Premessa 1962

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Questo studio è stato abbozzato nell’estate del 1914 e steso nell’inverno 1914-15. Uscì per la prima volta nel 1916, nella «Zeitschrift für Ästhetik und Allgemeine Kunstwissenschaft» di Max Dessoir e in volume presso P. Cassirer (Berlino, 1920).

Lo scoppio della guerra del 1914 – l’effetto prodotto dalla posizione interventista della socialdemocrazia sull’intellighenzia di sinistra – fu l’occasione che ne determinò la nascita. La mia posizione radicale si esprimeva in un veemente, globale e, specie all’inizio, poco articolato rifiuto della guerra, in particolar modo dell’entusiasmo che l’accompagnava. Ricordo un colloquio con Marianne Weber nel tardo autunno del 1914. Cercò di contrastare la mia resistenza riferendo singoli, concreti atti di eroismo. Mi limitai a ribattere: «Tanto meglio, tanto peggio». Cercando a quel tempo di razionalizzare la mia posizione sentimentale, giunsi press’a poco alla seguente conclusione: le potenze centrali avrebbero presumibilmente battuto la Russia, il che poteva condurre al crollo dello zarismo: benissimo. Sembrava d’altronde abbastanza verosimile che le potenze occidentali avrebbero avuto la meglio sulla Germania; se questo avesse determinato il tramonto degli Hohenzollern e degli Asburgo, la cosa mi andava altrettanto bene. E tuttavia sorgeva il problema: chi ci avrebbe salvato dalla civilizzazione occidentale? (Consideravo la prospettiva della vittoria finale della Germania d’allora come qualcosa di opprimente.)

In questo stato d’animo cresceva il primo abbozzo della Teoria del romanzo. Inizialmente avevo pensato a una catena di dialoghi: un gruppo di giovani si isola di fronte alla psicosi della guerra alla maniera dei narratori di novelle del Decamerone di fronte alla peste; i loro dialoghi, improntati a una reciproca intesa, avrebbero esplicitato grado a grado i problemi trattati nel libro, fino a gettare uno sguardo sul mondo di Dostoevskij. A un ripensamento più attento questo piano fu abbandonato e la Teoria del romanzo assunse la sua attuale configurazione. Essa crebbe così in un clima di permanente disperazione sulle sorti del mondo. Solo l’anno 1917 mi portò la risposta alle questioni che fino allora mi erano parse insolubili.

Ovviamente si può considerare questo scritto anche solo in base ai suoi contenuti oggettivi, indipendentemente dalle condizioni interiori che lo hanno occasionato. Ma credo sia importante, per agevolarne la giusta comprensione, ripercorrere storicamente, a quasi cinque decenni di distanza, l’atmosfera che ne propiziò la genesi.

Sia chiaro: il rifiuto della guerra, e con essa della società borghese di allora, era puramente utopico; a quel tempo non vedevo mediazioni, neppure nell’ottica del pensiero più astratto, tra la posizione soggettiva e la realtà oggettiva. Ma ciò ebbe anzitutto l’importante conseguenza metodologica di affrancarmi senza residui dal bisogno di sottoporre a verifica critica la mia Weltanschauung, le modalità del mio lavoro scientifico, e così via. Vivevo allora la transizione da Kant a Hegel senza tuttavia mutare alcunché nel mio rapporto alle cosiddette metodiche delle scienze dello spirito; tale rapporto si fondava essenzialmente sulle impressioni giovanili che avevo ricavato dai lavori di Dilthey, Simmel e Max Weber. Di fatto, la Teoria del romanzo è un tipico prodotto di quella tendenza che fa capo alle scienze delle spirito. Max Dvorák, che conobbi personalmente a Vienna nel 1920, mi disse: «Considero quest’opera il testo più importante nell’ambito delle scienze dello spirito».

Oggi non è più difficile come allora rilevare con chiarezza i limiti metodologici delle scienze dello spirito. A ben vedere si può valutare correttamente anche il loro diritto storicamente relativo a opporsi, tanto nel trattamento delle figure e delle connessioni storiche, quanto nel dominio effettivo dello spirito (logica, estetica ecc.), alla gretta superficialità del positivismo neokantiano o di altra ispirazione. Penso ad esempio al fascino esercitato dal diltheyano Das Erlebnis und die Dichtung (Lipsia 1905), un libro che per molti aspetti poteva apparire come una terra incognita. Questa terra ci sembrò allora un universo di pensiero che rendeva possibili sintesi grandiose, vale a dire teoretiche e storiche. Ignoravamo quanto poco un tal metodo costituisse un effettivo superamento del positivismo, e quanto poco quelle sintesi potessero contare su un fondamento oggettivo. (A noi, che eravamo i più giovani, sfuggì allora la circostanza che uomini di talento potessero raggiungere i loro risultati più convincenti non tanto grazie a questo metodo, bensì malgrado esso.) Partendo da pochi elementi colti per lo più intuitivamente entro una data tendenza o un dato periodo, si trattava di plasmare concetti sinteticamente universali, dai quali si discendeva poi deduttivamente fino ai singoli fenomeni, ritenendo di pervenire in tal modo a una superiore visione d’insieme.

Questo era anche il metodo della Teoria del romanzo. Solo qualche esempio al riguardo. Nella tipologia della forma del romanzo gioca un ruolo decisivo un’alternativa concettuale: ossia se l’anima del personaggio principale risulti, in rapporto alla realtà, troppo stretta o troppo larga. Questa bipartizione, massimamente astratta, è tutt’al più in grado di delucidare alcuni momenti del Don Chisciotte, un romanzo rappresentativo del primo tipo di situazione. Ma essa è d’altra parte troppo generica per includere, sul piano del pensiero, tutta la ricchezza storica ed estetica anche di questo solo romanzo. Così ad altri scrittori facenti capo a questo stesso tipo, come Balzac o Pontoppidan, veniva imposta una deformante camicia di forza concettuale. Identica sorte viene riservata all’altro tipo. Questa deformazione, derivante dalle sintesi astratte delle scienze dello spirito, emerge in modo ancor più caratteristico in Tolstoj. Di fatto l’epilogo di Guerra e pace chiude in termini puramente ideali [ideel] il periodo delle guerre napoleoniche: nello sviluppo di taluni personaggi esso mostra le ombre gettate dalla sollevazione decabrista del 1825. Ma l’autore della Teoria del romanzo si attiene con tanta ostinazione allo schema dell’Éducation sentimentale, che vi individua solamente una «cheta atmosfera da stanza dei bambini», una «sconsolatezza più profonda della chiusa del più problematico dei romanzi della disillusione». Esempi del genere potrebbero cumularsi a volontà. A noi basta qui richiamare l’attenzione sul fatto che romanzieri come Defoe, Fielding o Stendhal non trovano alcun posto entro lo schema di quella costruzione, e che l’autore della Teoria del romanzo rovescia, con «sintetico» arbitrio, il significato di autori come Balzac e Flaubert, Tolstoj e Dostoevskij.

Per mettere correttamente in luce i limiti delle sintesi astratte operate dalle scienze dello spirito era necessario almeno accennare a queste distorsioni. Ciò naturalmente non significa che all’autore della Teoria del romanzo fosse preclusa in via di principio la possibilità di scoprire interessanti connessioni. Mi limiterò nuovamente all’esempio più rimarchevole: l’analisi del ruolo del tempo nell’Éducation sentimentale. Ma anche qui, in rapporto all’opera concreta, l’analisi è responsabile di un’astrazione inammissibile. La scoperta di una Recherche du temps perdu troverebbe semmai una sua giustificazione oggettiva nell’ultima parte del romanzo (dopo il fallimento definitivo della rivoluzione del 1848). È tuttavia indubbio che vi si formuli – sulla base della bergsoniana durée – la nuova funzione del tempo nel romanzo. Un fatto tanto più significativo in quanto in Germania Proust non viene conosciuto prima del 1920 e l’Ulisse di Joyce solo nel 1922, mentre la Montagna incantata di Thomas Mann esce nel 1924.

In definitiva la Teoria del romanzo rappresenta in modo tipico le scienze dello spirito, senza peraltro proiettarsi oltre i loro limiti metodologici. Malgrado ciò il suo successo – Thomas Mann e Max Weber vanno annoverati tra i suoi lettori benevoli – non fu del tutto casuale. Per quanto affondi le sue radici nel dominio delle scienze dello spirito, questo libro dà ricetto, entro i limiti indicati, a determinate tendenze che in seguito si sono rivelate importanti. Si è già notato che l’autore della Teoria del romanzo era diventato hegeliano. I primi e più importanti esponenti del metodo delle scienze dello spirito si situavano su un terreno kantiano, del resto non del tutto epurato da residui positivisti; è soprattutto il caso di Dilthey. E quasi sempre i tentativi di superare il piatto razionalismo positivista implicavano un accostamento all’irrazionalismo; ciò vale in primo luogo per Simmel, ma anche per lo stesso Dilthey. La Hegel-Renaissance, com’è noto, era iniziata qualche anno prima dello scoppio della guerra. Ciò che in essa valeva la pena di prendere in considerazione era limitato prevalentemente all’ambito della logica o al concedo generale di scienza. A mio avviso la Teoria del romanzo è la prima opera ispirala alle scienze dello spirito in cui i risultati della filosofia hegeliana vengono concretamente impiegati in seno a problematiche di tipo estetico. La prima parte, a carattere generale, si pone essenzialmente sotto il segno di Hegel; è così nel confronto tra le specie di totalità nell’epica e nel dramma, oltreché nella concezione filosofico-storica relativa all’omogeneità e all’antiteticità tra epopea e romanzo. Ma in realtà l’autore della Teoria del romanzo non era affatto un hegeliano rigoroso e ortodosso. Le analisi di Goethe e Schiller, la concezione goethiana della tarda maturità (la nozione del demonico), le teorie estetiche del giovane Friedrich Schlegel e di Solger (l’ironia intesa come moderno mezzo di figurazione) completano e concretizzano i lineamenti generali del sistema hegeliano.

La storicizzazione delle categorie estetiche rappresenta probabilmente un aspetto ancor più importante dell’eredità hegeliana. Il rinnovamento hegeliano consegue infatti i suoi risultati più significativi nell’ambito estetico. Kantiani come Rickert e la sua scuola spalancano un abisso metodologico tra i valori intemporali e la loro realizzazione storica. Lo stesso Dilthey non concepisce questa contrapposizione in termini così rigidi e nei suoi schizzi metodologici sulla storia della filosofia non si spinge oltre l’enunciazione di una tipologia metastorica delle filosofie, la cui attuazione avviene poi storicamente, secondo variazioni concrete. In singole analisi estetiche egli riesce talvolta a trovare una nuova metodologia, ma ciò avviene in certo modo per nefas, ovvero senza alcuna consapevolezza. Questo conservativismo filosofico trova il suo fondamento dottrinale nell’atteggiamento storicamente e politicamente conservatore dei principali esponenti delle scienze dello spirito, un atteggiamento che sul versante concettuale rimanda a Ranke e che dunque si pone in netto contrasto con l’evoluzione dialettica che anima lo «spiritò del mondo» in Hegel. Naturalmente esiste anche un relativismo storico di marca positivista, e proprio durante la guerra Spengler lo ha innestato su alcune tendenze delle scienze dello spirito: si trattava di storicizzare in modo radicale tutte le categorie, negando recisamente ogni valore sovrastorico, sia esso estetico, etico o logico. Ma in tal modo egli annullava anche l’unità del processo storico; da ultimo l’estremo dinamismo storico si rovescia nella stasi, nell’annullamento finale della storia stessa, nella circolazione, sempre conclusa e poi riattivata, di cerchie di civiltà internamente autonome – un pendant secessionista a Ranke.

L’autore della Teoria del romanzo non si spinge così lontano. Oggetto della sua indagine era una dialettica universale dei generi fondata e radicata storicamente nell’essenza delle categorie estetiche, nell’essenza delle forme letterarie; una la le dialettica doveva tendere a una connessione tra categorie e storia più intima di quanto non l’avesse potuta riscontrare nello stesso Hegel; l’autore cercava di cogliere speculativa mente la persistenza nel mutamento, l’interna trasformazione che ha luogo nell’immutabile validità dell’essenza. Spesso però, e proprio in contesti decisivi, il suo metodo rimane troppo astratto, avulso dalle concrete realtà storico-sociali. Di conseguenza, come si rilevò, esso porta troppo frequentemente a costruzioni arbitrarie. Solo un decennio e mezzo piti tardi – già ovviamente sul terreno del marxismo – mi riuscì di trovare una soluzione. Quando insieme a M.A. Lifschitz, in opposizione alla sociologia volgare di svariata estrazione in auge nel periodo staliniano, cercammo di riesumare e perfezionare la genuina estetica di Marx, pervenimmo a un metodo realmente storico-sistematico. Sia nell’impostazione che nell’attuazione la Teoria del romanzo si presentava come un tentativo fallito; eppure, almeno nelle sue intenzioni, si approssimava a una via d’uscita con un vigore superiore a quello dei suoi contemporanei.

Dall’eredità hegeliana deriva inoltre la problematica estetica del presente, ossia lo sfociare, sotto il profilo filosofico-storico, dell’evoluzione in una sorta di revocazione [Aufhebung] di quei princìpi estetici che hanno finora caratterizzato il corso dell’arte. Ma già in Hegel l’arte diventa problematica per questo semplice motivo: che il «mondo della prosa», come egli definisce esteticamente questa condizione, è propriamente il momento in cui lo spirito consegue se stesso nel pensiero e nella prassi socio-statale. Sicché l’arte diventa problematica proprio perché la realtà perde ogni problematicità. Affatto opposta è la concezione formalmente simile della Teoria del romanzo: la problematica della forma del romanzo è qui l’immagine riflessa di un mondo fuori dai suoi cardini. Perciò la «prosa» della vita è solo un sintomo fra i tanti del fatto che la realtà offre d’ora in poi un terreno sfavorevole per l’arte; donde la liquidazione artistica di quelle forme conchiuse e totali emananti da una totalità dell’essere in sé compiuta, di quei mondi di forme in sé perfettamente immanenti – è il problema centrale della forma del romanzo. E questo non per ragioni artistiche, ma filosofico-storiche: «Non c’è più alcuna spontanea totalità dell’essere» afferma l’autore della Teoria del romanzo con riferimento alla realtà del presente. Qualche anno dopo Gottfried Benn esprime così questo stato di cose: «la realtà non esisteva più, rimaneva la sua smorfia» (Bekenntnis zum Expressionismus, in «Deutsche Zukunft», 5 novembre 1933; ora in Gesammelte Werke, a cura di D. Wellershoff, Wiesbaden 1959, voi. 1, p. 245). Anche ammesso che la Teoria del romanzo si dimostri in senso ontologico più critica e riflessiva del poeta espressionista, resta tuttavia il fatto che entrambi esprimono un analogo sentimento della vita e analogamente reagiscono al loro presente. Così il dibattito degli anni Trenta su espressionismo e realismo fu all’origine di una situazione un po’ grottesca: Ernst Bloch polemizzava contro il marxista György Lukács in nome della Teoria del romanzo.

È evidente che questo contrasto della Teoria del romanzo con il suo vettore metodologico generale, cioè con Hegel, sia in primo luogo di carattere sociale e non estetico-filosofico. Al riguardo è forse sufficiente ricordare quanto si è detto all’inizio sulla posizione dell’autore nei confronti della guerra. Aggiungiamo inoltre che la sua concezione della realtà sociale era allora profondamente influenzata da Sorel. Questo spiega perché nella Teoria del romanzo il presente non fosse caratterizzato in termini hegeliani, bensì, al modo di Fichte, come l’«epoca della compiuta iniquità». Questa visione pessimistica del presente, d’intonazione etica, non contrassegna tuttavia alcun movimento a ritroso da Hegel a Fichte, ma piuttosto una kierkegaardizzazione della dialettica storica hegeliana. Per l’autore della Teoria del romanzo Kierkegaard ha sempre giocato un ruolo importante. Molto tempo prima che diventasse di gran moda, egli ha trattato saggisticamente il nesso tra vita e pensiero in Kierkegaard (Das Zerschellen der Form am Leben: Søren Kierkegaard und Regine Olsen, scritto nel 1909, uscito in Germania nella raccolta Die Seele und die Formen, Berlino 1911). E negli anni heidelberghesi immediatamente precedenti la guerra egli lavorò a uno studio sulla critica kierkegaardiana a Hegel, che peraltro non fu mai completato. Se qui si fa menzione di questi fatti non è per ragioni biografiche, ma per richiamare l’attenzione su una tendenza del pensiero tedesco che in seguito avrebbe avuto gran peso. L’influsso diretto di Kierkegaard investe, com’è noto, le filosofie dell’esistenza di Heidegger e Jaspers, come pure il movimento di opposizione più o meno aperta a Hegel. D’altra parte non va dimenticato che la stessa Hegel-Renaissance trasse energico alimento dall’accostamento di Hegel all’irrazionalismo. Questa tendenza è già visibile nelle ricerche diltheyane sul giovane Hegel (1905) e riceve una chiara configurazione nell’affermazione di Kroner, secondo cui Hegel è stato il più grande irrazionalista della storia della filosofia (1924). Qui non è ancora comprovabile un influsso kierkegaardiano diretto. Ma nel corso degli anni Venti esso è ovunque latente, ed anzi cresce fino a farsi tangibilmente presente, al punto che persino gli studi sul giovane Marx patiscono un processo di graduale kierkegaardizzazione. Scrive infatti Karl Lowith (1941): «Essi [Marx e Kierkegaard, G.L.] appaiono tanto distanti tra loro, quanto strettamente imparentali nel comune attacco sferrato all’esistente e nell’analoga Iorinazione hegeliana». (È superfluo ricordare quanto una tale tendenza sia diffusa nell’attuale filosofia francese.)

Le basi socio-filosofiche di queste teorie sono rintracciabili nell’atteggiamento politicamente e filosoficamente ambiguo dell’anticapitalismo romantico. Originariamente – ad esempio nel giovane Carlyle o in Cobbett – si trattava di una critica effettiva delle atrocità e dell’anticulturalismo connaturati al nascente capitalismo, e talvolta persino della prefigurazione di una sua critica sociale, come in Past and Present di Carlyle. Questo atteggiamento portò gradatamente a una specie di apologetica dell’arretratezza sociale e politica dell’impero degli Hohenzollern. Apparentemente anche uno scritto così importante come le Betrachtungen eines Unpolitischen (1918) di Thomas Mann si muove su questa linea. Ma la successiva evoluzione di Thomas Mann giustifica già negli anni Venti il modo in cui egli stesso caratterizza quest’opera: «Si tratta di un combattimento di ripiegamento in grande stile – l’ultimo, estremo combattimento di una borghesia romantico-tedesca – condotto nella piena coscienza della sua inutilità…, financo nella certezza dell’insania e della miseria spirituali che si annidano nella simpatia con quanti sono votati alla morte».

Di tali stati d’animo l’autore della Teoria del romanzo non ebbe alcun sentore, e ciò malgrado il fatto che nei suoi esordi filosofici facesse capo a Hegel, Goethe e al romanticismo. Diversamente da Thomas Mann, la sua opposizione all’incultura capitalistica non contiene alcuna simpatia per la «miseria tedesca» e i suoi odierni residui. Il carattere della Teoria del romanzo non è conservativo ma esplosivo. Esso di fatto siede su un utopismo estremamente ingenuo e del tutto pretestuoso: sulla speranza che dalla dissoluzione del capitalismo, e segnatamente dalla dissoluzione di quelle categorie socio-economiche inerti e ostili alla vita con cui esso viene identificato, possa scaturire un’esistenza genuina e conforme all’umana dignità. Il fatto poi che il libro culmini con le analisi dedicate a Tolstoj e con lo sguardo su Dostoevskij, il quale non ha «scritto alcun romanzo», mostra con chiarezza che si confidava espressamente in un «nuovo mondo» e non in una nuova forma letteraria. Si ha certo tutto il diritto di irridere a questo rozzo utopismo, ma esso diede allora espressione a una effettiva corrente spirituale. È noto del resto che negli anni Venti la tendenza a risolvere il mondo economico in termini puramente sociali assume un carattere sempre più marcatamente reazionario. Ma al tempo della stesura della Teoria del romanzo si trattava ancora di pensieri indistinti, presenti in forma puramente embrionale. Anche qui può bastare un esempio. Se Hilterding, il celeberrimo economista della Seconda Internazionale, nel suo Finanzkapital (1909) poté scrivere riguardo alla società comunista: «La natura dello scambio è accidentale e non può essere oggetto di una considerazione teoretico-economica. Esso non è analizzabile teoricamente e si può comprenderlo solo in senso psicologico»; se si pensa inoltre alle utopie – considerate rivoluzionarie – degli ultimi anni di guerra e del periodo immediatamente successivo, allora, senza per questo mitigare in nessun modo la critica alla sua infondatezza teoretica, l’utopia della Teoria del romanzo può essere valutata in modo storicamente equo.

D’altra parte proprio una critica siffatta si presta a illustrare correttamente un’altra particolarità della Teoria del romanzo, un aspetto che fa di questo libro qualcosa di nuovo nel panorama della letteratura tedesca. (Il fenomeno di cui stiamo per occuparci era già noto ai francesi da gran tempo.) In breve: la concezione del mondo dell’autore della Teoria del romanzo nasceva dalla fusione di un’etica «di sinistra» con una teoria della conoscenza (ontologia ecc.) «di destra». Per quanto la Germania guglielmina disponesse ili una letteratura di opposizione, essa poggiava pur sempre sulle tradizioni illuministiche, e per lo più, com’è naturale, sui suoi epigoni più Macchi; questo portò a un rifiuto indiscriminato delle tradizioni tedesche più significative sul piano letterario e teoretico. (Il socialista Franz Mehring costituisce, sotto questo rispetto, una rara eccezione.) La Teoria del romanzo, per quanto mi sia dato valutare nel suo complesso questa costellazione di problemi, è il primo libro tedesco in cui un’etica di sinistra, improntata a una percezione radicale della rivoluzione, procedeva di pari passo con un’interpretazione tradizionale e assolutamente convenzionale della realtà. Già nell’ideologia degli anni Venti questo atteggiamento gioca un ruolo la cui importanza progressivamente si accresce. Si pensi ai libri di Ernst Bloch, Geist der Utopie (1918, 1923) e Thomas Münzer als Theologe der Revolution (1921), a Walter Benjamin e anche agli inizi di Theodor W. Adorno ecc. La guerra spirituale contro l’hitlerismo ne rafforza ulteriormente il significato: sono in molti a tentare di mobilitare – partendo da un’etica di sinistra – Nietzsche e persino Bismarck quali forze progressive in opposizione alla reazione fascista. (Osservo solo incidentalmente che oggi la Francia, dove questo orientamento ha preso piede assai prima che in Germania, ha in Sartre uno dei suoi rappresentanti più influenti. Qui ovviamente non possiamo trattare i motivi sociali che spiegano la precocità di questo fenomeno e il perdurare della sua efficacia.) Solo dopo la vittoria su Hitler, solo dopo la restaurazione e il «miracolo economico» quest’etica di sinistra è potuta sparire dalla scena tedesca cedendo il foro dell’attualità a un conformismo dall’apparenza anticonformista. Una parte considerevole della migliore intellighenzia tedesca, fra cui lo stesso Adorno, ha preso alloggio – come scrissi in una mia critica a Schopenhauer – presso il «Grand Hotel dell’Abisso», un «bell’Hotel, fornito di ogni comfort, sull’orlo dell’abisso, del nulla e dell’insensato. E la visione giornaliera dell’abisso, tra produzioni artistiche e pasti goduti negli agi, può solo accrescere la gioia procurata da questo raffinato comfort» (Die Zerstörung der Vernunft, Neuwied 1962, p. 219). Se fino ad oggi Ernst Bloch ha confidato senza cedimenti nella sua sintesi tra un’etica di sinistra e una gnoseologia di destra (cfr. per esempio Philosophische Grundfrage I, Zur Ontologie des Noch-Nicht-Seins, Francoforte 1961), ciò fa onore al suo carattere, ma non può mitigare l’inattualità del suo atteggiamento teoretico. È vero che nel mondo occidentale (compresa la Bundesrepublik) fermenta un effettivo movimento di feconda e progressiva opposizione, ma essa non ha più niente a che vedere con l’accostamento di un’etica di sinistra a una gnoseologia di destra.

Chi dunque legga oggi la Teoria del romanzo con l’intento di conoscere in profondità la preistoria delle importanti ideologie degli anni Venti e Trenta, potrà trarre giovamento da questo inquadramento critico. Ma se prenderà in mano il libro allo scopo di orientarsi, esso non farà che accrescere il suo disorientamento. Arnold Zweig, all’epoca giovane scrittore, lesse la Teoria del romanzo proprio con questo scopo; il suo sano istinto lo indusse giustamente a un drastico rifiuto.

Budapest, luglio 1962

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