Il ritorno di Lukács

di Lucio Libertini

«Risorgimento Socialista», Anno VI, n. 27, 7 luglio 1956.


Il giornale ungherese Szabad Nép del 17 giugno pubblica il resoconto di una riunione di intellettuali del partito comunista ungherese che ha avuto luogo a Budapest dinanzi a 1200 persone e che ha dato a George Lukács, uno dei filosofi marxisti contemporanei più noti, l’occasione di dire il suo parere sui problemi di attualità. Lukács aveva perduto nel 1949 la sua cattedra di estetica all’Università di Budapest per le idee «non conformiste» che egli aveva professato pubblicamente di fronte ai suoi allievi. Tre dei suoi accusatori di un tempo, Elemer Balogh, Ernő Havas e Artur Kiss, hanno fatto la loro autocritica, ammettendo che «in una serie di problemi, ci siamo ingannati nell’apprezzare la opera di Lukács… gli abbiamo mancato di rispetto».

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Progresso e reazione nella cultura d’oggi

di Lucio Libertini

«Risorgimento Socialista», Anno VII, n. 7, febbraio 1957.


Il 28 giugno 1956, nel clima del movimento popolare contro la dittatura staliniana di Rákosi, il filosofo Georg Lukács tenne a Budapest, nella sede dell’Accademia politica del partito operaio, una appassionante conferenza; la rivista tedesca Aufbau ne pubblicò, tre mesi dopo, il testo integrale e sul testo tedesco Giorgio Dolfini ne ha fatto una traduzione, che l’editore Feltrinelli ha recentemente pubblicato (G. Lukács, La lotta fra progresso e reazione nella cultura d’oggi, Milano, 1957).

L’interesse di questo documento è molteplice. Da un lato, esso ci testimonia il fervore critico che animava la società ungherese alla vigilia dell’insurrezione; dall’altro, dimostra come un attacco veramente serio contro il dogmatismo ideologico possa essere sferrato proprio sul piano del metodo critico marxista, dal dì dentro della problematica attuale del movimento operaio e non già prendendo in prestito vecchie formule e vecchi schemi. La tesi centrale della conferenza è proprio questa: la critica contro lo stalinismo quale deformazione dogmatica del marxismo. La realtà non è fatta soltanto delle grandi contraddizioni di fondo (capitalismo e socialismo, guerra e pace), ma di una molteplice serie di contraddizioni minori o interne alle contrapposizioni essenziali. Lo stalinismo ignora questa seconda serie di contraddizioni e prospetta un mondo tutto in bianco e nero, con il risultato di rendere astratte e dogmatiche tutte le definizioni. Su questo terreno nasce e fiorisce il settarismo cosiddetto di sinistra, che isterilisce il movimento operaio, e, dove esso è al potere, giustifica le concezioni burocratiche facilitando il distacco dalla realtà. Continua a leggere

György Lukács nel ’56

di Miklós Vásárhelyi e Antonino Infranca

Intervista apparsi in Il Ponte, n. 4-5, luglio-ottobre 1987. Tutte le note sono di Antonino Infranca, ora in  Lukács chi? a cura di L. La Porta, Bordeaux, Roma 2021.


Miklós Vásárhelyi è stato un conoscente stretto di György Lukács, e anche amico, durante un periodo molto travagliato della vita del filosofo ungherese. Gli fu molto vicino soprattutto durante i tragici giorni dell’ottobre-novembre 1956 e la successiva deportazione in Romania. In questa rievocazione, sotto forma di intervista, Miklós Vásárhelyi ricorda quei giorni, e anche l’intero periodo di amicizia con Lukács. Li ha accomunati la stessa fede nel socialismo, anche se questa fede fu interpretata in modi e forme diverse, perché diverse erano le esperienze dei due. Il vecchio filosofo, formatosi alla dura scuola della lotta clandestina e dell’esistenza nella Mosca degli anni Trenta, vedeva le cose sotto una luce parzialmente diversa. Il colloquio con Vásárhelyi, condotto da questi in un italiano pressoché perfetto, può aiutare a comprendere la partecipazione di Lukács a quegli avvenimenti. Non è soltanto un quadro storico, finora inesistente nella letteratura lukacsiana, ma anche un ritratto morale, di cui la naturale parzialità della testimonianza non sminuisce, al contrario, accresce e ravviva le tinte. Quello che si ha di fronte non è più il freddo e analitico intellettuale, dedito alla politica, ma piuttosto una persona viva e umana, che non solo nella lotta politica, ma anche nella vita quotidiana, continuò a farsi guidare da princìpi etici saldissimi, ispirati alla propria fede ideologica. Si tratta di un uomo che ha saputo vivere il proprio pensiero.

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György Lukács nel ‘56

di Miklós VásárhelyiAntonino Infranca

Intervista con Miklós Vásárhelyi a cura di Antonino Infranca

«Il Ponte», n.4-5, luglio-ottobre 1987

Si ringrazia vivamente Antonino Infranca per averci concesso di pubblicare questa intervista.


Miklós Vásárhelyi è stato un conoscente stretto di György Lukács, e anche amico, durante un periodo molto travagliato della vita del filosofo ungherese. Gli fu molto vicino soprattutto durante i tragici giorni dell’ottobre-novembre 1956 e la successiva deportazione in Romania. In questa rievocazione, sotto forma di intervista, Miklós Vásárhelyi ricorda quei giorni, e anche l’intero periodo di amicizia con Lukács. Li ha accomunati la stessa fede nel socialismo, anche se questa fede fu interpretata in modi e forme diverse, perché diverse erano le esperienze dei due. Il vecchio filosofo, formatosi alla dura scuola della lotta clandestina e dell’esistenza nella Mosca degli anni trenta, vedeva le cose sotto una luce parzialmente diversa. Il colloquio con Vásárhelyi, condotto da questi in un italiano pressoché perfetto, può aiutare a comprendere la partecipazione di Lukács a quegli avvenimenti. Non è soltanto un quadro storico, finora inesistente nella letteratura lukacsiana, ma anche un ritratto morale, di cui la naturale parzialità della testimonianza non sminuisce, al contrario, accresce e ravviva le tinte. Quello che si ha di fronte non è più il freddo e analitico intellettuale, dedito alla politica, ma piuttosto una persona viva e umana, che non solo nella lotta politica, ma anche nella vita quotidiana, continuò a farsi guidare da principi etici saldissimi, ispirati alla propria fede ideologica. Si tratta di un uomo che ha saputo vivere il proprio pensiero. Continua a leggere

Georg Lukács e il patto col diavolo

di George Steiner

[Georg Lukacs and His Devil’s Pact, «The Kenyon Review» Vol. 22, No. 1 (Winter, 1960), pp. 1-18, trad. it. Ruggero Bianchi, in G. Steiner, Linguaggio e Silenzio, Rizzoli, Milano 1972, pp. 327-342]

Nel ventesimo secolo non è facile per un uomo onesto fare il critico letterario. Vi sono tante cose più urgenti da fare. La critica è un’aggiunta. Giacché l’arte del critico consiste nel sottoporre le opere di letteratura proprio all’attenzione di quei lettori che forse hanno meno bisogno di un tale aiuto: forse che un uomo legge critiche di poesia o teatro o narrativa se non possiede già per conto suo una cultura letteraria di notevole livello? Su l’un lato e l’altro, per giunta, vi sono due tentatori. A destra, la Storia Letteraria, con la sua aria solida e le sue credenziali accademiche. Alla sinistra, la Recensione, non proprio un’arte, ma piuttosto una tecnica devota alla teoria poco plausibile che ogni giorno dell’anno viene pubblicato qualcosa che vale la pena di leggere. Anche la critica migliore può soccombere all’una o all’altra di queste tentazioni. Ansioso di raggiungere la rispettabilità intellettuale, la posizione salda dello studioso, il critico può diventare, come Sainte-Beuve, quasi uno storico della letteratura. O può cedere alle pretese del nuovo e dell’immediato: una parte significativa delle dichiarazioni critiche di Henry James non è sopravvissuta ai luoghi comuni di cui esse erano molto prodighe. Le buone recensioni sono ancor più effimere dei brutti libri.

Ma vi è ancora un’altra ragione importante per cui è difficile a una mente seria, nata in questo secolo tormentato e periglioso, dedicare il grosso delle proprie energie alla critica letteraria. La nostra è, in maniera preminente, l’epoca delle scienze naturali. Il novanta per cento di tutti gli scienziati vive oggi. Il ritmo delle conquiste in campo scientifico, il ritrarsi dell’orizzonte davanti allo spirito che indaga, non è più assolutamente confrontabile con quello del passato. Ogni giorno si scoprono nuove Americhe, sicché la tempra della nostra epoca è permeata di valori scientifici. Questi estendono la propria influenza e il proprio fascino molto al di là dei confini della scienza intesa in senso classico. La storia e l’economia sostengono di essere, in qualche misura fondamentale, delle scienze; e così pure la logica e la sociologia. Lo storico dell’arte affina strumenti e tecniche che considera scientifici. Il compositore di musica dodecafonica collega i suoi esercizi austeri a quelli della matematica. Durrell ha scritto nella prefazione all’Alexandria Quartet che il suo tentativo è quello di tradurre nel linguaggio e nello stile della sua narrativa la prospettiva della relatività. Vede la città di Alessandria in quattro dimensioni.

Tale ubiquità della scienza ha recato con sé nuove modestie e ambizioni nuove. Diffidando del semplice istinto, la scienza esige una mitologia di rigore e di prova. Come splendido compenso, offre il miraggio della certezza, della conoscenza sicura, del possesso intellettuale salvaguardato dal dubbio. Lo scienziato grandissimo rifiuterà tale prospettiva; persevererà nel dubbio anche nel cuore della scoperta. Ma la speranza della verità oggettiva e dimostrabile è sempre presente e ha attirato a sé le menti più vigorose dei nostri tempi.

Nella critica letteraria non vi sono terre promesse di fatti stabiliti, né utopie di certezza. Per la sua stessa natura, la critica è personale. Non è suscettibile di dimostrazione né di prova coerente. Non dispone di strumenti più esatti della barba di Housman che si rizzava quando la grande linea di poesia gli saettava nella mente. In tutta la storia, i critici hanno cercato di dimostrare che il loro métier era una scienza in fin dei conti, che aveva canoni oggettivi e strumenti per pervenire alle verità assolute. Coleridge imbrigliò il proprio genio intensamente personale e spesso instabile al giogo di un sistema metafisico. In un celebre manifesto, Taine proclamò che lo studio della letteratura non era meno esatto di quello delle scienze naturali. I. A. Richards ha sottoscritto la speranza che vi sia un’oggettiva base psicologica all’atto del giudizio estetico. Il suo discepolo più eminente, W. Empson, ha applicato alle arti della critica letteraria le modalità e i gesti della matematica.

Resta però il fatto: il critico letterario è un uomo singolo che giudica un dato testo secondo l’attuale disposizione del proprio spirito, secondo il proprio umore o l’edificio delle proprie convinzioni. Può darsi che il suo giudizio abbia un valore maggiore del vostro o del mio soltanto perché si basa su una gamma più vasta di conoscenze o perché è presentato con chiarezza più convincente. Non lo si può dimostrare in maniera scientifica, né può pretendere di essere durevole. I venti del gusto e della moda sono incostanti e ogni generazione di critici ricomincia da capo a giudicare. Le opinioni sui meriti di un’opera d’arte sono, per giunta, inconfutabili. Balzac riteneva che la Radcliffe fosse grande come Stendhal. Nietzsche, una delle menti più acute che mai si siano occupate di musica, finì per sostenere che Bizet era un compositore più genuino di Wagner. Possiamo essere profondamente convinti che tali opinioni sono ingiuste ed erronee. Ma non possiamo rifiutarle come uno scienziato può rifiutare una teoria falsa. E chissà che una qualche epoca futura non concordi con giudizi che oggi sembrano insostenibili? La storia del gusto è un po’ come una spirale. Le idee che in un primo momento vengono considerate oltraggiose o di avanguardia diventano le credenze reazionarie e consacrate della generazione successiva.

Il critico moderno si trova dunque doppiamente in pericolo. La critica ha intorno a sé qualcosa di un’epoca più agiata. È difficile, su basi morali, resistere alle fiere sollecitazioni dei problemi economici, sociali e politici. Se vi è la minaccia di una qualche forma di barbarie e di autodistruzione politica, lo scrivere saggi sulle belles-lettres pare un’occupazione piuttosto marginale. Il secondo dilemma è di natura intellettuale. Per eminente che sia, il critico non può partecipare all’avventura principale della mente contemporanea: l’acquisizione della conoscenza positiva, il dominio del fatto scientifico o l’esplorazione della verità dimostrabile. E se è onesto con se stesso, il critico letterario sa che i suoi giudizi non hanno una validità duratura, che domani possono essere capovolti. Una cosa soltanto può conferire alla sua opera un po’ di durevolezza: il vigore o la bellezza del suo stile. Grazie allo stile, la critica può a sua volta diventare letteratura.

I maestri della critica contemporanea hanno cercato di risolvere questi dilemmi in modi differenti. T. S. Eliot, Ezra Pound e Thomas Mann, per esempio, hanno fatto della critica un’appendice alla creazione. I loro scritti critici sono commentari alle proprie opere poetiche; specchi che l’intelletto presenta alla fantasia creativa. In D. H. Lawrence, la critica è autodifesa: pur discutendo apparentemente di altri scrittori, di fatto Lawrence stava difendendo il proprio concetto dell’arte del romanzo. Leavis ha accettato la sfida a testa bassa. Ha posto le sue energie critiche al servizio di un’appassionata visione morale. È tutto intento a stabilire standard di maturità e di ordine in letteratura perché la società nel suo complesso possa procedere in una maniera più matura e ordinata.

Ma nessuno ha offerto ai dilemmi morali e intellettuali che assediano la critica letteraria una soluzione più radicale di quella di Georg Lukács. Nelle sue opere si concretizzano due convinzioni. La prima, che la critica letteraria non è un lusso, che non è quello che il più sottile critico americano ha definito «un discorso per dilettanti». Ma che, al contrario, è una forza militante e fondamentale per la formazione della vita degli uomini. In secondo luogo, Lukács afferma che l’opera del critico non è né soggettiva né incerta. La critica è una scienza con un proprio rigore e una propria precisione. La verità del giudizio si può verificare. Georg Lukács è, naturalmente, marxista. Anzi, è l’unico grande talento critico che sia emerso dal grigio servaggio del mondo marxista.

II

In un saggio che risale al 1948, Lukács tracciò un’analogia significativa. Disse che la fisica newtoniana aveva dato alla coscienza settecentesca il suo principale impulso liberatore, insegnando alla mente a vivere la grande avventura della ragione. Secondo Lukács, tale ruolo dovrebbe essere svolto ai giorni nostri dall’economia politica. È attorno all’economia politica, in senso marxista, che dovremmo ordinare la nostra comprensione delle vicende umane. Lukács stesso giunse alla letteratura attraverso l’economia, così come si può dire che Aristotile si accostò al dramma tramite un’indagine sistematica in campo morale.

Il materialismo dialettico sostiene che la letteratura, come tutte le altre forme d’arte, è una «sovrastruttura ideologica», un edificio dello spirito costruito sulle fondamenta del fatto economico, sociale e politico. Nello stile e nel contenuto l’opera d’arte riflette esattamente la sua base storica e materiale. L’Iliade non era meno condizionata dall’ambiente sociale (un’aristocrazia feudale frantumata in piccoli regni rivali) di quanto non lo fossero i romanzi di Dickens, che riflettono con tale vigore l’economia della produzione in serie e la crescita di un nuovo pubblico di massa. Pertanto, sostiene il marxista, il progresso dell’arte è sottoposto alle leggi della necessità storica. Non possiamo concepire Robinson Crusoe prima della nascita dell’ideale mercantile. Nel declino del romanzo francese dopo Stendhal osserviamo l’immagine di un più vasto declino della borghesia francese.

Ma dove c’è legge c’è scienza. E quindi il critico marxista nutre la convinzione di essere impegnato non in cose opinabili ma in determinazioni di realtà oggettiva. Senza tale convinzione, Lukács non avrebbe potuto dedicarsi alla letteratura. Raggiunse la maturità intellettuale in mezzo alla ferocia caotica della guerra e della rivoluzione nell’Europa centrale. Giunse al marxismo per la strada tortuosa della metafisica hegeliana. Nei suoi primi scritti vi sono due note dominanti: la ricerca di una chiave per comprendere l’apparente tumulto della storia e il tentativo dell’intellettuale di giustificare la propria scelta della vita contemplativa. Come Simone Weil, cui egli spesso mi fa pensare, Lukács ha l’anima di un calvinista. Si può immaginare come abbia dovuto lottare per disciplinare in se stesso l’inclinazione naturale alla letteratura e all’aspetto estetico delle cose. Il marxismo gli offrì la possibilità fondamentale di restare critico letterario senza aver l’impressione di aver dedicato le proprie energie a uno scopo piuttosto frivolo e impreciso. Nel 1918 Lukács aderì al partito comunista ungherese. Durante il primo breve periodo di governo comunista a Budapest, prestò servizio come commissario politico e culturale con la quinta Armata Rossa. Dopo la caduta di Béla Kun, Lukács andò in esilio. Rimase a Berlino fino al 1933 e quindi si rifugiò a Mosca. Là rimase e lavorò per dodici anni, facendo ritorno in Ungheria soltanto nel 1945.

È questo un fatto di ovvia importanza. Il tedesco è la lingua principale di Lukács, ma l’uso che ne fa è diventato fragile e sgradevole. Il suo è lo stile dell’esilio; ha perso i caratteri della parlata viva. Più essenzialmente: tutto il tono di Lukács, il tenore fervido e a volte angusto della sua visione, riflette il fatto dell’esilio. Da Mosca, circondato da una piccola cerchia di compagni d’esilio, Lukács osservò l’estendersi della crisi sull’Europa occidentale. I suoi scritti sulla letteratura francese e tedesca divennero una difesa appassionata contro le menzogne e la barbarie del periodo nazista. E ciò spiega un grosso paradosso nella produzione di Lukács. Pur essendo comunista per convinzione, materialista dialettico in virtù del suo metodo critico, egli ha tenuto lo sguardo decisamente fisso al passato. Thomas Mann vide nelle opere di Lukács un senso eminente della tradizione. Nonostante le pressioni dei suoi ospiti russi, Lukács prestava soltanto un’attenzione distratta alle conquiste celebrate del «realismo sovietico». Insisteva invece sulla grande tradizione della poesia e della narrativa europea del Settecento e dell’Ottocento, su Goethe e su Balzac, su Walter Scott e Flaubert, su Stendhal e Heine. Quando scrive di letteratura russa, Lukács tratta di Puškin o di Tolstoj, non dei poetastri dell’epoca staliniana. La prospettiva critica è rigorosamente marxista, ma la scelta dei temi è «centroeuropea» e conservatrice.

In mezzo all’apparente trionfo del fascismo, Lukács mantenne una serenità appassionata. Si sforzò di scoprire la tragica pecca, il seme di caos, da cui era scaturita la follia di Hitler. Una delle sue opere, un libro in se stesso stridulo e spesso mendace, s’intitola La distruzione della ragione (1955). È il tentativo filosofico di risolvere il mistero drammatizzato da Thomas Mann nel Dottor Faustus. Come si scatenò l’ondata di tenebre sull’anima tedesca? Lukács fa risalire le origini del disastro all’irrazionalismo di Schelling. Ma al tempo stesso insisteva sull’integrità e la forza vitale dei valori umani. Essendo comunista, Lukács non dubitava che il socialismo avrebbe finito per prevalere. Considerava suo compito particolare quello di organizzare in vista del momento della liberazione le risorse spirituali presenti nella letteratura e nella filosofia europee. Quando le poesie di Heine tornarono a essere lette in Germania, era disponibile un saggio di Lukács che tracciava un ponte tra il futuro e il mondo semidimenticato del liberalismo cui Heine era appartenuto.

Lukács dunque ha offerto una soluzione al duplice dilemma del critico moderno. In quanto marxista, scorge nella letteratura l’azione delle forze economiche, sociali e politiche. Tale azione si basa su certe leggi di necessità storica. Per Lukács la critica è una scienza ancor prima di essere un’arte. La sua preferenza per Balzac su Flaubert non dipende dal consenso o dal gusto personale. È una determinazione oggettiva cui si è pervenuti tramite un’analisi del fatto materiale. In secondo luogo, Lukács ha conferito al suo stile un’intensa immediatezza. Affonda le proprie radici nelle battaglie e nelle circostanze sociali del tempo. I suoi scritti sulla letteratura, come quelli su Tolstoj, sono strumenti di combattimento. Comprendendo la dialettica del Faust di Goethe, dice Lukács, si è meglio attrezzati a leggere gli enigmi sanguinosi del presente. La caduta della Francia nel 1940 è scritta a grossi caratteri nella Comédie humaine. Gli argomenti di Lukács hanno a che fare con problemi fondamentali della nostra vita. Le sue critiche non sono una semplice eco alla letteratura. Anche quando è settario e polemico, un libro di Lukács ha sempre una curiosa nobiltà. Possiede quella che Matthew Arnold chiamò «alta serietà».

III

Ma, in pratica, quali sono i grossi risultati di Lukács come critico e storico delle idee?

Ironicamente, una delle sue opere più influenti risale a un periodo in cui il suo comunismo era venato di eresia. Storia e coscienza di classe (1923) è un caso quasi leggendario. È un livre maudit, un libro dato alle fiamme, di cui sono rimaste relativamente poche copie1. Si trova in esso un’analisi fondamentale della «reificazione» dell’uomo (Verdinglichung), della degradazione della persona umana a oggetto statistico tramite i processi industriali e politici. L’opera fu condannata dal partito e ritirata dall’autore. Ma ha portato a una tenace vita sotterranea e taluni scrittori, come Sartre e Thomas Mann, l’hanno sempre considerata il capolavoro di Lukács.

A mio parere, tuttavia, la sua preminenza si trova altrove: nei saggi e nelle monografie da lui scritte durante gli anni Trenta e Quaranta, che cominciarono a uscire in una sfilza di volumi imponenti dopo la fine della guerra. L’essenza di Lukács si trova nello studio di Goethe e i suoi tempi (1947), nei saggi sul Realismo russo nella letteratura mondiale (1949), nel volume intitolato Realisti tedeschi dell’Ottocento (1951), nel libro su Balzac, Stendhal e Zola (1952) e nella grande opera su Il romanzo storico (1955). A ciò bisognerebbe aggiungere alcuni volumi massicci di carattere più squisitamente filosofico, quali Contributi a una storia dell’estetica (1954), e quello che è forse il magnum opus di Lukács, lo studio di Hegel (di cui apparve il primo volume nel 1948).

È impossibile dare una descrizione breve e tuttavia accurata di una gamma così vasta di materiale. Ma vi sono alcuni motivi che emergono come classici arricchimenti della comprensione che noi abbiamo della letteratura.

Vi è l’analisi lukacsiana del declino del romanzo francese. Lukács è il più grande studioso vivente di Balzac e vede nella Comédie humaine il massimo monumento del realismo. La sua interpretazione di Les illusions perdues è un esempio perfetto del modo in cui la visione dello storico vien fatta pesare sulla struttura di un’opera d’arte. È questa visione a indurre direttamente Lukács a una condanna di Flaubert. Tra Balzac e Flaubert vi è la sconfitta del 1848. Lo splendore delle speranze liberali era sbiadito e la Francia si stava dirigendo verso la tragedia della Comune. Balzac guarda il mondo con l’ardore primitivo della conquista. Flaubert guarda il mondo come attraverso una lente, con disprezzo. In Madame Bovary il bagliore e l’artificio delle parole sono diventati fini a se stessi. Quando Balzac descrive un cappello, lo fa perché un uomo lo porta. La descrizione del berretto di Charles Bovary, dal canto opposto, è un pezzo di virtuosismo tecnico; sfoggia la padronanza che Flaubert ha del vocabolario dei sarti francesi. Ma la cosa è morta. E dietro questo contrasto nell’arte del romanzo, Lukács scorge la trasformazione della società attraverso il capitalismo maturo. In una società preindustriale, o in una società in cui l’industrialismo rimane su piccola scala, il rapporto dell’uomo con gli oggetti fisici che lo circondano ha un’immediatezza naturale. Questa viene distrutta dalla produzione in massa. L’arredamento della nostra vita è il frutto di processi troppo complessi e impersonali perché qualcuno li possa dominare. Isolato dalla realtà fisica, respinto dalla trasandatezza disumana del mondo delle fabbriche, lo scrittore cerca rifugio nella satira o nelle visioni romantiche del passato. Tutte e due le ritirate sono esemplificate in Flaubert: Bouvard et Pécuchet è un’enciclopedia del disprezzo, mentre Salammbô può essere considerato il sogno a occhi aperti di un antiquario un po’ sadico.

Da tale dilemma scaturì quella che Lukács definisce l’illusione del naturalismo, la convinzione che l’artista possa ricatturare un senso di realtà con la semplice forza dell’accumulazione. Mentre il realista seleziona, il naturalista enumera. Come l’insegnante di Hard Times di Dickens, esige fatti e ancora fatti. Zola aveva una fame inesauribile di particolari circostanziati, una passione per gli orari e gli inventari (viene in mente il catalogo dei formaggi in Le ventre de Paris). Provava piacere a infondere la vita in una citazione della Borsa valori. Ma la sua teoria del romanzo, sostiene Lukács, era radicalmente falsa. Porta alla morte della fantasia e al reportage.

Lukács non scende a compromessi con la propria visione critica. Esalta Balzac, realista e animato da princìpi clericali; e condanna Zola, progressista in senso politico e precursore del «realismo socialista».

Ancor più autoritario e originale è il trattamento che Lukács fa del romanzo storico. È questo un genere letterario la cui critica occidentale ha dedicato soltanto un’attenzione superficiale. È difficile focalizzare bene la sfera del romanzo storico. A volte, la sua testa è nelle stelle mitologiche, ma più sovente il grosso si può trovare nella buona terra della letteratura commerciale. Il concetto stesso evoca alla mente improbabili amorosi che inseguono giovinette terrificate eppure vestite vaporosamente attraverso copertine di libri riccamente decorate. Solo rarissimamente, quando interviene uno scrittore come Robert Graves, comprendiamo che il romanzo storico ha virtù ben precise e una nobile tradizione. È a queste che Lukács si rivolge in uno studio importante, Il romanzo storico.

Tale forma nacque da una crisi della sensibilità europea. La rivoluzione francese e l’epoca napoleonica avevano diffuso nella coscienza della gente comune un senso dello storico. Mentre Federico il Grande aveva chiesto che le guerre fossero condotte in maniera tale da non disturbare il corso normale degli eventi, le armate di Napoleone marciarono su e giù per l’Europa riplasmando il mondo lungo la strada. La storia non era più qualcosa che riguardava archivi e principi; era diventata la struttura della vita quotidiana. A tale mutamento i romanzi di Waverley reagirono in maniera profetica e diretta. Anche qui, Lukács si muove su un terreno fresco. Noi non prendiamo Walter Scott con assoluta serietà. Con ogni probabilità, commettiamo un’ingiustizia. Se ci teniamo a sapere che artista attento fosse Scott e quale penetrante senso storico sia all’opera in Quentin Durward o The Heart of Midlothian, la cosa migliore è leggere un libro scritto a Mosca da un critico ungherese.

Lukács prosegue esplorando l’evoluzione della narrativa storica nell’arte di Manzoni, Puškin e Victor Hugo. La sua lettura di Thackeray è particolarmente suggestiva. Egli sostiene che gli elementi archeologici in Henry Esmond e The Virginians esprimono la critica di Thackeray alle condizioni sociali e politiche dei suoi tempi. Togliendo la parrucca al Settecento, il romanziere satireggia la falsità delle convenzioni vittoriane (ciò che i marxisti chiamano zeitgenössische Apologetik). Personalmente ritengo che Lukács interpreti male Thackeray. Ma si tratta di un errore fruttuoso, come lo sono spesso gli errori della buona critica, e conduce a un’idea originalissima. Lukács nota che il discorso arcaico, per abilmente maneggiato che sia, di fatto non avvicina il passato alla nostra fantasia. I maestri classici del romanzo storico scrivono narrativa e dialogo nel linguaggio dei propri tempi. Creano l’illusione del presente storico tramite la forza della fantasia realizzata e perché essi stessi sperimentano il rapporto tra la storia passata e il proprio tempo come un rapporto di continuità viva. Il romanzo storico vacilla quando questo senso di continuità non è più prevalente, quando lo scrittore sente che le forze della storia trascendono la sua comprensione razionale. Egli allora si rivolge a un passato sempre più remoto o esotico per protestare contro la vita contemporanea. Invece del romanzo storico, troviamo laboriosa archeologia. Si confronti la poetica della storia implicita in La certosa di Parma con l’artificio erudito di Salammbô. Tra artefici meno abili di Flaubert questo senso dell’artificio è rafforzato dall’uso arcaico del linguaggio. Il romanziere si sforza di rendere autentica la propria visione del passato scrivendo i dialoghi in quella che suppone sia stata la sintassi e lo stile del periodo in questione. È, questo, un debole artificio. Forse che Shakespeare avrebbe fatto meglio a far parlare Riccardo II in inglese chauceriano?

Ora, come osserva Lukács, questo declino del concetto classico del romanzo storico coincide esattamente con il passaggio dal realismo al naturalismo. In entrambi i casi, la visione dell’artista perde la propria spontaneità: in un certo modo, egli è estraneo al proprio materiale. Ne consegue che i problemi di tecnica diventano predominanti a spese della sostanza. L’immagine di Glasgow in Rob Roy è storicamente percettiva, ma scaturisce in maniera più significativa dai conflitti sociali e personali della narrazione. Non è un pezzo di restauro antiquario. Ma questo è proprio ciò che è l’immagine di Cartagine in Salammbô. Flaubert ha costruito un sontuoso guscio vuoto attorno a un’azione autonoma. Come osservò Sainte-Beuve, è difficile conciliare le motivazioni psicologiche dei personaggi con l’ambiente storico presentato. Walter Scott credeva nello spiegarsi razionale e progressivo della storia inglese. Vedeva negli avvenimenti dei propri tempi una conseguenza naturale di energie liberate nel corso del Seicento e del Settecento. Flaubert, al contrario, si volse all’antica Cartagine o ad Alessandria perché trovava insopportabile la propria epoca. Non essendo in sintonia con il presente – vide nella Comune un tardo spasimo del Medioevo – non riuscì a raggiungere una comprensione fantastica del passato.

Si concordi o no con questa analisi, la sua originalità e la sua ampiezza di riferimenti sono evidenti. Essa illustra l’esercizio essenziale di Lukács: lo studio attento del testo letterario alla luce di problemi politici o filosofici di vasta portata. Lo scrittore o l’opera singola sono il punto di partenza. Di qui la discussione di Lukács si muove all’esterno attraverso un terreno complesso. Ma il tema o l’idea centrale sono tenuti continuamente di vista. Infine, la dialettica si fa serrata, ordinandone gli esempi e le convinzioni.

Analogamente, il saggio sulla corrispondenza tra Goethe e Schiller verte soprattutto sulla discussa questione della natura delle forme letterarie. La discussione dell’Hyperion di Hölderlin dà il via a uno studio del ruolo cruciale e tuttavia ambiguo svolto dall’ideale ellenico nella storia dello spirito tedesco. Nelle sue numerose considerazioni su Thomas Mann, Lukács s’interessa di quello che considera il paradosso dell’artista borghese in un secolo marxista. Lukács sostiene che Mann decise di star fuori dalla corrente della storia, pur rendendosi conto del carattere tragico della propria scelta. Il saggio su Gottfried Keller è un tentativo di chiarire il difficilissimo problema dell’arresto dello sviluppo della letteratura tedesca dopo la morte di Goethe. In tutti questi esempi, non è possibile separare il singolo giudizio critico dal più ampio contesto filosofico e sociale.

Essendo la sua discussione così serrata e fitta, è difficile offrire citazioni significative dalle opere di Lukács. Forse un breve passo tratto da un saggio su Kleist può comunicarne il tono dominante:

Il concetto di passione di Kleist porta il dramma vicino all’arte del racconto. Una singolarità intensificata è presentata in una maniera che ne sottolinea la unicità accidentale. Nel racconto ciò è assolutamente legittimo. Questo è infatti un genere letterario concepito appositamente per rendere reale il ruolo immenso della coincidenza e della contingenza nella vita umana. Ma se l’azione rappresentata resta al livello di coincidenza… e se riceve la dignità di dramma tragico senza prova alcuna della sua obiettiva necessità, si avrà inevitabilmente un effetto di contraddizione e di dissonanza. I drammi di Kleist, di conseguenza, non indicano la strada maestra del dramma moderno. Tale strada va da Shakespeare, attraverso gli esperimenti di Goethe e di Schiller, al Boris Godunov di Puškin. A causa del declino ideologico della borghesia, essa non ebbe un seguito adeguato. I drammi di Kleist rappresentano una strada laterale irrazionale. La passione individuale isolata distrugge il rapporto organico tra il fato della persona individuale e la necessità sociale e storica. Con la dissoluzione di tale rapporto, le basi poetiche e filosofiche del genuino conflitto drammatico sono a loro volta distrutte. La base del dramma si fa esile e angusta, esclusivamente privata e personale… Le passioni kleistiane rappresentano senza dubbio una società borghese. La loro dialettica interna riflette conflitti tipici di individui che sono diventati «monadi senza finestre» in un ambiente borghese.

Il riferimento a Leibniz è tipico. La qualità della mente di Lukács è filosofica, nel senso tecnico della parola. La letteratura concentra e concretizza quei misteri di significato che costituiscono l’interesse principale del filosofo. Sotto questo aspetto, Lukács appartiene a una tradizione notevole. La Poetica è critica filosofica (il dramma visto come il modello teorico dell’azione spirituale); come lo sono gli scritti critici di Coleridge, Schiller e Croce. Se l’andatura è pesante, è perché la materia in discussione è insistentemente completa. Come altri critici filosofi, Lukács affronta problemi che hanno tormentato l’indagine dai tempi di Platone. Quali sono le distinzioni fondamentali tra epica e dramma? Che cos’è la «realtà» in un’opera d’arte, l’antico enigma dell’ombra che pesa di più della sostanza? Qual è il rapporto tra la fantasia poetica e la percezione comune? Lukács solleva il problema del personaggio «tipico». Perché certi personaggi letterari – Falstaff, Faust, Emma Bovary – possiedono una carica di vita maggiore di quella di una moltitudine di altre creature fantastiche e anzi della maggior parte degli esseri viventi? È perché sono archetipi in cui i caratteri universali convergono e ricevono una forma memorabile?

Le indagini di Lukács attingono a un campo straordinario di documentazione. Egli dà l’impressione di possedere tutta la letteratura europea moderna e tutta la letteratura russa. Questo consente una rara combinazione di robusta esattezza filosofica e di ampiezza di visione. Per contrasto, Leavis, che non è meno moralista né lettore meno attento di Lukács, è cautamente provinciale. In fatto di universalità, l’equivalente di Lukács sarebbe Edmund Wilson.

Ma la medaglia ha un suo rovescio. La critica di Lukács ha la sua parte di cecità e di ingiustizia. A volte scrive con oscurità astiosa quasi ad affermare che lo studio della letteratura non dovrebbe essere un piacere ma una disciplina e una scienza, difficile da accostare come le altre scienze. Questo l’ha reso insensibile ai grandi musicisti del linguaggio. Lukács manca di orecchio; non possiede quel diapason interiore che consente a Ezra Pound di scegliere senza sbagliare l’istante di gloria di un lungo poema o di un romanzo dimenticato. Nell’omissione di Rilke da parte di Lukács vi è un’oscura protesta contro la meraviglia del linguaggio del poeta. In un certo senso, scrive troppo mirabilmente. Anche se lo negherebbe, inoltre, Lukács tende davvero all’errore fondamentale della critica vittoriana: il contenuto narrativo, la qualità della favola, influenza la sua valutazione. La sua incapacità di includere Proust, ad esempio, getta il dubbio su tutta la visione che Lukács ha del romanzo francese. Ma la trama della Recherche du temps perdu, il fasto e le perversità che Proust descrive, offendono ovviamente il moralismo austero di Lukács. Il marxismo ha un credo puritano.

Come tutti i critici, anch’egli ha le sue avversioni particolari. Lukács detesta Nietzsche ed è insensibile al genio di Dostoevskij. Ma essendo un marxista coerente, fa della cecità una virtù e attribuisce alle sue condanne un valore oggettivo e sistematico. Leavis si trova evidentemente a disagio con le opere di Melville. T. S. Eliot ha condotto una lunga e sottile polemica con la poetica di Milton. Ma in essa le cortesie fondamentali vengono rispettate. Le argomentazioni di Lukács sono ad hominem. Infuriato dalla visione del mondo di Nietzsche e Kierkegaard, egli ne consegna le persone e le fatiche all’inferno spirituale del prefascismo. Questa, naturalmente, è un’interpretazione erronea e grottesca dei fatti.

Di recente, questi difetti di visione si sono fatti più drastici. La distruzione della ragione e i saggi di estetica apparsi da allora, ne sono guastati. Senza dubbio, vi è un problema di età. Lukács aveva settant’anni nel 1955 e i suoi odii si sono irrigiditi. Vi è in parte il fatto che Lukács è ossessionato dalla rovina della civiltà della Germania e dell’Europa occidentale. Va a caccia dei colpevoli da consegnare al Giudizio Finale della storia. Ma vi è soprattutto, a parer mio, un intenso dramma personale. All’inizio della sua brillante carriera, Lukács strinse un patto con il demone della necessità storica. Il diavolo gli promise il segreto della verità oggettiva. Gli diede il potere di impartire benedizioni o pronunciare condanne in nome della rivoluzione e delle «leggi della storia». Ma dal ritorno di Lukács dall’esilio, il diavolo è rimasto in agguato nei dintorni, chiedendo il proprio onorario. Nell’ottobre del 1956, ha picchiato con forza alla porta.

IV

Accenniamo qui a fatti di natura personale. La parte svolta da Lukács nell’insurrezione ungherese e il monachismo successivo della sua vita personale hanno un ovvio interesse storico. Ma contengono un elemento di agonia privata cui un estraneo difficilmente può accedere. Un uomo che perde la propria religione perde le proprie convinzioni. Un comunista per cui la storia si mette a fare salti mortali corre il rischio di perdere la ragione. Forse, è peggio così. Quanti non l’hanno provato, tuttavia, difficilmente possono capire che cosa significhi un simile crollo di valori. Inoltre, nel caso di Lukács, i moventi dell’azione sono oscuri.

Accettò il posto di ministro della Cultura nel governo di Nagy. Non, ritengo, per essere tra le guide di un movimento antisovietico, bensì piuttosto per conservare il carattere marxista della vita intellettuale ungherese e proteggerne l’eredità fondamentale contro le forze rinascenti della destra agrario-cattolica. Più essenzialmente, forse, perché un Lukács non può aderire a un solo lato della storia anche quando questa assume forme assurde. Non può essere uno spettatore. Ma il 3 novembre, un giorno prima che l’Armata Rossa riconquistasse Budapest, Lukács si dimise. Perché? Aveva deciso che un marxista non deve opporsi alla volontà dell’Unione Sovietica in cui s’incarna, nel meglio e nel peggio, il futuro del materialismo dialettico? Fu convinto a ritirarsi da una causa persa da amici che temevano per la sua vita? Non sappiamo.

Dopo un periodo di esilio in Romania, Lukács ottenne il permesso di tornare in patria. Ma non gli fu più consentito di insegnare e la sua opera passata divenne oggetto di attacchi e di scherni sempre più feroci. Tali attacchi in realtà sono anteriori all’insurrezione di ottobre. L’Ungheria aveva la sua versione in miniatura di Ždanov, un omuncolo feroce di nome Joseph Revai. Dapprima allievo di Lukács, ma poi geloso della celebrità del maestro, Revai pubblicò un opuscolo sulla Letteratura e democrazia popolare nel 1954. In esso redasse un atto d’accusa stalinista di tutto il lavoro di Lukács. Accusò Lukács di aver costantemente trascurato la letteratura sovietica contemporanea. Lo accusò di essere pericolosamente antiquato nella sua concentrazione su Goethe e Balzac. Persino un romanzo mediocre di un comunista, sostiene Revai, è infinitamente preferibile a un grande romanzo di un reazionario o di un premarxista. Lukács pone gli ideali letterari «formalistici» al di sopra degli interessi di classe e di partito. Il suo stile è inaccessibile al lettore proletario.

Dopo ottobre, tali accuse si fecero meno stridule. I pubblicisti ungheresi e tedesco orientali tirarono fuori di nuovo le vecchie accuse di eresia rivolte ai primi scritti di Lukács. Rievocarono la sua ammirazione giovanile per Stefan George e scorsero tracce di «idealismo borghese» nelle sue opere mature. Il vecchio tuttavia non fu toccato e per uno di quei giudizi strani, kafkiani, ammessi a volte dai regimi comunisti, gli fu persino consentito di pubblicare un volumetto di saggi presso una casa editrice della Germania Occidentale (Wider den missverstandenen Realismus, Amburgo, 1958).

Può darsi che la relativa immunità di Lukács sia dovuta all’interesse che gli intellettuali socialisti al di fuori della cortina di ferro hanno avuto per il suo caso. Ma certamente il problema più importante è questo: come considerò Lukács stesso le sue convinzioni e i suoi risultati alla luce della tragedia di ottobre? Fu attirato dal grande limbo della delusione? I suoi dei finirono per abbandonarlo?

Questioni del genere non possono essere spinte molto lontano senza cadere nella futilità: esse coinvolgono quel luogo intimo di illusione vitale che conserva la coscienza religiosa o rivoluzionaria. Il giudizio espresso da Lukács sulla rivoluzione ungherese si trova in una prefazione da lui scritta nell’aprile del 1957: «Avvenimenti importanti si sono verificati in Ungheria e altrove, costringendoci a rimeditare molti problemi connessi con l’opera di tutta la vita di Stalin. La reazione a quest’ultimo, sia nel mondo borghese che nei paesi socialisti, sta assumendo la veste di una revisione degli insegnamenti di Marx e di Lenin. E ciò costituisce certamente la minaccia principale al marxismo-leninismo». Queste parole sembrano eludere disperatamente il punto. Ma teniamo bene in mente una cosa soltanto: per uomini come Koestler o Malraux, il comunismo fu un espediente temporaneo di passione. Il comunismo di Lukács è la fibra stessa della sua intelligenza. La sua interpretazione della crisi dell’ottobre 1956, qualunque possa essere, sarà stata ottenuta entro la cornice di una visione dialettica della storia. L’uomo che ha perso la vista continua a vedere quanto gli sta intorno in forma di immagini ricordate. Per sopravvivere intellettualmente, Lukács deve aver elaborato un compromesso interiore di qualche genere: simili spedizioni punitive nella propria coscienza sono tipiche della condizione marxista. Il suo commento sulla minaccia del revisionismo ci indica la strada. Se lo interpreto in maniera corretta, Lukács sta dicendo che l’episodio ungherese è un’estensione finale, una reductio ad absurdum della politica stalinista. Ma tale politica era una falsa partenza dalla dottrina marxista-leninista e la violenza con cui venne attuata ne prova soltanto il fallimento. La giusta reazione al disastro ungherese non implica pertanto un abbandono dei princìpi primi marxisti. Al contrario, bisogna tornare a tali princìpi nella loro formulazione genuina. O, come si esprimerebbe uno dei capi dell’insurrezione: «Opponiamoci all’Armata Rossa in nome del Soviet dei lavoratori di Leningrado del 1917». Vi è forse, in questa idea, l’antico, ingannevole sogno del comunismo separato dall’oscurantismo e dalle ambizioni particolari della dominazione russa.

Lukács si è sempre ritenuto responsabile verso la storia. Ciò gli ha consentito di produrre un corpo di opere critiche e filosofiche che esprimono intensamente lo spirito crudele e serio dell’epoca. Che noi ne condividiamo o no le convinzioni, non c’è dubbio che egli ha conferito alla Musa minore della critica una notevole dignità. Gli ultimi anni di solitudine e di pericolo ricorrente non fanno che sottolineare quanto ho osservato all’inizio: nel Novecento non è facile per una persona onesta fare il critico letterario. Ma, del resto, non lo è stato mai.

1 Storia e coscienza di classe è ora reperibile in francese. Viene inoltre ristampato anche nell’edizione tedesco-occidentale delle opere complete di Lukács, insieme con altri saggi giovanili che sono tra i suoi migliori prodotti in campo filosofico e fanno di lui un autentico predecessore di Walter Benjamin. Le autorità culturali dell’Est permettono queste pubblicazioni occidentali di libri marxisti eretici ma prestigiosi: è questo un tocco caratteristico di politica «bizantina».

Sul dibattito fra Cina e Unione Sovietica

di György Lukács

[Zur Debatte zwischen China und der Sowjetunion. Theoretisch-philosophische Bemerkungen (1963), traduzione di Fausto Codino in «Nuovi Argomenti», nn. 61-66, 1963-64, ora in G.L., Marxismo e politica culturale, Einaudi, Torino 1968].


Sia chiaro, innanzi tutto, che le presenti considerazioni hanno un carattere meramente teorico e anzi, sotto vari aspetti, filosofico; ma senza che ciò significhi neutralità o riserva di giudizio.

La controversia è di per sé un fatto politico estremamente importante, le cui future conseguenze oggi sono difficilmente prevedibili. Ma in queste considerazioni non ci proponiamo di dare e neppure semplicemente di accennare risposte a questioni di natura politica immediata.

Ciò non implica, s’intende, che si sottovalutino minimamente i momenti reali del processo effettivo, col suo necessario andamento a zigzag. Anche l’autore di queste pagine, come chiunque altro, sa che i principî del XX Congresso del PCUS si sono attuati in maniera contraddittoria, che i contrasti cino-sovietici sono sorti e sono arrivati all’asprezza attuale per vie complicate.

Anche il futuro, naturalmente, non potrà avere una struttura diversa dal passato. L’autore è ben lungi – anche come filosofo – dal sottovalutare il peso di questi alti e bassi nella realizzazione di tendenze rilevanti; egli sa, con Lenin, che l’«astuzia» del processo reale, che supera qualsiasi previsione, appartiene per necessità alla concretezza del mondo; sa che, non tenendone conto, non si può capire il mondo stesso con la sua mobilità.

Il limitarsi alle questioni teoriche di principio comporta inevitabilmente il pericolo di lasciarsi sfuggire anche nessi decisivi del contenuto centrale. Ma si presentano situazioni – e l’attuale, mi pare, è una di quelle – in cui la limitazione deliberata è utile se nel pieno di un dibattito, che necessariamente porterà all’accumularsi di accuse e controaccuse particolareggiate, si vuole enucleare la sostanza del contenuto ancor prima che esso emerga storicamente con tutti i suoi contorni. Si deve dunque prendere atto della possibilità di errori cui abbiamo accennato.

I.

Se consideriamo le lettere dei due Comitati centrali, ci colpisce subito un contrasto, nella struttura e nel tono dell’esposizione, in cui si esprime anche, implicitamente, il contrasto della sostanza. La lettera cinese rivela la maniera formalmente chiusa, pseudoteorica, del periodo staliniano. La lettera sovietica si fonda sul richiamo sincero a grandi esperienze comuni del momento attuale, che oggi toccano profondamente milioni di persone.

Indico soltanto le principalissime. In primo luogo il fatto che il Partito comunista dell’Unione Sovietica ha abolito la prassi, propria del periodo staliniano, che si fondava sul disdegno arrogante per le leggi. Il dire che così si mette fine al «culto della personalità» è troppo poco, per definire l’estensione e la profondità della realtà.

Si tratta della garanzia necessaria e sicura di una vita umanamente vissuta, offerta dallo Stato socialista, dopo che il regime di Stalin aveva annullato con disprezzo sistematico anche un minimo di umanità. Con ciò non soltanto si distruggeva la sicurezza indispensabile per una vita ragionevole, non solo si trasformava in illusione insostenibile la realtà, altrettanto necessaria, delle prospettive di esistenza di tutti gli uomini, non solo si privavano tutte le attività umane del senso della loro attuabilità, ma si toglieva anche ogni vera coerenza allo sviluppo politico, mentre si pretendeva di servirlo con questi provvedimenti, ed esso degenerava nel terrore e nell’ipocrisia.

Qui non possiamo descrivere, neppure per accenni, gli estesi e profondi effetti di liberazione che si sono avuti nei paesi socialisti in cui si è realmente compiuta questa resa dei conti col passato stalinista. Né siamo in grado, qui, di accennare alle conseguenze funeste che questo modo di agire di Stalin ha provocato nel movimento operaio internazionale, per non dire d’altro. Se oggi i comunisti di alcuni paesi capitalistici, operando con spirito di sacrificio, riescono ad esercitare un certo influsso nelle questioni economiche delle aziende, esso si dilegua subito appena si viene a parlare di decisioni politiche. Ancora oggi – a sette anni dal XX Congresso – il processo di distacco dal socialismo di stile staliniano è una tendenza viva e operante. Perché si fa prima a perdere che a riconquistare. Soprattutto quando soltanto una rottura completa e radicale con i metodi staliniani potrebbe far riottenere la fiducia.

Ancora più profonda, e di maggiore risonanza sul terreno internazionale, è la seconda esperienza di cui parla l’appello del Comitato centrale sovietico: il richiamo all’ansia provocata in tutto il mondo dalla possibilità della guerra nucleare. È superfluo citare a prova dati di fatto. Speriamo che molti conoscano le lettere sconvolgenti di Claude Eatherly, il pilota di Hiroshima; molti sapranno di certo come su questo problema ci sia stata una svolta nel pensiero di Bertrand Russell, ecc. ecc. Anche più importante di queste reazioni è il fatto che il XX Congresso fu la prima potenza reale che abbia mostrato al mondo le prospettive di una vita senza guerra atomica. Ma forse non è del tutto superfluo ricordare che quanto oggi appare già ovvio, in un primo momento aveva l’apparenza del paradossale. Paradossale soprattutto per il comunismo internazionale.

Al tempo della prima guerra mondiale Lenin aveva giustamente messo in luce il nesso fra l’imperialismo e la guerra, nella nuova ripartizione del mondo. Il discorso del 1956 di Chruščëv rifiuta la tesi leniniana sull’inevitabilità delle guerre mondiali, ormai superata dalla storia, e non meno nettamente di quanto Lenin a suo tempo rifiutò la tesi di Marx secondo cui le rivoluzioni proletarie potrebbero avere inizio e successo internazionale solo nei paesi più evoluti.

Lenin rifiutava una tesi di Marx fondandosi sul metodo marxiano, così come Chruščëv, mezzo secolo più tardi, ha superato la tesi di Lenin sulla base del metodo leninista. In entrambi i casi si ha il riconoscimento dello sviluppo storico, il quale ha trasformato ciò che prima era giusto in qualche cosa di falso, ciò che prima era progressista in una forza che ostacola il presente modificato.

Naturalmente qui non si tratta soltanto della guerra nucleare, considerata isolatamente. Questa svolta non sarebbe potuta intervenire se un terzo del mondo non fosse diventato socialista, se l’insurrezione dei popoli coloniali non si fosse estesa fino a diventate un fenomeno generale, oggi evidente, togliendo ogni senso, pertanto, all’idea di una nuova ripartizione del mondo. Se nel 1914, per esempio, Guglielmo II, Clemenceau e Lloyd George avessero disposto di bombe atomiche, con tutta probabilità le avrebbero usate. Ma col XX Congresso il dileguarsi dell’incubo nucleare è diventato una reale via di scampo per tutto il mondo.

La lettera sovietica si richiama con buon diritto ai pensieri e ai sentimenti che ne derivarono. Dopo che Chruščëv, in sette anni di attività abile e tenace, ha fatto della risoluzione del XX Congresso una speranza universale di tutto il mondo, di fronte a questo appello appaiono sbiaditi, anzi si dissolvono nel nulla, quei sofismi burocratici, a volte abilmente costruiti, con cui l’appello cinese parla dell’«inevitabile» guerra mondiale come unica via per il socialismo mondiale.

II.

Diamo un’occhiata al contenuto «unitario» e «logicamente» dedotto della lettera cinese.

Se si vuole riassumere in breve il contenuto, e in pari tempo assegnargli un posto nella storia del movimento operaio rivoluzionario, si può dire soltanto che esso è l’ultimo compendio di una tendenza, vecchia e nuova insieme, che torna sempre ad emergere fin dagli inizi del movimento operaio: il settarismo.

Essa si manifesta subito all’inizio del periodo di depressione che seguì alla sconfitta della rivoluzione del 1848, nel movimento di Willich e Schapper all’interno della Lega dei comunisti londinese; prende una nuova forma – per illustrare con pochi esempi la sua continuità – nell’opposizione dei «giovani» in Germania dopo la revoca della legge contro i socialisti (1889); ha una parte di primo piano nella questione del boicottaggio alla Terza Duma (1907), nel dibattito sulla firma della pace di Brest-Litovsk (1918), ecc. ecc. Non intendiamo affatto, ovviamente, tracciare la storia del settarismo; citiamo questi casi soltanto per indicarne in breve alcuni dei tratti comuni più caratteristici.

Innanzi tutto: esso ignora sempre tutta la ricchezza della realtà, la riduce a un dilemma fra estremi che si escludono assolutamente. Lo si vede sempre, sul piano teorico come su quello pratico. Già nel 1850 Marx caratterizzava così questa mentalità fondamentale del settarismo:

«La minoranza sostituisce una visione dogmatica alla visione critica, una visione idealistica a quella materialistica. In luogo delle condizioni reali, la pura volontà diventa per essa la ruota motrice della storia. Mentre noi diciamo agli operai: dovete passare attraverso 15, 20, 50 anni di guerre civili e di lotte di popoli, non soltanto per mutare le condizioni, ma per mutare voi stessi e rendervi capaci di esercitare il potere politico, voi dite al contrario: dobbiamo arrivare subito al potere, o possiamo andare a dormire!»

Questa Weltanschauung ha conseguenze di estrema importanza per la teoria e la psicologia del settarismo. Per quanto riguarda la psicologia, prevale in esso da un lato il dilemma astrattamente falso di una scelta fra tutto o niente, dall’altro la rinuncia pessimistica e disfattista ad ogni azione, dal momento che l’attuazione dell’ideale artefatto, respinto in un estremo inattuabile, resta comunque esclusa.

Nella discussione sulla pace di Brest-Litovsk, tenendo conto che l’esercito russo si trovava in pieno disfacimento, Lenin definiva «stato d’animo del disfattismo più profondo e più disperato, sentimento di completa disperazione» il punto di vista dei suoi avversari, sostenitori di una «guerra rivoluzionaria» contro la Germania che in quel momento era ancora militarmente forte. (Sia detto di passaggio: se la posizione cinese suscita simpatia in certi piccoli gruppi d’intellettuali occidentali, varrebbe la pena di vedere da vicino se si tratta sempre di un fatto soltanto politico, o non anche di quell’atteggiamento verso la realtà che di solito sta alla base della popolarità di scrittori attuali del tipo di Beckett. Qui non possiamo soffermarci su questa questione, in sé interessante).

Questo disfattismo, questa disperazione pessimistica, provoca spesso un deprezzamento delle conquiste già fatte dal movimento, per quanto esse possano essere importanti e anche storicamente decisive. A suo tempo, per esempio, i sostenitori settari della «guerra rivoluzionaria» contro la Germania, affatto assurda, erano disposti in compenso a mettere in gioco l’esistenza della prima potenza sovietica del mondo, appena conquistata.

Se osserviamo un poco più da presso la struttura intellettuale di questa posizione, troviamo principî di un’astrattezza estrema, che si converte in vacuità. Qui sia detto chiaramente, per evitare malintesi, che queste considerazioni sono lontanissime dalle esigenze di un’azione «realpolitica», di un’azione politica fondata su basi pragmatiche. La generalizzazione, il richiamo ai principî sono inevitabili per una prassi giusta e lungimirante. Tuttavia i principî devono innanzi tutto essere fondati nella realtà dinamica dello sviluppo sociale, cioè devono essere «astrazioni intelligibili», per usare le parole di Marx; e poi è indispensabile riconoscere le mediazioni dialettiche fra i principî generali e singoli obiettivi concreti.

Una caratteristica del settarismo è proprio l’esclusione – di principio, si potrebbe dire – di tutte le categorie intermedie. Per il settarismo l’attuazione dei principî ultimi, generali, non è il risultato di uno sviluppo storico-sociale, in cui avvengono incessanti mutamenti di forme, scambi di funzioni, in cui sorgono continuamente mediazioni nuove, mentre le vecchie perdono il loro valore, subiscono modifiche più o meno sostanziali, ecc. Il settarismo connette sempre e dovunque i principî ultimi del movimento (che pertanto sono necessariamente astratti) direttamente alle singole azioni; vuole «dedurre» immediatamente queste da quelli.

Quando si esclude ogni mediazione dialettica fra principio, strategia e tattica, sorgono deduzioni vuote e astratte o tutt’al più, se nonostante tutto non si dimentica la realtà, mere deduzioni analogiche. Anche i singoli fatti perdono il loro carattere individuale e il loro nesso indissolubile con le circostanze concrete dalle quali sono sorti e sulle quali a loro volta agiscono. Una somiglianza (o opposizione) meramente astratta collega una possibilità di azione attuale ad una «analoga» del passato.

Anche qui gli esempi sono a portata di mano. Nel 1905 i bolscevichi silurarono con un riuscito boicottaggio attivo la cosiddetta Duma di Bulygin: gli scioperi di massa e le insurrezioni riuscirono – provvisoriamente – a impedire che la reazione zarista si consolidasse e canalizzasse secondo i suoi intenti il movimento rivoluzionario. Nel 1907 la reazione aveva vinto e si era già consolidata: alle elezioni per la Terza Duma, quindi, per il movimento rivoluzionario si trattava soltanto di avere un organo di propaganda legale tra il generale soffocamento delle sue possibilità di espressione. Eppure i settari di allora, richiamandosi proprio al successo del boicottaggio del 1905, anche nel 1907 facevano appello al boicottaggio della Terza Duma, in circostanze affatto mutate.

È sempre lo stesso: prima di un’azione non si fa «l’analisi concreta della situazione concreta», come voleva Lenin, ma si risponde alla questione del «che fare?» sotto forma di una deduzione astratta di principî astratti.

Prendo come esempio la discussione che ebbe luogo in seno al movimento comunista internazionale negli anni venti, quando io stesso ero impegnato dalla parte dei settari, sulla partecipazione al parlamento e alle elezioni parlamentari. Noi facevamo presente che in seguito alla rivoluzione del 1917, considerato lo stato di sconvolgimento rivoluzionario di tutta l’Europa, il parlamentarismo era superato in senso storico-universale. Lenin rispondeva:

«Il parlamentarismo è “sopravvissuto storicamente” a se stesso in senso storico-universale, cioè l’epoca del parlamentarismo borghese è finita, l’epoca della dittatura del proletariato è cominciata. Ciò è incontestabile. Ma la storia universale si misura a decenni. Dieci o dodici anni prima o dopo, sono indifferenti per la misura storico-universale, dal punto di vista storico-universale sono un’inezia che non si può calcolare neppure per approssimazione. Ma proprio per questo l’appellarsi alla misura storico-universale per una questione di politica pratica è un errore teorico raccapricciante. Il parlamentarismo è “sopravvissuto politicamente” a se stesso? Questa è una questione affatto diversa».

Se esaminiamo queste posizioni dal punto di vista gnoseologico, se ne scopre subito l’estremo soggettivismo. Per questa via, in ultima analisi, la fedeltà ai principî socialisti si tramuta in un fichtiano «Tanto peggio per i fatti». Ma se un siffatto soggettivismo vuol passare da quelle sue parole d’ordine alle azioni, questo carattere gnoseologico comporta che le parole d’ordine volute si trasformino in semplici frasi rivoluzionarie. Anche su questo punto Lenin parlò molto chiaro al tempo del dibattito sulla pace di Brest:

«Non si deve trasformare in una semplice frase la grande parola d’ordine “Puntiamo sulla vittoria del socialismo in Europa!” Questa è una verità se non s’ignora la via lunga e difficile che porta alla vittoria completa del socialismo. È una verità storico-filosofica incontestabile se si prende nel suo complesso tutta “l’era della rivoluzione socialista”. Ma ogni verità astratta diventa una semplice frase se la si applica a qualsiasi situazione concreta».

Tuttavia qualsiasi analisi storico-sistematica del settarismo, se applicata al presente, sarebbe non soltanto incompleta, ma anche artificiosa e falsa se non si tenesse conto del modo in cui esso si manifestò, con enormi effetti teorici e pratici, sotto Stalin. Dato che ho studiato più volte diffusamente proprio il metodo di Stalin – contrapponendolo a quello di Marx, Engels e Lenin – posso qui contenermi in uno spazio relativamente ristretto.

L’aspetto decisamente nuovo che Stalin rappresenta per la storia del settarismo è soprattutto di carattere sociale: mentre prima il movimento era composto da piccoli gruppi o anche gruppetti, uniti volontariamente, ossia aveva certe caratteristiche «sociologiche» delle sette originarie (in senso storico-ecclesiastico), con Stalin il settarismo diventa la tendenza dominante di un grande partito, di una grande potenza. Ciò presuppone innanzi tutto un gigantesco apparato centralizzato che le sette, trovandosi quasi sempre all’opposizione, non avevano mai; dicevo nel 1956: una piramide formata da tanti Stalin che verso il basso diventano sempre più piccoli.

Mediante questo apparato il soggettivismo della frase rivoluzionaria si trasformò in un dogma, anch’esso soggettivo, cioè fatto di frasi al modo che abbiamo detto, ma realizzabile attraverso la violenza. La frase rivoluzionaria è diventata bensì onnipotente, nel quadro delle possibilità oggettive, ma non per questo ha perduto la sua vacuità soggettivistica.

Ciò risulta logicamente dal mutamento strutturale dei rapporti fra teoria e organizzazione, da Lenin a Stalin. Con Lenin i principî dell’organizzazione erano ricavati di volta in volta dalla nuova analisi di nuove situazioni e tendenze; con Stalin i principî dell’apparato dominante sono prestabiliti, e l’esposizione propagandistica dei fatti serve a rafforzare la necessità dell’apparato. (Si pensi al teorema, confutato dal XX Congresso, del necessario inasprimento della lotta di classe).

In tutto ciò avevano una grande funzione – e l’hanno ancora presso i cinesi – le citazioni dei classici. Entrambe le forme di settarismo trattavano i fatti con sovrana superiorità, ma intanto davano un’etichetta marxista-leninista agli atti del più arbitrario burocratismo. Un fattore importantissimo della deformazione staliniana del marxismo-leninismo era proprio che la terminologia marxista veniva conservata, mentre la realtà alla quale essa era riferita non aveva più niente a che fare col suo significato originario e autentico. Per vedere chiaro questo punto basta pensare a categorie sociali come discussione o autocritica.

Qui naturalmente parliamo dei principalissimi aspetti soggettivistico-settari, dominanti in molti campi, della politica e dell’organizzazione staliniana. Se, infatti, questo fosse rimasto il suo contenuto esclusivo, il regime di Stalin non si sarebbe potuto reggere per decenni. Ma qui non vogliamo dare una valutazione storicamente ponderata del suo regime; quel che m’interessa è di mostrarne i tratti settari. I quali si manifestano chiaramente anche in decisioni di per sé giuste.

Cito solo un esempio, la cui sostanza ho già trattato a fondo in altri contesti. A suo tempo ho spiegato che per me il patto del 1939 era politicamente giusto, ma che fu un grave errore l’impegnare i partiti comunisti occidentali a vedere nella guerra hitleriana d’aggressione contro i loro paesi una guerra imperialistica di vecchio stile, e quindi a vedere il nemico reale nei propri governi e non in Hitler. Abbiamo qui, come «in vitro», la frase rivoluzionaria, il dogma soggettivistico: il momento particolare (il regime hitleriano) scompare del tutto, lo schema della prima guerra mondiale nasconde completamente la realtà della seconda, l’applicazione del dogma contraddice rudemente tutti i fatti della nuova guerra, tutti gli interessi e i sentimenti delle masse dirette dal dogma.

Così il dogmatismo staliniano deforma anche rivendicazioni dedotte da premesse in sé giuste. Il rapporto fra teoria e realtà è completamente turbato e proprio per questo reagisce anche sul soggetto autocritico del dogma. Si ha qui la conversione del disfattismo settario, che è una delle caratteristiche generali del metodo staliniano: la sfiducia disfattista nella capacità d’azione autonoma delle masse, la convinzione che da esse non si possa imparare nulla. Stalin non crede che i lavoratori dei paesi occidentali possano restare fedeli al socialismo, all’Unione Sovietica, anche se si difendono contro l’aggressione di Hitler.

Attorno al soggetto del dogmatismo settario, che ormai si trova solo, sorge allora un’atmosfera soffocante di diffidenza; solo questa atmosfera può spiegare – almeno psicologicamente – il periodo dei grandi processi. Ma, se i desideri soggettivi sono molto forti, questa diffidenza, che per la sua struttura interna è un soggettivismo esasperato, si converte in una credulità non meno soggettivisticamente infondata; ed ecco che Stalin, nonostante i molteplici avvertimenti, nell’estate del 1941 non voleva credere all’attacco hitleriano contro l’Unione Sovietica.

Questa contraddittorietà interna del settarismo soggettivistico divenuto sistema dominante produce nella sua prassi non solo questa contraddizione, ma anche tutta una serie di contraddizioni simili. Lo stesso disfattismo di fondo, di cui abbiamo detto più volte, converte per esempio la prassi propagandistica in un ottimismo politico. È facile capirne la ragione. Il soggettivismo dogmatico del metodo staliniano non può fare della prassi, come facevano Marx e Lenin, il giudice della teoria. Al contrario, la prassi deve confermare in tutte le circostanze i dogmi soggettivistici. Se le cose stanno diversamente, l’apparato deve provvedere alle apparenze. Così, come ho dimostrato già molto tempo fa a proposito della letteratura, gli obiettivi e le prospettive sono sempre rappresentati come realtà. Questa è una delle ragioni principali che sotto Stalin hanno provocato la stagnazione delle scienze marxistiche, la perdita di prestigio subita dal realismo socialista negli stessi paesi socialisti.

Da questa struttura del pensiero e dell’azione deriva anche la profonda inumanità dell’età staliniana. L’umanesimo di Marx – un umanesimo assai diverso dagli umanesimi soggettivi e passivi alla Stefan Zweig; un umanesimo che ammette il sacrificio e che anzi in certe circostanze concrete lo esige – trova espressione teorica nelle sue analisi fondamentali del rapporto fra uomo e società; e non solo negli scritti giovanili, ma soprattutto nella parte del Capitale sulla feticizzazione. Queste analisi mostrano che dietro la superficie delle formazioni economiche, con la sua apparenza feticistica, stanno sempre come realtà autentica relazioni fra uomini, che l’uomo, l’uomo reale, socializzato, è in ultima istanza (pur se la sua potenza non è affatto illimitata) il soggetto del divenire sociale.

Secondo questa concezione il periodo del socialismo deve essere un periodo di grandiosa liberazione interiore. L’abolizione delle forme di sfruttamento che costituivano le classi spinge ad assegnare all’azione umana responsabile il massimo peso sociale reale che essa abbia mai avuto. Solo così, come riconosceva Lenin, l’eredità etica dello sviluppo umano diventerà praticamente attuale. Egli prevedeva che «liberati dalla schiavitù capitalistica, dagli innumerevoli orrori, barbarie, assurdità, ignominie dello sfruttamento capitalistico, gli uomini si abitueranno a poco a poco a osservare le regole elementari della convivenza sociale, da tutti conosciute da secoli, ripetute da millenni in tutti i comandamenti, a osservarle senza violenza, senza costrizione, senza sottomissione, senza quello speciale apparato di costrizione che si chiama Stato».

Il dogmatismo soggettivistico del periodo staliniano, con la sua unità contraddittoria di diffidenza e credulità, di occulto disfattismo e di ostentato ottimismo politico, ecc., non può quindi trasformare le costrizioni meramente giuridiche in spontanei obblighi morali. Col permanere delle sanzioni burocratiche, esso avrà piuttosto la tendenza a ritrasformare in un rapporto giuridico tanto la morale socialmente tramandata quanto la nuova morale che sorge. (Anche qui, come sempre, parliamo di tendenze fondamentali, divenute tipicamente operanti, suscitate per necessità dai metodi staliniani. È ovvio che il carattere socialista dell’essere sociale dà anche prodotti diversi, opposti, sul terreno etico, estetico, ecc. Ma queste tendenze opposte tutt’al più erano tollerate. Se apparivano alla luce del sole, di solito ciò avveniva in forma partigiana semilegale).

Qui non ci proponiamo di mostrare come i comunisti cinesi siano legati al metodo staliniano e alla sua origine storica. Ci basta osservare che dopo il breve episodio dei «cento fiori» che dovevano fiorire, lo spirito del settarismo staliniano si manifesta con chiarezza crescente in tutti i documenti dei comunisti cinesi.

Il «grande balzo in avanti» fu già progettato e attuato in tutto e per tutto secondo questo modello; al suo necessario fallimento seguì solo una radicalizzazione dello stesso metodo. Non per caso la presa di posizione sulla questione centrale del nostro tempo, quella della pace e della guerra, quando non è un’aperta accettazione della guerra atomica in nome di una frase rivoluzionaria attualizzata, si ricollega al discorso tenuto da Stalin al XIX Congresso. Dopo un paio di riserve, secondo cui in date circostanze alcune singole guerre potrebbero essere evitate, segue, sostanzialmente senza riserve, l’affermazione dell’inevitabilità delle guerre mondiali, fintanto che esiste l’imperialismo. Soltanto la vittoria del socialismo sul capitalismo su scala mondiale potrebbe impedire con sicurezza le guerre mondiali. La posizione della lettera cinese supera quindi largamente Stalin, per il radicalismo della frase rivoluzionaria.

Non si può ripeterlo abbastanza: l’appello sovietico alla grande svolta avvenuta nella vita dei popoli dopo il XX Congresso, la cessazione della paura dell’illegalità, la prospettiva di evitare la morte atomica del genere umano, a lungo andare sono più efficaci delle frasi rivoluzionarie dei pur abili funzionari cinesi. Ma questo modernissimo settarismo può subire una sconfitta teorica realmente distruttiva soltanto se la teoria marxista confuta fino in fondo non solo le argomentazioni pratiche che esso ricava dalla vita, ma anche le sue premesse e i suoi metodi deduttivi.

Questo attacco risolutivo non c’è ancora stato perché l’eredità teorica di Stalin non è ancora realmente e completamente superata. Questo dissidio resterà aperto fintanto che lo sviluppo dell’economia, della filosofia, ecc., arrestato e respinto indietro da Stalin, non riprenderà realmente la sua marcia, fintanto che, pur avendo un senso chiaro e sicuro per i problemi decisivi del presente, si continuerà per esempio a «chiarire» fatti e situazioni economici attuali con citazioni vecchie di quarant’ anni, invece di condurre un’indagine spregiudicata dei tratti specifici del presente sulla base del metodo marxista-leninista depurato dalle deformazioni staliniane.

III.

I contrasti si acuiscono, praticamente, sulla questione della coesistenza.

Nel vivo sentimento di larghissimi strati dei due campi si può avvertire una chiarissima propensione per lo stato di coesistenza. Ma ad essa è sempre legata la sensazione che le conseguenze comporterebbero qualche cosa di funesto. Essa è naturalmente alimentata, nei due campi, dagli avversari estremisti della coesistenza. Così nella stampa occidentale si può leggere continuamente che le proposte sovietiche per la coesistenza non sono sincere finché i comunisti non abbiano rinunciato al loro scopo finale, all’instaurazione di un socialismo su scala mondiale. Dall’altra parte i cinesi rimproverano i dirigenti sovietici perché essi affermano di avere trovato negli uomini politici occidentali, su alcune questioni, una valutazione sanamente spregiudicata della situazione; e pertanto i dirigenti sovietici non vedono in questi dirigenti occidentali ciechi cospiratori fanatici, che preparano giorno e notte, senza tregua e con tutti i mezzi, la distruzione immediata dello Stato socialista.

La verità è che tanto il capitalismo quanto il socialismo sono sistemi economici universalistici, che per logica interna tendono a sottomettere il mondo intero al loro modo di produzione. Questo è un fatto economico elementare e ineliminabile, che deve restare sempre operante come base ultima delle relazioni reciproche. Ma se ne deve concludere – come fanno non solo comunisti settari, ma anche enragés capitalistici – che una guerra fredda, da cui alla prima occasione potrebbe scaturire la guerra calda, debba essere l’unico rapporto possibile fra i due sistemi mondiali, la cui lotta caratterizza i nostri tempi? Io credo che tutti i fatti della storia degli ultimi decenni parlino chiaramente contro simili astrazioni.

Basta pensare alla guerra comune contro Hitler. I contrasti decisivi erano operanti anche a quel tempo, emergevano più o meno chiaramente in ogni discussione sui piani militari, le prospettive di pace, ecc. Cioè: essendo stato impossibile, negli anni 1918-21, abbattere il nuovo potere sovietico con interventi armati, queste forme dirette di lotta di classe internazionale furono più volte sostituite da forme indirette (fino all’alleanza).

La novità, nella situazione attuale, è «semplicemente» che le tendenze a sospendere le forme dirette di guerra si fanno sempre più forti, i periodi di respiro, dapprima decisamente temporanei e transitori, convergono sempre più nettamente nella direzione di uno stato permanente. La guerra fredda, senza dubbio, è pur sempre la forma prevalente nei rapporti internazionali fra Stati capitalisti e socialisti; ma quanto più le circostanze oggettive tendono ad escludere lo scoppio di conflitti armati, la guerra fredda perde sempre più le sue funzioni preparatorie, diventa a poco a poco insensata, anzi nociva, e a lungo andare – solo a lungo andare, sia pure – è condannata a scomparire.

Questi mutamenti della situazione hanno un’importanza decisiva per il successo politico dei due grandi antagonisti. Ma non possono cambiare nulla nel dato di fatto sociale di fondo: la coesistenza come forma specifica della lotta di classe internazionale. Ripetiamo: tale particolarità della situazione attuale è stata prodotta da una combinazione di circostanze storico-sociali. La guerra atomica con le sue necessarie conseguenze è soltanto una – certo importantissima – componente di questa totalità concreta. Se non fosse sorta una grande potenza socialista, appoggiata da una serie di Stati socialisti, se la liberazione dei popoli ex coloniali non avesse un corso impetuoso e irresistibile, probabilmente la guerra atomica avrebbe una funzione diversa nella politica internazionale.

Ma se in questa situazione internazionale, per la tenace iniziativa della politica sovietica, interviene di fatto un periodo di pace permanente, entrambi i campi devono spostare energicamente le loro prospettive storiche.

Dato che qui c’interessa soprattutto il contrasto cino-sovietico, si deve ricordare che dalla prima e breve conquista del potere da parte del proletariato (Comune di Parigi, 1871) fino a Cuba ogni vera rivoluzione è scoppiata in seguito ad una guerra: così in Russia nel 1905 e nel 1917; così nel 1945 (nascita delle democrazie popolari nell’Europa centrale); così nel 1948 (Cina). Non sorprende affatto, dunque, che l’atteggiamento di tanti comunisti (e anche avversari dei comunisti) sia orientato verso il nesso «organico» fra guerra e rivoluzione. Quindi un merito durevole del XX Congresso è quello di avere avuto la perspicacia e il coraggio di definire in chiari termini storicamente superata questa situazione.

L’affermazione della possibilità – della semplice possibilità, sia pure – di un passaggio al socialismo senza guerra e senza guerra civile è un importante passo avanti nell’adattamento del pensiero rivoluzionario alla nuova situazione internazionale. Qui dobbiamo limitarci ad accennare ai nessi con la coesistenza. Il punto più essenziale è che la competizione pacifica in tutti i campi della vita umana, nella sua spontaneità semplice e immediata, è una gara per conquistare l’animo degli uomini: attirarli dalla parte di uno dei grandi sistemi mondiali, preparare la loro decisione, intervenire attivamente a favore dell’ordinamento sociale prescelto.

Se ciò è vero per i paesi civili, che hanno già attuato l’una o l’altra formazione economica, a maggior ragione deve essere vero per i paesi in via di sviluppo, che per lo più hanno ancora un’economia precapitalistica e che ora devono scegliere la via del loro sviluppo futuro. Qui naturalmente ha una funzione decisiva, come contenuto della coesistenza, la competizione economica.

Ma, per quanto il potenziale economico dei sistemi sociali concorrenti possa essere importante, esso non è l’unico fattore decisivo. Oggi gli Usa sono senza dubbio il paese economicamente più progredito. Ma qualsiasi osservatore dei fatti può accorgersi che il loro aiuto ai paesi in via di sviluppo è incomparabilmente maggiore di quello che sarebbe senza la competizione con I’Unione Sovietica e gli Stati socialisti. La loro semplice esistenza – anche senza tener conto degli aiuti reali che essi forniscono – è un fattore importante che induce i paesi capitalistici a compiere sforzi superiori ai propositi che avrebbero nutrito se non ci fosse stata questa concorrenza.

Ma la stessa esistenza, il crescente potenziale economico e militare degli Stati socialisti, esercita effetti anche più importanti sulla situazione. Ogni colonizzazione, e anzi ogni rapporto di dipendenza capitalistica disgrega in una certa misura l’originaria struttura sociale dei paesi dipendenti. Vengono innestate in essi certe tendenze di sviluppo – basta pensare alle monoculture di certi paesi – che spesso diventano ostacoli reali per una crescita realmente sana e organica. Il neocolonialismo dei paesi imperialistici, fattosi «puramente economico», tende ancor oggi a mantenere economicamente in piedi queste false strutture. Peggio ancora: di regola ogni dominazione coloniale si è appoggiata agli strati socialmente reazionari dei paesi del tutto o in parte sottomessi. Questa politica non è ancora cessata: basta ricordare la politica praticata dagli Usa nella Corea del Sud o nel Vietnam del Sud.

In queste condizioni l’aiuto degli Stati socialisti può essere di estrema importanza. Esso può diventare il sostegno per uno sviluppo normale verso la civiltà, fondato su giuste basi economiche e sociali; naturalmente con lo scopo finale di aprire e facilitare agli Stati liberati il cammino verso il socialismo. È evidente, qui, che per queste lotte di liberazione il settarismo cinese, la frase rivoluzionaria cinese, rappresenta un grande pericolo.

Appare altresì evidentissimo che la radicale resa dei conti teorica con le deformazioni settarie del metodo marxista comporta importanti conseguenze politiche. Forse oggi pochi pensano che il primo grande documento politico-teorico del marxismo, il Manifesto dei comunisti, impostava la questione politico-teorica delle forme di transizione attraverso le quali la Germania, allora arretrata sul terreno economico-sociale, poteva trovare la sua via particolare verso il socialismo. E pochi oggi pensano che nel 1905 Lenin, svolgendo originalmente a fondo le idee di Marx ed Engels e applicandole alle condizioni particolari della Russia, anch’essa arretrata, arrivò alla forma di transizione della «dittatura democratica degli operai e dei contadini»; e che al tempo della fondazione della Terza Internazionale egli si applicò intensamente a formulare in modo nuovo questa teoria della transizione per l’incipiente lotta di liberazione dei popoli coloniali. Con la morte di Lenin, col regime di Stalin, cessò la rielaborazione originale di questi problemi della transizione.

Questa mancanza di ricerca teorica, economica e storica, ha conseguenze molto gravi nella presente situazione internazionale. Infatti il movimento dei paesi sottosviluppati verso l’indipendenza pone una molteplicità sconfinata di problemi. Ci sono paesi in cui si deve cominciare col distruggere rapporti agrari feudali; altri con una struttura sociale anche più primitiva di una struttura feudale. L’aiuto politico reale dei marxisti dovrebbe dunque essere un’analisi concreta delle condizioni della transizione: solo partendo di qui si possono indicare le vie concrete dello sviluppo ulteriore. A poco può servire una Realpolitik meramente pragmatica, che naturalmente è stata dedotta da esperienze di paesi con strutture affatto diverse.

Perciò oggi, nei paesi arretrati e in via di liberazione, la piattaforma cinese con la frase rivoluzionaria di un socialismo di attuazione immediata può esercitare un momentaneo influsso tattico e provocare molti danni. Perciò esiste il pericolo, proprio su questa questione, che nella scelta fra la frase rivoluzionaria e una Realpolitik meramente pragmatica possa trovare eco la frase rivoluzionaria, e che i popoli dei territori in via di sviluppo, posti di fronte all’alternativa astratta fra sfruttamento coloniale e socialismo immediato, imbocchino strade sbagliate.

Proprio qui la necessità pratico-politica attuale sarebbe di condurre un’offensiva teorica contro il settarismo cino-staliniano. Ma essa presuppone assolutamente una radicale resa dei conti teorica col settarismo in quanto sistema di pensiero. Nella politica pratica l’Unione Sovietica ha riportato un successo con la sua difesa risoluta e insieme saggia di Cuba contro la possibilità di un intervento a scopo di restaurazione, e con ciò essa si è guadagnata e ha consolidato la fiducia di molti popoli. Qui la piattaforma cinese introduce teoricamente nella vita internazionale uno dei lati più funesti della prassi staliniana: l’esaltazione astrattamente dogmatica dello stato di guerra civile come unica alternativa all’opportunismo e alla capitolazione.

Oggi bisognerebbe confutare sul piano teorico l’astrattezza irrealistica di questa alternativa artificiosa e settaria, proprio per vedere con chiarezza quali problemi possano essere risolti con i metodi della guerra civile e quali soltanto con i mezzi di una lenta evoluzione.

Al tempo del comunismo di guerra e della NEP, Lenin si occupò spesso di questi problemi; i suoi metodi, i suoi risultati e i suoi impulsi potrebbero oggi, se appoggiati di volta in volta a un’analisi concreta del presente, concretamente concepito, confutare efficacemente quella alternativa astratta. Chiunque non sia del tutto accecato dalla concezione staliniana sa anzi che un fenomeno tipico delle guerre civili è che esse prendono dalle profondità delle masse e innalzano al vertice, per esempio, uomini politici o capi militari, talvolta anche di grandi qualità; ma in nessuna guerra civile operai non qualificati sono diventati d’un tratto specialisti esperti del loro ramo.

Che la frase rivoluzionaria della guerra civile ha effetti funesti nella normale scelta dei quadri della pacifica vita quotidiana, noi ungheresi lo abbiamo visto a nostre spese al tempo di Rákosi. Ma ancora oggi la frase rivoluzionaria, diventata feticcio, è ben lungi dall’appartenere al passato. Tanto più importante, dunque, qui come sempre, è la radicale resa dei conti con la frase rivoluzionaria, affinché si trovi finalmente la definizione reale, corrispondente alle nuove forme della realtà, della lotta di classe che di volta in volta necessariamente sorge: gli obiettivi e i metodi realmente rivoluzionari nella lotta su due fronti contro il vero opportunismo (qui: effettiva capitolazione di fronte al colonialismo anche nella sua forma nuova) e contro la frase rivoluzionaria.

IV.

Ma anche la competizione pacifica, puramente economica, fra paesi capitalistici e socialisti è per sua essenza molto meno puramente tecnico-economica e quindi – dal punto di vista classista – meno «pacifica» di quanto appaia immediatamente alla superficie, dove si può fare soltanto la constatazione negativa che la guerra resta esclusa dal confronto economico. Ma qui si manifesta una contraddizione importante e feconda. Ciò che qui conta – alla lunga – è soltanto la superiorità tecnica ed economica reale. Al livello attuale non solo dei rapporti reciproci, non solo dei mezzi d’informazione, ma anche della capacità di decifrare statistiche, rendiconti ecc., molto difficilmente le affermazioni puramente propagandistiche possono reggere per molto tempo. Ciò che si mette a confronto, nella competizione, è il livello di vita reale della popolazione, non le proclamazioni propagandistiche.

Se in tal modo la competizione economica annulla le assicurazioni meramente propagandistiche di ambo le parti, in pari tempo la realtà economica nel suo insieme diventa uno strumento di propaganda unitario e monumentale; ogni successo significa all’interno un rafforzamento del proprio sistema, all’esterno un aumento della sua forza d’attrazione. Questa competizione decide – in ultima istanza – chi vincerà nella lotta internazionale di classe della coesistenza.

Anche qui, senza dubbio, bisogna evitare di presumere che lo sviluppo sia troppo rettilineo. Se infatti in questo agone dei sistemi sociali la decisione dipendesse soltanto dalla superiorità tecnico-economica, la superiorità del sistema capitalistico non sarebbe mai stata messa in pericolo e anche oggi la sua egemonia sarebbe incontestata. Tuttavia ogni uomo pensante sa che non è così. Si pensi, per citare un caso estremo, gli anni venti. In Russia c’erano le carestie, e a Vienna mi è capitato di vedere più di una volta che per esempio nel pomeriggio si partecipava a un’azione per raccogliere viveri per le regioni affamate, e la sera ci si riuniva in assemblea con non-socialisti, molti dei quali propendevano apertamente a riconoscere la superiorità del sistema socialista. Se oggi fatti simili accadono più di rado, benché la distanza economica si sia molto ridotta, anche questo dipende dalle ripercussioni ideologiche internazionali del periodo staliniano.

Così l’esame della competizione economica passa inavvertitamente a quello della competizione culturale. Mi pare che il punto di passaggio sia costituito dal problema del tempo libero, la cui importanza sociale deve crescere sempre più con la progressiva limitazione del tempo di lavoro. Sebbene, a causa della trascuratezza in cui per decenni la ricerca economica indipendente è stata abbandonata, al tempo di Stalin, non si afferri con sufficiente chiarezza teorica la dinamica concreta e regolare del capitalismo odierno, sebbene ci siano ancora seguaci ortodossi delle dottrine staliniane che al posto dei fatti esattamente osservati mettono citazioni, per esempio, sull’«impoverimento assoluto», il fatto della crescente riduzione del tempo di lavoro non può essere messo in dubbio.

È noto che Marx vedeva proprio nel tempo libero la base del regno della libertà, dello «sviluppo della forza umana che si considera fine a se stesso». Sorge così, indipendentemente dalle idee e dalle decisioni dei singoli individui, una sfera sempre crescente del tempo libero, e questo processo crea uno spazio sempre più ampio per la cultura, ne aumenta il peso sociale. (Naturalmente parliamo dell’aumento del peso sociale; in questa sede non possiamo discutere questioni di valore).

Nel quadro di queste considerazioni non ci possiamo proporre neppure di tentare una contrapposizione dei due sistemi con riguardo alle questioni della cultura. Osserveremo soltanto che anche la coesistenza culturale – pur prescindendo dagli effetti negativi di un intervento da parte della costrizione statale o sociale – non è affatto pacifica; che anche qui deve essere operante il principio della lotta di classe del «chi e da chi?» leniniano.

I prodotti della cultura, in particolare quelli dell’alta cultura, hanno naturalmente particolarità speciali molto nette, che influiscono decisamente sul modo della lotta che qui si combatte, sul suo esito. Le oggettivazioni culturali di alto valore, per loro natura, pretendono l’egemonia assoluta nel loro campo e respingono rudemente tutto ciò che da esse si discosta. Goethe, che personalmente aveva un’indole pacifica, si esprimeva così su questo punto fondamentale:

«Quando sento parlare di idee liberali, mi sorprende sempre il vedere come la gente si fermi volentieri su vuote espressioni verbali; un’idea non deve essere liberale. Sia essa vigorosa, solida, per assolvere l’incarico divino di essere produttiva; ancor meno liberale deve essere il concetto, avendo un incarico affatto diverso».

Nelle opere d’arte, a un esame immediato, questo esclusivismo è forse meno chiaramente percepibile, ma nel caso di violente lotte di tendenza questa caratteristica interna si rivela anche in questo campo. Si aggiunga che la genesi di ogni opera d’arte è bensì soggetta a un condizionamento sociale, di classe, ma essa rompe queste originarie restrizioni sociali – tanto più decisamente quanto più alto è il suo valore – ed è capace di raggiungere un’efficacia universale, anche presso persone ostili per sentimenti di classe.

Quindi il disconoscere il condizionamento sociale e classista delle oggettivazioni culturali – come si fa di solito nel mondo capitalistico – è fonte di giudizi unilaterali e falsi non meno che il seguire l’opinione settaria secondo cui la genesi classista delimita strettamente ed esattamente anche l’efficacia; anzi, tale efficacia dovrebbe essere oggetto di prescrizioni istituzionali. Fra queste due concezioni estreme, che oggettivamente valgono due errori uguali, indubbiamente la seconda è più pericolosa per l’impulso di una produzione originale e progressista.

Il suo predominio, al tempo di Stalin, ha avuto un effetto paralizzante per la scienza e l’arte. Essa ha certo la sua parte di colpa nel fatto che l’influsso potente e dominatore, che negli anni venti si diffondeva dalla Russia sovietica, ancora oppressa da tanti problemi economici, più tardi perse molto di estensione e d’intensità.

Naturalmente le risoluzioni del XX e XXII Congresso hanno avuto un’influenza molto positiva anche sull’opinione pubblica dei paesi capitalistici, ma la precedente influenza sulla cultura mondiale non è stata ancora restaurata. Senza dubbio ci sono già eccezioni, come il breve romanzo di Solženitsyn sui campi di concentramento, come le ultime novelle di Tibor Déry. È da sperare che la necessità di reagire con efficacia anche culturalmente al sistema settario ora instaurato e divulgato aggressivamente dai cinesi della linea del XX e XXII Congresso, e quindi ad andare oltre questi inizi.

Qui non possiamo assumerci il compito di fare profezie, e meno che mai di quelle che con la loro pretesa preveggenza vogliono scendere ai particolari. Tocchiamo soltanto una questione di principio, e anche questa da un punto di vista puramente teorico: quella della manipolazione delle opinioni e dei comportamenti degli uomini. Nel mondo capitalistico la sua natura e i suoi effetti per lo più sono giudicati falsamente. Soprattutto si sottovaluta l’importanza della sua genesi, o anche la si trascura del tutto. Alludo all’applicazione staliniana, inammissibile, dei metodi di governo del periodo delle guerre civili al consolidamento interno ormai pacifico.

Ciò non è accaduto per caso. Tutti conoscono l’effetto terrificante che i metodi staliniani hanno provocato in tutti coloro che avevano simpatia per il socialismo, e anche su molti che erano comunisti convinti. In tali circostanze era molto vantaggioso per l’ideologia borghese, dal punto di vista della lotta di classe, l’identificare i metodi di Stalin con Lenin o addirittura col marxismo in generale, il presentare i peggiori eccessi del regime staliniano come conseguenze necessarie della concezione di Marx e di Engels.

Il fatto che questa opinione sia del tutto falsa, il fatto che i classici del marxismo abbiano sempre considerato la guerra civile come un momento di transizione, talvolta assolutamente necessaria, ma sempre come mero momento di transizione, tutto ciò infirma poco l’efficacia di quella propaganda fintanto che il mondo socialista offre pretesti per sostenere che i metodi staliniani non possono essere ancora considerati come del tutto appartenenti al passato. Lo scontro col settarismo cino-stalinista offre la più splendida possibilità (e la più urgente necessità) di arrivare a una radicale resa dei conti in questo campo.

In tal modo l’avanzata ideologia del marxismo riacquista ampie prospettive teoriche e pratiche; allora si vede, infatti, che le dure forme della manipolazione nel rivolgimento socialista, preso nel suo complesso, rappresentano un corpo estraneo che ha potuto acquistare l’apparenza di una parte integrante solo a causa dell’immissibile generalizzazione staliniana dei metodi della guerra civile, trasformati in una condizione permanente.

In quest’opera di depurazione si presentano senza dubbio problemi difficili da risolvere a breve scadenza, e senza dubbio in molti casi non è facile seguire la via dalla brutale manipolazione staliniana fino alla democrazia proletaria voluta da Lenin; ma seri tentativi in questo senso possono già bastare per far apparire il tipo di manipolazione staliniana come un elemento estraneo che può e deve essere rimosso dall’edificazione socialista.

La manipolazione blanda, formalmente non violenta del sistema capitalistico ha invece la sua base nella sostanza economica del sistema stesso. Dato che il capitalismo ha afferrato totalmente i settori del consumo e dei servizi e li ha trasformati in grande industria e in produzione di massa, per esso la manipolazione della massa dei compratori è diventata una necessità economica. I fatti di questa determinatezza economica non mutano, a dispetto di altre interpretazioni affatto diverse e molto «più profonde». Queste non sono vere spiegazioni; come quando, per esempio, il famoso libro di D. Riesman, La folla solitaria, descrive l’essenza di questa manipolazione sostenendo che essa trasforma tipi «inner directed» in tipi «outward directed». Ogni esatta descrizione della normale vita quotidiana negli Usa – come ideale e modello per il mondo capitalistico – rivela la sopra accennata struttura economica di questa manipolazione.

Naturalmente la manipolazione non resta limitata alla vendita delle merci. Essa diventa anche il modello per il modo di esercitare l’influenza politico-sociale e culturale sulle masse. Anzi, è interessante osservare come le correnti politiche borghesi decisive, che all’inizio dell’«epoca della massa» – cioè dell’antagonismo svelato fra visione borghese del mondo e democrazia – erano state prese da uno scetticismo rassegnato (evidente per esempio in Stuart Mill), al sorgere di questi nuovi metodi di manipolazione della massa abbiano riconosciuto subito le grandi possibilità offerte dal loro impiego.

La struttura onnicomprensiva di questo sistema di manipolazione è nota a tutti e non occorre descriverla. Esso non solo si estende quantitativamente, ma non cessa neppure mai di raffinarsi. (Per esempio le organizzazioni di vendita di articoli di massa fanno studiare scientificamente da specialisti i motivi psicologici che inducono all’acquisto, per incrementare la voglia di comprare mediante manipolazioni psicologiche non direttamente percepibili, ma praticamente tanto più efficaci).

Così la manipolazione diventa in pari tempo sempre più blanda e più efficace, sempre più universale. Ciò, peraltro, solo quando essa funziona normalmente e senza attriti; le resistenze sociali sono schiacciate con ingenua naturalezza. Un grande merito di Sinclair Lewis è di averci rappresentato artisticamente, a un livello relativamente più primitivo di questo sviluppo, il passaggio insensibile dalla manipolazione sottile, funzionante senza consapevolezza, a una repressione brutale, più o meno aperta, della resistenza in molti settori della vita. Il vero fenomeno, infatti, può essere definito adeguatamente solo come un movimento incessante fra questi poli.

Poiché con ogni probabilità il tempo libero acquisterà sempre più importanza, per necessità economica, come campo della battaglia fra la razionalità e l’assurdità della vita umana, era necessario cercare di definire in breve, secondo la loro natura economica, le forze che qui esercitano un’azione decisiva. Il presente articolo non era certo la sede adatta per approfondire tutto l’insieme di questi problemi. Ma i cenni sporadici che abbiamo dato erano necessari per additare nel campo del tempo libero – terreno internazionale della competizione internazionale fra i due grandi sistemi sociali – l’importanza della lotta risoluta contro il settarismo cino-stalinista. La forza d’attrazione internazionale del socialismo, veicolo della sua vittoria nella lotta di classe internazionale della coesistenza pacifica, dipende largamente dal radicalismo con cui esso farà i conti col settarismo del passato e del presente.

Di Lukács e di altro

di Antonello Trombadori

«L’Unità», 2 gennaio 1957

Il signor Giovanni Russo, corrispondente romano del Corriere della Sera, ha dato una singolare risposta a Franco Fortini e a tutti coloro che, nelle ultimo due settimane, hanno voluto isolare con particolare risalto dalla tragedia ungherese le personali vicende di Giorgio Lukács. Scrive il signor Russo nel numero di dicembre della rivista Nord e Sud: «Fu Lukács a consigliare Nagy di denunciare il patto di Varsavia e di fare appello all’intervento occidentale». Non sappiamo dove il corrispondente del quotidiano milanese abbia attinto la notizia, né se egli l’abbia coniata di sana pianta nell’intento di calunniare Lukács o nel proposito, non dissimile, di esaltare in lui un tardivo seguace della «scelta della libertà». Se di premeditata calunnia si tratta ai danni del filosofo ungherese, vorremmo tuttavia conoscere che cosa ne pensano Franco Fortini e i suoi più o meno autorevoli imitatori (vedi sull’ultimo numero del Punto anche le lettere dei f.lli Bertelli). Essi saranno di certo, quanto noi, sprovvisti dell’informazione necessaria ma in questi casi più della stessa informazione vale l’ipotesi e l’apprezzamento che se ne deriva. La domanda potrebbe esser questa: è una calunnia o un titolo d’onore qualificare Lukács come promotore di così catastrofiche misure di governo nei giorni della sommossa della disgregazione e del caos?

Uno dei f.lli Bertelli risponde già sua sponte. Egli non fa distinzioni tra Lukács, Nagy e tutti gli altri membri dell’ex governo ungherese che oggi si trovano, a quanto ufficialmente consta, in Transilvania. Sul filo della logica non vi sarebbe, dunque, stato, a suo avviso, un solo momento lungo tutto il corso della tragedia ungherese nel quale le sorti indivisibili della pace e del socialismo abbiano seriamente rischiato d’esser compromesse. Il governo Nagy cedeva alla tracotanza del cardinale. Finalmente un gesto non «settario» verso la gerarchia! Il governo Nagy si lasciava ad ora ad ora sopraffare dagli avventurieri tipo Dudasz? Finalmente un non «settario» riconoscimento delle tradizioni militari della nazione magiara! Il governo Nagy tentennava davanti alle rivendicazioni dei latifondisti sulle terre espropriate? Finalmente una coraggiosa ammissione dei diritti della «produttività»! Il governo Nagy non riusciva a comporre nel quadro della legalità socialista le impetuose e disordinate pressioni delle più contrastanti velleità politiche e ad esso indulgeva con irrealizzabili promesse? Finalmente il libero gioco dei partiti e delle opinioni! Il governo Nagy indicava nell’esercito che un tempo aveva liberato Budapest dai nazisti e dai vilasz il nemico numero uno dell’indipendenza ungherese? Finalmente una critica aperta e leale nei rapporti tra Stati socialisti! Il governo Nagy faceva appello all’intervento occidentale? Finalmente un costruttivo e spregiudicato colloquio col mondo capitalista!

È questa la base di un ragionamento che, come si è detto, ha una sua logica. Questa logica però, se si vuol condurre a fondo e lealmente il dibattito, non deve essere occultata. È la logica di coloro che, per dirla coi comunisti cinesi, «quando l’Ungheria si trovava a fronteggiare la sua crisi, non solo non hanno sollevato la questione di realizzare una dittatura proletaria, ma si sono pronunciati contro i giusti passi compiuti dall’Unione Sovietica per aiutare le forze socialiste in Ungheria. Si sono fatti avanti a chiedere che il governo rivoluzionario operaio e contadino estendesse la democrazia ai controrivoluzionari». È la logica di coloro che, per dirla ancora coi comunisti cinesi, «negano che vi sia una linea di demarcazione tra la dittatura del proletariato e la dittatura della borghesia, tra il sistema socialista e il sistema capitalista, tra il campo socialista e il campo imperialista. Secondo costoro un capitalismo di stato in certi paesi borghesi è già di per se stesso socialismo e perfino la società umana, nel suo complesso, è già maturata nel senso del socialismo». Ed è anche la logica di coloro che, proprio a differenza di quanto comprese Giorgio Lukács fin dal 1919, non hanno mai meditato su una considerazione che dieci anni dopo Bela Kun premetteva a un suo breve saggio sul terrore bianco in Ungheria: «Lo scatenamento della controrivoluzione che ha seguito la rivoluzione proletaria ungherese è una evidente conferma della tesi di Engels, che nel periodo della rivoluzione proletaria tutte le forze della controrivoluzione si raggruppano attorno parola d’ordine della pura democrazia. La socialdemocrazia rappresentò la pura democrazia al tempo della dittatura del proletariato in Ungheria».

Se si ha il coraggio di guardare le cose come stanno e di porre la questione in questi termini, se si ha il coraggio, cioè, di riconoscere che da posizioni simili è inevitabile scivolare fino alla vergognosa (vergognosa in particolare per un uomo di scienza) tesi di Fianco Venturi secondo cui sarebbe finalmente iniziato il periodo dell’accerchiamento socialista dell’URSS (guidato dal Patto Atlantico, dagli azionisti della General Motors e dalla «solidarietà occidentale» – n.d.r.), tutta la nostra contesa con coloro ai quali si è fatto cenno all’inizio può prendere la giusta dimensione, uscire dall’equivoco e svilupparsi sul terreno della chiarezza. Ma perché ciò sia possibile è necessario che tutti i nostri contraddittori accettino fino in fondo le proprie responsabilità. Infatti delle due l’una: o Fortini e i suoi imitatori intendono convenire sul fatto che il governo Nagy fu travolto ad un tempo dalla sua incertezza, dal suo miracolismo democratico e dalla sua pretesa equidistanza dal campo socialista e dal campo imperialista, ammettendo, di conseguenza, che quando quel governo si scisse la ragione fu dalla parte dei Kádár e dei Marosán (la ragione rivoluzionaria) e il torto dalla parte di coloro che optarono per il rifugio nell’ambasciata jugoslava: ovvero Fortini e i suoi imitatori non possono evitare di porsi sul terreno di coloro che se non plaudirono, tollerarono le parole del cardinale quando la radio Budapest, nei giorni in cui si trattava di correggere e di denunciare gli errori compiuti ai danni del socialismo da Rákosi e da Geroe, preferiva lanciare la parola d’ordine della liquidazione del socialismo al cospetto della democratica impotenza di chi, in buona o mala fede, aveva lasciato scatenarsi senza freno le forze mescolate del caos dell’anarchia, della restaurazione e della disperazione popolare.

Alla luce di una delle due scelte non può non essere posta anche la particolare vicenda di Giorgio Lukács. Essa, lo ripetiamo, non deve servire di pretesto a chicchessia: sarebbe infatti grave slealtà tentar di contrabbandare, sotto il velo del disappunto e del dolore che in ogni marxista derivano dal non sapere oggi un uomo come Lukács al fianco del governo ungherese, ben più complesse o inconfessabili operazioni politiche.

Chi oggi rivendica solidarietà per Giorgio Lukács, volendo fare di lui una bandiera della controrivoluzione e della liquidazione del socialismo, dovrebbe più dignitosamente e utilmente ceder la penna ai propagandisti del monopolio, della curia e della socialdemocrazia di destra. Eviterà di barare al gioco.

Chi voglia invece porsi il problema della penosa sorte toccata a Giorgio Lukács dopo la sua uscita dall’ambasciata jugoslava, conservando intatta la speranza di non veder sporcato l’illustre scrittore dalle calunnie del signor Russo e di poterlo rivedere, con rinnovato slancio, a fianco di coloro che in Ungheria portano oggi la duplice croce degli errori di Rákosi e degli errori di Nagy, dovrebbe, come noi abbiamo fatto, giudicare l’operato politico di Lukács nel contesto stesso degli avvenimenti ungheresi, delle loro implicazioni internazionali e delle responsabilità che su ciascuno degli uomini di governo ricaddero fin dal momento delle estreme decisioni di Kádár e dei fondatori del nuovo partito socialista degli operai ungheresi. Anche la condotta di Lukács non deve sfuggire alla severità della critica politica che di qui discende. Rimane tuttavia un quesito: fin dove si spinse in questi giorni confusi e drammatici l’iniziativa di Lukács, fin dove giunsero le sue personali responsabilità? Noi ci rifiutiamo di credere che egli cadde nell’intrigo degli «appelli» calunniosamente attribuitigli dal signor Giovanni Russo. Resta il fatto comunque che da quegli appelli egli non dissentì o non poté apertamente dissentire. Ma anche se così stanno le cose fino a qual punto deve essere spinto il giudizio politico, la critica anche severa verso Lukács, in primo luogo da parte dei suoi compagni, dei comunisti? È quanto vorremmo conoscere da coloro che soli possono fornire l’esatta versione dei fatti: le autorità governative ungheresi, i dirigenti del partito socialista degli operai ungheresi, le autorità sovietiche che diressero l’intervento risolutivo nei giorni in cui l’esistenza stessa dello Stato popolare fu sul punto d’esser travolta.

È solo in base a queste premesse (e solo in base alle informazioni che da nessun altro intendiamo accogliere) che un particolare giudizio sulle conseguenze politiche condivise da Lukács col governo Nagy, potrà essere formulato. Al di fuori delle calunnioso provocazioni, nel quadro sereno ma fermo della critica politica.

È giusto per intanto ricordare a Fortini, ai suoi imitatori, nonché a quei professori e letterati che soltanto sei mesi fa finsero, per paura di compromettersi, di non accorgersi d’un viaggio di Lukács a Roma, a Milano e a Firenze, che qualunque potrà essere il definitivo giudizio dei militanti marxisti sulle responsabilità politiche di Giorgio Lukács, un fatto è certo fin d’ora: che il pensiero del filosofo ungherese nelle questioni dell’arte e della letteratura non potrà mai, per sua stessa natura, diventare sostegno di operazioni revisionistiche del marxismo-leninismo. Accadde anche a Kautsky e a Plechanof di cadere nell’errore politico: ciò non ha mutato il giudizio dei marxisti su quel che di marxista v’è nel loro pensiero. È questa un’affermazione che, al di sopra d’ogni sospetto, possiamo a voce alta proclamare proprio noi comunisti italiani che della tragedia ungherese abbiamo indicato le origini, in primis et ante omnia, negli inammissibili errori commessi ai danni del socialismo da Rákosi, da Geroe e dai loro fallimentari seguaci. Noi che a quei danni intendiamo riparare rinsaldando le fila della direzione operaia, accrescendo la consapevolezza democratica delle masse e percorrendo, in questo spirito, la via della rivoluzione italiana.

Giorgio Lukács è tornato in Ungheria

«L’Unità», 11 aprile 1957

Budapest – 10 aprile

L’agenzia MTI ha annunciato questa sera che il filosofo Giorgio Lukács è rientrato in Ungheria.
Precedentemente la stessa fonte aveva comunicato che egli aveva chiesto per lettera che gli fosse consentito di rimpatriare, e aveva ricevuto risposta positiva.

L’Ungheria ha festeggiato la liberazione

di Sergio Segre

«L’Unità», 5 aprile 1957


Un messaggio di amicizia e solidarietà del governo polacco. Imminente ritorno di Lukács

János Kádár e gli altri dirigenti del governo e dello Stato hanno deposto stamane, in­sieme ai membri del corpo diplomatico, delle corone di fiori davanti al monumento ai caduti sovietici e all’altare del Milite Ignoto un­gherese, nel dodicesimo an­niversario della Liberazio­ne. In serata il primo mini­stro ha offerto ai parlamen­tari un grande ricevimen­to. Ieri sera, l’anniversario del 4 aprile era stato cele­brato all’Opera di Stato dal ministro György Marosán, il quale aveva rilevato che «i dodici anni di democrazia popolare hanno dato al po­polo ungherese, malgrado tutti gli errori, molto di più di quanto sia stato dato da tutti i secoli precedenti».

Dopo aver ricordato le tappe segnate dalla riforma agraria e dalla industrializ­zazione del paese, Marosán ha reso noto che l’abolizio­ne del sistema delle conse­gne obbligatorie, attuato dal governo Kádár, comporta per i contadini un maggior reddito annuo di quattro miliardi e mezzo di fiorini.

Marosán si è poi intratte­nuto a lungo sugli avveni­menti di ottobre e di novem­bre, rilevando che «senza l’aiuto delle truppe sovieti­che l’Ungheria sarebbe stata travolta dal terrore bianco e da una lunga e terribile guerra civile», ed ha con­fermato l’intenzione del Par­tito di democratizzare la vi­ta del paese, inserendo pra­ticamente il maggior nume­ro possibile di lavoratori nella elaborazione della li­nea politica e nella direzio­ne effettiva della vita del paese.

In occasione del 4 aprile, Budapest ha offerto un qua­dro di assoluta normalità. Le pattuglie di polizia che si po­tevano vedere sulle strade ancora alcune settimane fa, sono quasi completamente scomparse. Per tutta la gior­nata, favorita da un caldo quasi estivo, gli abitanti del­la capitale si sono concessi una «pasquetta» anticipata sulle rive del Danubio.

Fra i messaggi di auguri ricevuti dal governo Kádár, particolare menzione merita un telegramma del governo polacco, in cui si esprimo­no ai dirigenti dello Stato ungherese «le più cordiali congratulazioni e gli auguri di successo nell’edificazione del socialismo e nel raffor­zamento della Repubblica popolare». È stato anche molto favorevolmente com­mentato a Budapest, l’odier­no articolo di fondo dell’or­gano del Partito operaio po­lacco Trybuna Ludu, il qua­le afferma che la creazione, da parte di Kádár, di un go­verno rivoluzionario degli operai e dei contadini «ha rappresentato la sola giusta soluzione».

Vivo interesse ha suscitato la notizia, data ieri personalmente da Kádár, che il famoso filosofo e scrittore marxista Giorgio Lukács ritornerà probabilmente a Budapest.

Nagy e il filosofo Lukács si trovano nei Carpazi.

di Orfeo Vangelista

«L’Unità», 2 dicembre 1956

Nagy e il filosofo Lukács si trovano nei Carpazi. Si precisano i compiti dei Consigli operai

Il Primo ministro Kádár visita le miniere di Tatabanya – Un’intervista con il segretario dei Sindacati ungheresi


 

A Tatabánya, centro minerario a una sessantina di chilometri dalla Capitale ungherese, il primo ministro János Kádár si è incontrato con i rappresentanti dei consigli operai dei minatori.

Tatabánya è una piccola città interamente velata dalla patina scura del carbone. I volti depli uomini recano le tracce del lavoro in miniera: volti duri, permeati dalla polvere sottile dei pozzi. Dopo i moti delle scorse settimane, a Tatabánya è tornata la calma, ma nelle miniere il lavoro viene ripreso con lentezza: la recente paralisi produttiva ha provocato l’allagamento dei pozzi, alcune gallerie e impianti hanno sofferto dello lunga stasi.

Più difficile che altrove si è dunque rivelata la situazione dei bacini minerari, proprio nel momento in cui la ripresa della produzione industriale è subordinata alle forniture di carbone e di materie prime.

Il primo ministro Kádár ha illustrato ai minatori di Tatabánya gli aspetti critici dell’attuale situazione e le cause che l’hanno determinata, sottolineando la necessità di approfondire l’opera chiarificatrice fra le masse lavoratrici, di svolgere una più intelligente attività educativa e orientatrice.

Dal canto loro, i rappresentanti dei consigli hanno parlato con estrema franchezza, esprimendo l’esigenza di un rinnovamento democratico negli apparati amministrativi mediante la gestione autonoma e diretta dei Consigli operai nelle miniere.

In questa occasione, Kádár ha nuovamente ribadito la funzione di direzione economica spettante ai consigli operai.

Su questi ultimi e i loro problemi, ci ha concesso stamane una breve intervista il presidente del Consiglio centrale dei sindacati ungheresi. Sándor Gáspár. «I Consigli operai – ci ha detto Gáspár – sono organi autonomi di direzione della fabbrica, attraverso i quali si realizza la direzione operaia dell’azienda. Essi sono autorizzati a svolgere tutti i compiti relativi alla vita dell’azienda: sistemi di pagamento, piano economico della fabbrica, ripartizione degli utili in base alla quota fissata dagli organi dello Stato, sfruttamento della «capacità libera» della azienda, cioè della parte estranea al completamento del piano, col relativo acquisto delle materie prime e, naturalmente, vendita indipendente dei prodotti.

«Ciò spiepa le caratteristiche principali dei Consigli: essi non sono organi per la difesa degli interessi dei lavoratori, né organi politici, ma di direzione economica.

«Già sono iniziate – ha proseguito Gáspár – le consultazioni per la creazione di organi superiori in ogni settore industriale, simili alle Camere dell’industria. Successivamente, quando la situazione lo permetterà, potrà essere eletto – non su base territoriale – un Consiglio nazionale dei produttori, avente funzioni analoghe a quelle della Camera bassa del Parlamento. Codesti orientamenti sono già largamente condivisi dagli attuali Consigli operai e anche da una parte dei membri del Consiglio centrale provvisorio di Budapest.

«Naturalmente, ciò non vuol dire che in seno agli stessi Consigli provvisori, soprattutto a quelli sorti affrettatamente e su una base scarsamente o per niente rappresentativa, non esistano tendenze ostili a questo orientamento. L’azione chiarificatrice richiederà sicuramente molto tempo, ma è fin d’ora certo che riuscirà ad affermarsi la corrente sorretta dal crescente appoggio delle masse lavoratrici: quella che si ispira ai principi della direzione economica dell’azienda e non a programmi o punti politici di derivazione antidemocratica».

«Quali sono le relazioni – abbiamo chiesto a Gáspár – tra i Consigli operai e i sindacati?»

Gáspár ci ha ricordato l’azione svolta dai sindacati, all’indomani del 23 ottobre scorso, favorevole alla istituzione dei Consigli operai. Furono i sindacati a farsi promotori, sul piano nazionale, di codesta iniziativa. «Oggi – precisa Gáspár – i sindacati appoggiano i Consigli operai. Nella settimana prossima apriremo un corso di studio per presidenti e membri di Consigli, dove verranno approfondite ricerche ed elaborazioni teoriche strettamente pertinenti all’attività e alle nuove esperienze degli organi aziendali. L’obiettivo è di formare presidenti di Consiglio capaci di dirigere una fabbrica».

«Per quale ragione – domandiamo ancora a Gáspár – l’attuale Consiglio centrale provvisorio di Budapest continua a porre al governo questioni e rivendicazioni di carattere politico?»

«Ho già accennato prima alla esistenza di tendenze diverse in seno ai Consigli – ha risposto Gáspár – Lo stesso fatto si verifica evidentemente in seno al Consiglio di Budapest: da una parte vi sono coloro che desiderano collaborare con noi per la ripresa del lavoro, secondo una giusta interpretazione dei compiti e delle finalità proprie di codesti organi, dall’altra si manifestano ancora insofferenze e resistenze di ordine politico, estranee agli interessi immediati del Paese e delle masse lavoratrici».

«E gli operai che ne pensano?»

«La nostra è una situazione di lotta – risponde francamente Gáspár – Nelle maggiori industrie di Budapest, alla Csepel, alla Muvag, alla Ganz, i consigli operai, negli ultimi giorni, meglio orientati da un più attivo intervento delle maestranze, sono sostanzialmente d’accordo con l’impostazione dei sindacati. Sarebbe tuttavia ingenuo pensare che non esistano larghe zone ancora turbate, sconvolte dai recenti avvenimenti. Una settimana fa, quando vi è stata la minaccia dello sciopero di 48 ore la Csepel già assumeva una posizione contraria alla sospensione del lavoro. Oggi la situazione è ulteriormente migliorata».

Le dichiarazioni di Sándor Gáspár, un ex operaio metalmeccanico di 39 anni, eletto lo scorso anno presidente del Consiglio centrale dei sindacati ungheresi, tracciano un profilo esatto della situazione dei Consigli operai, una situazione in lento sviluppo, nella fase iniziale del rinnovamento democratico.

A Budapest frattanto proseguono i lavori di ricostruzione, soprattutto nei quartieri centrali. Accanto a questi sintomi di distensione, bisogna però segnalare episodi di disordine che riaffiorano di tanto in tanto. Gli elementi più irriducibili della controrivoluzione cercano di riaccendere il [illeggibile] col lancio di manifestini ciclostilati annuncianti nuovi scioperi. Non è difficile creare apprensioni e timori in mezzo a gente così turbata dai tragici moti delle scorse settimane: di ciò approfittano i provocatori ed il cammino verso la quiete e la rinascita diviene più lento e difficile. Stasera la radio ha trasmesso un comunicato del Consiglio operaio di Budapest nel quale si attaccano coloro che diffondono manifestini falsi invitanti a scioperi.

Oggi, intanto, abbiamo appreso che l’ex presidente del Consiglio, accompagnato da alcuni suoi amici, tra cui lo scrittore e filosofo Lukács, si troverebbe in una località ai piedi dei Carpazi, nella Transilvania romena, a Sinaia, una ben nota stazione di riposo. Si crede che l’ex primo ministro e i suoi collaboratori siano sistemati in una o più ville della lussuosa stazione climatica, un tempo preferita dai reali di Romania. Un’altra indiscrezione ci ha oggi confermato l’ubicazione della cittadina romena dove attualmente soggiornano Nagy e il suo gruppo. Un collaboratore dell’ex primo ministro avrebbe telefonato ieri direttamente ai suoi parenti a Budapest per informarli della sua ottima sistemazione, del suo buon umore e del tempo magnifico dei Carpazi.