qui sullo sfondo quel ruolo di mediazione di Feuerbach tra Hegel e Marx molto sopravvalutato da Plechanov e da altri. Che Marx si ricollegasse direttamente a Hegel, è stato da me affermato esplicitamente solo qualche tempo dopo, nel saggio su Moses Hess ed anticipando di anni la pubblicazione degli studi filosofici di Lenin; ma di fatto questa posizione si trova già alla base di molte discussioni di Storia e coscienza di classe.

In un simile sguardo d’insieme, necessariamente sommario, è impossibile esercitare una critica concreta intorno alle considerazioni particolari di questo libro, indicando, ad esempio, in quale punto l’interpretazione di Hegel sia progressiva oppure provochi confusioni. Il lettore di oggi, se è atto alla critica, troverà sicuramente vari esempi dell’uno e dell’altro caso. Tuttavia, in rapporto all’influenza che esso esercitò a quel tempo, ed anche ad una sua eventuale attualità nel presente, soprattutto un problema ha un’importanza determinante, che va al di là di tutte le considerazioni di dettaglio: si tratta del problema dell’estraneazione, che viene trattato qui per la prima volta dopo Marx come questione centrale della critica rivoluzionaria del capitalismo, riconducendo alla dialettica hegeliana le sue radici storico-teoriche e metodologiche. Naturalmente questo problema era nell’aria. Alcuni anni dopo, esso passò al centro delle discussioni filosofiche per opera di Essere e tempo di Heidegger ed ancora oggi non ha perduto questa posizione, essenzialmente per influenza di Sartre, della sua scuola e dei suoi oppositori. La questione filologica avanzata anzitutto da Lucien Goldmann quando scorge qua e là nell’opera di Heidegger una certa replica polemica al mio libro – che naturalmente non viene citato – può qui essere trascurata. Affermare che il problema era nell’aria è oggi del tutto sufficiente, in particolare se si analizzano in modo approfondito, cosa impossibile in questa sede, le basi d’essere di questo dato, di fatto per mettere in chiaro lo sviluppo ulteriore, la mescolanza di motivi di pensiero marxisti ed esistenzialisti, soprattutto in Francia subito dopo la seconda guerra mondiale. Priorità, «influssi», ecc., non hanno a questo proposito un soverchio interesse. Importante è solo il fatto che l’estraneazione dell’uomo come problema centrale del tempo in cui viviamo venne egualmente riconosciuta ed ammessa da pensatori sia borghesi che proletari, orientati a destra o a sinistra dal punto di vista politico-sociale. Così Storia e coscienza di classe esercitò una profonda influenza tra i giovani intellettuali; io conosco un’intera schiera di buoni comunisti che furono acquisiti al movimento proprio per questa via. Senza dubbio la ripresa di questo problema hegeliano-marxiano da parte di un comunista contribuì notevolmente a far sì che l’influenza esercitata da questo libro oltrepassasse ampiamente i limiti del partito.

Quanto alla trattazione di questo problema, oggi non è più molto difficile rendersi conto che essa si muove puramente nello spirito di Hegel. Anzitutto il suo ultimo fondamento filosofico è costituito dal soggetto-oggetto identico che si realizza nel processo storico. Certo, il suo sorgere in Hegel è di tipo logico-filosofico, in quanto il raggiungimento del massimo grado dello spirito assoluto nella filosofia, con il ritrarsi dell’alienazione, con il ritorno dell’autocoscienza a se stessa, realizza il soggetto-oggetto identico. In Storia e coscienza di classe, invece, questo processo deve essere storico-sociale, culminando nel fatto che il proletariato – nella sua coscienza di classe – realizza questo grado trasformandosi in soggetto-oggetto identico della storia. Con ciò Hegel sembra in effetti «essere rimesso sui piedi»; si direbbe che la costruzione logico-metafisica della Fenomenologia dello spirito abbia trovato nell’essere e nella coscienza del proletariato un’autentica realizzazione sul terreno ontologico, cosa che a sua volta sembra dare una fondazione filosofica alla tendenza storica del proletariato a gettare le basi per mezzo della sua rivoluzione alla società senza classi, a concludere la «preistoria» dell’umanità. Ma il soggetto-oggetto identico è in realtà qualcosa di più che una costruzione puramente metafisica? Mediante una simile autoconoscenza – per quanto possa essere adeguata ed anche ammettendo che alla sua base vi sia la conoscenza del mondo sociale – in un’autocoscienza, dunque, tanto perfetta, può effettivamente realizzarsi un soggetto-identico? È sufficiente porre questo interrogativo con precisione per constatare che ad esso occorre dare una risposta negativa. Infatti, il contenuto della conoscenza può anche essere retro-riferito al soggetto conoscitivo, ma non per questo l’atto della conoscenza perde il suo carattere alienato. Hegel ha giustamente respinto, proprio nella Fenomenologia dello spirito, la realizzazione mistico-irrazionalistica del soggetto-oggetto identico, l’«intuizione intellettuale» di Schelling e ha posto l’istanza di una soluzione filosoficamente razionale del problema. Il suo sano senso della realtà ha fatto sì che questa sua istanza restasse un’istanza; certo, la sua più generale costruzione del mondo culmina nella prospettiva della sua realizzazione, ma egli non mostra mai all’interno del suo sistema in modo concreto come questa istanza possa venire soddisfatta. Il proletariato come soggetto-oggetto identico della storia dell’umanità non è quindi una realizzazione materialistica che sia in grado di superare le costruzioni intellettuali idealistiche: si tratta piuttosto di un hegelismo più hegeliano di Hegel, di una costruzione che intende oggettivamente oltrepassare il maestro stesso nell’audacia con cui si eleva con il pensiero al di sopra di qualsiasi realtà.

Questa prudenza di Hegel ha la propria base intellettuale nell’arditezza della sua concezione di fondo. Infatti in Hegel il problema dell’estraneazione appare per la prima volta come problema fondamentale della posizione dell’uomo nel mondo e rispetto al mondo. Essa è tuttavia in lui, con il termine di alienazione (Entäusserung), al tempo stesso la posizione di qualsiasi oggettività. L’estraneazione si identifica perciò, se viene coerentemente concepita, con il porre l’oggettività. Il soggetto-oggetto identico deve quindi, nella misura in cui supera l’estraneazione, superare al tempo stesso l’oggettività. Poiché tuttavia l’oggetto, la cosa in Hegel, esiste soltanto come alienazione dell’autocoscienza, la sua riassunzione nel soggetto rappresenterebbe la fine della realtà oggettiva, quindi della realtà in generale. Ora, Storia e coscienza di classe segue Hegel nella misura in cui anche in questo libro l’estraneazione viene posta sullo stesso piano dell’oggettivazione (per far uso della terminologia dei Manoscritti economico-filosofici di Marx). Questo fondamentale e grossolano errore ha sicuramente contribuito in notevole misura al successo di Storia e coscienza di classe. Come abbiamo detto, lo smascheramento nel pensiero dell’estraneazione era allora nell’aria; ben presto esso divenne una questione centrale della critica della cultura che indagava la condizione dell’uomo nel capitalismo del presente. Per la critica filosofico-borghese della cultura, basti pensare a Heidegger, era del tutto ovvio sublimare la critica sociale in una critica puramente filosofica, fare dell’estraneazione per sua essenza sociale un’eterna «condition humaine», usando un termine invalso solo più tardi. È chiaro che questo modo di presentare le cose in Storia e coscienza di classe, benché avesse di mira tutt’altro, anzi l’opposto, favorì  atteggiamenti di questo genere. L’estraneazione identificata con l’oggettivazione era bensì intesa come una categoria sociale – il socialismo avrebbe dovuto appunto superarla – e tuttavia l’insuperabilità della sua esistenza nelle società classiste e anzitutto la sua fondazione filosofica la rendevano vicina alla «condition humaine».

Questa è appunto la conseguenza di questa falsa identificazione, su cui occorre ancora insistere, tra concetti fondamentali opposti. Infatti, l’oggettivazione è effettivamente un modo insuperabile di estrinsecazione nella vita sociale degli uomini. Se si considera che ogni obiettivazione nella praxis, e quindi anzitutto il lavoro stesso, è un’oggettivazione, che ogni modo di espressione umana, e quindi anche la lingua, i pensieri e i sentimenti umani, sono oggettivati, ecc., è allora evidente che qui abbiamo a che fare con una forma universalmente umana dei rapporti degli uomini tra loro. Come tale l’oggettivazione è naturalmente priva di un indice di valore; il vero è un’oggettivazione allo stesso titolo del falso, la liberazione non meno dell’asservimento. Solo se le forme oggettivate nella società ricevono funzioni tali da mettere in contrasto l’essenza dell’uomo con il suo essere, soggiogando, deformando e lacerando l’essenza umana attraverso l’essere sociale, sorge il rapporto oggettivamente sociale di estraneazione e, come sua conseguenza necessaria, l’estraneazione interna in tutti i suoi caratteri soggettivi. Questa dualità non venne riconosciuta in Storia e coscienza di classe. Di qui la falsità e la stortura della sua concezione storico-filosofica fondamentale. (Notiamo in margine che anche il fenomeno della reificazione, strettamente affine all’estraneazione, ma non identico ad essa né socialmente né concettualmente, viene usato egualmente come suo sinonimo).

Questa critica dei concetti fondamentali non può essere completa. Ma anche limitandoci strettamente alle questioni centrali, va brevemente ricordata la negazione del carattere di rispecchiamento nella conoscenza. Essa aveva due fonti. La prima era la profonda avversione verso il fatalismo meccanicistico, di solito operante all’interno di quel materialismo meccanicistico contro cui protestava appassionatamente – ancora una volta in modo non del tutto ingiustificato – il mio utopismo messianico di allora, il predominio della praxis nel mio pensiero. Il secondo motivo sorgeva a sua volta dal mancato riconoscimento dell’origine e del radicamento della praxis nel lavoro. Il lavoro più primitivo, lo stesso atto di raccogliere pietre da parte dell’uomo delle origini, presuppone un corretto rispecchiamento della realtà che è qui direttamente in questione. Infatti, nessuna posizione teleologica è eseguibile con successo senza un’immagine riflessa immediata, per quanto possa essere primitiva, della realtà che essa ha praticamente di mira. La praxis può soddisfare la teoria ed esserne il criterio solo perché alla sua base si trova, ontologicamente, come presupposto reale di qualsiasi posizione teleologica reale, un rispecchiamento che si ritiene corretto della realtà. Non val la pena qui di esaminare più da vicino i particolari della polemica che è sorta su questo punto, la legittimità di un rifiuto del carattere fotografico nelle teorie correnti del rispecchiamento.

Non credo sia contraddittorio il fatto che io abbia parlato qui esclusivamente degli aspetti negativi di Storia e coscienza di classe e che ciò nonostante ritenga che, ai suoi tempi, essa non sia stata a suo modo un’opera irrilevante. Lo stesso fatto che tutti quegli errori qui enumerati abbiano la loro fonte non tanto nella persona dell’autore, quanto piuttosto nelle grandi tendenze, anche se spesso intrinsecamente false, del periodo, conferisce a questo libro un certo carattere rappresentativo. A quel tempo tentava di giungere alla propria espressione teorica un momento poderoso, storico-universale, di transizione. E quando una teoria porta ad espressione, se non appunto l’essenza oggettiva di una crisi, almeno una tipica presa di posizione rispetto ai suoi problemi di fondo, essa può storicamente acquisire un certo significato. Oggi io credo che questo sia il caso di Storia e coscienza di classe.

A questo proposito, l’esposizione qui compiuta non intende affatto dire che le idee espresse in questo libro nel loro complesso siano erronee necessariamente e senza eccezioni. Certo, le cose non stanno in questi termini. Le stesse osservazioni introduttive al primo saggio danno una definizione dell’ortodossia nel marxismo che, secondo le mie convinzioni attuali, non è soltanto oggettivamente giusta, ma può avere anche oggi, alla vigilia di una rinascita del marxismo, un significato di notevole attualità. Penso qui a considerazioni come quella che segue: «… anche ammesso – e non concesso – che le indagini più recenti abbiano provato senza alcun dubbio l’erroneità materiale di certe asserzioni particolari di Marx nel loro complesso, ogni marxista ‘ortodosso’ serio potrebbe senz’altro accettare questi nuovi risultati, rifiutando interamente alcune tesi marxiane, senza rinunciare per un minuto solo alla propria ortodossia marxista. Il marxismo ortodosso non significa perciò un’accettazione acritica dei risultati della ricerca marxiana, non significa un ‘atto di fede’ in questa o in quella tesi di Marx, e neppure l’esegesi di un libro ‘sacro’. Per ciò che concerne il marxismo, l’ortodossia si riferisce esclusivamente al metodo. Essa è la convinzione scientifica che nel marxismo dialettico si sia scoperto il corretto metodo della ricerca, che questo metodo possa essere potenziato, sviluppato e approfondito soltanto nella direzione indicata dai suoi fondatori. Ma anche: che tutti i tentativi di superarlo o di ‘migliorarlo’ hanno avuto e non possono avere altro effetto che quello di renderlo superficiale, banale ed eclettico». (Storia e coscienza di classe, pp. 9-10). E senza sentirmi eccessivamente immodesto, credo che si possano trovare numerose altre idee altrettanto giuste. Ricordo soltanto l’inclusione delle opere giovanili di Marx nel quadro complessivo della sua concezione del mondo, mentre i marxisti di allora, in linea generale, vedevano in esse soltanto documenti storici della sua evoluzione personale. Che alcuni decenni più tardi questo rapporto sia stato rovesciato, che molte volte si sia presentato il giovane Marx come il vero e proprio filosofo, trascurando ampiamente le sue opere mature, di ciò non è responsabile Storia e coscienza di classe, poiché in essa la visione marxiana del mondo – a torto o a ragione – viene sempre trattata come sostanzialmente unitaria.

Non va neppure negata la presenza di molti passi che offrono lo spunto ad una presentazione delle categorie dialettiche nel loro movimento e nella loro oggettività reale ed ontologica, e che quindi rinviano ad un’ontologia autenticamente materialistica dell’essere sociale. Ad esempio, la categoria della mediazione viene presentata in questi termini: «La categoria della mediazione come leva metodologica per il superamento della mera immediatezza dell’empiria non è quindi qualcosa che interviene dall’esterno (soggettivamente) negli oggetti, non è un giudizio di valore o un dover essere, che si contrapponga al loro essere, ma è il rivelarsi della loro stessa struttura oggettuale autentica ed oggettiva» (Storia e coscienza di classe, p. 222). Oppure, in stretto legame concettuale con questo punto, la connessione tra genesi e storia: «Che la genesi e la storia coincidano o, più esattamente, siano soltanto momenti dello stesso processo, è possibile soltanto quando da un lato tutte le categorie nelle quali è strutturata l’esistenza umana appaiano come determinazioni di questa stessa esistenza (e non soltanto della sua intelligibilità), d’altro lato quando la loro successione, la loro interdipendenza e la loro connessione si presentino come momenti del processo storico stesso, come caratteristica strutturale del presente. La successione e l’interdipendenza interna delle categorie non formano dunque né una serie puramente logica, né si ordinano secondo la fatticità puramente storica» (Storia e coscienza di classe, p. 218). Questo corso di idee sbocca conseguentemente in una citazione tratta dalla famosa considerazione metodologica del Marx degli anni cinquanta. Passi analoghi che anticipano un’esplicitazione materialistico-dialettica ed un rinnovamento di Marx non sono rari.

Il fatto che io mi sia qui concentrato tuttavia sulla critica degli aspetti erronei ha essenzialmente dei motivi pratici. È un dato di fatto che Storia e coscienza di classe ha suscitato e suscita ancora oggi una forte impressione su molti lettori. Se in tal caso esercitassero un’influenza gli sviluppi di idee correnti non vi sarebbe nulla da ridire, e sarebbe allora del tutto irrilevante e privo di interesse il mio atteggiamento di autore a questo proposito. Purtroppo io so che, in forza dello sviluppo sociale e degli atteggiamenti teorici da esso prodotti, ciò che oggi considero come teoricamente falso spesso rappresenta uno dei momenti di influenza più efficaci. Perciò mi sento tenuto, ripubblicando questo libro dopo più di quarantanni, a prendere la parola riferendomi anzitutto a queste tendenze negative del libro ed a mettere in guardia il lettore di fronte a scelte erronee che, se allora erano forse difficilmente evitabili, oggi non lo sono ormai più.

Ho già fatto notare che Storia e coscienza di classe era in certo senso la sintesi e la conclusione del mio periodo di sviluppo che aveva avuto inizio nel 1918-19. Gli anni seguenti lo dimostrano in modo sempre più chiaro. In primo luogo l’utopismo messianico di questo periodo perde progressivamente il proprio terreno (apparentemente) reale. Nel 1924 morì Lenin. Le lotte di partito dopo la sua morte si concentrarono in misura crescente sul problema della possibilità del socialismo in un solo paese. Certo, su questa possibilità, come possibilità teorica ed astratta, Lenin stesso si era pronunciato più volte. Tuttavia, la prospettiva apparentemente vicina della rivoluzione mondiale metteva allora in rilievo il suo carattere astratto e meramente teorico. Che ormai la discussione vertesse intorno ad una possibilità reale e concreta, fu dimostrato dal fatto che in questi anni non si poté più contare seriamente su una prospettiva vicina di rivoluzione mondiale (essa riemerse temporaneamente soltanto in seguito alla crisi economica del 1929). Ed a ciò si aggiungeva il fatto che la Terza Internazionale aveva giustamente interpretato la condizione del mondo capitalistico come una condizione di «relativa stabilizzazione». Questi fatti rappresentarono anche per me la necessità di un nuovo orientamento teorico. E l’inizio di una svolta decisiva è molto chiaramente dimostrato dal fatto che nelle discussioni russe di partito, mi trovai dalla parte di Stalin, dalla parte dell’affermazione del socialismo in un solo paese.

Questa svolta tuttavia era direttamente ma sostanzialmente determinata dall’esperienza di lavoro nel partito ungherese. La giusta politica della frazione di Landler cominciò a dare i suoi frutti. Il partito che lavorava in una stretta illegalità ottenne un sempre maggiore influsso sull’ala sinistra della socialdemocrazia, cosicché nel 1924-25 divenne possibile una scissione del partito e la fondazione di un partito operaio radicale, orientato tuttavia nel senso della legalità. Questo partito, diretto illegalmente da comunisti, si propose come compito strategico l’instaurazione della democrazia in Ungheria, un compito culminante nella richiesta della repubblica, mentre il partito comunista illegale stesso si atteneva alla vecchia parola d’ordine strategica della dittatura del proletariato. In quel tempo, io ero d’accordo sul piano tattico su questa scelta, soltanto che si faceva sentire sempre più intensamente un intero complesso di problemi tormentosamente irrisolti, in relazione alla giustificazione teorica della situazione che si era venuta creando.

Già questo corso di idee cominciò a minare i fondamenti spirituali del periodo tra il 1917 e il 1924. A ciò si aggiunse il fatto che il rallentamento del ritmo di sviluppo della rivoluzione mondiale, divenuto così evidente, spingeva necessariamente nel senso di una cooperazione con gli elementi sociali orientati in qualche modo a sinistra contro la reazione che si approssimava e si rafforzava. Per un partito operaio legale e radicale di sinistra nell’Ungheria di Horthy ciò era una pura e semplice ovvietà. Ma anche il movimento-internazionale mostrava tendenze orientate in questo senso. Già nel 1922 si verificava la marcia su Roma e gli anni successivi portavano anche in Germania ad un rafforzamento del nazionalsocialismo, ad una concentrazione crescente di tutte le forze reazionarie. Così i problemi del fronte unitario e del fronte popolare passarono necessariamente all’ordine del giorno e vennero discussi a fondo sia sul piano teorico sia su quello strategico e tattico. A questo proposito molto di rado ci si poteva attendere qualche elemento orientativo dalla Terza Internazionale che si trovava sempre più fortemente sotto l’influsso di Stalin. Essa oscillò tatticamente e alternativamente tra destra e sinistra. Stalin stesso intervenne sul piano tecnico in maniera estremamente fatale in questa incertezza, quando definì, intorno al 1928, i socialdemocratici come «fratelli gemelli» dei fascisti. Con ciò si era chiusa la porta in faccia ad ogni fronte unitario delle sinistre. Benché io fossi dalla parte di Stalin in rapporto alla questione russa centrale, questa sua presa di posizione mi urtò profondamente. Essa favorì il mio graduale allontanamento dalle tendenze di estrema sinistra non meno della professione per il trotzkismo, verso cui io assunsi sempre un atteggiamento di rifiuto, ad opera della maggior parte dei raggruppamenti di sinistra all’interno dei partiti europei. Quando, ad esempio, in rapporto alla Germania della cui politica soprattutto mi occupavo, mi trovai contro Ruth Fischer e Masslow, ciò non implicava certamente alcun atteggiamento di simpatia per Brandler e Thalheimer. A quel tempo io ero alla ricerca, ai fini di un’effettiva chiarificazione e per giungere ad una presa di coscienza politico-teorica, di un «autentico» programma di sinistra, che avrebbe dovuto contrapporre un tertium, ad esempio in Germania, a questi contrasti. Ma in questo periodo di transizione, il sogno di una simile soluzione teorico-politica delle contraddizioni rimase un sogno. Non riuscii mai a trovare una soluzione soddisfacente anche solo per me stesso, e per questo non mi presentai mai in questo periodo, né sul terreno pratico né su quello teorico, alla ribalta internazionale.

Altrimenti stavano le cose nel movimento ungherese. Landler moriva nel 1928 e nel 1929 il partito preparava il proprio secondo congresso. A me fu affidato il compito di redigere il progetto delle tesi politiche del congresso. Ciò mi costrinse ad affrontare il mio vecchio problema a proposito della questione ungherese: può un partito proporsi contemporaneamente due diversi scopi strategici (sul piano legale la repubblica, su quello illegale le repubblica dei consigli)? Oppure, da un altro punto di vista: può una presa di posizione rispetto alla forma dello Stato essere il contenuto di una finalità meramente tattica (considerando così la prospettiva del movimento comunista illegale come lo scopo autentico, quella del partito legale come una misura meramente tattica)? Un’analisi approfondita della situazione economico-sociale dell’Ungheria mi convinse sempre più del fatto che Landler, a suo tempo, con la parola d’ordine strategica della repubblica aveva istintivamente toccato la questione centrale di una giusta prospettiva rivoluzionaria per l’Ungheria: anche nel caso di una crisi del regime di Horthy tanto profonda da produrre le condizioni oggettive di un rovesciamento radicale, non sarebbe stato possibile per l’Ungheria un passaggio diretto alla repubblica dei consigli. La parola d’ordine legale della repubblica doveva perciò venire concretizzata nel senso, definito da Lenin nel 1905, di una dittatura democratica degli operai e dei contadini. È oggi per i più difficilmente intelligibile come suonasse a quel tempo paradossale una tale parola d’ordine. Benché

il sesto congresso della Terza Internazionale avesse menzionato questa possibilità come possibilità, si pensava in generale che, essendo già stata l’Ungheria nel 1919 una repubblica di consigli, un tale passo indietro fosse storicamente impossibile.

Non è qui il luogo di indugiare su queste divergenze di opinioni, tanto più che il testo di queste tesi, per quanto esse fossero tali da portare ad un rovesciamento in rapporto a tutta la mia evoluzione successiva, non può oggi essere quasi più considerato come un documento teoricamente importante. Inoltre la mia esposizione era insufficiente, sia in linea di principio sia dal punto di vista della concretezza, cosa in parte provocata dal fatto che, per rendere accettabile il loro contenuto principale, avevo attenuato numerosi aspetti particolari presentandoli in modo troppo generico.

Ma anche in questa forma, la cosa fece scandalo all’interno del partito ungherese; il gruppo di Kun vide in queste tesi la forma del più puro opportunismo, e l’appoggio della mia frazione fu abbastanza tiepido. Così accadde che, quando seppi da una fonte fidata che Béla Kun si accingeva a farmi espellere dal partito come «liquidatore», essendomi ben nota l’influenza di Kun nell’Internazionale, rinunciai ad una lotta ulteriore e resi pubblica un’«autocritica». Anche allora ero certamente del tutto convinto della giustezza del mio punto di vista, ma sapevo anche – ad esempio, dalla sorte di Karl Korsch – che allora un’espulsione dal partito rappresentava l’impossibilità di partecipare attivamente alla lotta contro il fascismo che si avvicinava. Ed io redassi questa «autocritica» come «biglietto di ingresso» ad un’attività di questo genere, dal momento che in queste circostanze non intendevo e non potevo più lavorare nel movimento ungherese.

Quanto poco si trattasse di un’effettiva autocritica, è dimostrato dal fatto che la svolta nell’atteggiamento di fondo che si trovava alla base delle tesi, pur non avendo ricevuto un’espressione anche soltanto approssimativamente adeguata, da questo momento in poi costituì il filo conduttore della mia successiva attività sia pratica che teorica. Ovviamente, sviluppare per quanto concisamente questo punto esorbita dall’ambito di queste considerazioni. Come documento che prova che non si tratta di fantasie soggettive dell’autore, ma di fatti oggettivi, voglio citare alcune osservazioni di József Révai (del 1950) relative appunto alle tesi di Blum, in cui egli, in veste di guida ideologica del partito, presenta le mie concezioni letterarie di allora come conseguenze dirette di quelle tesi: «Chi conosce la storia del movimento comunista ungherese, sa che le opinioni letterarie che il compagno Lukács ha sostenuto dal 1945 al 1949 si trovano in stretta connessione con le sue opinioni politiche molto anteriori che egli sostenne nei confronti dello sviluppo politico in Ungheria e della strategia del partito comunista alla fine degli anni venti» (József Révai, Literarische Studien, Berlino 1956, p. 235).

Questo problema ha un altro aspetto, per me ancora più importante, in cui la svolta qui compiuta riceve una fisionomia del tutto chiara. Il lettore di questi scritti avrà compreso che anche motivi etici mi condussero in modo essenziale alla decisione di aderire attivamente al movimento comunista. Quando lo feci, non sospettavo neppure lontanamente che per questo sarei diventato per un decennio un uomo politico. Così decisero le circostanze. Quando nel febbraio del 1919 il comitato centrale del partito venne arrestato, ritenni ancora una volta come mio dovere assumere il posto che si offriva nel comitato sostitutivo semi-illegale. Si susseguirono in una continuità drammatica il commissariato del popolo per l’istruzione nella repubblica dei consigli e il commissariato politico nell’armata rossa, il lavoro illegale a Budapest, la lotta di frazione a Vienna, ecc. Solo ora io venni nuovamente posto di fronte ad una reale alternativa. La decisione venne allora dalla mia propria autocritica, privata ed interna: se avevo così manifestamente ragione come appunto l’avevo, e tuttavia ero costretto a subire una così clamorosa sconfitta, le mie capacità pratico-politiche si dovevano dimostrare seriamente problematiche. Perciò mi fu possibile ormai ritirarmi in buona fede dalla carriera politica, per tornare a concentrarmi sull’attività teorica. Di tale decisione non mi sono mai pentito. (A ciò non contraddice il fatto che nel 1956 dovetti assumere una carica ministeriale. Prima di questa assunzione, dichiarai che essa sarebbe stata valida per un periodo di transizione, per il periodo della crisi più acuta; non appena la situazione si fosse consolidata, mi sarei immediatamente ancora una volta ritirato dalla scena).

Per ciò che concerne l’analisi della mia attività teorica in senso stretto dopo Storia e coscienza di classe, ho saltato un mezzo decennio e solo ora posso ritornare ad esaminare un po’ più da vicino questi scritti. Questa deviazione dalla cronologia è giustificata dal fatto che il contenuto teorico delle tesi di Blum, naturalmente senza che io abbia avuto di ciò il minimo sospetto, ha rappresentato il segreto terminus ad quem del mio sviluppo. Solo nel momento in cui cominciò ad essere superato decisamente, a proposito di una questione concreta ed importante in cui confluivano decisioni e problemi molto diversi, il nodo costituito da quell’opposizione dualistica che caratterizzava il mio pensiero dal tempo degli ultimi anni di guerra, si possono considerare come conclusi i miei anni di apprendistato del marxismo. Questa evoluzione, la cui conclusione è rappresentata appunto dalle tesi di Blum, va ora caratterizzata sulla base della mia produzione teorica di allora. Io credo che la chiarezza fissata preliminarmente sulla mèta a cui ha condotto questo cammino agevoli una simile trattazione, in particolare se si tiene conto che in questo periodo concentrai le mie energie anzitutto sui compiti pratici del movimento ungherese e la mia produzione teorica si risolse prevalentemente in semplici lavori d’occasione.

Già il primo e, per estensione, il maggiore, di questi scritti, il tentativo di tracciare un ritratto intellettuale di Lenin, è alla lettera uno scritto d’occasione. Immediatamente dopo la morte di Lenin il mio editore mi pregò di scrivere una monografia sintetica su di lui; io accolsi questo stimolo e portai a termine questo breve scritto in poche settimane. Esso rappresenta un progresso rispetto a Storia e coscienza di classe nella misura in cui il fissare l’attenzione su questo grande modello mi aiutò a cogliere il concetto di praxis in una connessione più autentica, ontologica e dialettica, con la teoria. Naturalmente, la prospettiva della rivoluzione mondiale è qui quella degli anni venti, ma in parte per via delle esperienze del breve tempo intanto intercorso, in parte per questa concentrazione sulla personalità spirituale di Lenin, i tratti più pronunciatamente settari di Storia e coscienza di classe cominciarono ad attenuarsi ed a scindersi da quelli più vicini alla realtà. Già nella prefazione che scrissi recentemente per la riedizione separata di questo breve studio ho tentato di mettere in luce con una certa precisione ciò che io ritengo ancora vitale ed attuale nel suo atteggiamento di fondo. Ciò che importa a questo proposito è anzitutto intendere Lenin nella sua vera peculiarità spirituale, senza considerarlo come un prosecutore rettilineo sul piano della teoria di Marx e di Engels, e neppure come un geniale e pragmatico «politico realistico». Nel modo più conciso si potrebbe formulare questo ritratto di Lenin come segue: la sua forza teorica poggia sul fatto che egli considera qualsiasi categoria – per quanto possa essere astrattamente filosofica – dal punto di vista della sua efficacia all’interno della praxis umana e al tempo stesso porta l’analisi concreta della situazione concreta data di volta in volta, su cui si basa costantemente ogni sua azione, in una connessione organica e dialettica con i principi del marxismo. Così egli non è nel senso stretto del termine, né un teorico né un pratico, ma un profondo pensatore della praxis, un uomo che converte appassionatamente la teoria nella praxis, un uomo il cui penetrante sguardo è sempre rivolto al punto in cui la teoria trapassa nella praxis e la praxis nella teoria. Il fatto che la cornice storico-spirituale di questo mio vecchio studio all’interno del cui ambito si muove questa dialettica, porti ancora in sé tratti tipici del marxismo degli anni venti, altera indubbiamente alcuni elementi della fisionomia intellettuale di Lenin, dal momento che soprattutto nei suoi ultimi anni di vita, egli sviluppò molto più di quanto faccia il suo biografo la critica del presente, ma riproduce anche i suoi lineamenti fondamentali in modo sostanzialmente corretto, poiché l’opera teorico-pratica di Lenin è anche oggettivamente inscindibile dai momenti preparatori del 1917 ed associata alle loro conseguenze necessarie. Oggi io credo che il tentativo di cogliere la peculiarità specifica di questa grande personalità riceva una sfumatura non del tutto identica, ma non per questo completamente estranea, attraverso l’illuminazione compiuta a partire dalla mentalità degli anni venti.

Tutto ciò che io scrissi negli anni successivi, non sono soltanto esteriormente lavori d’occasione – si tratta per lo più di recensioni – ma anche da un punto di vista interno, in quanto tentai di chiarire il mio proprio cammino futuro, alla spontanea ricerca di un nuovo orientamento, attraverso la delimitazione delle concezioni altrui. A questo proposito la recensione di Bucharin è forse la più notevole in rapporto al contenuto. (Per il lettore di oggi si noti che nel 1925, quando essa venne pubblicata, Bucharin era accanto a Stalin la figura più importante del partito russo; solo tre anni più tardi avvenne la rottura tra i due). Il tratto più positivo di questa recensione è la concretizzazione delle mie proprie idee nel campo dell’economia; essa si mostra anzitutto nella polemica contro la concezione molto diffusa, sia di tipo comunista-materialistico-volgare, sia di tipo borghese-positivistico, secondo cui si dovrebbe scorgere nella tecnica il principio decisivo, il principio oggettivamente motore dello sviluppo delle forze produttive. È evidente che in questo modo si afferma un fatalismo storico, una neutralizzazione dell’uomo e della praxis sociale, un’azione della tecnica come «forza naturale» sociale, come «legalità naturale». La mia critica non si muove soltanto su un piano storicamente più concreto di quanto ciò avvenga per lo più in Storia e coscienza di classe: ma in misura minore si contrappongono al fatalismo meccanicistico forze contrarie caratteristiche di un’ideologia volontaristica, mentre si tenta piuttosto di mostrare nelle stesse forze economiche il momento che, assolvendo socialmente una funzione di guida, determina così la stessa tecnica. Un atteggiamento analogo caratterizza la breve recensione del libro di Wittfogel. Entrambe queste esposizioni sono carenti dal punto di vista teorico per il fatto che il materialismo volgare meccanicistico e il positivismo sono trattati indifferenziatamente come una corrente unitaria, anzi il primo viene sotto più riguardi semplicemente risolto nel secondo.

Più importanti sono le recensioni più approfondite della riedizione delle lettere di Lassalle e degli scritti di Moses Hess. In entrambe le recensioni prevale la tendenza a dare alla critica della società, allo sviluppo sociale, una base economica più concreta di quanto abbia potuto fare Storia e coscienza di classe, a porre la critica dell’idealismo, lo sviluppo e la prosecuzione della dialettica hegeliana al servizio dei nessi così acquisiti. Con ciò viene ripresa la critica del giovane Marx della Sacra Famiglia rispetto ai presunti superatori idealistici di Hegel: il motivo che tali tendenze, in quanto soggettivamente presumono di andare al di là di Hegel, rappresentano oggettivamente un puro e semplice ritorno all’idealismo soggettivo di Fichte. Ad esempio, il fatto che la filosofia della storia di Hegel non vada oltre l’esibizione del presente nella sua necessità corrisponde anche ai motivi conservatori del suo pensiero; ed erano indubbiamente elementi di una spinta soggettivamente rivoluzionaria quelli che, nella filosofia fichtiana della storia, ponevano il presente in quanto «epoca di totale contaminazione», tra il passato ed un futuro filosoficamente – e presuntivamente – conoscibile. Già nella critica di Lassalle si mostra che questo radicalismo è puramente pretenzioso, che nella conoscenza del movimento storico reale la filosofia hegeliana rappresenta un livello più alto di quella fichtiana, in quanto la dinamica della mediazione storico-sociale oggettivamente intenzionata (objektiv intentionierte), che produce il presente, è costruita in modo più reale, meno ideale, che il rinvio al futuro in Fichte. La simpatia di Lassalle per tali indirizzi di pensiero è ancorata nella sua visione complessiva puramente idealistica del mondo; essa si oppone a quell’al di qua che doveva conseguire da una coerente risoluzione di un decorso storico economicamente fondato. La recensione cita a questo proposito, per mettere in rilievo la distanza che separa Marx da Lassalle, il detto di quest’ultimo tratto da un colloquio con Marx: «Se non credi all’eternità delle categorie, devi credere in Dio». Questa energica sottolineatura degli elementi filosoficamente retrivi del pensiero di Lassalle rappresentava allora contemporaneamente una polemica teorica contro le correnti della socialdemocrazia che tentavano, in contrasto con la critica che Marx ha esercitato nei confronti di Lassalle, di fare di quest’ultimo un fondatore di pari grado della concezione socialista del mondo. Senza riferirmi direttamente ad essa, ho combattuto questa tendenza come una tendenza all’imborghesimento. Anche questa intenzione contribuì a far sì che, su determinate questioni, giungessi più vicino al Marx autentico di quanto riuscì a fare Storia e coscienza di classe.

La recensione della prima raccolta degli scritti di Moses Hess non aveva un’attualità politica di questo genere. Tanto più intensa si faceva sentire l’esigenza, proprio per la mia ripresa delle idee del giovane Marx, di definire la mia posizione rispetto ai teorici suoi contemporanei dell’ala sinistra all’interno del processo di dissoluzione della filosofia hegeliana e rispetto al «vero socialismo» spesso direttamente legato a questo contesto. Questo intento contribuì anche a spingere ancor più energicamente in primo piano le tendenze verso la concretizzazione filosofica dei problemi dell’economia e del loro sviluppo sociale. Certo, la considerazione acritica di Hegel non è qui affatto superata: come in Storia e coscienza di classe, la critica di Hess prende le mosse dalla pretesa identità tra oggettivazione ed estraneazione. Il progresso rispetto alla concezione precedente riceve ora una forma paradossale in quanto, da un lato, contro Lassalle ed i giovani-hegeliani radicali, passano in primo piano quelle tendenze di Hegel che presentano le categorie economiche come realtà sociali, mentre dall’altro si prende una decisa posizione contro l’aspetto adialettico della critica feuerbachiana di Hegel. Quest’ultimo punto di vista conduce all’affermazione, già sottolineata, di un diretto ricollegarsi di Marx ad Hegel, mentre il primo conduce al tentativo di una più precisa determinazione del rapporto tra economia e dialettica. Così, ad esempio, ricollegandosi alla Fenomenologia, si insiste sull’accentuazione del momento immanente nella dialettica economico-sociale di Hegel rispetto alla trascendenza di ogni idealismo soggettivo. Così anche l’estraneazione viene intesa in modo tale che essa «non è né una figura intellettuale né una realtà ‘esecrabile’», ma «la forma d’esistenza immediatamente data dal presente come momento di transizione al suo autosuperamento nel processo storico». A ciò era collegato il perfezionamento, diretto nel senso dell’oggettività, del punto di vista relativo all’immediatezza ed alla mediazione nel processo di sviluppo della società in Storia e coscienza di classe. In questo corso di idee l’aspetto più importante consiste nel fatto che esso culmina nell’istanza di un nuovo tipo di critica che cerca già esplicitamente un legame diretto con la marxiana Critica dell’economia politica. Dopo la decisa comprensione di principio di ciò che vi era di erroneo nell’intero impianto di Storia e coscienza di classe, questa tendenza assunse la forma di un programma di analisi approfondita delle connessioni filosofiche tra l’economia e la dialettica. Già all’inizio degli anni trenta, a Mosca ed a Berlino, la sua realizzazione prese l’avvio con la prima stesura del mio libro sul giovane Hegel (compiuto soltanto nell’ottobre del 1937). Ora trent’anni dopo, io tento di giungere ad un effettivo dominio di questo nodo problematico nell’ontologia dell’essere sociale a cui sto lavorando.

Fino a che punto siano proseguite queste tendenze nei tre anni che separano il saggio su Hess dalle tesi di Blum, non posso dire nulla di determinato, non essendoci a questo proposito nessun documento. Credo soltanto che sia molto improbabile che il lavoro pratico di partito, nel quale si presentava di continuo la necessità di analisi economiche concrete, non sia stato stimolante anche dal punto di vista economico-teorico. Comunque, nel 1929, avviene la grande svolta già illustrata, rappresentata dalle tesi di Blum, e nel 1930 – quando le mie idee si erano già mutate in questo senso – divenni collaboratore scientifico dell’Istituto Marx-Engels di Mosca. Fui favorito allora da due inattesi colpi di fortuna: mi fu possibile leggere il testo, già completamente decifrato, dei Manoscritti economico-filosofici e feci la conoscenza, che segnò l’inizio di un’amicizia destinata a durare per tutta la vita, con M. Lifschitz. Nella letteratura di Marx caddero in una volta tutti i pregiudizi idealistici di Storia e coscienza di classe. È sicuramente vero che avrei potuto trovare anche nei testi marxiani letti in precedenza ciò che mi scosse sul piano teorico in questa circostanza. È tuttavia un fatto che ciò non accadde, palesemente perché fin dall’inizio lessi queste opere secondo un’interpretazione hegeliana, ed un simile choc poté essere esercitato soltanto da un testo completamente nuovo. (Naturalmente debbo aggiungere che a quel tempo avevo già superato nelle tesi di Blum le basi politico-sociali di questo idealismo). In ogni caso, ricordo ancora oggi l’impressione sconvolgente che fecero su di me le parole di Marx sull’oggettività come proprietà materiale primaria di tutte le cose e di tutte le relazioni. Ad essa si ricollegava, come si è già esposto, la comprensione del fatto che l’oggettivazione è un modo naturale – positivo o negativo – di dominio umano del mondo, mentre l’estraneazione è un tipo particolare di oggettivazione che si realizza in determinate circostanze sociali. Con ciò erano crollati definitivamente i fondamenti teorici di ciò che rappresentava il carattere particolare di Storia e coscienza di classe. Questo libro mi divenne completamente estraneo, così come era accaduto nel 1918-19 per i miei scritti anteriori. D’un colpo mi fu chiaro che se volevo realizzare quegli elementi teorici che mi si presentavano dinanzi, dovevo ancora una volta ricominciare dall’inizio.

In questo periodo avrei voluto fissare per iscritto anche per il pubblico questa mia nuova posizione. Questo tentativo non poté tuttavia essere realizzato ed il manoscritto è nel frattempo andato perduto. Di ciò mi diedi allora poca pena: io mi trovavo in quell’atmosfera di entusiasmo e di fermento che è propria di un nuovo inizio. Ma io vidi anche che tutto ciò avrebbe potuto diventare significativo soltanto sulla base di nuovi studi più ampi, che molte vie indirette doverono essere percorse per acquisire una disposizione interna tale da consentirmi di esporre in modo scientifico, marxisti-temente adeguato, ciò che in Storia e coscienza di classe aveva imboccato una via sbagliata. Ho già accennato ad una di queste vie indirette: si tratta di quella via che conduce dallo studio su Hegel, ed al di là del progetto di un’opera sull’economia e la dialettica, al mio attuale tentativo di un’ontologia dell’essere sociale.

Parallelamente a tutto ciò sorgeva in me il desiderio di valorizzare le mie conoscenze nei campi della letteratura, dell’arte e della loro teoria per l’edificazione di un’estetica marxista. Qui nasceva il primo lavoro in comune con Lifschitz. In numerosi colloqui fu chiaro ad entrambi che anche i marxisti migliori e più capaci, come Plechanov e Mehring, non avevano colto con sufficiente profondità il carattere ideologicamente universale del marxismo e non avevano compreso perciò che Marx si pone anche il compito di costruire un’estetica sistematica su una base materialistico-dialettica. Non è qui il luogo di illustrare i grandi meriti di Lifschitz, di natura filosofica e filologica, in questo campo. Per ciò che mi riguarda, in questo periodo prese forma il saggio sui dibattiti intorno al Sickingen tra Marx-Engels e Lassalle, in cui naturalmente, in modo limitato ad un problema particolare, diventano tuttavia chiaramente visibili i lineamenti di questa concezione. Dopo una forte resistenza iniziale, proveniente soprattutto da parte del sociologismo volgare, anche questa concezione si è nel frattempo imposta in ampie cerchie marxiste. Ulteriori cenni su questo punto non sono qui pertinenti. Vorrei soltanto richiamare brevemente l’attenzione sul fatto che la svolta filosofica generale nel mio pensiero qui illustrata pervenne a chiara espressione durante la mia attività di critico a Berlino (1931-1933). Al centro dei miei interessi non si trovava soltanto il problema della mimesis ma, nella misura in cui criticavo anzitutto le tendenze naturalistiche, anche l’applicazione della dialettica alla teoria del riflesso.

Infatti, alla base di ogni naturalismo vi è, dal punto di vista teorico, il «rispecchiamento» fotografico della realtà. La netta accentuazione dell’opposizione tra realismo e naturalismo, che manca sia nel marxismo volgare che nelle teorie borghesi, è una premessa insostituibile della teoria dialettica del rispecchiamento, e di conseguenza anche di un’estetica nello spirito di Marx.

Questi accenni, benché non appartengano strettamente all’ambito dei temi qui trattati, dovevano tuttavia essere fatti anche soltanto per indicare la direzione e le motivazioni di quella svolta che la comprensione della falsità dei fondamenti di Storia e coscienza di classe ha rappresentato per la mia produzione, una svolta che spiega perché io scorga qui il punto in cui si conclusero i miei anni di apprendistato del marxismo e con ciò la mia evoluzione di gioventù. Vanno ancora aggiunte soltanto poche osservazioni in relazione alla mia autocritica – divenuta famigerata – di Storia e coscienza di classe. Debbo cominciare con il confessare che nel corso della mia vita sono sempre stato estremamente indifferente rispetto ai miei lavori spiritualmente superati. Così, un anno dopo la comparsa de L’anima e le forme ho scritto in una lettera di ringraziamento a Margarethe Susmann per la sua recensione del libro che «esso mi è diventato nella sua totalità e nella sua forma del tutto estraneo». Così accadde con la Teoria del romanzo, e così con Storia e coscienza di classe. Ora, quando nel 1933 giunsi nell’Unione Sovietica e si aperse qui la prospettiva di un’attività fruttuosa – il ruolo di opposizione della rivista «Literaturni Kritik» tra il 1934 e il 1939 sul piano della teoria della letteratura è universalmente noto – era per me una necessità tattica prendere pubblicamente distanza da Storia e coscienza di classe, affinché l’effettiva lotta partigiana contro le teorie ufficiali e semi-ufficiali della letteratura non fosse turbata da contrattacchi in cui l’avversario avrebbe avuto di fatto ragione, secondo le mie stesse convinzioni, comunque i suoi argomenti fossero stati meschini. Naturalmente, per poter pubblicare un’autocritica, dovetti sottomettermi alle regole di linguaggio allora dominanti. Ma in questo soltanto consiste il momento dell’adattamento in questa dichiarazione. Si trattava ancora una volta di un biglietto d’ingresso ad una ulteriore lotta partigiana; la differenza rispetto alla precedente autocritica delle tesi di Blum consiste «soltanto» nel fatto che allora io consideravo, e francamente considero ancora oggi, Storia e coscienza di classe come una opera intrinsecamente mancata. E considero tuttora altrettanto giusto il fatto che io anche più tardi, quando delle deficienze di questo libro si fecero delle parole di moda, mi difesi contro un’identificazione con le mie intenzioni effettive. I quattro decenni che sono trascorsi dalla comparsa di Storia e coscienza di classe, le modificazioni nelle condizioni della lotta per l’acquisizione dell’autentico metodo marxista, la mia stessa produzione in questo periodo consentono forse ormai una presa di posizione meno nettamente unilaterale. Non è naturalmente mio compito quello di accertare in quale grado certe tendenze, correttamente intese, di Storia e coscienza di classe abbiano prodotto qualcosa di giusto, qualcosa che rinvia al futuro sia nella mia attività, sia eventualmente in quella di altri. Vi è qui un intero nodo di problemi la cui soluzione io posso tranquillamente rimettere al giudizio della storia.

György Lukács
Budapest, marzo 1967.

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