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Tempi beati quelli in cui è il firmamento a tracciare la mappa delle vie accessibili e da battere, rischiarandole alla luce delle stelle. Tutto è nuovo in essi e però familiare – avventuroso e insieme avito. Vasto è il mondo e tuttavia non più della propria casa, giacché il fuoco, che brucia nell’anima, divide la sostanza con le stelle; un taglio preciso separa il mondo dall’io, la luce dal fuoco, eppure esso non è tale da renderli per sempre stranieri; il fuoco, infatti, d’ogni luce è l’anima, e ogni fuoco di luce si riveste. Così, ogni atto dell’anima prende senso e pregnanza da questa duplicità: è compiuto nel senso e compiuto per i sensi: e pregno perché l’anima, durante l’azione, riposa in se stessa; ed è pregno perché l’atto si stacca dall’anima e, divenuto autosufficiente, cerca un centro suo proprio e traccia attorno a sé un circolo conchiuso. «Filosofia è propriamente nostalgia,» dice Novalis «è l’impulso a sentirsi dovunque a casa propria». Dunque la filosofia, sia come forma della vita che come forma determinante della poesia e del suo contenuto, è sempre un sintomo dello strappo tra l’interno e l’esterno, un segno della differenza essenziale tra l’io e il mondo, dell’incongruenza tra l’anima e il fare. Per questo i tempi beati non hanno filosofia, oppure, il che è lo stesso, tutti gli uomini vivono in essi da filosofi, depositari dei fini utopistici di tutte le filosofie. Forse che il compito della vera filosofia non consiste nel tracciare quella mappa originaria? E qual è il problema del luogo trascendentale, se non quello di fissare la correlazione tra i moti rampollanti dall’interiorità più fonda e una forma ad essi sconosciuta ma assegnatagli fin dall’eternità, una forma che inviluppa tali moti in una simbolica redentrice? Si percorre allora con passione la via prestabilita dalla ragione, la via che conduce alla compiuta egoità, e nella follia trovano espressione i segni enigmatici, ma svelabili, di una potenza trascendente altrimenti condannata al silenzio. Di fatto non esiste ancora un’interiorità, poiché di fronte all’anima non v’è ancora esteriorità alcuna, nessuna alterità. A misura che l’anima va in cerca d’avventure e ad esse si consegna, il vero strazio della ricerca e gli effettivi pericoli della scoperta le rimangono ignoti: quest’anima non mette mai in gioco se stessa; non sa ancora di potersi perdere e non la sfiora il pensiero di doversi cercare. E l’età universale dell’epos. Qui non è una vita sicura o spassionata a donare a uomini e gesta i tratti di un’aspra gaiezza (tutto accade con la stessa mestizia e insensatezza dall’inizio dei tempi, solo i canti consolatori suonano più acuti o più opachi), bensì la conformità degli atti alle istanze interiori dell’anima: volontà di grandezza, di espansione, d’interezza. Quando l’anima non sa ancora di abissi interiori che l’invoglino alla caduta o la traggano ad altezze impraticabili; quando la divinità che domina il mondo distribuisce i doni incogniti e arbitrari del destino e si para dinanzi all’uomo, inconcepibile eppur nota e vicina, come usa il padre di fronte al bambino, allora ad ogni atto corrisponde un acconcio panneggio dell’anima. Essere e destino, avventura e perfezione, vita ed essenza, diventano concetti identici. Sicché la risposta da cui prende forma l’epos è rivolta a questa domanda: come può la vita farsi essenziale? L’inimitabilità di Omero, la sua irraggiungibilità – e a rigore solo i suoi poemi sono epici –, siede sul fatto che egli ha trovato la risposta prima che il cammino dello spirito nella storia rendesse esplicita la domanda.
Qui, chi lo voglia, può affrontare il mistero della grecità: la sua perfezione per noi inconcepibile e la sua insuperabile estraneità: il Greco conosce solo risposte, non domande, solo soluzioni (sebbene enigmatiche), nessun enigma – solo forme, nessun caos. Egli traccia il cerchio delle forme figurali ancora al di qua del paradosso e raggiunge la perfezione proprio attraverso ciò che il paradosso, divenuto attuale, avrebbe tradotto in superficialità. Quando si parla dei Greci si confonde sempre la filosofia della storia con l’estetica, la psicologia con la metafisica, e si inventa un qualche nesso tra le loro forme e la nostra epoca. Le anime belle cercano dietro queste maschere silenziose, ammutolite per sempre, i momenti culminanti – unici, guizzanti, inafferrabili – di una quiete onirica, ma esse dimenticano che il pregio di quei momenti consiste nella loro fuggevolezza, dimenticano che proprio ciò che le induce a cercar riparo presso i Greci costituisce la loro grandezza e profondità. Spiriti più profondi, che si sforzano d’ispessire il fluire del sangue in acciaio purpureo, di foggiarlo a guisa di corazza, di modo che le ferite rimangano celate in eterno e il loro eroico atteggiarsi diventi paradigma del reale, venturo eroismo, e sempre ne risvegli di nuovo, paragonano la fragilità della loro capacità figurativa all’armonia greca e i propri dolori, da cui sono scaturite le loro forme, a certi strazi immaginari che la purezza greca dovrebbe sedare. Elevando in modo caparbiamente solipsistico la perfezione della forma a funzione della devastazione interiore, costoro vogliono sentire attraverso le immagini dei Greci la voce d’un tormento che di tanto soverchia in intensità il loro, di quanto l’arte greca supera quella a cui essi danno forma. Ma qui è in questione un completo rivolgimento della topografia trascendentale dello spirito, la quale può essere ben descritta nella sua essenza e nelle sue conseguenze, correttamente esplicata e compresa nella sua importanza metafisica, e tuttavia risulterà sempre impossibile trovare una psicologia ad essa pertinente, dotata cioè di analoghe capacità empatiche o anche solo puramente cognitive. Giacché ogni comprensione psicologica presuppone già un assetto determinato dei luoghi trascendentali e funziona unicamente nell’ambito del suo dominio. Anziché nutrire la pretesa di comprendere la grecità su queste basi – il che, alla fin fine, equivale a porre indirettamente la domanda: come potremmo, noi, produrre tali forme? Ovvero: come ci comporteremmo, se potessimo disporre di quelle forme? –, sarebbe più fruttuoso interrogarsi sulla topografia trascendentale dello spirito greco, la quale ha reso possibili, anzi necessarie, queste forme, e che è essenzialmente diversa dalla nostra.
Dicevamo: il Greco possiede le risposte prima ancora di porre le domande. Questo è un altro dato da non intendersi psicologicamente, bensì (tutt’al più) nel senso di una psicologia trascendentale. Ciò significa che nell’impianto strutturale finale, ossia nel dispositivo che condiziona ogni esperienza vissuta nella sua immediatezza, con le relative figurazioni, non si danno differenze qualitative – dunque irrevocabili e superabili, per così dire, solo con un salto – tra i luoghi trascendentali e tra questi e il soggetto che vi si relaziona a priori; ciò significa inoltre che l’ascesa alle sommità e la discesa nell’abisso dell’insensato avviene per adeguazione, vale a dire, nel peggiore dei casi, mediante un processo graduale e variamente modulato. Lo spirito si muove in questa regione ancestrale accettando in modo insieme passivo e visionario un senso preesistente. Il mondo del senso è palpabile e perspicuo: si tratta soltanto di rinvenire in esso il luogo adatto all’Uno. L’atto di errare può riferirsi qui solo a un eccesso ovvero a un difetto, a una mancanza di misura o a un giudizio insufficiente. Sapere, infatti, significa soltanto togliere i veli che offuscano lo sguardo; creare è disegnare entità ad un tempo visibili ed eterne; la virtù è cognizione compiuta delle vie da percorrere, e l’estraneità del senso dipende solo dall’eccessiva distanza del senso. E un mondo omogeneo, e anche la frattura tra l’uomo e il mondo, tra l’io e il tu, non può turbarne la compattezza. L’anima, come ogni altro membro di questa ritmica, dimora in mezzo al mondo; i confini fissati dai suoi profili non differiscono, nell’essenza, dai contorni delle cose: essa traccia linee decise e sicure, ma non scinde che in modo relativo; scinde solo in rapporto e in funzione di un sistema in sé omogeneo, caratterizzato da un equilibrio adeguato. E ciò perché l’uomo non è un essere isolato, depositario esclusivo, tra le formazioni riflessive, della sostanzialità: le sue relazioni con gli altri, e le concrezioni che ne derivano, possiedono addirittura sostanza pari alla sua, anzi esse ne sono più veracemente ricolme, in quanto più universalmente, più «filosoficamente» prossime e affini alla patria originaria: amore, famiglia, Stato. Per un uomo siffatto il dovere è solo una questione pedagogica, un’espressione della prossimità alla patria non ancora raggiunta; il dovere, cioè, non esprime ancora quell’unica e irrevocabile relazione alla sostanza. Del resto, questo tipo umano non trova in se stesso nulla che lo costringa improrogabilmente al salto: egli è contaminato dalla distanza della materia dalla sostanza, e dovrà purificarsene mediante la maggiore sostanzialità insita nell’elevazione immateriale; c’è un’ampia strada davanti a lui, ma nessun abisso dentro di lui.
Tali confini cingono necessariamente un mondo concluso. Potenze minacciose e incomprensibili possono allacciarsi oltre il cerchio che le costellazioni del senso presente e immanente descrivono attorno al cosmo immediatamente esperibile e plasmabile, ciò nondimeno esse non riescono a sopprimere la presenza del senso; possono annientare la vita, ma giammai turbare l’essere; possono gettare nere ombre sul mondo modellato, ma finiranno anch’esse assorbite nelle forme, accentuandone più crudamente i contrasti. La vita metafisica dei Greci si svolge entro un cerchio più piccolo del nostro: sicché non potremmo mai trasferirci in esso plasticamente; per meglio dire: quella compiutezza circolare, da cui trae origine l’essenza trascendentale che caratterizza la loro vita, è per noi spezzata; non potremmo più respirare in un mondo conchiuso. Abbiamo inventato la produttività dello spirito: ecco perché gli archetipi hanno perduto per noi, in modo irreparabile, la loro trasparenza oggettiva, ecco perché il nostro pensiero percorre ora la via infinita di una approssimazione mai pienamente adempiuta. Abbiamo inventato l’arte di creare le figure: così, a tutto ciò che le nostre mani abbandonano per stanchezza e disperazione, mancherà sempre quel tocco finale che ne decide la compiutezza. Abbiamo trovato in noi stessi l’unica, vera sostanza: di qui la necessità di spalancare incolmabili voragini tra il conoscere e il fare, tra l’anima e le concrezioni sociali, tra l’io e il mondo, lasciando disperdere in termini puramente riflessivi ogni sostanzialità posta di là dall’abisso; così, infine, la nostra essenza ha dovuto imporcisi a guisa di postulato, scavando tra noi e noi stessi un abisso ancor più fondo e spaventevole. Il nostro mondo è diventato infinitamente grande e ad ogni angolo è più ricco di doni e di pericoli che non quello greco, ma è proprio questa nostra ricchezza a revocare il senso portante e positivo della vita dei Greci – la totalità. Intesa come il prius formativo di ogni singolo fenomeno, la totalità sta a significare che qualcosa di conchiuso può essere compiuto; compiuto in quanto tutto vi accade, nulla ne è escluso o accenna a una superiore esteriorità; compiuto in quanto ogni cosa vi matura nella propria compiutezza, e, nell’atto di acquisire se stessa, si salda all’insieme. Totalità dell’essere è possibile solo dove tutto sia già omogeneo prima di essere accerchiato dalle forme; dove le forme non esercitano alcuna costrizione, ma si danno come il venire alla coscienza, come l’affiorare in superficie di quanto sopiva, al modo di una nostalgia indistinta, nel cavo della plasmabilità; dove il sapere è virtù e la virtù è felicità – dove la bellezza rende visibile il senso del mondo.
Questo è il mondo della filosofia greca. Ma questo pensiero si sviluppò quando già la sostanza cominciava a sbiadire. Se infatti non esiste, in senso stretto, un’estetica greca, dato che la metafisica ha anticipato ogni elemento estetico, per lo stesso motivo la Grecia non conobbe alcun vero contrasto tra la storia e la filosofia della storia: i Greci percorrono nella storia tutti gli stadi corrispondenti alle grandi forme a priori; la loro storia dell’arte è un’estetica genetico-metafisica, lo svolgimento della civiltà una filosofia della storia. In questo percorso, la sostanza passa dall’assoluta immanenza naturale di Omero all’assoluta, ma tangibile e intelligibile, trascendenza di Platone. Gli stadi di questo percorso, che si staccano nettamente e seccamente l’uno dall’altro (la grecità mostra qui di non conoscere alcuna transizione) e ne depongono il senso come entro geroglifici eterni, sono le grandi forme, le forme paradigmatiche e intemporali del mondo figurato: epos, tragedia e filosofia. Il mondo dell’epos risponde alla domanda: come può la vita farsi ricca d’essenza? Ma la risposta a questa domanda è matura solo allorché la sostanza ammicchi già da remote lontananze. Solo quando la tragedia organizza le sue figurazioni per rispondere alla domanda: come l’essenza può farsi plasticamente vivente?, solo allora ci si rende conto che la vita, qualunque essa sia (e ogni dovere revoca la vita), ha smarrito l’immanenza dell’essenza. Nel plasmante destino e nell’eroe che creandosi trova se stesso, la pura essenza si sveglia alla vita e la vita come tale, posta di fronte alla realtà di quest’unica vera essenza, sprofonda nel non essere; è stato raggiunto, al di là della vita, un culmine dell’essere, la cui straripante, sgargiante pienezza fa sì che al confronto la vita comune non possa valere nemmeno come termine di contrasto. Anche questa esistenza dell’essenza non nasce dal bisogno, non nasce da un problema: la nascita di Pallade è il prototipo che presiede alla genesi delle forme greche. E come la realtà dell’essenza si libera della vita col partorire altra vita, tradendo con ciò stesso la perdita della propria immanenza plastica, così questo sostrato problematico della tragedia diventa visibile e si fa problema in primo luogo nella filosofia: solo quando l’essenza, divenuta affatto estranea alla vita, si fa realtà assolutamente unica e trascendente, quando lo sviluppo figurativo della filosofia ha palesato anche nel destino della tragedia l’arbitrio crudo e insensato dell’empiria, smascherando nella passione dell’eroe la grettezza priva di slanci e individuando nel suo stesso compiersi la limitatezza d’un soggetto casuale, solo allora appare la risposta rivolta all’essere; ma quest’essere non si dà più, nella tragedia, come mera evidenza spontanea, bensì come portento, come l’esile ponte dell’iride che saldamente oscilla sopra voragini senza fondo. L’eroe della tragedia rileva il vivente uomo omerico, lo illumina e lo trasfigura sottraendogli la fiaccola che è sul punto di estinguersi, infiammandola di una luce nuova. L’uomo nuovo di Platone, il saggio dotato di conoscenza attiva e sguardo suscitatore d’essenze, non si limita a smascherare l’eroe, ma impregna di luce vivida l’oscuro pericolo che costui ha vinto e, superandolo, lo trasfigura. Ma il saggio è l’ultimo tipo umano e il suo mondo è l’ultima figurazione della vita concessa allo spirito greco. Il chiarimento degli interrogativi che improntano e sostengono la visione platonica non ha più dato altri frutti: nel volgere dei tempi il mondo si è grecizzato, ma proprio per questo lo spirito greco è sempre meno greco; senza posa vi affluiscono nuovi problemi (e anche soluzioni), ma l’accento inconfondibilmente greco del τόπος νοητός è per sempre scomparso. La parola d’ordine, che lo spirito venturo pronuncerà con la stessa intonazione fatale, suona: follia dei Greci.
E fu davvero la follia a colpire i Greci! Il firmamento kantiano non splende che nella notte oscura della conoscenza pura; a nessuno dei viandanti solitari – e nel mondo nuovo essere uomini significa essere soli – esso rischiara il sentiero. La luce interiore dona a stento al passo successivo l’evidenza della sicurezza – o almeno la sua parvenza. Dall’interno non raggia più alcuna luce a illuminare il mondo degli accadimenti e il loro viluppo divenuto estraneo all’anima. E poiché il soggetto è divenuto a se stesso apparenza, ossia oggetto [Objekt], chi può sapere se la convenienza dell’atto e dell’essenza soggettiva, quest’unico segnavia residuo, colga realmente l’essenza; se codesta sua intima e affatto peculiare essenzialità gli stia di fronte solo quale infinita pretesa a un cielo immaginario del dover-essere; se tale essenzialità debba sortire da questo abisso insondabile che il soggetto stesso alberga in sé, dato che chiamiamo essenza solo ciò che emerge da una vertigine di cui nessuno mai potrà saggiare ed esplorare il fondo? L’arte, questa realtà visionaria del mondo a noi conforme, è diventata con ciò stesso autonoma: non è più copia, poiché tutti i suoi modelli sono sprofondati. L’arte è una totalità creatrice solo perché l’unità naturale delle sfere metafisiche si è lacerata per sempre.
Qui non deve e non può prodursi alcuna filosofia della storia che indaghi sulla metamorfosi intervenuta nella costruzione dei luoghi trascendentali. Questa non è la sede per affrontare la questione se sia il nostro procedere (ascensivo o discensivo: è lo stesso) la ragione del cambiamento, o se invece furono altre potenze a esiliare gli dèi della Grecia. E non dobbiamo nemmeno delineare in modo allusivo l’intero percorso che conduce alla nostra realtà: la forza di seduzione che emanava ancora dalla morta grecità, il suo accecante bagliore luciferino che è sempre tornato a distendere l’oblio sulle crepe irrimediabili del mondo, ci ha fatto sognare d’inedite ma ognora sfaldantisi unità, poiché queste contraddicevano alla nuova essenza del mondo. Dalla chiesa si formò così una nuova polis, e quel modo paradossale in cui l’anima, perduta in peccati senza salvezza, si ancorava all’assurda eppur certa redenzione, diventò quasi un platonico rifulgere del cielo nel seno della realtà terrena; del salto, infine, si fece la scalea di terrestri e celesti gerarchie. Con Giotto e Dante, con Wolfram e Pisano, con Tommaso e Francesco il mondo tornò ad essere pregno e perspicuo – tornò alla totalità: l’abisso perdette il pericolo connesso alle profondità reali, ma quella oscurità compatta, senza rimetterci nulla della sua energia nero-brillante, si mutò in pura superficie, inserendosi liquidamente in una conchiusa unità di colori; nel compiuto sistema ritmico del mondo l’invocazione disperata alla redenzione ricadde in dissonanza, rendendo possibile un equilibrio nuovo, ma non meno cromatico e compiuto di quello greco, un equilibrio fatto d’intensità variabili, eterogenee. Il carattere incomprensibile, eternamente irraggiungibile del mondo redento s’avvicinava così fino a lontananze visibili. Sensibilmente presente diveniva il Giudizio Universale, pura articolazione di un’armonia delle sfere pensata già in atto; la sua vera essenza, che trasmuta il mondo in una ferita filottetica sanabile dai soli paracleti, fu dimenticata. Ne sortì una nuova, paradossale grecità: l’estetica ridiventava metafisica.
Per la prima volta, ma anche per l’ultima. Smembrata quell’unità, non si dà più alcuna spontanea totalità dell’essere. Certo, le fonti di quelle acque che hanno spezzato l’antica unità si sono esaurite, ma quei loro alvei ineluttabilmente inariditi hanno scavato dirupi eterni sul volto del mondo. Oramai ogni resurrezione della grecità equivale alla costruzione di un’estetica più o meno consapevolmente ipostatizzata e identificata con l’unica metafisica; è la volontà di colpire e annientare l’essenza di tutto ciò che si trova al di là del dominio dell’arte, è il tentativo di dimenticare che l’arte è solo una delle molte sfere, che il disfarsi del mondo e la sua inadeguatezza contano tra i presupposti della sua esistenza e della coscienza che essa ne trae. Questa sostanziale ipertensione dell’arte è tuttavia destinata a opprimere e sovraccaricare anche le sue forme. Esse devono produrre da sole ciò che un tempo si accettava come un semplice dato di fatto; così, le forme devono prima di tutto provvedere a stabilire le condizioni su cui basare la loro stessa efficacia aprioristica, procacciando per forza propria sia l’oggetto che il suo contesto ambientale. Non si dà più, per le forme, una totalità inclusiva: sicché non rimane ad esse che restringere drasticamente il campo del figurabile, e persino, onde appropriarsene, vanificarlo; oppure corre loro l’obbligo di provare polemicamente l’irrealizzabilità dell’oggetto necessario e insieme l’intima nullità dell’oggetto solamente possibile; ma in tal modo il fragile assetto del mondo si estende anche al dominio delle forme.