Chi conosce Lukács?

di Alberto Arbasino

«Corriere d’informazione», 19-20 febbraio 1970


Il professor George Steiner, eccellente critico attivo soprattutto in Inghilterra, ma con molti contatti anche in Francia e negli Stati Uniti, da gran tempo è amico e studioso di György Lukács; ma non cessa di stupirsi per la superficialità e il pressappochismo di quasi tutti i recensori occidentali (e specialmente anglosassoni) del celebre filosofo ungherese. Dunque ha deciso dl castigarli, in un lungo articolo sul Statesman e alcune note sull’Observerer.

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Il Mandarino meraviglioso contro l’alienazione

di György Lukács

«Rinascita-Il Contemporaneo», n. 37, 18 settembre 1970


A venticinque anni dalla morte di Béla Bartók

La rivista letteraria ungherese Nagyvilág reca nel suo numero dell’agosto scorso il bellissimo saggio di György Lukács per il 25° anniversario della morte di Béla Bartók, che qui riproduciamo nella traduzione di Marinka Dallas. A 85 anni di età, l’insigne filosofo comunista continua la sua straordinaria attività di riflessione sulla storia, la cultura, le lotte del movimento operaio in questo secolo. La rievocazione di Bartók gli offre qui l’occasione per una rimeditazione su tutte le vicende della sua patria da cent’anni a questa parte e sul suo peso culturale nel mondo.

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Il dialogo nella corrente

di György Lukács

da Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2019.

L’intervista è stata raccolta e pubblicata da Béla Hegyi in A dialógus sodrában (Il dialogo nella corrente), Budapest, Magvető Kiadó, 1978. È stata tenuta nel 1970.


Fu György Lukács a lanciare l’idea del dialogo. In una conferenza tenuta durante l’estate del 1956, egli richiamò l’attenzione sul fatto che «qualche rilevante teologo non desidera ignorare ancora a lungo il marxismo come una variazione del materialismo volgare, ma sente la necessità di un serio dibattito centrato sui suoi problemi. L’“attitudine conciliatrice” del cattolicesimo offre un’opportunità per entrare in contatto, per far partire un dialogo o un dibattito che cinque o dieci anni fa sembrava impensabile».

Lukács non solo fece pressione per il dialogo, ma egli stesso fu attivamente coinvolto in esso. Egli era aperto alla discussione da ogni lato. Sebbene non si stancasse mai nell’argomentare le sue posizioni, rispettò sempre le opinioni delle altre parti, in particolare quando queste convinzioni erano fondate in una fede vissuta e in un orientamento intellettuale e non coinvolgevano una flagrante contraddizione tra fede e azione.

Oggi, a 85 anni, egli è l’uomo più famoso in Ungheria. Per chiunque – marxista e non marxista, credente o non credente – è appassionante ascoltare le sue concezioni.

All’inizio della nostra conversazione egli mi ricorda: «Non do interviste, ma lei può prendere nota».

Più tardi ammorbidisce la sua attitudine: «Non mi importa se pubblicate tutto, a patto che non sia sotto forma di intervista. Durante il mese scorso, così tanti giornalisti sono venuti a vedermi che ne ho avuto abbastanza di loro. Dopo tutto, non sono una stella del cinema, né sono un Nixon che ha risposte stereotipate per tutte le domande, cioè un “immagine”. Sono uno scrittore, risolva questo problema …» Continua a leggere

Su Lenin e il contenuto attuale del concetto di rivoluzione (Intervista)

György Lukács

L’intervista televisiva su Lenin fu concessa al regista András Kovács nell’ottobre 1969. Nata da una precedente idea di «girare» un reportage sulla vita di Lukács, a cui quest’ultimo si era rifiutato per non dover apparire sugli schermi televisivi «come una star», l’intervista venne accettata da Lukács quando assunse la forma di un intervento sulla figura di Lenin e sul contenuto attuale del concetto di rivoluzione. La registrazione venne eseguita il 2 ottobre 1969 nella casa di riposo di Jávorkurt e durò due ore e mezzo. Il testo qui tradotto è quello pubblicato sulle riviste ungheresi Uj Iras, 1971, n. 8 (prima parte) e Kritika, 1972, n. 5 (seconda parte).
Originariamente apparso in italiano in L’uomo e la rivoluzione, Editori Riuniti, Roma 1973, ora Edizioni Punto Rosso, Milano 2013.


Ha avuto un contatto personale con Lenin?

Ebbi con lui un solo contatto personale, in occasione del III Congresso dell’Internazionale, in cui ero delegato del partito ungherese e come tale fui presentato a Lenin. Non bisogna dimenticare che il 1921 fu un anno di aspra lotta da parte di Lenin contro le correnti settarie che stavano sviluppandosi nel Comintern. E poiché io appartenevo allora alla frazione settaria – non la si può chiamare frazione, chiamiamola «gruppo» – Lenin aveva verso di me un atteggiamento di ripulsa, come l’aveva in genere verso la massa dei settari. Non mi viene infatti nemmeno in mente di paragonare la mia persona a quella di un Bordiga, che rappresentava il settarismo nel grande partito italiano, oppure al gruppo Ruth Fischer-Maslow, che rappresentavano il partito tedesco. Lenin, naturalmente, non attribuiva altrettanta importanza a un funzionario del partito illegale ungherese. Continua a leggere

Poesia di partito

di György Lukács

[Pártköltészet (1945). Traduzione di Fausto Codino. Pubblicato in Irodalom és demokrácia, 2a edizione corretta, Budapest 1948, pp. 111-33; traduzione italiana in G. L., Marxismo e politica culturale, Einaudi, Torino 1968]


Nelle considerazioni che seguono non ci occupiamo espressamente del solo Attila József. Cercheremo, più in generale, di delineare con chiarezza un problema assai attuale che oggi è considerato da molti, dentro il partito e fuori, estremamente spinoso: il problema della poesia di partito. Non è un caso che ne discutiamo proprio qui e adesso. Dobbiamo affrontarlo ora proprio per aver modo di esporre le nostre diverse tendenze letterarie, e non per venire magari a un compromesso. Il momento non è scelto a caso. La personalità e la poesia di Attila József ci pongono problemi attuali. Se non ci occupassimo di Attila József non potremmo capire il rapporto tra partito e poesia; né potremmo giudicare nel suo valore la poesia di Attila József se non definissimo seriamente la natura della poesia di partito.

I.

L’opinione pubblica, almeno in ampi settori, crede di scorgere qui un dilemma. Da un lato starebbe la poesia di partito, dall’altro la poesia «pura», che si ritira in una torre d’avorio. Questo falso dilemma ha una storia più che secolare. Circa un secolo fa Freiligrath, non ancora rivoluzionario, aveva proclamato: «Il poeta si trova in un osservatorio più alto dei torrioni del partito». Herwegh controbatteva proclamando con passione il diritto all’esistenza della poesia di partito. E la «Rheinische Zeitung», diretta dal giovane Marx «che pure a quel tempo non era ancora socialista, ma democratico rivoluzionario «prese posizione decisa a favore di Herwegh.

La falsità del dilemma appare nella forma più chiara, istruttiva e comprensibile, come appare spesso nella prassi, se lo prendiamo sotto un aspetto caricaturale. Comincerò da un caso al quale io stesso ho assistito. Circa quindici anni fa il noto poeta comunista Erich Weinert si presentò disperato all’associazione degli scrittori proletari rivoluzionari tedeschi. La causa della sua disperazione era piuttosto tragicomica. Un’associazione operaia, un sindacato, se ricordo bene, gli aveva chiesto di scrivere un inno. La melodia era già composta e il testo doveva comprendere diciotto versi. Ma l’organizzazione, nella sua richiesta, aveva posto la condizione che nei diciotto versi fossero inserite ventidue parole d’ordine. L’esperto Weinert risolse il compito a gran fatica. Ma quando il testo fu pronto, l’organizzazione gli chiese d’introdurvi altre due parole d’ordine, che intanto erano diventate necessarie. In queste circostanze, Weinert si presentò disperato al nostro gruppo…

L’altro lato del falso dilemma si presenta in verità come segue: nel numero di novembre di «Magyarok» [Ungheria] István Vas discute l’opinione secondo cui «oggi, dopo che la vita ha compiuto una conversione di 180 gradi rispetto alla situazione di un anno fa, nessuna persona spassionata può continuare dal punto in cui era rimasta». Egli dice che questa è l’opinione di un dirigente politico, fatta propria da un nostro buon poeta. L’autore dell’articolo sostiene invece questo punto di vista: «Noi non abbiamo né motivo né voglia di continuare da un punto di vista diverso da quello da cui abbiamo cominciato». L’autore aveva precisato anche chi fossero questi «noi»: «Noi che siamo andati avanti sotto lo stimolo di Kosztolányi e Babits…»

L’autore è dunque fermamente convinto che né Babits, Kosztolányi, né i loro scolari debbano imparare qualche cosa dall’oppressione fascista, dalla distruzione dell’Ungheria, dalla liberazione e dalla ricostruzione. Budapest è ridotta in macerie, ma la torre d’avorio resta intatta al vecchio posto. Questa è senza dubbio una manifestazione caricaturale dell’altro estremo. Nelle descrizioni di guerra si legge spesso che dappertutto sibilavano e grandinavano i proiettili, ma la coccinella continuava tranquilla la sua passeggiata sul prato. D’altronde la coccinella lo fa senza la pretesa di voler pronunciare neppure un giudizio superficiale sulla guerra e sulla situazione postbellica.

Le due caricature sono esempi viventi di una problematica sbagliata. Il carattere caricaturale del caso Weinert è evidente. Naturalmente anche il secondo caso è una caricatura della realtà, che essa ha creato per certe necessità. Non si può fare propaganda di massa senza sintesi pregnanti e appariscenti: i manifesti e le poesie servono a questo scopo. Questi metodi per influenzare le masse non sono stati inventati dal partito, ma dalla grande industria capitalistica che produce articoli per il fabbisogno di massa. Ma, poiché questi metodi esistevano, nelle condizioni sociali date nessun partito poteva lasciarli inutilizzati.

La pregnanza efficace di un manifesto o di un verso di propaganda spesso non coincide che casualmente con l’autentico valore pittorico o poetico. Se fanno fermare i passanti per la strada, se impongono loro l’intento della propaganda, essi adempiono appieno la loro funzione, indipendentemente dalla presenza o dalla mancanza di un valore artistico «casuale». Se è poco probabile che i due valori coincidano, ciò è dovuto alla determinazione prosaicamente rigida, strettamente circoscritta del contenuto, che limita troppo il libero movimento della fantasia artistica. Una propaganda non può per esempio incitare alla pulizia, non pone le questioni generali e umane dell’igiene, ma fa soltanto pubblicità per un certo tipo di sapone.

Questa limitazione alla fantasia avviene anche nelle questioni della vita politica d’ogni giorno. La propaganda quotidiana di partito cerca per lo più d’inculcare un certo numero di parole d’ordine concrete e strettamente circoscritte nella testa della gente, in cui le grandi prospettive storiche e ideologiche del partito esistono soltanto come uno sfondo più o meno confuso. Anche qui il contenuto per lo più è inteso in maniera troppo ristretta e precisa perché la fantasia poetica, artistica, possa svolgersi appieno.

Ancora più chiaro è l’errore che si trova all’altro estremo. Qui lo scrittore dà alla sua forma, alla sua esperienza una cornice così larga, generale e astratta che ogni contenuto essenziale si decompone, e anzi è distrutto. Se nella sua creazione il poeta vuole tenere insieme questo contenuto, proprio per questo il contenuto considerato resterà limitato, proprio per questo perderà l’essenziale e quindi diverrà inessenziale. Nel pensiero borghese è diffusa l’illusione secondo cui l’esperienza poetica ha carattere esclusivamente individuale. È ovvio che l’esperienza individuale è un momento decisivo della creazione poetica: senza di essa non c’è poesia. L’illusione borghese sta nel fatto che essa identifica l’esperienza individuale, come forma essenziale del processo della creazione poetica, col contenuto dell’esperienza. Ma questo contenuto, non soltanto nei suoi elementi meramente contenutistici, bensì in tutta la sua struttura, nell’effetto esercitato su forme vissute e poetiche di questa struttura, comprende in sé tutta la società nel suo movimento e nelle sue trasformazioni, e anzi tutto il mondo.

Se un poeta si attiene all’opinione dell’articolista sopra citato, limita il mondo della propria esperienza. Negli scrittori si formano – spesso per effetto di forze sociali da essi non riconosciute – certe forme individuali di esperienza e poetiche. Il nostro autore consiglia agli scrittori di fissarle come definitive. Ma allora queste forme d’esperienza, la cui funzione originaria, produttiva, era di afferrare e diffondere mediante l’esperienza poetica il mondo intero in corso di trasformazione, diventerebbero una barriera tra l’esperienza poetica e i mutamenti della società; impedirebbero al poeta di vivere nuove realtà nella loro essenza e di rappresentarle.

Nel corso di grandi trasformazioni sociali questo modo di perpetuare l’essenza pura, individuale di un’esperienza poetica e un metodo d’espressione poetica già raggiunto assume un certo aspetto donchisciottesco, senza però l’eroismo del cavaliere spagnolo. Questo donchisciottismo trova infatti – proprio durante grandi rivoluzioni sociali – molti sostenitori nel campo della reazione, tanto più che la reazione, preoccupata per le sue posizioni e intenta a difenderle, si accontenta se almeno una parte degli intellettuali più autorevoli non è schierata nelle file degli innovatori democratici: proprio durante grandi rivolgimenti sociali una simile «eletta» neutralità significa di solito un appoggio alla reazione.

In simili circostanze esterne e interne il distaccarsi dalla nuova realtà e il rifiutare i suoi effetti fecondi deve necessariamente produrre deformazioni nel poeta. Attila József riconobbe presto queste deformazioni: egli vide che questo estetismo può condurre a un’inferiorità morale.

Kóró a lelke, ül azon
Kis varasbéka ékül;
Vartyog s mig zizzen a haszon
Vénebb békákkal békül.
Ha hitted messzirül smaragdnak,
Csak fogd megd, ujjaid ragadnak1.

II.

Considerando questo stato di cose si arriva alla questione decisiva. Il rifiutare così la vita sociale e politica in nome della poesia «pura» non è infatti esclusivamente un problema concernente il contenuto e l’espressione poetica. È anche questo, naturalmente, in quanto, come abbiamo visto, comporta chiusura, impoverimento, irrigidimento. Ma al fondo c’è di più: il ritiro nella torre d’avorio, cioè un superbo distacco dalla vita sociale quotidiana, può avere facilmente, che uno se ne renda conto o no, un duplice significato.

L’ideologia della torre d’avorio è inestirpabile perché ha serie ragioni sociali. È una protesta contro la fondamentale tendenza antiartistica della società capitalistica, che si manifesta in tutti i fenomeni della vita, sia pure in maniere molto diverse e con varia intensità. La protesta dell’arte «pura» contro l’orrore e l’ottusità del mondo capitalistico può tuttavia rivolgersi in avanti o all’indietro, può essere progressista o reazionaria: si tratta di vedere quando, contro chi e con quale accentuazione essa si esprime. È comprensibile che nel venticinquennio della controrivoluzione, specie negli ultimi anni terribili, una parte notevole della letteratura ungherese si difendesse in questo modo. Ma non si deve dimenticare che questa difesa era estremamente debole: il «brusio», come lo definiva Pál Ignótus, aveva per lo più un contenuto soltanto negativo; solo il distacco assumeva una forma plastica, ma anche debole; verso dove ci si dovesse rivolgere, restava affatto nel vago. Anche se all’incirca si poteva intuire la direzione, il suo carattere progressista era quanto mai dubbio.

Il continuare questa difesa dopo la liberazione – come appunto dichiara programmaticamente l’autore dell’articolo della rivista «Magyarok» – vuol dire riassumere quell’atteggiamento: naturalmente con la coscienza, politicamente oscura, che dal punto di vista del poeta sarebbe affatto indifferente che ora sia al potere il fascismo o la democrazia. Egli si rinchiude e rifiuta indifferentemente tutto ciò che gli viene «dall’esterno», dalla società; egli nega (consapevolmente o no) che la funzione di un poeta nella vita di un popolo liberato sia diversa dalla sua funzione in un popolo oppresso.

Questo atteggiamento sociale-ideologico, che inconsapevolmente si fonda sull’esperienza e sulla convinzione che il capitalismo è un terreno sterile per l’arte, non comporta solo un impoverimento, ma trascina in una vuota astrattezza, perché cancella la realtà. Esso cancella le differenze decisive tra periodi di sviluppo democratici e antidemocratici. Un atteggiamento simile si converte – senza volerlo, è da sperare – in una negazione della democrazia, così come prima voleva essere una negazione della tirannide.

A questo punto non sarà quindi sbagliato ricordare brevemente il diario di Sándor Márai. Qui naturalmente non possiamo giudicare tutta l’opera, benché ci rincresca di non poter accennare, per esempio, al momento culminante della giusta critica sulla classe media ungherese. Qui possiamo soltanto chiarire su qualche esempio i metodi di questo diario, e dobbiamo farlo per poter illustrare l’atteggiamento che c’interessa richiamandoci a uno dei suoi rappresentanti eminenti.

Gli attacchi di Márai contro Petöfi sono già famigerati. Che scrive sulla controversia tra Napoleone III e Victor Hugo? Secondo Márai Napoleone era «un uomo straordinariamente generoso, sognatore e dotato di talento, che voleva il bene dei lavoratori…» E altrove: «Come aveva ragione, Napoleone III, quando per due decenni donò alla Francia la pace, lo splendore e l’ordine del secondo impero…» Basta conoscere anche soltanto nelle grandi linee la storia francese reale per valutare meglio questo «splendore». Ma la conseguenza necessaria di questo «splendore» del secondo impero non fu solo la distruzione di Sedan, ma anche la corruttela sociale e morale dell’epoca napoleonica. Essa aveva talmente infettato il popolo francese che la terza repubblica soffrì per decenni di questa eredità e cominciò a riprendersi dalla degradazione solo durante lo scandalo di Panama, l’affare Boulanger e il processo Dreyfus. Anche se non è questa l’intenzione di Márai, la sua argomentazione dà impulso a coloro che nei tempi duri di oggi rimpiangono «la pace, l’ordine e lo splendore» dell’epoca di Horthy e Bethlen. Ispirandosi a questa concezione, Márai parla con entusiasmo della «grandezza» di Chamberlain e afferma che gli avvenimenti della guerra mondiale avrebbero confermato la sua politica chiaroveggente, mentre tutte le persone ragionevoli sanno bene che la politica «di Monaco», perseguita da Chamberlain e Daladier, permise l’aggressione hitleriana in tutta Europa.

Infine vale la pena di notare che Márai approva esplicitamente la sottomissione a Hitler in nome dello «spirito»: «… Quali sono i compiti dei francesi su questa terra? Essi devono sopportare Hitler precisamente come la sofferenza di una malattia. Non hanno il compito di battersi e di comportarsi come imperialisti. Il loro compito sta nel pensare e lavorare in conformità del loro ruolo». In questo ragionamento si possono mettere in evidenza due momenti. Primo, Márai scredita il movimento della resistenza francese, paragonandolo all’imperialismo. Secondo, egli considera naturale che i presupposti per uno sviluppo libero e superiore dello spirito francese fossero dati durante l’occupazione.

Come si vede, una simile rivelazione della poesia «pura», dello spirito, induce a considerare come un vantaggio l’avvilimento più profondo di una nazione, l’oppressione brutale della libertà. Per il popolo francese fu una fortuna che i suoi intellettuali respinsero decisamente queste rivelazioni dello «spirito», pur se vi furono anche voci isolate di altro genere. Da noi, va detto con rammarico, non vi furono questa capacità di scelta e questa risolutezza. Se il popolo ungherese non si è liberato con le proprie forze, la colpa è stata soprattutto dei banditi che patteggiavano con Hitler. Ma è colpevole anche quella parte dell’intelligentsia che aveva capitolato in campo intellettuale e sosteneva che questo era l’unico atteggiamento degno di una persona colta.

Qui abbiamo una tendenza generale dell’intelligentsia, una tendenza generale della letteratura. Essa è così forte che trascende i confini tra gruppi letterari che per il resto si combattono tra loro. Queste correnti, così pericolose per lo sviluppo nazionale, si trovano nella cerchia degli «urbani» come in quella dei «populisti». Non è un caso che a questo punto possiamo richiamarci proprio al «populista» László Németh, che qui concorda pienamente con l’«urbano» Sándor Márai. Non è un caso, perché in Ungheria non c’è tendenza intellettuale antiprogressista, ostile alla democrazia, il cui padre o nonno spirituale non sia stato László Németh.

In un’altra pagina egli parla di Montherlant, e mette in risalto con lode le sue tesi principali: «Lo stato attuale della Francia [durante l’occupazione (G. L.)] è favorevole per la libertà spirituale… Lo sporco traffico della letteratura tace: il mondo gli ha voltato le spalle. In questo stato di abbandono la creazione è di nuovo come dovrebbe essere; il vuotarsi dell’anima colma, senza riguardo per il mondo». Approvando queste affermazioni, anche László Németh accenna al rinnovamento dello spirito francese. «È anche la vecchia Francia, che fu sommersa da quella degli “avvocati”», cioè dalla Francia della democrazia. László Németh crede perciò di scorgere in queste tesi un «profondo programma francese». Chi non aveva ancora capito quanto fosse pericolosa l’opposizione «ungherese profondo – ungherese diluito», che risale a László Németh, ora vede bene dove questa teoria «storico-spirituale» debba necessariamente condurre nella prassi sociale.

Questi esempi isolati sono però caratteristici e importanti. Indicano quali contenuti nascono dalla forma, dalla superba autoidolatria dello spirito. Indicano altresì fino a che punto la «sovrasocialità» e la posizione apolitica del poeta siano solo illusioni dell’autoinganno. Ogni scrittore, come scrive, fa politica, e quindi prende partito. Si tratta solo di sapere con quale consapevolezza lo faccia.

III.

Definendo la «consapevolezza», veniamo ai nostri veri problemi: cioè a definire la collocazione del poeta politico, del poeta di partito, tra le varie possibilità della creazione letteraria. La consapevolezza può essere suddivisa schematicamente in tre gradi. Il primo sarebbe rappresentato, come abbiamo visto, dal poeta che fa politica inconsapevolmente, spesso contro le proprie intenzioni e la propria volontà. Da noi il rappresentante principale di questo tipo è stato Mihály Babits, soprattutto perché egli aveva un sentimento amaro e profondo della problematica tragicomica del suo atteggiamento, pur senza riuscire a superarne i limiti. La sua poesia sul profeta Giona è un bell’esempio di lotta onesta ma disperata con se stesso.

Sarebbe schematico opporre direttamente a questo tipo, senza transizione, i grandi tribuni popolari dell’arte poetica, i Petöfi e gli Ady. Scrittori grandi come Goethe o Balzac, Tolstoj o Thomas Mann sono ugualmente lontani dal tipo Babits come dal tipo Petöfi. Goethe, questo caso apparente di arte apolitica, di fronte alla Rivoluzione francese o di fronte alla restaurazione non si ritirò nella torre d’avorio della poesia «pura». Al contrario, egli non negò mai che tutte le grandi svolte sociali e politiche esercitano un influsso decisivo anche sulla poesia. I contenuti mutati e la struttura del mondo richiedono forme poetiche nuove. Perciò egli seguiva con occhio vigile quei mutamenti e voleva sempre prendere posizione consapevole di fronte ad essi. Valutava la loro progressività sociale e le loro ripercussioni sull’ascesa del genere umano, sullo sviluppo interno ed esterno del vero umanismo. Questa presa di posizione, cioè questa presa di partito, che fece di Goethe un seguace entusiasta dell’età napoleonica, nel suo caso (come pure nel caso di numerosi rappresentanti di questo tipo) non ebbe come conseguenza necessaria che egli si gettasse sempre con passione nella vita politica quotidiana.

Nei rappresentanti di questo tipo la tendenza poetica fondamentale è un’altra. Fielding si definiva uno storico della vita sociale; Balzac ripete quasi alla lettera questa definizione nella prefazione alla «Commedia umana». È così indicata la tendenza centrale: dare un quadro ampio, profondo e comprensivo dello sviluppo della vita sociale; combattere per il progresso del genere umano, per il suo sviluppo superiore; rappresentare con i mezzi della poesia la via del progresso, le sue forze motrici e le potenze interne ed esterne che vi si oppongono. Qui un rispecchiamento vero e fedele della vita della società è un mezzo essenziale per influenzare gli uomini.

Parlando di tipi, tuttavia, indichiamo soltanto i lineamenti generali del problema. Possono esistere tendenze del tutto opposte tra loro. Nello stesso scrittore possiamo scoprire che l’intento d’intervenire nella vita quotidiana varia molto d’intensità; all’oggettività dei grandi romanzi di Tolstoj si contrappone nettamente il pathos profetico della sua produzione più tarda. Ma nella sua opera le due tendenze erano collegate in quanto raggiungevano il fine voluto dal poeta mediante il rispecchiamento oggettivo dell’intera vita sociale.

A questo proposito si deve sottolineare che anche il grado della consapevolezza è diverso: Goethe e Keller hanno indicato con sufficiente esattezza lo scopo che volevano raggiungere con la rappresentazione oggettiva del mondo. L’immagine del mondo da essi delineata riproduce in gran parte solo ciò che essi volevano nella loro tendenza a immischiarsi nella vita. La «Commedia umana» dimostra invece il contrario di ciò che Balzac intendeva quando la scrisse. La grandiosa raffigurazione sociale di Resurrezione confuta completamente la profezia religiosa e morale di Tolstoj. Nonostante simili e analoghi contrasti, in questo tipo resta qualche cosa che assicura la durata: esso solleva uno specchio davanti alla società e favorisce lo sviluppo ulteriore dell’umanità con un aiuto che comprende, svela tutta la società e sviluppa le sue leggi.

Di qui, attraverso passaggi complicati, arriviamo al tipo del poeta politico vero e proprio: al poeta di partito. Il numero dei fenomeni di transizione è infinito. Nella realtà i punti di transizione sono sempre confusi. Ma ciò vale per tutti i fenomeni di questo mondo. Se appena gettiamo uno sguardo su fenomeni letterari così diversi come Béranger, Balzac, Shelley, Walter Scott, Goethe, Gor’kij, Tolstoj…, abbiamo di fronte il tipo del vero poeta politico, del poeta di partito.

Ma, prima di tutto, abbiamo a che fare con un poeta, con un tipo primario di poeta. Lo sviluppo storico reale rivela proprio il contrario di ciò che solitamente affermano le denigrazioni borghesi della poesia di partito. Queste per lo più sostengono quanto segue: un tempo c’era una letteratura «pura», poi vennero i partiti e la vita democratica. Essi hanno «guastato» i poeti. In realtà tutto è andato proprio all’opposto. La poesia politica è esistita molto tempo prima dei partiti organizzati moderni. Non parliamo della lirica delle età primitive: allora, infatti, dominava una vita di partito molto evoluta. Durante l’ascesa della società borghese appaiono l’uno dopo l’altro grandi poeti di partito, anche là dove non esistono ancora partiti politici o dove essi cominciano appena a formarsi. Così Lessing, Shelley e ancora Heine sono poeti di partito senza partito. Converrà forse esaminare un po’ da presso questo stato di cose, perché illumina la sostanza del problema.

Innanzi tutto balza agli occhi la maggiore e più profonda consapevolezza del poeta: una consapevolezza dell’essenza dell’uomo e dell’intrecciarsi tra i suoi valori più intimi e la vita della società. Così si manifesta nuovamente l’errore del dilemma che abbiamo considerato all’inizio: ciò che là appariva come poesia politica – in forma di caricatura – manca di valore poetico non perché il suo oggetto non è un problema del giorno, ma perché il suo pathos non tocca le questioni più profonde della vita. Le parole d’ordine quotidiane dei partiti politici nascono dalla vita. Se sono intese giustamente nel loro contenuto esse diventano parole d’ordine politiche attraverso un’astrazione giusta e adeguata allo scopo. Il poeta politico esaminato nelle nostre considerazioni iniziali è quindi soltanto la caricatura di un poeta, perché non traduce le parole d’ordine del giorno in quel linguaggio umano dal quale sono sorte; perché non risale alla fonte da cui tutte le parole d’ordine scaturiscono. Lo scrittore apolitico, che agisce analogamente, e il presunto poeta di partito che si perde in un siffatto praticismo quotidiano senza profondità umana e sociale, sono pertanto simili nella mancanza di consapevolezza. Entrambi si appropriano senza critica e senza consapevolezza i fenomeni superficiali della società capitalistica, come se la vita pubblica e la vita privata fossero separate o tra loro contrapposte. Nessuno di loro osserva che la produzione capitalistica ha provocato una fatale mutilazione e atomizzazione dell’uomo. Dal punto di vista sociale come da quello – superiore – letterario è decisivo il vedere quale parte dell’uomo atomizzato gli scrittori cerchino artisticamente di presentare come un tutto, come un uomo intero.

Ma qual è la differenza tra la consapevolezza del grande poeta che rispecchia oggettivamente la vita e quella del poeta politico? Essi hanno in comune il contenuto della consapevolezza: l’uomo intero. Hanno in comune la tendenza umanistica, che è viva in tutti i grandi poeti: la lotta per l’uomo intero, pienamente sviluppato. La differenza sta nella tendenza – presente in entrambi – del pathos sociale. Anche in scrittori del tipo di un Balzac o di un Tolstoj esiste la volontà d’intervenire, di trasformare, di migliorare (e quindi la volontà di prendere partito). Ma essi si muovono attraverso la scoperta oggettiva in direzione della dialettica oggettiva della realtà. Da ciò deriva poi la singolare possibilità che il fine consapevole dei desideri di questi poeti sia sbagliato o addirittura reazionario. Resta tuttavia presupposto che il rispecchiamento della realtà oggettiva sia compiuto con sincerità inesorabile. Così Lenin dice che le opere di Tolstoj sono uno specchio della trasformazione della struttura agraria tra il 1861 e il 1905, e della rivoluzione contadina che coronò questa trasformazione. Ma aggiunge subito che Tolstoj non aveva capito realmente nulla del processo di cui dava una raffigurazione fedele e geniale.

Lessing o Shelley, Heine o Petöfi, Gor’kij o Ady vogliono intervenire direttamente negli avvenimenti. In questo caso la falsa autocoscienza di Balzac e Tolstoj comporterebbe conseguenze catastrofiche. Infatti i romanzi di Balzac possono tranquillamente confutare la sua legittima utopia senza che ciò pregiudichi minimamente il loro valore artistico. Anche le poesie di Petöfi e Ady dovettero essere giustamente meditate, all’origine, perché potessero diventare poesie realmente buone, tanto più che in esse la concezione, il pensiero soggettivo e il sentimento del poeta non servono solo a dar forma all’oggetto, ma costituiscono lo stesso oggetto direttamente rappresentato. Perciò qui è necessaria una superiore consapevolezza della via di sviluppo dell’umanità. Non è certo un caso che Heine prima del 1848, Petöfi nel 1848 e Ady prima del 1918 furono non solo i maggiori poeti della loro epoca, ma anche i suoi maggiori interpreti. Né è un caso che una parte essenziale della loro interpretazione sia giusta ancora oggi, a differenza di quelle di Balzac e Tolstoj. Per l’Ungheria basta ricordare János Arany o Zsigmond Móricz.

IV.

Un simile livello di consapevolezza ha necessariamente, ripercussioni sulla forma artistica e sul rapporto dello scrittore con l’arte.

Non a caso i poeti politici in senso stretto, i poeti di partito, sono in maggioranza lirici. Ci sono certo anche drammaturghi, come Lessing, il giovane Schiller, Beaumarchais, romanzieri come Saltykov-Šcedrin. Ma la lirica resta il modo d’espressione più naturale e la forma più omogenea per i poeti di partito. Le forme oggettive, il dramma e l’epica, non si prestano altrettanto all’espressione diretta delle opinioni dello scrittore. Se un grande temperamento politico vince questa resistenza (il giovane Schiller), in parte la forma viene allargata, ma spesso è anche spezzata. E se il dramma di Lessing e di Beaumarchais, il romanzo di Saltykov-Šcedrin riuscirono a fare di questa forma oggettiva il mezzo d’espressione dell’intervento politico diretto senza spezzare soggettivamente la forma, ciò avvenne soltanto perché la volontà d’intervenire direttamente andò perduta dietro la plasticità della rappresentazione oggettiva. La forma epica o drammatica conservarono la loro anteriore oggettività. Mentre sotto altri aspetti l’esistenza o la non esistenza di quella contraddizione tra la concezione del poeta e il linguaggio oggettivo del mondo rappresentato è una caratteristica molto importante (ricorderemo come esempi Balzac e Tolstoj), qui ciò non costituisce una differenza decisiva.

Sotto questo aspetto è anche essenziale che si potessero afferrare con spirito realmente poetico, in forme oggettive, solo grandi problemi decisivi per un’epoca, e di preferenza proprio nella loro portata decisiva, non nel loro rapporto con le questioni quotidiane: qui le questioni quotidiane in senso stretto sono necessariamente respinte sullo sfondo. Senza dubbio, la lotta della borghesia e della nobiltà (Lessing, Beaumarchais…), la corruttela dell’aristocrazia sono di fatto problemi decisivi. Sono ugualmente attuali per tutta un’epoca e quindi possono costituire la tematica della poesia di partito, che esige l’intervento risoluto nella vita quotidiana.

Eppure la lirica è stata e rimane sempre il genere artistico naturale per l’intervento diretto nel presente. Qui la soggettività di un poeta dotato di coscienza politica può diventare subito operante e in pari tempo esprimere ciò che è imperituro, proprio perché un vero poeta politico, un poeta di partito, esprime quasi sempre questioni decisive per la sua epoca, anche quando esprime questioni quotidiane. Ady formula bene la cosa: «La mia intenzione è un’intenzione antica di molti secoli».

In ogni buona lirica la soggettività e l’esperienza, i desideri, i sentimenti e le impressioni diventano direttamente universali e si raggruppano come contorni dell’esistenza momentanea dell’individuo. Se il poeta di partito è un vero poeta, la sua lirica si svolge secondo lo stesso processo. Certo, il soggetto delle esperienze è un uomo tra gli uomini, attivo, che prova desideri e che lotta in una società concreta. Il mondo che si accentra nella soggettività del poeta mostra soltanto in un attimo indivisibile la corrente secolare della storia e gli scogli del presente, battuti dalle sue onde.

Non è vero dunque che la poesia politica, la poesia di partito sia problematica per la lirica pura. Al contrario, non solo vediamo che la poesia di partito in forma moderna – e non in una copia formale – può rinnovare e sviluppare ciò che l’io puro dell’eccessivo individualismo attuale aveva soppresso nelle tradizioni della lirica antica: cioè, in particolare, l’ode e l’inno. Dobbiamo anche riconoscere che per questo, per la più intensa consapevolezza, si dilegua il mito dell’arte moderna, quel mito in cui i massimi poeti e storici potevano profondamente immedesimarsi.

Le confessioni di grandi poeti oggettivi, dal Tasso di Goethe all’Epilogo di Ibsen e fino a Thomas Mann, culminano nella questione: a che giova l’arte? È moralmente ammissibile il sacrificare l’esistenza umana di un artista per la mera riuscita della creazione artistica? Tolstoj, nel rispondere a questa domanda, talvolta si rivolgeva decisamente contro l’arte. Ma la problematica non è casuale e non dipende dalla disperazione personale di singoli grandi artisti. Lo sviluppo della società capitalistica, la funzione dell’arte in questa società aveva fatto sorgere questa problematica. Quanto più elevata è l’oggettività artistica di un poeta, quanto più profondamente egli afferra i problemi decisivi dell’epoca, e quanto maggiore è la perfezione con cui li esprime, tanto più sradicati essi gli possono apparire nella vita quotidiana della società capitalistica. (E tanto più profonde, naturalmente, sono le sue radici nello sviluppo complessivo del genere umano). Da questo sviluppo sociale deriva la disperazione dell’artista, sia pure soltanto dello scrittore realmente grande e veramente pensante; ne deriva quell’esperienza secondo cui l’arte stessa e soprattutto la vita individuale che si esaurisce nell’attività artistica diventano il centro dei conflitti essenzialmente problematici, irrimediabilmente tragici. Un poeta veramente grande e pensante non si appaga mai dell’autoidolatria estetica di una perfezione da atelier. Egli sente profondamente nell’anima la missione sociale di ogni arte veramente grande. La società capitalistica non assegna né all’opera né all’artista il posto che gli spetta. Di qui deriva questa problematica, col suo tono di fondo tragico, che riecheggia da Goethe fino a Thomas Mann.

È caratteristico e significativo per la filosofia della storia dell’arte che poeti come Shelley o Petöfi non hanno neppure riconosciuto il problema (János Arany lo capiva benissimo!) Ma questa mancanza di comprensione non va ricondotta a difetto di coscienza, al contrario: essa esprime un grado superiore di coscienza; è la fede incrollabile nella funzione storico-sociale della poesia.

I seguaci di questi poeti, nati in tempi più tardi, più problematici, hanno già risposto alla questione: quando Lajos Hatvany richiama Ady alle prescrizioni della tradizione flaubertiana – che è parte della linea sopra descritta, cominciata con Goethe – Ady le respinge nella sua Nuova leggenda unna:

A tolakodó gráciát ellöktem,
Én nem büvésznek, de mindennek jöttem2.

E spiega anche che cosa sia questo «tutto»:

Zsinatokat doboltam, hogyha tetszett
S parancsoltam élére seregeknek
Hangos Dózsát s szapora Jacques Bonhomme-ot3.

Qui Attila József riprende interamente l’eredità di Ady. Nel Ricordo di Ady esprime mirabilmente che cosa sia quel «tutto» nel cui nome Ady rifiutava, con pathos così orgoglioso, ogni problematica flaubertiana nell’arte moderna:

Verse törvény és édes ritmusában
Kö hull s a kastély ablaka zörög4.

Perciò Attila József, nei primi versi della sua Arte poetica, può variare questo pathos adyano:

Költö vagyok – mit érdekelne
Engem a költészet maga5?

In questo senso egli poi parla della poesia e della sua vocazione di poeta:

Én nem fogom be pörös számat.
A tudásnak teszek panaszt.
Ràm tekint, partfogón, e szazad:
Rám gondol, szántván, a paraszt;
Engem sejdít a munkás teste
Két merev mozdulat között;
Rám vár a mozi elött este
Suhanc, a rosszul öltözött.
S hol táborokba gyült bitangok
Verseim rendjét üldözik,
Fölindulnak testvéri tankok
Szertedübögni rímeit6.

In tal modo la secolare problematica della poesia, la sua condizione di senzapatria nella società capitalistica, ottiene grazie alla poesia di partito, e solo in virtù di questa, una soluzione positiva e senza compromessi, che salva l’essenza poetica della poesia. La poesia di partito è un precursore, un avamposto molto avanzato che libererà definitivamente il genere umano e quindi metterà fine ai conflitti tragici di ogni poesia e di tutte le arti, che infatti in ultima analisi sono sempre sorti dalla problematica sociale.

V.

Le nostre considerazioni non ci portano né a un idillio né a un happy end. La soluzione di questi conflitti non significa affatto che la poesia di partito sia ormai immune da qualsiasi problematica. Per giungere a una prospettiva giusta dobbiamo riprendere l’osservazione da noi fatta sopra. Il poeta di partito appare sulla scena della vita prima delle organizzazioni moderne dei partiti; vi sono stati numerosi grandi poeti di partito – da Shelley e Heine fino a Ady – che non appartenevano a nessun partito né potevano appartenervi perché la storia non aveva ancora fatto sorgere il partito al quale essi come poeti erano destinati. Questa è la tragedia oggettiva dell’attività di Petöfi; e di ciò anche Heine e Ady ebbero una coscienza soggettivamente tragica.

Ma quando i partiti esistono, quando partito e poeta di partito s’incontrano, il loro rapporto non è però immune da problemi. Ciò ha cause profonde, attinenti all’essenza della società e della poesia. Il banale individualismo borghese moderno compie una semplificazione troppo volgare quando contrappone la macchina del partito, in cui ogni individuo ha soltanto la funzione di una rotella, il «santuario» dell’individuo e specialmente dell’individuo poetico.

Qui non ci soffermiamo neppure a parlare delle grandi personalità storiche, da Cromwell e Marat fino a Lenin e Stalin, in cui la personalità e il compito storico, cioè le funzioni di partito, sono congiunti in una tale unità che l’una e l’altro raggiungono una classicità nuova ed esemplare in questa sintesi superiore. Ma anche a un livello più basso l’individualismo banale è semplicemente incapace di vedere la feconda interazione tra soggetto e oggetto e gli effetti che un grande sviluppo esercita sulla personalità.

Nell’uomo medio la questione può essere risolta in ultima analisi senza problemi, anche se sempre tra conflitti. In un grande dirigente politico essa si risolve senza problemi. Per lui le cerchie della vita privata e della vita sociale di un dato periodo sono concentriche. La grandezza di un genio politico sta nell’estensione che il raggio della sua cerchia privata ha raggiunto in rapporto a quello della società. Spesso nell’uomo medio i punti centrali delle due cerchie non coincidono. La problematica della vita politica, ovvero la mancanza di problemi, decide dell’ampiezza delle parti che nelle due cerchie coincidono.

Nel poeta, invece, quando voglia essere anche un poeta di partito, questo problema è sempre suscitato dai conflitti insiti nella profondità della sua anima. Senza volere spingere troppo oltre il paragone, diremo che nel poeta i due centri non coincidono mai. Se però egli è un vero poeta di partito, il centro della cerchia sociale è sempre una parte della vita personale e della sua poesia, e precisamente una parte prossima al centro individuale. Dovremo ora considerare da presso la problematica qui accennata.

Nella prassi si presenta il più delle volte un conflitto teoricamente non necessario: l’urto tra lo spirito settario e la poesia. Questo settarismo esiste sempre nei partiti e non di rado arriva al potere. I settari considerano poeta di partito solo il poeta dallo stile cartellonesco. Ogni deviazione nella formulazione è definita un atto ostile contro la partiticità. La considerazione astratta del problema dà origine a giudizi addirittura ridicoli sui grandi poeti di partito del passato. Ma ciò che a una certa distanza fa solo un effetto grottesco, nel presente può provocare conflitti tragici. La radice dei conflitti è tuttavia più profonda: un vero poeta di partito è sempre un cantore della grande missione nazionale, umanistica e storica del partito. Se a causa dello spirito settario – come nella prassi settaria del partito «proprio questa coscienza della missione si attenua nel partito, allora sorgono per necessità conflitti incessanti. Anche questi conflitti scompaiono solo se il partito ritrova se stesso liquidando il settarismo.

Nello sviluppo di un poeta di partito l’individuo come personalità ha una funzione qualitativamente diversa che nell’individuo comune. Lo sviluppo individuale del poeta e la natura della sua personalità decidono dove, quando, fino a che punto e in che misura egli entra in contatto con i fini, i principi e la prassi del partito. Qui l’autoeducazione del poeta, ma anche il fecondo influsso reciproco tra poeta e partito, possono fare molto, anche se non possono mai fare tutto. La personalità del poeta, come fonte di ogni vera poesia, ha dunque per questa una funzione indispensabile e non modificabile.

Innanzi tutto, l’opera intera di un poeta di partito veramente grande non si è mai esaurita soltanto in una vasta poesia di partito. Petöfi fu un vero poeta di partito, nel senso della nostra definizione. Nella sua breve vita la poesia di partito non fu naturalmente mai al centro della sua produzione come nei periodi tanto critici della rivoluzione del 1848. Eppure proprio a quel tempo egli stesso pone la questione: «Perché cantate ancora, poeti devoti?» Ma egli pone la questione della legittimità di una lirica soggettiva, indipendentemente dalla politica, solo per dare una risposta decisamente positiva:

Önmagától száll a dal szívünkböl,
Ha bú vagy kedv érintette meg,
Száll a dal, mint szállanak a szélben
A letépett rózsalevelek.
Énekeljünk, társak, söt legyen most
Hangosabb, mint eddig volt, a lant,
Hadd vegyüljön e zavaros földi
Zajba egy-két tiszta égi hang!
Rombadolt a fél vilag… kietlen
Látomany, mely szemet s szívet bánt!
Hadd boruljon a rideg romokra
Dalunk, lelkünk zöld repkény gyanánt7!

Anche in Petöfi, senza dubbio, nonostante le decise proclamazioni non c’è mera giustapposizione di lirica individuale e politica. Come abbiamo visto, anche nella proclamazione dell’individualità questa lirica tende ad avere carattere pubblico. È generalmente nota l’intensità con cui anche la lirica più soggettiva di Petöfi sia alimentata dal suo temperamento politico; si pensi soltanto al profondo nesso poetico tra le immagini, di paesaggio della pianura (Alföld) e il suo desiderio rivoluzionario di libertà.

A questo proposito sarebbe un compito molto interessante e utile, ma anche istruttivo, ricondurre le immagini di paesaggio della lirica del XIX secolo ai loro toni di fondo politici e sociali; verrebbero alla luce molti nessi finora inosservati. Qui mi permetto di osservare che in Attila József è nettamente chiaro un convertirsi dello stato d’animo puramente individuale nel sentimento politico, anche se questo convertirsi non è sempre messo in risalto con le parole corrispondenti, per esempio in vari versi di Pioggia, Terra morta. In Attila József le immagini di paesaggio possono ancora comunicare sentimenti rivoluzionari.

Ma non si tratta solo di questo. Da una parte, per necessità, il partito affronta tutte le questioni prosaiche della vita pratica e cerca in esse quell’anello della catena che rivela e mette in movimento nella vita quotidiana gli obiettivi nazionali e storico-universali. D’altra parte gl’inconvenienti determinati dagli avvenimenti quotidiani o annuali, con le loro oscillazioni e le loro crisi, in mezzo all’apparente disperazione mantengono incrollabile la tendenza verso un futuro migliore. Un poeta di partito, che non può staccarsi dal mondo della sua esperienza poetica, necessariamente individuale, di rado trarrà ispirazione dagli «anelli della catena», oggettivamente essenziali e indispensabili, della vita politica quotidiana. (Benché anche questi possano fornire l’occasione per le grandi poesie, in particolare nel caso di Petöfi)8. Del resto né il proprio destino, né le esperienze di un poeta possono mettere in condizione di seguire con fede incrollabile la strada certa, formatasi nel corso e nella logica della storia. Proprio nei tempi più difficili, il partito ha la funzione importante e il merito di definire questo obiettivo e di mantenerlo.

Il singolo può essere disperato, può crollare sotto i colpi del destino. Se è un vero poeta, anche se è un poeta di partito, deve poter esprimere la sua condizione disperata. Una di queste voci di disperazione si leva per esempio nelle ultime poesie di Attila József, commoventi nella loro onestà:

Tejfoggal köbe mért haraptál?
Mért siettél, ha elmaradtál?
Miért nem éjszaka álmodtál?
Végre mi kellett volna, mondd9?

Lenin, il grande dirigente di partito, aveva sempre affermato che non esistono situazioni disperate; ma ciò si riferisce soltanto alle azioni politiche delle nazioni, delle classi e dei partiti. L’individuo invece, il poeta, anche se è soltanto poeta di partito, può e anzi deve addirittura diventare sempre il troubadour della disperazione della propria vita. Della libertà poetica fa parte la libertà della disperazione. L’esprimerla è antica tradizione poetica. In occasione di grandi avvenimenti essa è strettamente connessa al destino sociale del poeta. A questo proposito è interessante e caratteristico che il Werther di Goethe, quando si batte per il suo diritto al suicidio, perché questo è un diritto umano della personalità, nel dibattito fa questo paragone: il singolo possiede questo sacro diritto, di spezzare rivoluzionariamente le sue catene, proprio come lo possiede un popolo oppresso.

Ma la questione ha anche un altro aspetto essenziale. Anche un dirigente rivoluzionario lucido come Lenin, noto per la fredda chiarezza del suo pensiero, dice che spesso il rivoluzionario ha addirittura il dovere di sognare. Questi sogni esprimono la solida fede nella certa attuazione degli obiettivi lontani. Un rivoluzionario deve sognare per non perdere di vista questi obiettivi lontani nella lotta quotidiana.

Abbiamo sottolineato che il rapporto del poeta con l’unità dialettica della vita quotidiana e con l’obiettivo storico è essenzialmente diverso da quello del grande dirigente politico. Ma qui, nella sfera dei fenomeni psicologici superficiali, il contrasto è apparentemente massimo; tuttavia esiste anche la tendenza alla convergenza. Proprio nella capacità di vivere intensamente le proprie esperienze, che nelle situazioni senza scampo spinge il poeta alla disperazione, si cela la sua capacità di scorgere quegli obiettivi lontani e di renderli percettibili mediante visioni poetiche che poi vengono giustificate dal futuro: anche se queste visioni non sono realizzabili per l’uomo medio. Marx diceva che Balzac, il grande pensatore dell’oggettività sociale, era stato profetico nel delineare i suoi tipi. Egli aveva visto e rappresentato figure che al suo tempo esistevano solo in germe e che solo molto più tardi si erano sviluppate in tipi sociali concreti. Noi ungheresi abbiamo visto attuarsi visioni simili nel caso di Endre Ady.

Dopo queste argomentazioni, crediamo, si può riconoscere chiaramente la problematica del rapporto tra partito e poeta di partito. È insolubile questa problematica? Io non credo. Tra partito e poeta di partito esiste certo un rapporto affatto specifico.

Per esprimerlo in breve: il poeta di partito non è mai un comandante o un soldato semplice, ma sempre un partigiano. Cioè, se è un vero poeta di partito, c’è una profonda unità con la missione storica del partito, con la grande linea strategica che viene definita dal partito. Ma, all’interno di questa unità, egli deve rivelarsi con mezzi propri sulla propria responsabilità. Con ciò non diciamo che predomini l’anarchia o un legame puramente casuale, ma semplicemente indichiamo il giusto riconoscimento dei rapporti tra l’attività di partito e le caratteristiche decisive del poeta di partito, e indichiamo il corrispondente impiego pratico di questi rapporti.

I grandi dirigenti del movimento operaio avevano conoscenza di tutto ciò e la tradussero sempre in pratica. Pensiamo solo ai rapporti di Marx con Freiligrath, con Heine e con Herwegh; pensiamo ai rapporti di Lenin con Gor’kij. Erano rapporti che non chiedevano mai al poeta un meschino adeguamento alle esigenze quotidiane; il poeta considerava le cosiddette oscillazioni con indulgenza affettuosa e comprensiva. D’altra parte ciò non comporla mancanza di principi. Tra comandante e partigiano il rapporto era intimo e comprensivo fintanto che l’azione individuale del partigiano procedeva di fatto sulla via della strategia storica del partito. Quando Freiligrath era diventato infedele alla democrazia rivoluzionaria del 1848, quando nel suo sviluppo cominciò quel periodo che durante la guerra degli anni settanta lo portò a comporre poesie nello stile di Hurrah Germania, Marx aveva assunto verso di lui un atteggiamento di netto e freddo distacco. Conflitti simili, senza però che si arrivasse mai alla rottura, vi furono spesso anche tra Gor’kij e Lenin.

In questo contesto crediamo di dover trattare un problema spesso frainteso dagli intellettuali e perciò impopolare: il problema della disciplina di partito. Gli equivoci per lo più nascono perché il soggettivismo, che degenera in stati d’animo anarchici quali si conoscono nei tempi moderni, non conosce più la vera fedeltà e spesso – non soltanto nei riguardi del partito – addirittura la rifiuta. La fedeltà consiste nell’aderire all’essenziale anche quando i fenomeni del momento sembrano contraddirlo. Nella mentalità dei borghesi questo senso della fedeltà è talmente indebolito, anzi quasi già scomparso, che nella letteratura borghese la fedeltà ormai compare spesso soltanto come un sentimento patologico, di un gusto degradato. La disciplina di partito è invece un grado superiore, astratto, di fedeltà. La fedeltà di una persona nei rapporti pubblici è una relazione ideologica verso una tendenza storicamente data: e resta fedeltà anche se su qualche questione concreta non c’è accordo completo con questa tendenza storica. Perché questa fedeltà dovrebbe essere un ostacolo per lo sviluppo individuale e artistico di un poeta di partito? Ciò è tanto meno comprensibile in quanto la missione storica del partito rappresenta l’avvenimento più vivo proprio per il poeta di partito veramente grande. Per lui la missione storica diventa viva, in visione, nella sua concretezza.

Certo, se la questione della disciplina di partito è posta da un burocrate settario, se quindi si perde il rapporto tra la disciplina di partito e la vocazione storica e nazionale del partito, se il principio della disciplina è capovolto proprio nelle piccole lotte quotidiane e così la disciplina di partito diventa una disciplina morta, allora questo legame va perduto, non è più il vero rapporto tra partito e poeta di partito, ma la sua caricatura settaria.

Porre la questione in modo giusto, significa invece: da un lato sta il poeta di partito, come il partigiano di una grande causa, che opera fedelmente e tuttavia in maniera individuale; dall’altro lato stanno un comprensivo senso della misura e la fermezza dei principi di Marx e di Lenin, raccolta in un’unità organica. Se è posta in modo giusto, la questione del rapporto tra partito e poeta di partito può essere in tutto risolta, anche se spesso ciò avviene attraverso conflitti. Solo così il poeta può collegarsi come poeta al partito e quindi condurre la lotta per gli obiettivi comuni insieme con la parte migliore del popolo lavoratore. Proprio in questa lotta il poeta può sviluppare il meglio di sé: quella vocazione e consapevolezza poetica di cui in questo saggio abbiamo parlato più volte. Il poeta di partito ha possibilità di sviluppo affatto diverse. Egli può appoggiarsi al partito e trovare in esso, come Anteo, il suo terreno stabile.

Non è un caso che questi problemi si pongano in occasione delle celebrazioni del PCU per Attila József. Non si può capire la poesia di Attila József senza chiarire seriamente la natura della poesia di partito. Se noi comunisti, impegnati a promuovere e a costruire la democrazia ungherese senza compromessi, con profonda serietà, riconosciamo in Attila József uno dei nostri, possiamo e dobbiamo farlo sotto due aspetti. Innanzi tutto il nostro movimento è espressione dell’altezza fin qui raggiunta da quella grande linea alla quale conducono tutti i movimenti del passato che aspirano alla liberazione; da questa altezza si può riconoscere chiaramente che cosa Petöfi e Ady abbiano cercato e raggiunto, Attila József ci appartiene anche per un’altra ragione: perché amava ciò che noi amavamo, odiava ciò che noi abbiamo odiato, era addolorato da ciò che addolorava noi. Nelle sue poesie trovarono espressione i sentimenti più veri e profondi degli operai, dei contadini e degli intellettuali progressisti ungheresi che soffrivano sotto il regime di Horthy. Egli appartenne a noi finché visse, e resta tra noi anche nella sua immortalità.

1 [«Un cardo è la sua anima, e in cima | per ornamento, un rospiciattolo da niente | gracida, e finché il suo vantaggio sente | con le rane più anziane s’accontenta. | Se lontano uno smeraldo ti pareva, | prendilo! ti resterà un poco di bava sulle dita». (Le traduzioni dei versi ungheresi riportati in questo saggio sono di Bonaventura Menato)].

2 [«La grazia ho respinto che si fa largo a spintoni. | Non son venuto a incantare. Io son venuto per tutto»].

3 [«Il tamburo ho battuto dei concili, se mi andava, | e in testa a lacere schiere ho guidato | Dózsa voce sonora, Jacques Bonhomme lo svelto»].

4 [«Legge è il suo verso, e nel suo ritmo esatto | cade la pietra e geme la finestra del castello»].

5 [«Poeta sono «e allora che m’importa della pura poesia?»]

6 [«Non mi tappo la bocca litigiosa, | Sporgo querela alla sapienza. | Mi dà un’occhiata di consenso il secolo: | il contadino, arando, pensa a me; | di me è presago l’operaio quando | il suo corpo è costretto tra due gesti , | la sera, c’è il monello malvestito | sulla porta del cine che m’aspetta. | E dove tutte le canaglie in banda | si scaglian contro l’ordine dei miei versi | rombano già fraterni carri armati | lanciandone le rime tutt’intorno»].

7 [«Dai nostri cuori vola il canto, appena dolore o gioia li ha sfiorati appena. | Il canto, come petali di rosa | strappati, se ne vola via nel vento. | Cantiamo, fratelli! più alta risuoni | la lira sinora suonata, | in questo confuso rumore di terra si levi | qualche pura voce di cielo! | Mezzo mondo è crollato… oh desolata | visione, che gli occhi ferisce ed il cuore! | Sulle ghiacciate rovine s’addensi | come l’edera verde il nostro canto e l’anima nostra!»]

8 Cfr. la poesia «Impiccate i re!»

9 [«Perché hai morso la pietra con denti di latte? | Perché t’affrettavi, se poi sei rimasto per strada? | Perché non hai fatto di notte i tuoi sogni? | Cosa volevi, infine, dimmi?»]

Perry Anderson intervista Lukács (NLR)

di György Lukács

a cura di Perry Anderson

Lukács on his life and work, «New Left Review» n. 68 luglio-agosto 1971.

trad. it. di gyorgylukacs.wodpress.com

 

I recenti eventi in Europa hanno posto ancora una volta il problema del rapporto tra socialismo e democrazia. Quali sono, secondo lei, le differenze fondamentali tra democrazia borghese e democrazia rivoluzionaria socialista?

La democrazia borghese nasce con la Costituzione francese del 1793, la sua più alta e radicale espressione. Il suo principio costituente è la divisone dell’uomo nel citoyen della vita pubblica e nel bourgeois della vita privata, il primo dotato di diritti politici universali, il secondo espressione di particolari e differenti interessi economici. Questa divisione è fondamentale per la democrazia borghese quale fenomeno storicamente determinato. Il suo riflesso filosofico si riscontra in de Sade. È interessante che scrittori come Adorno si siano occupati di de Sade in quanto riflesso della Costituzione del 1793. L’idea cardine, nell’un caso come nell’altro, è che l’uomo sia un oggetto per l’uomo e l’egoismo razionale sia l’essenza della società umana. Ora, è ovvio che qualunque tentativo di ricreare nel socialismo questa forma storicamente superata di democrazia sia una regressione e un anacronismo. Ciò non significa però che le aspirazioni alla democrazia socialista debbano essere affrontate in ottica amministrativa. Il problema della democrazia socialista è un problema reale che non è stato ancora risolto, poiché essa deve essere materialista e non idealista. Mi permetta di fare un esempio. Un uomo come Guevara fu un rappresentante eroico degli ideali giacobini, le sue idee impregnarono la sua vita e la modellarono completamente. Egli non fu il primo caso nel movimento rivoluzionario. Leviné in Germania o Ottó Korvin qui in Ungheria vissero e agirono alla stessa maniera. Bisogna nutrire un profondo rispetto verso una nobiltà umana di questo tipo. Ma il loro idealismo non è quello del socialismo della vita quotidiana, che deve avere una base materiale e fondarsi sulla costruzione di una nuova economia. Tuttavia devo subito precisare che lo sviluppo economico in sé non produrrà mai il socialismo. La dottrina di Chruščëv, secondo la quale il socialismo avrebbe trionfato su scala mondiale quando gli standard di vita dell’URSS avessero superato quelli degli USA, era completamente sbagliata. Il problema deve essere posto in un modo radicalmente opposto. Si può formularlo così: il socialismo è la prima formazione economica nella storia che non produce spontaneamente il suo corrispondente “uomo economico”. Questo perché è una formazione di transizione, un interludio nel passaggio dal capitalismo al comunismo. Ora, poiché l’economia socialista non produce e riproduce spontaneamente l’uomo ad essa corrispondente, come la società capitalista generò il suo homo oeconomicus, cioè la divisione citoyen/bourgeois del 1793 e di de Sade, la funzione principale della democrazia socialista è l’educazione dei suoi membri al socialismo. Questa funzione non ha precedenti né analoghi nella democrazia borghese. È evidente che ciò che oggi sarebbe necessario è la rinascita dei soviet, il sistema di democrazia socialista che sorge ogni volta che si ha una rivoluzione proletaria: la Comune di Parigi nel 1871, la Rivoluzione russa del 1905 e la stessa Rivoluzione di Ottobre. Ma ciò non si realizza nottetempo. Il problema è che gli operai qui sono indifferenti: inizialmente essi non credono in nulla. Continua a leggere

Testamento Politico

di György Lukács

(traduzione di Antonino Infranca e revisioni da parte di questo sito sulla base della traduzione francese: «Georges Lukács. Testament politique», Cités, 2009/3 n° 39, p. 113-149).

Il testo originale in ungherese è apparso in Társadalmi Szemle (Quaderni Sociali), n°. 4, 1990, pp. 63-89 con l’aggiunta di alcune appendici che qui sono state soppresse.


Osservazioni dell’intervistatore

Alla fine del 1970, György Aczél1 ha chiesto a György Lukács di riassumere per la direzione del Partito quelle prospettive che considerasse tanto importanti da essere tenute in conto nella definizione della linea politica del Partito. Lukács era già gravemente ammalato, entrambi lo sapevano. Si misero d’accordo che Lukács esponesse le sue idee in una intervista. L’intervista mi fu affidata, per cui Miklós Nagy, allora responsabile del settore culturale del Comitato Centrale del Partito, mi prestò un registratore. Insieme con Ferenc Jánossy2, Mária Holló e Katalin Szigeti abbiamo analizzato il questionario per decidere ciò che poteva interessare la direzione del Partito e quello che poteva essere importante per Lukács. Questi accettò i temi; tuttavia nel corso dell’intervista, il questionario andò modificandosi significativamente.

L’intervista fu realizzata nel 1971, tra il 5 e il 15 gennaio. Dopo alcune domande abbiamo conversato con il registratore spento riguardo a ciò che Lukács intendeva dire; è per questo che né nel testo né nella registrazione appaiono domande.

Il 20 e il 28 gennaio Lukács rivide e accettò il testo. Il nastro e la versione finale furono consegnate a Miklós Nagy; il testo (o la copia) furono consegnati dal Comitato Centrale del Partito all’Archivio Lukács, il nastro deve essere in qualche posto del Comitato Centrale del Partito.

Ferenc Brody

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La mia via

[Il testo apparso è apparso in un inserto dell’«Unità» dedicato all’Ungheria in occasione delle celebrazione del 25° anno della sua liberazione]

di György Lukács

«l’Unità» 2 aprile 1970


Brani da un saggio inedito di G.L.

I miei primi passi non hanno alcun peso letterario. È cosa nota che io provengo da una famiglia capitalista. Senza voler annoiare i lettori con dati autobiografici, voglio solo dire brevemente che, sin dalla mia infanzia, ero profondamente insoddisfatto del modo di vita dell’ambiente che allora mi circondava. E, dato che, in seguito alla attività economica di mio padre, eravamo continuamente a contatto con i rappresentanti del patriziato urbano e della piccola nobiltà impiegatizia, questo mio atteggiamento scostante si estendeva naturalmente anche a loro. Così, già molto presto, avevano finito per dominare in me dei sentimenti di opposizione nei confronti dell’Ungheria ufficiale. Conformemente al mio livello immaturo di allora, con questo mio spirito di opposizione io esaminavo ogni campo della vita, dalla politica fino alla letteratura, il che, evidentemente, trovava in me la sua espressione sotto forma di un qualche socialismo immaturo. Poiché non ho alcun documento scritto di quest’epoca, naturalmente vive in me il dubbio se non abbellisco posticipatamente questa mia tendenza di sviluppo.

È indifferente in che misura io oggi consideri infantile l’avere generalizzato senza critica questa mia avversione, applicandola a tutta la vita ungherese, alla storia ed anche alla letteratura (fatta eccezione per il solo Petöfi), è certo, comunque, che questa concezione dominava sul mio pensiero. La controforza principale, il suolo stabile allora possibile per me, dove potevo puntare i piedi, era esclusivamente la letteratura straniera moderna di allora, di cui avevo fatto la conoscenza all’età di 14-15 anni circa. Avevano agito su di me in primo luogo la letteratura scandinava (principalmente Ibsen), lo sviluppo tedesco (da Hebbel e Keller a Hauptmann), i francesi (Flaubert, Baudelaire, Verlaine), la poesia inglese (in primo luogo Swinburne, poi Shelley e Keats); in seguito assunse una grande importanza la letteratura russa.

Poiché secondo i ricchi budapestini di allora, la scuola veramente chic era il Ginnasio Riformato, i miei genitori mi iscrissero in questo istituto. Si trattava però di una pessima scuola. A titolo di spiegazione voglio ricordare solo due fattori. Il primo è che dagli studenti di quella scuola era uscita una parte notevole di quello strato della piccola nobiltà e pseudo-nobiltà che aveva avuto un ruolo dirigente nella difesa e nei tentativi di restaurazione della vecchia Ungheria. Il secondo è che vi insegnavano diverse figure dirigenti del conservatorismo letterario ungherese. In seguito a questa, non casuale, coincidenza delle circostanze, i miei tentativi di liberarmi dell’asservimento intellettuale dell’Ungheria ufficiale mi avevano portato in direzione dell’esaltazione del modernismo internazionale. Il mio spirito di opposizione aveva trovato la sua prima espressione nei miei compiti scolastici, provocando lo sdegno violento dei miei professori. La loro continuazione organica fu la mia prima attività di critico nella rivista intitolata «Magyar Szalon». Naturalmente questi germogli non hanno alcun valore letterario.

Questo ingenuo avvio non fu seguito da una attività letteraria. Al contrario, il precoce inizio fu seguito da una pausa di diversi anni, dal periodo dello studio. Penso, a questo proposito, principalmente al mio ruolo nella compagnia teatrale moderna, denominata «Thalia». Fu qui che imparai nella pratica cos’è il dramma e cosa significa, per me, il teatro; fu qui che sparì definitivamente la mia opinione erronea originale, secondo cui la partecipazione alla letteratura per me poteva realizzarsi solo in un’opera letteraria.

La mia partecipazione alla «Thalia», – pur se significativa – non fu altro che un episodio iniziale di tutto il mio sviluppo successivo. Le sue conseguenze pratiche mi allontanarono dal lavoro teatrale; prese in me avvio la preparazione alla ricerca teorica e storica dell’essenza delle forme letterarie e verso il lavoro scientifico e filosofico. Con questo, sotto l’influenza straniera (principalmente tedesca), si acutizzò nuovamente in me l’opposizione contro la vita ungherese di allora. E non vi è nulla di sorprendente nel fatto che, nelle date condizioni, il mio punto di partenza potesse essere solo Kant. Così, era anche naturale che, quando cercavo le prospettive delle generalizzazioni filosofiche, le loro basi e il metodo di applicazione, trovai nel tedesco Simmel l’indicazione teorica, non per ultimo perchè con questo – sia pure in modo deformato – in un certa senso io mi stavo avvicinando anche a Marx. Il mio interesse per la storia della letteratura mi aveva ricondotto dalle «celebrità» del presente agli scienziati della metà del secolo, presso i quali avevo trovato metodi più avanzati di quelli usati allora nel campo della comprensione sociale e storica.

Disprezzavo profondamente la teoria e la storia ungherese. Ben presto, però, subentrarono nella mia vita forti controforze in opposizione a questa unilateralità teorica. Nel 1906 uscì il volume «Nuove poesie» di Endre Ady, il più grande poeta rivoluzionano borghese del secolo XX e nel 1908 lessi le poesie di Béla Balàzs nell’antologia letteraria intitolata «Domani». In breve tempo fummo legati da un’amicizia personale e da una stretta alleanza letteraria.

Il mio incontro con le poesie di Ady fu – come si dice oggi – uno choc per me. Naturalmente, solo molti anni più tardi, incominciai a comprendere e ad elaborare gli effetti di questo choc. Nel 1910 feci il primo tentativo per chiarire filosoficamente l’importanza di questa impressione, ma, in sostanza – solo molto più tardi, in età più adulta – compresi veramente l’importanza decisiva del mio incontro con le poesie di Ady per lo sviluppo della mia concezione ideologica. Benché in tal modo io pecchi contro l’ordine di tempo, penso che sia questo il posto in cui devo descrivere tale effetto. Si tratta in breve del fatto che la filosofia tedesca – non solo Kant e i suoi seguaci miei contemporanei –, ma anche Hegel (che solo parecchi anni dopo esercitò la sua influenza su di me), nonostante gli effetti ideologici apparentemente perturbatori, erano rimasti conservatori nelle questioni del grande sviluppo della società e della storia; la riconciliazione con la realtà (Versöhnung mit der Wirklichkeit) è uno dei postulati della filosofia di Hegel. Ady ebbe su di me un effetto decisivo proprio per il fatto che mai per un solo momento non si era riconciliato con la realtà ungherese. Già nel periodo dell’adolescenza viveva in me il desiderio per una ideologia di questo tipo, senza che lo fossi capace di formulare questi miei sentimenti o di esserne consapevole.

È interessane che, in seguito all’effetto vasto e profondamente trasformatore di questa percezione del mondo, io inserii nella mia visione del mondo, in tutto il mio pensiero, i grandi scrittori russi, in primo luogo Dostoevskij e Tolstoj, come fattori rivoluzionari decisivi. Tutto ciò non significava naturalmente la piena eliminazione della base sociale-storica oggettiva. Al contrario, fu proprio in questo grado di sviluppo che il sindacalismo francese esercitò su di me una forte influenza. Non fui invece mai capace di familiarizzarmi con la teoria socialdemocratica di allora e, in particolare, con Kautsky.

Il mio incontro con Ernst Bloch diede un forte slancio al mio sviluppo filosofico. Avevo iniziato come critico, ma ben presto compresi che senza una base filosofica scientifica (sociale-storica) non può esistere neppure una critica veramente attendibile. In base alle mie esperienze di allora non credevo che fosse valida una filosofia come quella incarnata ultimamente da Hegel. (Con questo metro, non consideravo come filosofi veri neppure quei miei contemporanei che altrimenti rispettavo, dai quali avevo imparato molto. Basti, a questo proposito, accennare a Dilthey e a Simmel).

Concludendo brevemente, il mio incontro del 1910 con Bloch mi aveva pertanto convinto che può esistere una filosofia nel senso classico della parola, anche in quei giorni. Sotto questa impressione, trascorsi l’inverno 1912-1913 a Firenze, per poter rivedere, senza essere disturbato, la mia estetica, come prima parte della mia filosofia. Nella primavera del 1912 venne a Firenze anche Bloch e mi convinse ad andare con lui ad Heidelberg, dove l’ambiente sarebbe stato particolarmente favorevole per il nostro lavoro.

Non vi era nulla che mi trattenesse dal trasferirmi ad Heidelberg, anzi, che eventualmente vi fissassi il mio domicilio. È vero che avevo sempre preferito la vita in Italia piuttosto che in Germania, ma la speranza di trovare la comprensione era più forte di ogni altra cosa. Fu così che mi recai ad Heidelberg, non sapendo fino a quando vi avrei vissuto.

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Non ho qui la possibilità di illustrare, sia pure in grandi linee, il mio sviluppo successivo. Devo comunque aggiungere che furono i problemi interni del movimento clandestino ungherese (e precisamente l’influenza esercitata su di me dalle posizioni di Jenő Landler) ad allontanarmi dal settarismo «messianistico» di allora e ad avvicinarmi ai problemi concreti del nostro movimento. Le tesi di Blum del 1928-29 (la dittatura democratica come passaggio alla dittatura del proletariato) significarono per me l’inizio della svolta. Da allora, lotto come comunista ungherese contro ogni deformazione della democrazia socialista e saluto oggi di cuore il 25esimo anniversario della Liberazione.