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György Lukács

~ il primo blog in progress dedicato a Lukács

György Lukács

Archivi tag: alienazione

Lukács: ritorno al concreto

14 sabato Mar 2020

Posted by nemo in I testi, interviste

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alienazione, Aristotele, assurdo, Beckett, dialettica passato-presente, esistenzialismo, Flaubert, Giovane Marx, grottesco, Heidegger, Joyce, letteratura, libertà, Mann, Mills, montaggio, Morante, Moravia, O'Neil, Proust, Sartre, scelta, Semprun, sociologia, totalità, Wolfe


di György Lukács

da Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2019.

Intervista concessa a Naïm Kattan e pubblicata nella “Quinzaine Littéraire”, 1/15 dicembre 1966 con il titolo “Lukács: revenir an concret”. Tradotta e pubblicata in italiano da “L’Espresso”, n. 2, gennaio 1967, p. 11 con il titolo “Lo scrittore a piede libero”, senza indicazione del traduttore.


L’appartamento di Lukács è all’ultimo piano di un edificio che si affaccia sul Danubio. Le pareti sono tappezzate di libri. Guardo a caso: opere complete di Hegel e di Marx. Sulla scrivania, altri libri, riviste in ungherese, in tedesco, in francese. È qui, che da dieci anni, Lukács prosegue nel suo lavoro.

Si sa che fu Ministro della Cultura nel governo di Imre Nagy. Dopo che la rivoluzione ungherese fu schiacciata, Lukács visse alcuni mesi, in un esilio volontario, in Romania. Dal suo ritorno, si è imposto il compito di terminare la sua “summa” filosofica. Un primo volume di più di mille pagine è già stato pubblicato in tedesco. Lukács è in tenuta da lavoro: pantaloni scuri, giacca kaki. Piccolo e magro, dà l’impressione di possedere un mondo. Ci si dimentica che egli ha 82 anni.

«Ho cominciato la mia vera opera a 70 anni», esordisce Lukács. «A volte, si direbbe che esistano delle eccezioni alle leggi biologiche. In questo senso sono un seguace di Epicuro. Ma io pure invecchio. Per molto tempo ho cercato la mia vera strada. Sono stato idealista, poi hegeliano, e in Storia e coscienza di classe ho cercato di essere marxista. Durante lunghi anni sono stato funzionario del Partito Comunista a Mosca; è in questo periodo che ho avuto il tempo di leggere e rileggere molto, da Omero a Gorki. Fino al 1930, però, i miei scritti erano soprattutto delle esperienze intellettuali. È dopo che vennero i primi traguardi e le basi per il lavoro successivo.

Questi scritti possono sembrare oggi superati, ma essi hanno forse fornito ad altri un suggerimento, una spinta. Certo, può sembrare strano che io abbia dovuto toccare il settantesimo anno per mettermi a lavorare intorno alla mia opera. Una vita non è poi infinita. Pensate a Marx, a questo genio colossale. Ebbene egli non è riuscito a dare che un abbozzo del suo metodo. Nella sua opera non ci sono tutte le risposte che vorremmo. In realtà, stava nel suo tempo. Io utilizzo il suo metodo per i miei studi di estetica. Se egli vivesse oggi, sono sicuro che scriverebbe di estetica». Continua a leggere →

Lukács dal dramma moderno al romanzo storico

03 martedì Mar 2020

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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alienazione, Dostoevskij, dramma moderno, epica, Estetica, Hegel, irrazionalismo, Lenin, Manzoni, marxismo, realismo, romanzo storico, teoria del rispecchiamento, Teoria del romanzo, Tragedia


di Guido Lucchini

«Strumenti critici» XXVI, n. 3, ottobre 2011


Quando nel 1965 Cases presentò al pubblico italiano Il romanzo storico, scritto negli anni 1936-37 durante l’esilio moscovita, con una breve introduzione1, non erano state ancora pubblicate opere fondamentali, da Storia e coscienza di classe, all’incompiuta Estetica di Heidelberg, al giovanile Dramma moderno, per non dire la voce “romanzo” della Literaturnaja enciklopedija (1935)2, che sarebbe uscita da Einaudi soltanto nel 1976, quando le fortune del pensatore e critico ungherese in Italia cominciavano a declinare. Opere tutte che modificavano sensibilmente l’itinerario intellettuale di Lukács. Infatti nel decennio 1950-60 era stato l’autore degli studi della maturità (da Goethe e il suo tempo a La distruzione della ragione, a Il giovane Hegel) a destare l’interesse in Italia e ad esercitare una certa influenza, con ogni probabilità sopravvalutata, sulla cultura di orientamento marxista. All’inizio degli anni Sessanta si cominciò a conoscere un altro Lukács, quello anteriore alla conversione al marxismo (nel 1962 usci la Teoria del romanzo, preceduta da una lunga introduzione di Lucien Goldmann, nel 1963 L’anima e le forme). Il romanzo storico, col suo intento dichiarato di leggere «il presente come storia», per usare un’espressione del libro divenuta famosa, completava là conoscenza del Lukács successivo alla svolta del 1930, piuttosto che contribuire a un riesame complessivo della sua opera. A distanza di oltre quarant’anni risultano però chiari non solo i grandi meriti del critico e filosofo ma anche i limiti, politici e culturali. Non accenno ai primi, perché d’immediata evidenza. Alla luce di quanto accaduto negli ultimi decenni mi sembra invece inevitabile soffermarmi, sia pure rapidamente, sul secondo punto. Se vi è un elemento di continuità fra il primo e il secondo Lukács, questo deve ravvisarsi anzitutto nella convinzione che i tratti più significativi e le contraddizioni di un’epoca si esprimono principalmente nella cultura. Con un ovvio corollario: gli intellettuali, che siano intesi come categoria dello spirito o della società non è in questo caso di primaria rilevanza, ne sono i legittimi depositari. Ora, nell’ultimo quarto del Novecento la figura dell’intellettuale è di fatto scomparsa. E ci sono fondati motivi per dubitare che il terreno della cultura sia ancora l’ambito privilegiato nel quale si esprimono le contraddizioni e le trasformazioni del presente. Continua a leggere →

La teoria della reificazione in Lukács

14 mercoledì Dic 2016

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács, Tesi di laurea

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alienazione, Hegel, Marx, proletariato, reificazione, Sartre


Grazie a Matteo Bifone, che ci regala la sua tesi di laurea specialistica su Lukács. Non sarebbe male se anche le tesi potessero essere pubblicate su questo sito e i giovani studiosi volessero affidare alla comunità lukacsiana i propri sforzi.

pages-from-tesi-specialistica

(clicca sull’immagine per visualizzare la tesi in pdf)

Indice

Cap 1: Contestualizzazione storico-filosofica dell’opera (pp. 7-28):
1.1 Introduzioni dell’autore pp. 7-11
1.2 Contesto storico-politico dell’opera pp.11-15
1.3 Hegel e la reificazione come seconda natura pp. 15-22
1.4 Alienazione e reificazione in Marx pp. 22-28

Cap 2: La reificazione e la coscienza di classe del proletariato (pp. 29-67):
2.1 Il fenomeno della reificazione pp. 29-36
2.2 Le antinomie del pensiero borghese pp. 36-46
2.3 Il punto di vista del proletariato pp. 46-67

Cap 3: bifone_la_teoria_della_reificazione_in_lukacs (pp. 68-107)
3.1 La reificazione come falsa coscienza in J.Gabel pp. 68-96
3.2 oggettivazione e reificazione in Sartre pp. 96-107

La critica dell’irrazionalismo.

22 martedì Dic 2015

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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alienazione, contraddizione, dialettica, empirico, Hegel, intelletto, intuizione sensibile, irrazionalismo, Kant, La distruzione della ragione, Marcuse, Marx, marxismo, ragione, reificazione, Romanticismo, Schelling, Storia e coscienza di classe, tecnica


di Giuseppe Bedeschi

«Il Contemporaneo-Rinascita», 30 luglio 1971.


Rileggendo «La distruzione della ragione»

Per capire bene, in tutte le sue implicazioni, l’interpretazione che Lukács ha dato del fenomeno dell’irrazionalismo nel suo celebre libro La distruzione della ragione, occorre partire, a mio avviso, da quello che è senza dubbio il concetto del marxismo lukacsiano; dalla tesi, cioè, della realtà oggettiva della contraddizione, sempre presentata da Lukács (fin dai tempi di Storia e coscienza di classe) come l’elemento di continuità fra il metodo di Marx e quello di Hegel. Approfondiamo quindi prima di tutto questo punto.

La contraddizione appare in Hegel – ha scritto Lukács in Il giovane Hegel – «come il principio più profondo di tutte le cose e dei loro movimenti», «come il principio vitale e motore», che «non può essere mai definitivamente abolito, ma [che] si riproduce continuamente ad un livello superiore». «Questa dottrina della contraddizione può apparire in forma adeguata e realmente conseguente solo all’interno di una dialettica materialistica, quando cioè questa concezione viene formulata solo come rispecchiamento teoretico delle mobili contraddizioni della realtà oggettiva. Ma la coscienza di questo limite insuperabile dell’idealismo filosofico di Hegel non diminuisce la grande opera da lui prestata con questa conoscenza del carattere reale delle contraddizioni nella realtà e nel pensiero». Continua a leggere →

Il politico e l’ideologo

22 domenica Nov 2015

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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alienazione, catastrofismo lussemburghiano, codismo, critica filosofica vs. critica dell'economia politica, economicismo, essere sociale di grande intellettuale, filosofia, ideologia, infecondità teorica di Lukács, intellettuale ideologo, intellettuale rielaboratore post-festum, marxismo, ontologia, rivoluzione come rivelazione del materialismo storico, separazione intellettuale, stalinismo, Storia e coscienza di classe, storicismo, totalità, unilinearità della storia


di Giuseppe Vacca

«Il Contemporaneo-Rinascita», 30 luglio 1971.

1 L’opera di Lukács ha senza dubbio un grande rilievo storico in primo luogo nell’esperienza del movimento comunista europeo. Egli ha fornito alcuni strumenti ideologici di altissimo livello alla politica culturale dei comunisti durante la fase della Terza internazionale ed anche in seguito, con la destalinizzazione e fino a tutti gli anni ’50: come tramite al comunismo ed al marxismo, prima, per una parte della grande intellettualità europea messa in crisi e sradicata dai suoi legami di classe in seguito all’esperienza della prima guerra imperialistica e della Rivoluzione d’ottobre; poi come alfiere d’un ampio fronte ideale di alleanze democratiche contro il nazi-fascismo ed i suoi torbidi referenti ideologici irrazionalistici; infine come ideologo della politica di «coesistenza pacifica» e testimone di alcuni dei più drammatici momenti della destalinizzazione nei paesi in transizione.

Per questa esemplarità della sua biografia intellettuale e soprattutto per il peso che la intelligentsia ha esercitato nelle vicende del movimento comunista europeo durante la lotta antifascista e dopo la morte di Stalin, Lukács è assurto, dopo la seconda guerra mondiale, al ruolo di nodale punto di riferimento nella vicenda teorica del marxismo e quindi nella formazione ideologica di nuove leve di militanti e dirigenti politici di ogni livello. D’altro canto la vicenda dei partiti comunisti europei nella fase staliniana favorì una relativa separazione fra storia del movimento e storia della teoria. Sicché Lukács si è trovato a simboleggiare, in quanto grande intellettuale marxista legato alle vicende del movimento comunista, un polo di riferimento teorico a volte più influente degli stessi «intellettuali organici», cioè dei dirigenti veri e propri del movimento comunista.

Non è inutile, perciò, nell’avviare una rimeditazione storica della sua opera, porsi il problema d’una valutazione politica di essa. Più in particolare, si vogliono qui proporre alcune considerazioni intorno alla forma ideologica della teoria marxista elaborata da Lukács, con l’intenzione di valutarne la fecondità alla luce dei compiti teorici che la fase attuale della lotta di classe sembra porre al movimento comunista.

Egli stesso, del resto, si è ripetutamente definito un «ideologo», volendo con ciò accennare sia alla delimitazione tematica delle sue competenze, sia alla forma fenomenica della teoria marxista nella propria elaborazione. Possiamo dunque prendere le mosse dal tentativo di chiarire questa connotazione che Lukács per primo ha dato al proprio contributo teorico ed alla sua forma.

2 Nella vicenda del Lukács marxista si deve partire indubbiamente dalla Rivoluzione d’ottobre, secondo quanto egli stesso ha indicato. Ciò in un duplice senso: da un lato perché è l’Ottobre a recidere il cordone ombelicale di Lukács, grande intellettuale borghese in crisi e critico della decadenza, con la cultura tedesca a cavallo fra i due secoli, sospingendolo all’approdo del marxismo; dall’altro perché è in quel nodo che deve andarsi a ricercare la definizione d’un tipo di rapporto fra il Lukács «rivoluzionato» ed il movimento comunista, rimasto poi sostanzialmente costante e costituente tanto il canale di alimento della biografia intellettuale di Lukács, quanto il referente sociologico e l’esplicazione storica della forma ideologica del suo marxismo.

Il passaggio di Lukács dalla parte del proletariato in seguito all’Ottobre e le successive vicende del movimento operaio in Europa vengono mediati, teoricamente, da un tipo di appropriazione del leninismo, che consente a Lukács di non mettere in questione il suo essere sociale di grande intellettuale, nel senso tecnico e specialistico del termine. Di qui, a mio avviso, la particolare curvatura della sua riflessione marxista, tendente a volgere la teoria nella forma della filosofia, con una sua conseguente riduzione alla subalternità nei confronti del reale sviluppo storico.

A proposito della prima fase della sua meditazione marxista (1919-1924) Lukács ha parlato, retrospettivamente ed autocriticamente, di «utopismo messianico». In verità la Rivoluzione d’ottobre, il leninismo, la formazione della Terza internazionale sono per lui i perni di volta di una rottura verticale entro la storia del movimento operaio. A partire da essi si pone il compito di una «rifondazione» del marxismo teorico, il cui referente politico è «l’attualità della rivoluzione» intesa come sostanziale adesione al catastrofismo luxemburghiano ed ipostatizzazione di una lettura del leninismo che ne isola i cardini in riferimento all’esperienza della guerra imperialistica e della Rivoluzione d’ottobre, assumendoli come rivelazione, nella storia, dell’essenza teorica e pratica del materialismo storico.

Di qui la saldezza d’una scelta di campo intesa come prospettiva storica: l’adesione al movimento comunista come collocazione entro una forma comunque superiore dell’elaborazione strategica e dell’organizzazione politica della classe operaia, l’adesione al leninismo come conquista storica irreversibile anche per la classe operaia europea ed ancoraggio sicuro, anche nella versione staliniana, nella tragedia del movimento operaio europeo di fronte al fascismo ed al nazismo. Ma di qui anche una certa riduzione dogmatica del leninismo rispetto al compito di riproblematizzare, alla sua luce, la prospettiva rivoluzionaria della classe operaia europea partendo dal concreto della sua lunga esperienza politica ed organizzativa.

Lukács stesso, nella postilla all’edizione italiana del Lenin, ha avvertito che la problematica politica e teorica da lui affrontata in quel giro di anni fa parte d’un capitolo ormai concluso della storia del movimento operaio: la problematica della rivoluzione in Occidente così come venne vissuta e dibattuta nel movimento comunista europeo degli anni ’20.

Non mi pare dubbio, tuttavia, che gli anni ’20 costituiscano un nodo di particolare pregnanza per la storia successiva e presente del movimento operaio europeo, nella misura in cui è tuttora operante la mancata soluzione del problema principale aperto alla classe operaia europea dall’Ottobre russo e dalla parziale vittoria del leninismo: il problema di condurre la stragrande maggioranza di essa ad una più specifica impostazione del problema del potere, rispetto alla tradizione secondinternazionalista, attraverso un’analisi adeguata dei nuovi processi storici aperti su scala mondiale dalla Rivoluzione d’ottobre e la rielaborazione originale dei leninismo come forma superiore dell’organizzazione e dell’iniziativa politica di classe.

Sotto questo profilo, proprio per la corretta valutazione politica di una forma ideologica della teoria marxista quale quella lukacsiana, mi pare giusto riandare alla sua genesi nel crogiuolo dei primi anni ’20: in particolare per misurarne i limiti di fronte al compito non già d’una generalizzazione dei canoni del leninismo e d’una loro più o meno meccanica trasmissione al tronco d’una tradizione così corposa quale quella del movimento operaio europeo (compiti, del resto, sostanzialmente inevasi dalla stessa Terza internazionale, nel suo complesso), bensì d’una reale rielaborazione dell’esperienza storica della classe operaia europea nella prospettiva del superamento degli orizzonti secondinternazionalisti.

Non tanto la mancata soluzione, quanto soprattutto la mancata impostazione di questo problema segnano il difetto d’origine dei marxismo lukacsiano e la relativa infecondità della sua forma ideologica lungo l’intero arco del suo svolgimento.

3 L’«universalità» del leninismo viene intesa da Lukács, in questi anni, come definizione di un modello di strategia rivoluzionaria e di organizzazione politica di classe, in base al quale si deve consumare una soluzione di continuità con la pratica politica ed organizzativa della classe operaia europea e della Seconda internazionale. L’atteggiamento della teoria, a questa stregua, non procede dal concreto al concreto, punta bensì all’individuazione di un fronte di lotta che presuppone l’ipostasi dell’esperienza dell’Ottobre: imperialismo, catastrofe economica e politica, guerra civile, conquista del potere politico di Stato da parte del proletariato come tale. Sicché la teoria non procede secondo «l’analisi concreta della situazione concreta», con le dovute generalizzazioni; bensì isolando e fissando i caratteri d’una fase storica già sperimentata della lotta di classe.

In ciò, come del resto nella definizione del leninismo e della Rivoluzione d’ottobre come corretto precipitato storico dell’essenza del materialismo storico, la recezione lukacsiana del marxismo mantiene e ribadisce il campo teorico storicistico della sua formazione premarxista: una concezione unilineare della storia come processo di cui i singoli eventi, continuità e rotture, costituiscono le manifestazioni.

La teoria, la coscienza in genere non può essere scandita altrimenti che come procedimento espressivo di questa realtà. Sicché la sua connotazione materialistica non risulta dai rapporti specifici che determinate forme di coscienza denunciano con i propri referenti materiali, bensì dal suo essere, per definizione, sociologicamente pregnante.

La specificità del teorico dilegua in una generica restituzione della sua autonomia; sicché la definizione di un fronte teorico viene scandita dall’apertura d’uno scontro ideale contro le forme ideologiche presenti nella pratica del movimento operaio europeo nell’unico ed univoco atteggiamento che una tale concezione della pratica teorica può consentire: verità contro errore, metodo corretto contro metodo erroneo, rivoluzionari contro rinnegati.

Per tale via la possibilità d’una autocritica del movimento operaio europeo si perde; e si consuma una doppia scissione: l’una al suo interno, nella pratica politica; l’altra fra pratica politica e pratica teorica, riseparate.

L’articolazione concreta di questa vicenda teorica è nota: contro la disarticolazione del marxismo in una serie di discipline e la considerazione a parte del socialismo come prospettiva etica e scelta di valore, assunte a rappresentazione esaustiva della pratica secondinternazionalista, si rivendica il reagente teorico (metodologico) rivoluzionario del materialismo storico, la categoria di totalità (senza le dovute specificazioni materialistiche), indispensabile alla fondazione dell’unità di teoria e prassi e dunque a produrre un tipo di conoscenza che si rovesci nella pratica rivoluzionaria.

Da un lato la critica dell’opportunismo si fissa come denuncia della separazione di teoria e pratica, da esso consumata; dall’altro la critica teorica di esso si riduce ad attaccarne il metodo, il campo teorico, la filosofia: sia quanto alla prima che quanto alla seconda ragione di critica va smarrita la giusta considerazione materialistica della teoria come una pratica specifica, pratica teorica, livello specifico della pratica sociale.

Mutatis mutandis, si ripropone una versione filosofica della teoria, che presuppone l’articolazione fra economia e coscienza propria del modo di produzione capitalistico; con le conseguenti feticizzazione dell’economico ed ipostatizzazione del teorico non molto diversamente che nella pratica teorica secondinternazionalista.

Tutto quanto muta fa perno soprattutto sulla centralità della forma di merce e della teoria marxiana dell’alienazione, riassunte da Lukács a sostegno della sua lettura del materialismo storico e della sua rivalutazione della categoria di totalità. È l’analisi marxiana della forma di merce come categoria sociologica centrale della società borghese, perché esplicativa dei suoi rapporti di produzione, a sostenere la possibilità di una dissoluzione delle sue forme pietrificate e spacciate come «naturali» nella processualità del movimento storico.

Ma l’analisi lukacsiana della reificazione ne fissa l’essenza ai modi del processo lavorativo ed in definitiva alla morfologia della divisione tecnica del lavoro: l’alienazione nasce dalla parcellizzazione dei lavoro moderno e si sostanzia nella sua impossibilità di riconquistare, nella società capitalistica, il proprio senso umano e fine sociale. L’analisi del processo lavorativo si risepara, così, dai parametri fondanti del processo di valorizzazione del capitale; l’analisi economica è disancorata dall’analisi della tecnologia. L’economia come sfera separata dell’organizzazione dei rapporti sociali di produzione lungo l’asse dello scambio-produzione-distribuzione si sottrae alla critica materialistica e viene surrettiziamente conservata nel suo essere «pietrificato», ovvero secondo il suo modo di «apparire» nella società capitalistica.

La teoria, non riuscendo più ad essere «critica dell’economia politica» (scienza sociale critica), non può che rifluire nell’autonomo discorso sul metodo, nella forma della filosofia appunto come discorso del metodo, che è la forma fenomenica della teoria propria della formazione sociale capitalistica, della divisione capitalistica del lavoro, di una società in cui la coscienza dell’intero (la forma organica della coscienza sociale) esiste solo nella pratica teorica di un ceto sociale distinto: gli intellettuali in quanto filosofi o comunque consapevoli del metodo della propria disciplina, delle sue connessioni con l’universo della conoscenza.

Da questa doppia ipostasi: dell’economico ri-feticizzato e del teorico ri-ideologizzato, non può che scaturire una torsione della teoria nell’ideologia, del fronte teorico nel fronte della «battaglia ideale». Si tratta, dal punto di vista del proletariato, di scacciare le idee scorrette o comunque nemiche dalla sfera della coscienza sociale, per sostituirle con idee progressive e dunque corrette o addirittura, nella pratica relativamente autonoma degli intellettuali che passano dalla sua parte, con idee progressive perché corrette. Ovvero, dal punto di vista del teorico, solo nella sfera della coscienza si manifesta la contraddizione, legge di movimento della formazione sociale capitalistica e della storia tout court. Il livello della coscienza come tale diviene perciò il terreno decisivo dello scontro di classe ed anzi all’ideologo la contraddizione stessa appare solo nella forma del conflitto ideologico (contraddizione in generale e dunque contraddizione logica).

In questo senso il passaggio di Lukács dalla parte del proletariato, mediato dal rapporto con il leninismo e dalla lettura della teoria marxiana dell’alienazione cui abbiamo accennato, non ne mette in questione l’essere sociale di grande intellettuale, che pone al servizio di un’altra classe la sua competenza, senza che ciò comporti una ristrutturazione del suo modo di esplicarsi.

Nella misura in cui il campo teorico così istituito ribadisce un ruolo espressivo della teoria, questa non può articolarsi altrimenti che come propaganda, sia pure nel senso più alto e leninista del termine. L’intellettuale che ha rotto con la sua classe d’origine e si allea al proletariato non può che esserne l’ideologo, subalterno al processo storico della lotta di classe inteso come pratica politica del movimento o del partito operaio, e suo rielaboratore ideale post festum: con la conseguente e congrua vanificazione della stessa conclamata autonomia del teorico, una volta offuscatane la specificità.

4 Ho insistito sulla collocazione sociale d’origine di Lukács e sul tipo di rapporto che una certa recezione del leninismo viene a mediare fra lui ed il movimento comunista, perché in ciò si possono ravvisare le condizioni principali della sua successiva biografia intellettuale, svoltasi sostanzialmente senza profonde fratture o soluzioni di continuità.

Così, ad esempio, Lukács può sostenere lo scontro con l’IC a proposito di Storia e coscienza di classe, senza rompere con il movimento comunista, perché la dislocazione «culturale» del suo terreno d’intervento politico consente margini relativamente ampi di elasticità. Del pari sintomatico è il suo modo di reagire allo stalinismo dopo lo scontro verificatosi con l’IC a proposito del socialfascismo: Lukács lavora allo Hegel e più in generale ad una ricostruzione oggettiva delle linee di movimento della grande cultura borghese, per contrastare dogmatismo e soggettivismo burocratico dell’età staliniana su un terreno specifico, ritagliandosi ancora una volta uno spazio autonomo nelle pieghe del movimento comunista.

Quale sia il massimo respiro d’una tale collocazione può essere forse testimoniato soprattutto dalla fase dei fronti popolari. Storicamente, forse, questa non rappresenta molto di più d’una svolta tattica, sia pure di grandi conseguenze. Voglio dire che in seguito al VII Congresso dell’Internazionale non mi pare che muti alcuno dei caratteri di fondo della fase apertasi con la sconfitta della rivoluzione in Occidente e l’avvio al «socialismo in un paese solo», sia quanto ai caratteri della società sovietica, che quanto al clima interno ai partiti comunisti, ai loro rapporti con l’IC, ad un reale arricchimento delle loro possibilità d’iniziativa rivoluzionarla in Occidente, e così via.

Ebbene, l’opera lukacsiana di più profonda efficacia politica, questa volta non più in contrasto, bensì in armonia con la politica dell’IC, è La distruzione della ragione, organica a questa nuova fase tattica dell’IC, e forse la più poderosa mediazione culturale della nuova politica di alleanze e di unità antifascista del movimento comunista. Sotto il profilo teorico essa da un lato mi pare che non aggiunga niente di sostanziale agli schemi interpretativi della storia della cultura borghese già presenti o comunque impliciti in Storia e coscienza di classe, dall’altro mi pare opera emblematicamente propagandistica (sia pure nel senso non volgare del termine, e dunque senza nulla togliere alla validità scientifica delle sue analisi): in altri termini essa è strumento di mediazione culturale di una politica, ad opera di un grande intellettuale, nel senso tradizionale del termine e d’una tradizionale divisione di compiti fra politica e cultura.

Essa testimonia in maniera eminente tanto la continuità della biografia intellettuale di Lukács proprio in quante altissimo mediatore culturale della politica del movimento comunista, quanto ciò che la rende possibile: il mantenimento del proprio ruolo autonomo di intellettuale e la conseguente più o meno esplicita subordinazione al primato della politica nel senso specialistico del termine.

Il campo teorico di tale continuità, malgrado le revisioni profonde nella teoria dell’alienazione ed una più accurata distinzione fra Marx e Hegel, intervenute negli anni ’30, può ravvisarsi appunto nell’identica considerazione, tanto nel Lukács giovane che nel Lukács maturo, della sfera della coscienza come sufficientemente autonoma, partendo storicamente dall’essere sociale della formazione borghese capitalistica; e tale da esaurire, in definitiva, la lotta di classe per l’egemonia nelle forme del conflitto ideologico. Nel che vi è sia il riflesso teorico di quel permanere dell’essere sociale di «intellettuale separato», lungo l’intero arco della biografia intellettuale di Lukács, sia la indelebile impronta storicistica ed hegeliana d’origine del suo approccio al marxismo e del suo «patto» con il movimento comunista.

Ma qui non c’interessa tanto un approccio alla biografia intellettuale di Lukács, adeguato ad una sua corretta ricostruzione storica, quanto una prima valutazione politica di Lukács in quanto «ideologo». Pertanto non seguiremo analiticamente gli svolgimenti dell’opera lukacsiana, cercando invece di verificare, in base ad alcune vicende politiche particolarmente periodizzanti e significative, che toccano gli anni delia tarda maturità di Lukács, la correttezza o meno della valutazione politica di Lukács come teorico, fin qui proposta, sostanzialmente ricavata da una lettura della sua opera giovanile, nella convinzione d’una sostanziale continuità di campo teorico lungo l’intero arco della sua biografia intellettuale.

5 Nelle analisi dello stalinismo abbozzate da Lukács in scritti ed interviste dopo il ’56 si trovano definizioni dell’URSS staliniana come tipo di «Stato di polizia regolato in forma autocratica»; oppure, a proposito della società politica sovietica e delle democrazie popolaci, considerazioni molto simili a quelle sviluppate in forma organica da filosofi marxisti orientali d’indirizzo neoumanistico come Kosík o da alcuni jugoslavi raccolti intorno alla rivista Praxis, caratterizzanti il sistema politico dei paesi in transizione come Stato della «generale manipolazione». Ebbene, è estremamente improbabile, almeno fino al ’68, trovare tentativi, da parte di Lukács, d’una esplicazione di tali realtà storiche risalendo all’analisi sociale materialistica di questi paesi. Troviamo, invece, la definizione dello stalinismo come modello «spirituale» di «soggettivismo burocratico» e di pratica politica «degenerata»: insomma l’indicazione di una catena di errori da correggere facendo appello al ripristino della prassi leninista ed allo sforzo onesto e collettivo degli intellettuali per la «rinascita» dei marxismo.

Dubito che si possa ritenere esaurito il problema considerando semplicemente tali orientamenti di Lukács come frutto di un abile compromesso con i limiti consentiti ai processi di destalinizzazione dalle vicende della direzione kruscioviana e postkruscioviana di essi, compromesso indispensabile a poter sviluppare in sede separata un corretto lavoro di risarcimento teorico del marxismo e dunque a poter contribuire allo sviluppo più profondo di quegli stessi processi. Questa divisione del lavoro fra politica e teoria, infatti: a) blocca in partenza ogni possibilità di autentico risarcimento teorico del marxismo; b) non intacca la sostanza del rapporto fra teoria e pratica sociale proposto in un processo di destalinizzazione ancora tutto contratto nei ceppi dei parametri teorici, politici ed istituzionali della costruzione staliniana; c) non consente alcuna reversione dal confinamento ideologico della teoria, proprio della esperienza staliniana; d) ribadisce, per Lukács, una continuità del ruolo di «ideologo», che affonda le sue radici non certo in un semplice compromesso politico, ma negli stessi parametri categoriali assegnati da Lukács alla teoria ed al suo nesso con la pratica sociale fin dal suo approdo al marxismo.

Tale valutazione mi pare confermata, d’altro canto, dal modo in cui Lukács si assume il compito di interprete e banditore della politica di «coesistenza pacifica». Essa viene intesa come istituzione di un terreno nuovo e più favorevole all’iniziativa di classe sul piano internazionale perché costringe l’avversario ad una competizione fondamentalmente produttiva (economica) ed ideologica, ed in entrambi i campi il blocco socialista mostrerà in breve la sua superiorità economica ed umana.

Anche qui, non si tratta di un compromesso dell’intellettuale Lukács con «il Principe» del suo tempo. L’adesione di Lukács a questa politica di coesistenza è profonda in quanto egli ritiene il nuovo contesto politico particolarmente favorevole alla «rinascita» del marxismo: sufficientemente dialettizzato da consentire l’opera di chiarificazione teorica, di ricostruzione e nuovo rischiaramento per mano d’una nuova leva di intellettuali, il cui approdo al marxismo sia frutto d’un nuovo processo spontaneo di riconoscimento della sua originaria superiorità teorica.

D’altro canto l’economicismo di fondo di questa prospettiva non è altro dall’originaria riduzione dell’economia a tecnologia operata da Lukács in Storia e coscienza di classe attraverso la vanificazione della critica della forma di merce nella condanna della «parcellizzazione» del lavoro. La forma di mediazione teorica di tale economicismo indiretto è la stessa: una capitolazione di fronte all’articolazione di istanza dell’economico e dell’ideologico propria della formazione sociale capitalistica; e dunque la riduzione della teoria dello sfruttamento ai suoi esiti «spirituali» o forme mercificate della coscienza, tale da reistituire il fronte della teoria come autonomo campo di lotta ideale contro le forme spirituali della reificazione, riassumendo surrettiziamente la forma più raffinata e resistente della divisione capitalistica del lavoro (e dunque dell’economia capitalistica e della stessa reificazione), la separatezza dell’intellettuale come incarnazione sociologica e totalizzante della coscienza sociale.

Tale capitolazione alla definizione che l’economia borghese dà di se stessa e dunque all’economicismo è addirittura patente in alcuni momenti del tardo Lukács: così, ad esempio, quando egli parte dalla modificazione dei rapporti fra settore I e II della produzione nel capitalismo maturo e ne fa discendere una prospettiva di lotta per il socialismo, in Europa, come lotta per l’egemonia ideologica sul tempo libero ed i modelli di consumo delle classi lavoratrici.

La forma fenomenica specifica del suo economicismo mi pare comunque ben precisa e sostanzialmente sempre la stessa: la trascrizione delle categorie della critica dell’economia politica in una nuova filosofia dell’uomo e del lavoro; per il qual tramite si risepara la sfera della coscienza e per implicito si sottrae nuovamente al suo intervento la sfera dell’economia (assai indicative, in tal senso, mi paiono le prime anticipazioni dell’ultima opera lukacsiana, la Ontologia dell’essere sociale, apparse in italiano nelle Conversazioni).

Il modo empirico in cui questa torsione della funzione della pratica teorica in pratica ideologica si genera in Lukács a me pare debba farsi risalire all’originaria teoria storicistica della storia. La categoria hegeliana della totalità ovvero della storia come processo unilineare, presuppone in chi l’adopera una riseparazione di teoria e prassi e la riassunzione esaustiva di tutta la ricchezza fenomenica di questa nelle mediazioni spirituali di quella: ovviamente nella forma della filosofia, conoscenza fine a se stessa e «totale» del mondo proprio perché categorialmente e strutturalmente post-festum.

La riassunzione della forma filosofia per la teoria spinge Lukács ad una tale subalternità verso la temporalità unilineare della storia-cronologia che egli considera non solo la sua biografia di militante, ma anche quella di teorico scandita dai congressi di partito e dall’analisi sociale da essi prodotta. Ultima e forse più vistosa manifestazione di ciò l’adesione lukacsiana alla versione kruscioviana delle ragioni del conflitto cino-sovietico, riassumente le posizioni cinesi nella disponibilità alla guerra atomica.

Il «codismo» teorico conseguente alla forma ideologica del marxismo lukacsiano è confermato positivamente anche dall’aprirsi dell’ultimo Lukács ad una più corretta visione dei problemi della democrazia socialista come implicanti la necessità d’una oggettiva dialettica sociale e politica nei paesi di transizione, dalla sua ripresa della tematica soviettista, dal suo rinnovamento della critica della democrazia politica, sotto la spinta dei grandi processi sociali apertisi il ’67-’68 (vittoria della rivoluzione culturale in Cina, offensiva vietnamita, «primavera di Praga», movimenti studenteschi, «maggio francese»). Ancora una volta, però, è il filosofo che giunge post festum; e questa volta, data la profondità e ricchezza dei sommovimenti di massa, per rinnovare una tematica politica suggestiva.

Proprio qui si è interrotto il lungo e appassionato lavoro lukacsiano di testimone dei primi 50 anni di storia del movimento comunista. Forse nessuno, dopo Lenin, ebbe come lui viva la coscienza che si tratta appunto dei primi cinquantanni di costruzione d’una nuova società.

Il legame che tale coscienza lo spinse a mantenere comunque e ad ogni tornante con il movimento comunista costituisce una non secondaria ragione della sua grandezza storica. In ragione di esso, infatti, anche le critiche all’infecondità teorica di Lukács in quanto «ideologo» non possono che essere parte della critica del marxismo teorico proprio ad una determinata fase storica del movimento comunista e della lotta di classe.

Come tali esse sono state qui proposte con l’animo di chi sa, in quanto militante, che solo attraverso una continua autocritica del proprio patrimonio storico il movimento può sperare di proseguire nel proprio mandato.

Lukács, 1955

31 domenica Mag 2015

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alienazione, coscienza di classe, Henri Lefebvre, ideologia, intellettuali, partito, Patrick Tort, potere, tattica, verità


icco

di Henri Lefebvre

Deux théoriciens marxistes écrivent ici à trente ans de distance et dialoguent dans le présent.

A l’heure où une crise grave affecte le Parti Communiste Français, et où l’urgence d’un ressaisissement de la pensée et du projet communistes se fait plus que jamais sentir, ce livre parle d’un marxisme vivant.

Henri Lefebvre, se portant en 1955 au secours de Lukács victime de la suspicion dont l’entou­raient alors les directions politiques, demeurées fortement staliniennes, des appareils hongrois et français, et Patrick Tort, proposant des voies nouvelles pour la réflexion et la pratique poli­tiques contemporaines, abordent ici des ques­tions majeures.

Au centre de leur propos, la conscience de classe, le rôle des intellectuels, la vérité, la tactique, le pouvoir, les nouvelles formes de l’aliénation, l’idéologie, les médias, le spectacle, l’identité, l’égalité, le réformisme, le P.C.F., l’explication du marxisme, la théorie et l’action.

Un Lukács più autentico

23 sabato Mag 2015

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alienazione, estraneazione, Giovane Lukács, Hegel, Marx, oggettivazione, Storia e coscienza di classe


di Gabriele Giannantoni

«L’Unità», 16 giugno 1971

Riflessione teorica e impegno militante del grande filosofo scomparso

Non si guadagna in rigore, né scientifico né politico, compiendo un’operazione di estrapolazione storica; togliendo cioè la fase del pensiero giovanile dalle condizioni oggettive e soggettive in cui maturò e distaccandola dalle fasi successive


Nel lungo arco della vita di Lukács si distendono e diventano, per così dire, «vi­sibili» i problemi tormen­tosi dell’intellettuale di ti­po nuovo, dell’intellettuale marxista militante: si tratta dei problemi, in generale, dei rapporti tra riflessione teorica e impegno pratico, tra la libertà della ricerca e la disciplina politica, ma, più specificamente, si trat­ta dello sforzo razionale e della tensione morale che sono state necessarie per chi, negli ultimi cinquantan­ni, ha voluto capire ciò che gli accadeva intorno, per cercare di dargli un senso, di ritrovarne, nei limiti del possibile, l’interna razionali­tà; per costruire una coe­renza di comportamento tra l’analisi teorica e la collocazione politica.

La vita e il pensiero di Lukács assumono in questo contesto un valore emble­matico, ancora per lungo tempo ricco d’insegnamen­to. E sono solo meschine certe speculazioni di corto respiro che sulla stampa borghese sono state tentate in occasione della sua mor­te. Non su queste, del re­sto, voglio fermarmi, ma su un punto che mi pare meri­tevole di discussione, tanto in sede teorica che in sede politica, e cioè sul significa­to della distinzione corren­te tra un Lukács «giovane» e un «maturo», tra gli scritti raccolti nel volu­me Storia e coscienza di classe (1923) e gli scritti composti dall’epoca del sog­giorno a Mosca in poi.

La condanna di Zinoviev

Che questa periodizzazione abbia un fondamento ob­biettivo non è dubbio, e in questo senso concludono an­che le pagine autobiografi­che e in particolare la pre­fazione a Storia e coscienza di classe, scritta da Lukács per la traduzione italiana (1967). Ma contro una sua troppo marcata sottolineatu­ra stanno non solo le ragio­ni messe più volte in luce dalla critica (sia da quella che ha inteso mostrare la persistenza dell’influenza he­geliana, sia quella che – all’opposto – ha rivendica­to la continuità dell’ispira­zione marxista), ma anche la tendenziosità che quel­la periodizzazione assume quando venga intesa come una contrapposizione tra le tesi di «sinistra» del primo libro marxista di Lukács e l’ortodossia degli scritti suc­cessivi, quasi che, di fronte ad essa, noi fossimo chia­mati ad una scelta e non ad uno sforzo di comprensione.

Se quindi non è da condi­videre la condanna politica (che è altra cosa dalla criti­ca scientifica) che di Sto­ria e coscienza di classe pro­nunciò il marxismo ufficia­le per bocca di Zinoviev nel 1924 (ma non altrettanto spesso viene ricordata la condanna che fu pronuncia­ta anche dalla II Internazio­nale per bocca di Kautski), non per questo però è da condividere il privilegiamento in termini di immediata attualità politica di quel libro, per contrappome l’impostazione rivoluzionaria e «giacobina» al grigiore e alla banalità degli stati e dei partiti comunisti: uso di pro­posito questi termini perché non si dovrebbe dimentica­re che il primo che teorizzò questa interpretazione fu un pensatore non marxista, ma esistenzialista: Merleau-Pon­ty. E se tale interpretazione è stata ripresa da tutta una letteratura «marxisteggiante», è perchè spesso è an­data smarrita la fisionomia non solo di Lukács, ma an­che del marxismo: il filosofo ungherese è stato così sovente introdotto in una compagnia molto eteroge­nea, che va da Weber a Mar­cuse, da Sartre ad Adorno.

Non voglio certo con questo negare che nel libro di Lukács siano presenti suggestioni che sembrano giustificare tutto ciò, come vedremo; ma il punto essenziale è che non si guadagna in rigore, né scientifico né politico, compiendo una operazione di estrapolazione storica, togliendo cioè quella fase del pensiero di Lukács dalle condizioni oggettive e soggettive, in cui maturò, e distaccandola dalle fasi successive. Queste condizioni le ha richiamate lo stesso Lukács, ricordando la redazione del suo libro, l’emigralione viennese e il lavoro nel collettivo della rivista «Kommunismus»: egli in­fatti ha scritto che l’elabo­razione di una linea politi­co-teorica di «sinistra», «poggiava sulla fiducia, al­lora ancora molto viva, che la grande ondata rivoluzio­naria, che avrebbe dovuto condurre in breve tempo il mondo intero, o almeno la intera Europa, al socialismo, non era affatto riflui­ta per via delle sconfitte su­bite in Finlandia, in Unghe­ria e a Monaco. Avvenimen­ti come il putsch di Kapp, l’occupazione delle fabbri­che in Italia, la guerra sovietico-polacca, e infine la “azione di marzo”, rafforza­rono in noi questa convin­zione del rapido approssi­marsi della rivoluzione mon­diale, di una vicina e tota­le trasformazione dell’inte­ro mondo civile. (…) La nostra rivista “Kommuni­smus” contribuiva al setta­rismo messianico perchè metteva in pratica il meto­do più radicale in tutte le questioni, proclamando in ogni campo una rottura to­tale con tutte le istituzioni e le forme di vita derivanti dal mondo borghese. (…) Un esempio di questa tendenza è il mio saggio polemico contro la partecipazione ai parlamenti borghesi».

A parte alcune concessio­ni al linguaggio ufficiale, il richiamo di tutto ciò è illuminante e non ha biso­gno di commento. Ma per ciò che riguarda Lukács, a queste ragioni politiche, al­tre se ne potrebbero ag­giungere di carattere più fi­losofico: la sua formazione precedente sulle idee di Simmel e Max Weber, di Dilthey e di Kierkegaard, di Windelband e di Rickert, la forte influenza hegelia­na, il non sufficiente appro­fondimento (come egli stes­so ricorderà) del pensiero di Marx e Lenin, l’urgenza di una polemica contro il positivismo.

Di qui l’impronta «hegelianeggiante» (più che idea­listica, almeno nel senso più elementare in cui que­sto termine fu adoperato da Zinoviev, quando rileva­va il mancato accoglimento della concezione materiali­stica e dialettica della na­tura e della teoria della co­noscenza come rispecchiamento della realtà da parte della mente); impronta do­vuta soprattutto ad un ta­glio e ad un’impostazione teorica generale che erano tipici di quel libro, e cioè il privilegiamento del concetto hegeliano di «totali­tà» non solo rispetto al con­cetto di «struttura econo­mica» di Marx, ma anche rispetto alla «parzialità» del­l’intelletto scientifico (che si riflette nel frazionamen­to e nella parcellizzazione del lavoro nella società ca­pitalistica).

Il concetto di totalità

Qui Lukács non si limitava a riprendere motivi (come il dualismo tra scienze della natura e scienze dell’uomo) propri dello storicismo spiritualistico tedesco, ma vedeva altresì nel concetto di totalità l’elemento di continuità tra Hegel e Marx, la molla della dialettica, anche di quella marxista. Ne derivava in Lukács, come è stato più volte rilevato, l’equivoco, a proposito dell’«alienazione», tra il concetto di «oggettivazione» e quella di «estraniazione» (teoria della reificazione e del feticismo), e, in qualche misura, una esasperazione della concezione della classe operaia come ricettacolo di una coscienza di classe che altri istillano in essa, invece che come agente storico autonomo; dico esasperazione perché certamente il tema è leninista (il Che fare?), ma esso in Lukács correva il rischio, e proprio per l’equi­vocità del concetto di alie­nazione, di colorarsi anche di suggestioni diverse e di assumere la forma di una estrapolazione della coscien­za di classe dalle contraddi­zioni storiche del capitali­smo, che invece la determi­na storicamente. Il punto reale mi pare questo e non un’astratta disputa sul pe­so maggiore o minore che deve essere riconosciuto al­la coscienza e alla volontà rivoluzionaria rispetto alle condizioni e alle possibilità oggettive o viceversa. Una disputa di questo genere presuppone e conserva il dualismo tra i due momenti anziché cercarne l’unità.

Nei Manoscritti del ’44 (pubblicati però soltanto nel 1932) Marx aveva scrit­to che «il lavoro non pro­duce soltanto merci; esso produce se stesso e il lavo­ratore come una merce, precisamente nella propor­zione in cui esso produce merci in genere. Questo fat­to non esprime nient’altro che questo: che l’oggetto, prodotto del lavoro, prodot­to suo, sorge di fronte al la­voro come un ente estra­neo, come una potenza in­dipendente dal producente. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, che si è fatto og­gettivo: è l’oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggetti­vazione. Questa realizzazio­ne del lavoro appare, nella condizione descritta dalla economia politica, come pri­vazione dell’operaio, e l’og­gettivazione appare come perdita e schiavitù dell’og­getto, e l’appropriazione co­me alienazione, come espro­priazione».

L’oggettività in Marx

L’oggettivazione è dunque qualcosa che è intrinseco al lavoro in quanto tale e la sua soppressione è la sop­pressione del lavoro; la pri­vazione, l’alienazione e la espropriazione (in una pa­rola: l’estraneazione) sono invece intrinseci non al la­voro in generale, ma a ciò che il lavoro diventa nel mo­do capitalistico di produrre, e la loro soppressione attra­verso la lotta di classe, è la soppressione non del lavo­ro, ma dei rapporti capitali­stici. La distinzione tra og­gettivazione e estraneazione è pertanto un aspetto es­senziale di ciò che distingue il marxismo dall’idealismo e dalle teorie romantiche an­ticapitalistiche, l’analisi e gli obbiettivi comunisti da quelli radicali e borghesi.

È vero: Lukács non pote­va conoscere questi testi di Marx, ancora inediti quando scrisse Storia e coscienza di classe; ma allorché potette prenderne visione riconob­be chiaramente l’importan­za del problema (a differen­za dei già ricordati critici della «società in generale» e dei loro ripetitori) e scris­se nella citata prefazione del ‘67: «Ricordo ancor og­gi l’impressione sconvolgen­te che fecero su di me le parole di Marx sull’oggetti­vità come proprietà materia­le primaria di tutte le cose e di tutte le relazioni. Ad essa si ricollegava (…) la comprensione del fatto che l’oggettivazione è un modo naturale – positivo o nega­tivo – di dominio umano del mondo, mentre l’estra­neazione è un tipo partico­lare di oggettivazione che si realizza in determinate circostanze sociali. Con ciò erano crollati definitiva­mente i fondamenti teorici di ciò che rappresentava il carattere particolare di Storia e coscienza di classe. Questo libro mi divenne completamente estraneo, co­sì come era accaduto nel 1918-19 per i miei scritti an­teriori. Di un colpo mi fu chiaro che se volevo realiz­zare quegli elementi teorici che mi si presentavano di­nanzi, dovevo ancora una volta ricominciare dall’ini­zio».

Qui sta a mio avviso la chiave per intendere la sua successiva elaborazione dei rapporti Marx-Hegel e la cri­tica dell’irrazionalismo tede­sco «da Schelling a Hitler»; la stessa persistenza dell’influsso di Hegel nell’imposta­zione di taluni problemi ca­pitali (tipici la contrappo­sizione tra dialettica, rivolu­zionaria, e sistema, conser­vatore, in Hegel e l’esalta­zione della ragione specula­tiva sull’intelletto scientifi­co), e il senso, che Lukács ebbe vivissimo, della conti­nuità e della ricchezza di una tradizione culturale non da negare ma da «eredita­re». Per il momento basti aggiungere che riflettere su questi temi e sul momento storico in cui furono elabo­rati può servire a meglio comprendere il significato di certi recuperi e di certe polemiche contemporanee; ma deve servire soprattutto a restituire a Lukács una più autentica fisionomia e ad intendere la sua volon­tà, sincera e sofferta, di re­stare con il partito, dentro lo schieramento comunista, e di mantenere in questa volontà la difesa della sua libertà di ricerca.

Domande su Lukács

23 sabato Mag 2015

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alienazione, Marx, marxismo, Storia e coscienza di classe, Tesi di Blum


di Valentino Gerratana

«L’Unità», 12 giugno 1971

L’evoluzione del pensiero del filosofo ungherese

Possiamo chiederci se lasciandosi alle spalle «Storia e coscienza di classe» la sua ricerca marxista non ab­bia perduto qualcosa che ora è possibile recuperare


Un omaggio a Lukács che sia adeguato alla sua statu­ra intellettuale e morale non può che scaturire da una matura, non improvvisata, riflessione sul significato della sua opera. Si possono avere buone ragioni per non sentirsi ancora del tutto pre­parati a questo compito; e non sarebbe onesto preten­dere di anticipare le con­clusioni di un riesame che richiede non solo attente ri­letture ma in primo luogo nuove analisi di quel reale che è sotteso a tutta l’ope­ra lukacsiana. È legittimo però tentare di fissare alcu­ni punti provvisori di rife­rimento.

Oggi è difficile mettere in dubbio che l’opera più si­gnificativa di Lukács, quel­la che più ha influito sugli sviluppi della cultura euro­pea e sulle ricerche marxi­ste di circa mezzo secolo, ri­manga Storia e coscienza di classe. Eppure, chi negli an­ni quaranta ha cominciato a conoscere il filosofo un­gherese come un maestro di marxismo impegnato so­prattutto nei problemi del­l’estetica e della critica let­teraria e di storia della cul­tura, non poteva avere allo­ra nessun motivo per rite­nere che quel vecchio libro del 1923 – noto solo per sentito dire – fosse molto di più di un reperto fossile. Certo sbagliavamo; ma sba­gliavamo con quel Lukács che era nostro contempora­neo, e con il quale pensavamo di dover fare i conti.

Non aveva da tempo l’au­tore sconfessato quella sua opera? Non si sapeva che si era sempre opposto alla ri­chiesta di autorizzare tradu­zioni e ristampe? Solo quan­do nel 1967 (dopo che Storia e coscienza di classe era tor­nata in circolazione contro la volontà dell’autore) Lu­kács si sarà deciso a consen­tirne una nuova edizione non abusiva, accompagnan­dola con una importante pre­fazione autobiografica, saran­no infine acquisiti i princi­pali elementi di giudizio per procedere a un riesame del­la questione. E tuttavia, in quel periodo, nel pullulare di nuove proposte, investita dal risucchio delle mode cul­turali e dal rilancio interna­zionale dei movimenti di classe, anche l’incidenza del revival lukacsiano di Storia e coscienza di classe rischia­va di essere deviata verso i poli opposti dell’apologia acritica e della liquidazione sommaria.

Naturalmente non tutto convince in quella particolareggiata ricostruzione autentica del 1967. Qui Lukács ripete tra l’altro ciò che aveva detto altre volte sull’effetto illuminante che su di lui avevano esercitato i Manoscritti economico-filosofici di Marx, letti a Mosca nel 1930 ancora inediti. Gli si era infine chiarito di colpo il pregiudizio hegeliano-idealistico che viziava l’impianto teorico di Storia e coscienza di classe. Ma i conti non tornano: un dato psicologico derivato e secondario interviene qui a mettere in ombra le ragioni più profonde di una svolta fondamentale nello sviluppo del pensiero di Lukács. Egli stesso riconosce del resto che ciò che l’aveva scosso in quel testo inedito di Marx si ritrovava egualmente (e in termini certo non meno chiari) nei testi marxiani che gli erano da tempo ben noti e su cui aveva meditato lungamente. Ma è anche significativo che proprio i marxiani Manoscritti economico-filosofici del 1844 abbiano potuto alimentare, quando furono conosciuti, una vigorosa ripresa di nuove interpretazioni idealistiche del pensiero di Marx. La scelta discriminante non deriva quindi dai testi, nella loro indifesa materialità filologica, e nemmeno dalla testa di chi li legge, ma in definitiva dal rapporto che si viene di volta in volta a stabilire tra acquisizione di conoscenza e realtà sociale in movimento.

Per quanto riguarda Lu­kács in ogni caso non è dif­ficile scorgere l’elemento che congiunge la sua evolu­zione filosofica alla sua evo­luzione politica. Egli stesso ne è stato sempre ben con­sapevole e nella prefazione del 1967 ha offerto un luci­do contributo per chiarire l’importanza decisiva che si deve attribuire a questo ele­mento nello sviluppo del suo pensiero. Particolarmente si­gnificativo è il riferimento alle cosiddette tesi di Blum. Scrivendo queste tesi nel 1929, ancora come dirigente politico di primo piano del Partito comunista ungherese, Lukács aveva coscienza di muoversi sulla linea della nuova prospettiva strategica che andava maturando in seno all’Internazionale, an­che se in contrasto con la teoria allora prevalente del forzato gemellaggio tra so­cialdemocrazia e fascismo (socialfascismo); ma nella sua onestà intellettuale egli si rendeva anche conto che questa nuova prospettiva si­gnificava una netta svolta e comportava, rispetto alla precedente esperienza rivoluzionaria, una rottura più profonda di quanto non si fosse disposti ad ammettere comunemente.

Ma per Lukács personal­mente tutto ciò significava anche lasciarsi alle spalle l’elaborazione teorica di Sto­ria e coscienza di classe (fi­no a sentirla, come egli stes­so dirà, «completamente estranea») e avere il corag­gio di ricominciare da capo. Questa circostanza aiuta me­glio a comprendere la sua decisione, dopo la sconfitta subita sulle tesi di Blum, di rinunciare alla lotta interna di partito e alla «carriera politica» per tornare a con­centrarsi nell’attività teori­ca. Nel momento in cui sen­tiva il bisogno di rigenerare le fibre del suo marxismo non poteva nutrire un’ecces­siva fiducia nelle sue capa­cità pratico-politiche, so­prattutto in una situazione in cui il rischio di rimane­re tagliati fuori da un movi­mento che lottava per la sua sopravvivenza incombe­va come sinistro ricatto mo­rale su tutti i dissenzienti. Non era la sua una rinun­cia all’impegno politico: era anzi l’unica possibilità che gli appariva in quella situa­zione per tenervisi legato.

La coerenza morale di que­sta scelta – che ha condi­zionato in modo determinan­te tutto il corso successivo del pensiero e dell’azione di Lukács – può essere con­testata solo in termini di faziosità politico-ideologica. Si tratta però di capire se e fino a che punto sia stata una scelta feconda nei suoi sbocchi e nelle sue motiva­zioni teoriche. È soprattut­to intorno agli anni ses­santa che i dubbi a questo proposito cominciano a di­ventare più pressanti ed estesi, ed è ad essi che il filosofo reagisce con la sua prefazione autocritica del 1967 a Storia e coscienza di classe. Quasi tutto ciò che egli scrive per indicare i di­fetti di impostazione e gli equivoci teorici che erano annidati in quel vecchio li­bro è del tutto trasparente e persuasivo, ma non basta ancora a spiegare perché, invece di correggere i difet­ti e chiarire gli equivoci, abbia sentito il bisogno di volgere le spalle all’opera sua più celebre.

Che il marxismo in Storia e coscienza di classe aves­se subito una specifica cur­vatura hegeliana non prova ancora che, al di sotto di quella deformazione, la lin­fa viva del pensiero di Marx si fosse inaridita (del resto anche il Lukács posteriore non si sottrae affatto all’in­fluenza predominante di He­gel). Ad esempio, l’analisi dei processi di alienazione, attraverso cui i produttori sono dominati dal prodotto del loro lavoro come da una estranea forza naturale, non resta invalidata dalla identificazione hegeliana, in cui Lukács era rimasto invi­schiato, tra alienazione e oggettivazione, tra un pro­cesso reale di produzione ideologica e un processo di mistificazione idealistica che fa di tutta l’oggettività na­turale un effetto di estra­neazione spirituale. Sta di fatto che il tema marxiano dell’alienazione, imposto all’attenzione da Storia e co­scienza di classe, non potrà più essere espunto da una salda consapevolezza critica dell’essenza della società ca­pitalistica. Abbandonarlo al­le speculazioni idealistiche significa perdere di vista che il denaro, ad esempio, diventa una cosa solo in quanto è un determinato rapporto tra gli uomini, e che il capitale diventa un insieme di mezzi di produ­zione solo in quanto è quel rapporto sociale in cui gli uomini sono usati dai loro mezzi di produzione.

Certo Lukács ha ragione quando sottolinea che pro­prio gli errori del suo li­bro del 1923 hanno in mi­sura notevole contribuito al suo successo. Ma questo av­viene per tutti i libri classi­ci, e Storia e coscienza di classe, in quanto opera rap­presentativa del suo tem­po, è indubbiamente un clas­sico. Come opera rappresen­tativa essa esprime teorica­mente il suo tempo, nei suoi lati forti e nei suoi lati de­boli, nei suoi slanci costrut­tivi e nelle sue illusioni. Era quindi – ancora una volta bisogna dar ragione al Lu­kács del 1967 – un’opera di transizione di un’epoca di transizione. La direzione in cui l’autore ha sviluppato successivamente la sua ri­cerca marxista, in rapporto all’evoluzione del movimen­to reale, comportava però una rottura. Possiamo ora chiederci se proprio quel ti­po di rottura fosse inevita­bile in linea di principio, e se non sia in quel modo an­dato perduto qualcosa che ora è possibile recuperare.

Per Lukács si trattava in primo luogo di una rottura con l’utopismo messianico dell’inizio degli anni venti, quando la grande ondata ri­voluzionaria dell’Ottobre rus­so sembrava prossima a travolgere il capitalismo in tutto il mondo, o almeno nell’intera Europa. Un recu­pero di questo messianismo rivoluzionario, che era ri­flesso in Storia e coscienza di classe e che ora viene riproposto in diverse forme da disorientate minoranze intellettuali, è certo impro­ponibile, anacronistico, e­straneo alle ragioni scienti­fiche del marxismo. Una ri­presa di utopismo varrebbe solo ad alimentare una ri­presa di reazione idealisti­ca, e quindi, prima o poi, una nuova volatilizzazione del marxismo. Ma in Storia e coscienza di classe non vi è solo quella carica di uto­pismo messianico; vi è al tempo stesso, sotto questo strato, come vi era nell’epo­ca in cui l’opera fu scritta, un senso sicuro della continuità della rivoluzione so­cialista già iniziata, fondata teoricamente su una interpretazione compatta, anche se per alcuni aspetti unilate­rale, della scienza marxista della società, del legame organico tra economia e ideologia. È legittimo chie­dersi se questo senso non sia andato smarrito nello sviluppo successivo del pen­siero di Lukács, facendolo così sentire estraneo alla ispirazione fondamentale del suo classico libro del 1923; e se proprio questo senso non meriti oggi di essere re­cuperato.

Indubbiamente la riconsi­derazione del marxismo a cui Lukács si è accinto dopo gli anni venti gli ha consen­tito di correggere alcune delle unilateralità a cui era rimasto precedentemente ancorato; ma non si può escludere che ciò lo abbia sospinto verso altri tipi di unilateralità. La sua tenden­za ad allargare l’impianto della costruzione teorica del marxismo, ripresentandolo come scienza universale che ha il compito di sistemare tutto lo scibile, non perdeva certo di vista il collegamen­to con il mondo reale e con lo sbocco finale della socie­tà comunista a cui esso tende; ma era un legame che diventava tanto meno incisivo quanto più le con­traddizioni del movimento sembravano seguire i ritmi dei tempi lunghi. Si avreb­be torto probabilmente a sottovalutare aprioristica­mente questo sforzo della sua ricerca, a rinunciare ad esplorare con attenzione gli ampi nuovi cantieri dell’e­stetica e dell’etica a cui la­vorava da parecchi anni con paziente energia. Anche se l’esecuzione di alcuni dei progetti del suo monumen­tale disegno architettonico è rimasta per sempre incom­piuta, mai forse il pensiero marxista aveva conosciuto tanta estensione di svilup­pi. Può anche darsi però che molti dei suoi sforzi siste­matici debbano rivelarsi inutili e precari, e che ap­paia invece più urgente l’e­sigenza di riprendere il denso ordito interrotto di Storia e coscienza di classe.

La passione durevole per una filosofia dell’emancipazione.

13 sabato Dic 2014

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di Costanzo Preve

da Una nuova storia alternativa della filosofia, petite plaisance, Pistoia 2013.

Note di analisi sull’ontologia dell’essere sociale di Lukács e proposta articolata di sua rifondazione categoriale critica

Nell’ultima parte della sua vita (1956-1971) il filosofo ungherese di lingua tedesca G. Lukács (1885-1971) si accinse ad un’impresa filosofica che per la sua serietà ed il suo livello qualitativo può essere paragonata senza esagerazione a quelle compiute da autentici geni del pensiero come Spinoza, Kant, Hegel e Marx. Prima scrisse una monumentale Estetica, che non deve essere confusa con un’opera specialistica sul giudizio estetico puro e semplice, ma che ha come oggetto la cosiddetta «missione defeticizzante dell’arte», rivolta a combattere quello che chiamava «l’ateismo permanente alla manipolazione ideologica» (su questo punto Lukács ha incontrato felicemente l’Antonio Gramsci della rivalutazione del cosiddetto «senso comune» come matrice della filosofia). Terminata l’Estetica, Lukács si ripropose di scrivere un’Etica. E, tuttavia, egli si rese immediatamente conto del fatto che un’Etica scritta senza prima accertare le categorie dell’essere sociale non può che sboccare inesorabilmente in un’etica dell’intenzione di tipo kantiano, o in un’etica della responsabilità di tipo weberiano, o in una interminabile, sfiancante ed inutile “disputa sui valori”, oppure in un’interminabile casistica di tipo gesuitico su cosa si dovrebbe fare in situazioni-limite, scelte appositamente per evitare di prendere in considerazione le normali situazioni della vita quotidiana (del tipo: è possibile cavare gli occhi al torturato se in questo modo gli si può far confessare dove ha messo una bomba che ucciderebbe centomila persone? È lecito tagliare la gola alla propria madre se questo comporta la salvezza di dieci persone?). Lukács si rese presto conto che è del tutto inutile scrivere un’Etica, o se si vuole una Morale, se prima non ci si è chiariti bene la natura prima dell’essere sociale in generale (in quanto è appunto categorialmente distinto dall’essere naturale oggetto delle scienze moderne di tipo galileiano, newtoniano ed einsteiniano), e poi dell’essere sociale specifico (in quanto appunto è capitalistico, e non primitivo, antico-orientale, asiatico, schiavistico o feudale-signorile). Continua a leggere →

La vertenza per György Lukács

08 sabato Nov 2014

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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di Fredric Jameson

da Marxismo e forma, Liguori, Napoli 1975 (Marxism and Form, 1971)

Ai lettori occidentali l’idea che si erano fatti di György Lukács è spesso apparsa ai loro occhi più interessante della sua realtà. Quasi che, in qualche mondo di forme platoniche e di archetipi metodologici, ci fosse un posto vacante per il critico letterario marxista che (dopo Plechanov) solo Lukács ha seriamente cercato di occupare. Tuttavia, a lungo andare, persino i suoi critici occidentali più favorevoli si allontanano da lui con una disillusione più o meno forte: essi erano preparati a contemplare l’idea astratta, ma nella pratica viene loro richiesto un sacrificio troppo alto. Essi tributano un rispetto verbale alla figura di Lukács, ma trovano che i suoi testi non corrispondono affatto a quello che erano state le loro aspettative1.

Questo disagio non sorprende: esso caratterizza, in realtà, il modo in cui il relativismo occidentale si approssimava sempre più ai suoi confini concettuali; di fatto, noi concepiamo la nostra cultura come un ampio museo immaginario in cui vengono accolte, l’una accanto all’altra, purché siano accessibili alla sola contemplazione, tutte le forme di vita e ogni posizione intellettuale. Perciò, accanto ai mistici cristiani e agli anarchici del diciannovesimo secolo, ai surrealisti e agli umanisti del Rinascimento, ci sarebbe posto per un marxismo che non fosse altro che un sistema filosofico tra gli altri. Non è un’esigenza di credenza assoluta che impedisce al marxismo di accettare una siffatta assimilazione, perché, senza difficoltà, le stesse religioni, trasformate in immagini, coesistono nella tradizione eclettica che ben conosciamo. Ma la peculiarità della struttura del materialismo storico consiste nella sua negazione dell’autonomia del pensiero, nel suo insistere (che è a sua volta un pensiero) sul fatto che il pensiero puro è una forma mascherata del comportamento sociale, nel suo fastidioso rammentarci la realtà materiale e storica dello spirito. Pertanto, il marxismo, in quanto oggetto culturale, si ritorce contro l’attività culturale in generale, svalutandola e mettendo a nudo i privilegi di mercato, le situazioni di classe, gli ozi che sono il presupposto necessario per la fruizione dei beni culturali. Esso si autodistrugge come merce spirituale e provoca un corto circuito nel processo di consumo culturale entro cui, nel contesto occidentale, è stato assunto. È, pertanto, la struttura stessa del materialismo storico – la dottrina dell’unità di pensiero ed azione, o della determinazione sociale del pensiero – che è irriducibile alla ragione pura o alla contemplazione; e questa struttura, che la tradizione filosofica della borghesia occidentale può vedere solo come una falla nel sistema, ci rifiuta nel momento stesso in cui immaginiamo che venga rifiutata da noi.

Non ci si deve, dunque, meravigliare se il lavoro di tutta una vita di Lukács non viene capito dall’interno per quello che è: una serie di soluzioni e di problemi che si sviluppano l’uno dall’altro secondo una loro logica ed un impulso interno; non ci si deve meravigliare se le sue opere vengono considerate come segni esteriori di posizioni arbitrarie, come sintomi di per sé privi di significato e comprensibili solo se riferiti agli slittamenti di una linea partitica. Allo sviluppo intellettuale viene sostituito il mito della «carriera» di Lukács, di cui i suoi commentatori occidentali parlano, in una forma o nell’altra, senza eccessiva riflessione. Dopo un periodo kantiano – ci viene detto – dopo studi con Simmel e Lask e il contatto con Weber, viene alla luce il Lukács hegeliano di Teoria del Romanzo (1914-1915). E come da kantiano era divenuto hegeliano, così, durante la guerra, da hegeliano si fa marxista, si unisce al Partito Comunista Ungherese, partecipa al governo rivoluzionario di Béla Kun. Il terzo Lukács, un bolscevico con atteggiamenti tipici dell’attivista e con incorreggibili tendenze hegeliane, scrive un’opera acerba, Storia e coscienza di classe (1923), che il partito condanna. È nel periodo dell’impegno autocritico che prende forma quel Lukács maturo che meglio conosciamo: il Lukács stalinista degli Anni Trenta e Quaranta, il teorico del realismo letterario, facilmente assimilabile al realismo socialista ufficiale del medesimo periodo, che produce sia opere come Balzac e il realismo francese (1945), Goethe e il suo tempo (1947), Il realismo russo nella letteratura mondiale (1949), e Il romanzo storico (1955), sia i numerosi studi sulla letteratura e il pensiero della Germania del diciannovesimo e del ventesimo secolo, pubblicate a Berlino Est nel dopoguerra. Con il disgelo, un Lukács più moderato riformula la sua posizione generale sull’arte moderna in Sul realismo critico (1958), e dopo la rivolta ungherese si ritira dalla scena, preparando l’Estetica (1963) in due volumi con cui, come nella progettata Etica e Ontologia, ritorna al progetto teoretico neokantiano della gioventù, ma questa volta con un’ottica marxiana.

Si noterà come l’elaborazione di questo mito biografico si basi sulla divisione d’una vita in «periodi» discontinui, un’operazione, questa, che ha un doppio vantaggio. Per un verso il passaggio da un periodo all’altro avviene al di fuori del mito. Pertanto le transizioni da una posizione all’altra danno origine o ad un eccesso (come avviene nel concetto d’una conversione semireligiosa al comunismo) o ad un fallimento (come quando si assiste ad uno spettacolo di obbedienza servile alla linea del partito) in ciò che persino la coscienza storica meglio predisposta dovrebbe, come sarebbe legittimo aspettarsi, rivivere e comprendere dall’interno. Per l’altro verso i vari periodi si possono ora contrapporre uno all’altro senza che ci si debba compromettere con alcuno di essi. Come il giovane Marx veniva strumentalizzato contro il vecchio Marx, così il giovane Lukács (sia quello di Teoria del romanzo che quello di Storia e coscienza di classe) viene utilizzato per screditare il Lukács teorico del realismo; anzi, l’ultimo Lukács, con il suo ritorno alle posizioni iniziali, serve a dar consistenza all’insinuazione che l’intera sua opera sia stata fallimentare ed inutile.

Ma se le prime opere non fossero del tutto comprensibili se non alla luce delle successive? E se, lungi dall’essere una serie di autocritiche e ritrattazioni, le posizioni che si andavano susseguendo in Lukács fossero una esplorazione ed un ampliamento progressivo di un unico complesso di problemi? Nelle pagine che seguono dimostreremo che l’opera di Lukács può venire osservata come una continua meditazione, che è durata tutta la vita, sulla narrazione, sulle sue strutture di base, sulla relazione con la realtà che essa esprime, e sul valore epistemologico che essa acquista se confrontata ad altre forme, più astratte e filosofiche, del comprendere.

I

L’opposizione concettuale fondamentale, al cui interno si è collocato l’indagine lukacsiana sulla letteratura, è quella hegeliana di concreto ed astratto. L’originalità di Hegel, naturalmente, consiste nella trasformazione di questa distinzione puramente logica in una distinzione ontologica; nella dimostrazione di come le esperienze vissute e le stesse forme di vita possano in questa luce venire commisurate l’una all’altra; nell’evoluzione di un modo di pensare comparativo, o per meglio dire dialettico, tale che ogni percezione di una opera o di un’esperienza data sia nello stesso tempo consapevolezza di ciò che quell’esperienza o quell’opera non sono. È chiaro che il sentimento della concretezza, della ricolma densità dell’essere, o quello dell’astrattezza e dell’impoverimento dell’esperienza, derivano essenzialmente da questa implicita comparazione tra un’esperienza e un’altra, tra un lavoro o un altro, un momento della storia ed un altro.

Ciò che forse è meno evidente è il grado di sovrapposizione tra quest’opposizione hegeliana e la più nota nozione contemporanea di alienazione: infatti i termini «astratto» ed «alienato» designano, senza dubbio, il medesimo oggetto. È comunque facile capire perché la quasi totalità degli scrittori occidentali abbia preferito il concetto di alienazione: esso permette la diagnosi di una realtà manifestamente decaduta e degradata senza esigere dalla mente nessun tentativo di immaginare uno stato in cui l’uomo non sia più alienato. Si tratta, perciò, di un concetto negativo e critico, da cui è stato tacitamente eliminato il momento utopico; mentre il concetto di astratto ci costringe, attraverso la sua stessa struttura, che è quella dell’antitesi, a conservare e sviluppare l’idea della concretezza, al fine di realizzare compiutamente il nostro pensiero.

L’uso marxista più caratteristico di questa opposizione è naturalmente quello secondo il quale la società stessa viene vista come l’origine ultima della concretezza o della astrattezza della esistenza individuale. In termini letterari questo vuol dire che la società viene concepita, qualsiasi momento storico si prenda in considerazione, come la materia prima preesistente, o meglio, preformata, che in ultima analisi determina la astrattezza o la concretezza delle opere d’arte create al suo interno. «Gli uomini fanno la storia da sé», ha detto Engels in un passo famoso, «soltanto che essi la fanno in un dato ambiente che li condiziona, e sulla base delle relazioni effettive già preesistenti, tra le quali le relazioni economiche che, per quanto possano venire influenzate dalle altre relazioni, quali quelle politiche ed ideologiche, sono tuttavia in ultima istanza quelle decisive, quelle che costituiscono la chiave di volta dell’intero complesso sociale, e che sole ci permettono di giungere a comprenderlo»2. Sarebbe un truismo dire che l’aeroplano e il grande magazzino, il cittadino insignito con Legion d’onore e i problemi dell’emancipazione femminile, non possono essere elementi di opere d’arte per società in cui queste cose non esistono; ciò che è più importante è l’influenza di una data materia prima sociale non solo sul contenuto, ma anche sulla stessa forma delle opere d’arte.

Nelle opere d’arte di una società preindustriale, agricola o tribale, la materia prima dell’artista è a misura d’uomo, ha un significato immediato, non richiede nessuna spiegazione o giustificazione preliminare da parte dello scrittore. Il racconto non ha bisogno di sfondo ed ambientazioni temporali perché la cultura non ha storia: ogni generazione ripete le medesime esperienze, reinventa le medesime situazioni umane di base come se si presentassero per la prima volta. Le istituzioni sociali non vengono sentite come tradizioni esterne, come edifici paralizzanti ed incomprensibili; il re o il prete quasi indossano l’autorità, che è ad essi immanente. Come attori umani essi la esprimono pienamente in modo tridimensionale. Gli oggetti fisici di tale mondo sono in ugual modo immediati: essi sono chiaramente prodotti umani, il risultato di un rituale preordinato e di una gerarchia delle attività del villaggio immediatamente visibile. Persino il soprannaturale, il magico o religioso, ideologia di tale modo di vita, ritorna all’uomo nella forma antropomorfica di dei e forze personalizzate; senza dubbio si tratta di una proiezione, ma lo stesso meccanismo della proiezione è ancora manifesto con semplicità nella stessa struttura narrativa dei miti. Le opere d’arte caratteristiche di queste società possono venire dette concrete in quanto i loro elementi sono fin dall’inizio dotati di significato. Lo scrittore li usa, ma non ha bisogno di spiegare anticipatamente il loro significato: questa materia prima, per esprimersi in termini hegeliani, non ha bisogno di nessuna mediazione3.

Quando passiamo da queste forme alla letteratura dell’era industriale, cambia tutto. Gli elementi dell’opera si allontanano dal loro centro umano: ha inizio una specie di dissoluzione dell’umano, una specie di dispersione centrifuga i cui sentieri portano sempre al contingente, al fatto bruto e alla materia, al non umano. Persino i caratteri, che erano le componenti di base del racconto, si fanno problematici: ora vi sono delle personalità, e la scelta delle caratteristiche della personalità, la rappresentazione dell’eroe come sognante ed idealistico piuttosto che collerico e cinico, richiede una giustificazione organica all’interno dell’opera stessa. Pertanto il temperamento dell’eroe verrà spiegato in relazione alla sua situazione familiare e in particolare al padre; o forse verrà presentato come emblematico di un particolare tipo di relazione con la società esistente e i suoi valori predominanti; o gli si conferirà un significato metafisico di sfida all’universo; o infine resterà semplicemente ingiustificato e di conseguenza l’opera scade a livello di accidente per risolversi in un tipo di storia episodica.

La stessa mancanza di comprensibilità immediata si verifica anche ad altri livelli: lo svolgersi del tempo nell’opera, le istituzioni che formano il suo sfondo, gli oggetti tra cui i personaggi si muovono. Perché il tempo ritualistico e aproblematico del villaggio non esiste più; v’è, d’ora in poi, una separazione tra pubblico e privato, tra lavoro e tempo libero, e il racconto deve trovare la sua collocazione in un mondo in cui le vite degli uomini sono divise tra faticoso lavoro di routine e riposo. Così il romanziere sviluppa il suo intreccio ambientandolo nei week end (Lo straniero di Camus), nelle vacanze (La montagna incantata di Thomas Mann), nel periodo delle grandi crisi in cui la routine viene sconvolta (la letteratura di guerra). Se la professione lascia all’eroe sufficiente tempo libero per la sua vita privata (l’Ulisse di Joyce), allora a sua volta la stessa scelta della professione deve venire in qualche modo giustificata (la pubblicità in quanto lavoro fatto con le parole). Dove la ricchezza e l’otium sono ereditari, o hanno un presupposto sociale su cui non si indaga (come nel caso dei proprietari fondiari da cui vengono tratti i personaggi dei romanzi inglesi e russi del diciannovesimo secolo), oppure restano allo stadio di puro episodio familiare fortuito, e il problema non viene risolto, ma ricacciato indietro nel passato, verso generazioni più antiche (e qui l’emblema tipico del processo potrebbe essere quell’innominato vaso da notte che, come Henry James in privato ha ammesso, è stato all’origine della fortuna dei Newsome in Gli ambasciatori).

Accade lo stesso con la trama del racconto: le istituzioni del mondo moderno, entro cui i personaggi, o, diciamo, i caratteri, vivono fino in fondo i loro drammi, si presentano come qualcosa di meramente dato, come il risultato della origine accidentale dell’opera in una particolare situazione nazionale, ed in un particolare momento dello sviluppo storico. Il villaggio, la città-stato, costituisce in sé un mondo completo: non si può dire altrettanto della superstrada, dell’università moderna, dell’esercito americano o della grande città industriale – tutte queste cose sono, all’interno dell’opera d’arte, corpi estranei non realizzati, ed in ultima analisi non realizzabili. E quello che è vero per la organizzazione sociale nella sua totalità diventa ancora più visibile nelle singole merci di una data società, nei diversi oggetti e prodotti tra cui si muovono i personaggi: le sedie, le motociclette, il cibo, le case e le pistole non vengono più sentite come risultati di una attività umana immediata, ma popolano l’opera come fossero vecchi mobili senza vita, attraversano, quasi materia inorganica estranea, la superficie umana dell’opera, lacerandola.

Non si dimentichi che la letteratura moderna ha sviluppato tecniche particolari, metodi elaborati di simbolismo, con la manifesta speranza di dare significato a queste cose ostinatamente recalcitranti, di assimilarle alla sostanza umanizzata dell’opera d’arte. E il simbolismo in quanto tale è uno dei fenomeni centrali della letteratura moderna. Ne discuteremo più a lungo in seguito; per ora basti dire che quali che siano i meriti delle forme simboliche e simbolicizzanti di pensiero per la soluzione di questo dilemma, la loro presenza nell’opera sta sempre ad indicare la scomparsa del significato immediato degli oggetti; il processo non si presenterebbe alla ribalta così in primo piano se gli oggetti non fossero già divenuti di natura problematica.

Una obiezione di gran lunga più efficace potrebbe venire mossa alla realtà di questa parvenza contingente della vita moderna: si tratta di contingenza, possiamo dire, solo apparente. In effetti, tutte queste istituzioni e cose apparentemente inumane hanno un’origine profondamente umana. Il mondo non è mai stato così completamente umanizzato come nell’era industriale, né era mai successo precedentemente che una parte così preponderante dell’ambiente del singolo fosse il risultato non di cieche forze naturali, ma della storia umana stessa. Pertanto, se solo l’opera d’arte moderna fosse capace di allargare il suo orizzonte quanto basta, se riuscisse a fare connessioni sufficienti tra fenomeni e fatti così immensamente disparati, sparirebbero gli effetti illusori di inumanità: il contenuto dell’opera sarebbe di nuovo comprensibile totalmente in termini umani, anche se su una scala molto più ampia della precedente. Tuttavia è proprio questo ampliamento che non si concilia con la forma e la struttura della letteratura. L’ossatura dell’opera d’arte è la singola esperienza vissuta, ed è per questi limiti che il mondo esterno vi rimane ostinatamente alienato. Quando passiamo dall’esperienza singola alla dimensione collettiva, a quel centro focale sociologico o storico in cui le istituzioni umane divengono a poco a poco nuovamente trasparenti, siamo entrati nella sfera del pensiero astratto defiguralizzato e ci siamo lasciati alle spalle l’opera d’arte. E questa vita condotta a due livelli inconciliabili corrisponde ad un difetto di fondo insito nella stessa struttura del mondo moderno: quello che possiamo capire come menti astratte non siamo capaci di viverlo direttamente nelle nostre vite ed esperienze individuali. Il nostro mondo, le nostre opere d’arte sono perciò, a partire da qui, astratte.

Possiamo pertanto concludere questa discussione preliminare mettendo in evidenza le due caratteristiche di fondo della concretezza in arte. Innanzitutto, le sue situazioni sono tali da consentirci di sentire ogni cosa in esse in termini puramente umani, in termini di esperienza umana singola e di atti umani singoli. In secondo luogo, quest’opera ci consente di sentire la vita e l’esperienza come totalità: tutti i suoi eventi, tutti i suoi fatti parziali ed elementi vengono compresi immediatamente come parte di un processo totale, anche se questo processo essenzialmente sociale può venire ancora inteso in termini metafisici. Infatti, l’aspetto che noi sentiamo come più importante di questo sentimento della totalità non emerge quando gli vien data una spiegazione ideologica, ma piuttosto dalla sua presenza od assenza immediata in quella vita sociale particolare da cui lo scrittore trae la sua materia prima. Come abbiamo già detto, se questo sentimento della completezza e dell’interrelazione immediata, non si dà in primo luogo nella vita reale, l’artista non possiede gli strumenti per reintegrarlo; può al massimo simularlo.

In Teoria del romanzo, il primo tentativo fatto da Lukács su larga scala di applicare queste categorie alla letteratura, esse assumono la forma di un opposizione tra essenza (Wesen) e vita, o, in altre parole, tra significato, da un lato, ed eventi e materia prima dell’esistenza di ogni giorno dall’altro. Lo sviluppo delle forme nella Grecia antica gli fornisce un tipo di modello classificatorio o di mito dialettico delle varie possibilità, delle varie relazioni che ineriscono a questa opposizione fondamentale. (E vorremmo aggiungere che per il momento non riteniamo rilevante, per i fini che ci proponiamo, l’accuratezza storica di questa immagine della Grecia antica: assumiamo tale raffigurazione in quanto struttura concettuale idonea per una presentazione della discussione di Lukács sul romanzo moderno).

La prima delle tre fasi fondamentali in cui Lukács suddivide la letteratura greca è quella epica, che e concreta nel senso precedentemente adombrato: in essa significato od essenza sono ancora immanenti alla vita e la narrazione genuina, quella epica, è possibile infatti solo se la vita d’ogni giorno viene ancora sentita come dotata di significato e immediatamente comprensibile fino ai più minuti dettagli. Dopo questa Utopia, in cui essenza e vita sono un tutt’uno, i due termini cominciano a disgiungersi e il posto dell’epica viene preso dalla tragedia. Infatti nella tragedia significato ed esistenza quotidiana sono divenuti contrapposti: la coincidenza si ha solo nel momento della crisi tragica, quando l’eroe per un istante, nella sua agonia, riunisce i due termini, non rinunciando a nessuna delle richieste essenziali che poneva alla vita, né alla sua passione fondamentale per il significato, persino mentre si consuma la sua distruzione ad opera di quel mondo esterno e senza significato che lo rinnega. La tragedia, pertanto, non offre più una continuità ma si organizza attorno, e dipende da quegli unici, intensi istanti di crisi, strutturalmente irregolari ed instabili. Quando anch’essi scompaiono, quando vita e significato si distanziano irreparabilmente, allora sopraggiunge il terzo stadio dell’arte greca, quello della filosofia platonica. Qui, in un mondo in cui la materia prima fornita dalla vita di ogni giorno è divenuta completamente priva di valore, essenza o significato si rifugiano nella sfera puramente intellettuale delle Idee, e sono divenute esse stesse, salvo che quando si esprimono attraverso i miti e le favole platoniche, irrealizzabili.

Già, nonostante la comune metodologia, sono visibili le differenze tra il Lukács di Teoria del romanzo e lo stesso Hegel, soprattutto nella sua Estetica; nonostante il grande valore che Hegel attribuisce ai greci, egli vede la storia dell’arte occidentale, e la storia in generale, come una ascensione di forme, da quelle simboliche dell’arte orientale, in cui lo spirito è ancora catturato e cioè prigioniero della materia – si pensi alle forme mostruose delle divinità assire ed egiziane – attraverso le forme classiche della Grecia, in cui lo spirito trova la sua espressione nella figura umana, all’arte romantica del mondo moderno in cui la materia poco a poco si allontana e il puro spirito trova la sua espressione nel linguaggio. Senza dubbio Hegel aveva già sentito il romanzo come il moderno sostituto dell’epica in senso lukacsiano. Ma per lui, com’è noto, la realizzazione dell’arte non consiste in nessuna forma d’arte, ma nell’auto-trascendenza, nella trasformazione dell’arte in filosofia: ciò che gli esseri umani all’inizio hanno ingenuamente proiettato nella religione, ciò che essi hanno poi reso visibile a se stessi nella creazione artistica, alla fine lo portano all’auto-coscienza solo nella filosofia.

Ma per Lukács, come avremo agio d’osservare in più occasioni, il pensiero puro non ha mai un valore assoluto come mezzo privilegiato per accedere alla realtà. Al contrario, per lui l’assoluto è la narrazione: persino l’abbozzo preliminare delle fasi dell’arte greca ha come sua premessa il primato della narrazione. Soltanto l’epica può venire considerata una forma esclusivamente narrativa: la tragedia è dramma – vale a dire presenta solo degli istanti e non può più ricorrere alle tecniche della continuità narrativa; e, per quanto riguarda la filosofia, naturalmente, il dominio del pensiero puro, lungi dal rappresentare una virtù, viene giudicato e valutato proprio in rapporto all’eliminazione che esso compie della narrazione come possibilità formale.

È su questo primo sfondo che emerge l’idea base di Teoria del romanzo; il romanzo, in quanto forma, rappresenta nei tempi moderni il tentativo di riconquistare qualcosa della qualità della narrazione epica come riconciliazione tra materia e spirito, tra vita ed essenza. Si tratta di un sostituto di quell’epica che le mutate condizioni di vita rendono ormai impossibile: «la narrazione è l’epica di un mondo abbandonato da Dio»4.

In quanto tale, il romanzo non è più, come la tragedia o l’epica, una forma chiusa e stabilita una volta per tutte con delle convenzioni incorporate; è, invece, problematico nella sua stessa struttura, che è una forma ibrida che va reinventata ad ogni momento del suo sviluppo. Ogni romanzo è un processo in cui la stessa possibilità della narrazione deve iniziare da un vuoto, senza alcun impulso acquisito: suo oggetto privilegiato sarà, perciò, la ricerca, in un mondo in cui né fini né strade sono stabiliti in anticipo. È un processo in cui siamo testimoni dell’invenzione di quegli stessi problemi di cui il racconto fornisce la soluzione. Mentre l’eroe epico rappresentava una collettività, faceva parte di un mondo organico fornito di significato, l’eroe del romanzo è sempre una soggettività solitaria: è problematico; vale a dire, egli deve sempre opporsi al suo ambiente, naturale o sociale, nella misura in cui è proprio la sua relazione con, e la sua integrazione in esso che è il problema con cui si è alle prese5. Ogni riconciliazione tra l’eroe e il suo ambiente che venisse data all’inizio del libro e non raggiunta in modo sofferto nel corso della narrazione costituirebbe una specie di presupposto illecito, una specie di truffa mediante la forma, con la quale l’intero romanzo, come processo, resterebbe infine invalidato. Il prototipo estremo dell’eroe del romanzo è, perciò, il folle o il criminale: l’opera è la sua biografia, la narrazione del suo cimentarsi nel «mettere alla prova la sua anima» nella vacuità del mondo. Ma naturalmente egli non può mai farlo davvero; infatti se fosse possibile una riconciliazione genuina si restaurerebbe di nuovo la totalità epica, il romanzo come tale resterebbe esautorato.

Pertanto il romanzo, in quanto uno dei tentativi di conferire significato al mondo esterno e all’esperienza umana, è sempre il risultato della volontà soggettiva, della premeditazione soggettiva. Questa unità non ha le sue radici, come è invece per l’epica, nel mondo, ma piuttosto nella mente del romanziere che tenta di imporla col suo fiat. Per questo motivo, l’attività del romanziere si colloca sempre sotto il segno di quella che i romantici tedeschi hanno chiamato Ironia; infatti l’ironia romantica è caratterizzata da una struttura in cui l’opera prende in considerazione la sua stessa origine soggettiva, in cui l’autore completa la sua creazione additando se stesso: larvatus prodeo. Pertanto, si può dire che per Lukács l’immagine fondamentale più appropriata della libertà umana non è l’eroe del romanzo, in quanto tale eroe non avrà mai successo nella sua ricerca di un significato definitivo, ma è, piuttosto, lo stesso romanziere che, nel raccontare la storia del fallimento, ha successo – la cui vera creazione è anzi quella riconciliazione momentanea di materia e spirito cui il suo eroe tende invano. L’attività creativa dello scrittore è il «misticismo negativo di un’epoca atea»6.

Il romanzo ha, perciò, significato etico. Il fine etico ultimo della vita umana è l’Utopia, vale a dire un mondo in cui significato e vita siano ancora una volta indivisibili, in cui uomo e mondo siano un tutt’uno. Ma questa lingua è astratta, e l’Utopia non è un’idea, ma una visione. Non è, perciò, il pensiero astratto, ma la stessa narrazione concreta a fare da banco di prova per l’attività utopica, e i grandi romanzieri forniscono una dimostrazione concreta dei problemi dell’Utopia mediante la stessa organizzazione formale dello stile e degli intrecci, mentre i filosofi dell’Utopia forniscono un sogno evanescente ed astratto, un incorporeo soddisfacimento del desiderio.

Data l’opposizione tra materia e spirito su cui si basa là teoria di Lukács, è evidente che i romanzi verranno suddivisi in due gruppi generali a seconda di quale dei due termini dell’opposizione verrà accentuato. La semplicità di questa tipologia è tuttavia ingannevole, sotto altri profili, perché il punto di partenza del romanzo sarà sempre soggettivo, sarà sempre l’esperienza umana: i! termine oggettivo, il mondo esterno, non si preoccupa affatto di aspirare ad una riconciliazione con l’uomo. Perciò, come si può vedere, il romanzo orientato verso il mondo (quello che Lukács chiama romanzo dell’idealismo astratto) si fonda su di una specie di illusione ottica. Il suo eroe possiede una fiducia cieca ed incrollabile nel significato del mondo, una fede ingiustificata ed ossessiva nella riuscita, qui ed ora, della sua ricerca, nella possibilità stessa della riconciliazione. Per questo eroe ossessionato (di cui il prototipo è Don Chisciotte), l’evidente ostilità del mondo reale può venire facilmente spiegata facendo ricorso al magico ed alle operazioni ostili di incantatori malvagi: pertanto egli non giungerà mai a contatto colla realtà esterna, ma si fermerà a quella visione utopica di essa che costituisce il suo punto di partenza. L’effetto paradossale che questo atteggiamento ha sulla forma è che il romanzo dell’idealismo astratto metterà capo ad una serie di eventi ed avventure reali, presenterà una superficie apparentemente oggettiva, anche se questa oggettività superficiale non è null’altro che il risultato di pazzia e di ossessione soggettiva.

La creazione di Don Chisciotte presupponeva l’esistenza di un mondo sociale in cui la razionalità laica non si era ancora completamente sbarazzata della visione del mondo superstiziosa e ritualistica propria del medioevo, un mondo in cui, quindi, la pazzia di Don Chisciotte non è capriccio, ma corrisponde ad una realtà del mondo esterno. Tale realtà si interiorizza nel romanzo sotto la forma di storie d’amore e sogni cavallereschi in modo tale che nel suo complesso esso non si riduce ad una narrazione declassata ed acritica di queste storie da avventura popolare, ma è una riflessione circa la stessa possibilità della narrazione, un primo passo verso l’auto-coscienza del raccontare. Ma nella misura in cui il mondo si laicizza, si dissolve la tensione che ha dato vitalità a Don Chisciotte; gli eroi dell’idealismo astratto non trovano più giustificazione nel loro tempo storico, ma si fanno sempre più arbitrari e grotteschi con idee fisse che sono solo capricci; e in un romanziere come Dickens troviamo un’opposizione statica e inerte tra divertenti eccentricità da un lato, ed un universo borghese sentimentalizzato dall’altro (sentimentalizzato in quanto il romanziere ha colto tale universo nel suo valore apparente, ha introdotto surrettiziamente nell’opera un preconcetto circa la natura di quella realtà esterna che sarebbe stato compito dell’opera stessa esplorare senza preconcetti di sorta).

Forse solo in Balzac si possono trovare alcune versioni estreme, le ultime chance per il romanzo dell’idealismo astratto; ma anche qui, in un mondo ormai laicizzato, ciò è stato possibile solo con un tour de force formale. Da un lato troviamo il solito eroe ossessionato, l’uomo con l’idea fissa, l’inventore, il poeta, l’uomo d’affari, l’aristocratico. Ma il secondo termine dell’opposizione, quella realtà esterna senza la quale non è possibile alcuna tensione, non è ora altro che la somma di tutti i restanti personaggi monomaniacali de La Comédie humaine o, in altre parole, della stessa società. Pertanto, ancora una volta, si ha una totalità genuina in cui però sono le altre opere della serie a fornire la necessaria densità della realtà esteriore, la massiccia resistenza del mondo esterno, da adoperare come fondo nei conflitti individuali all’interno di ogni racconto. Ma ovviamente questa tensione viene pagata a caro prezzo: La Comédie humaine è quello che Sartre chiamerebbe una totalità detotalizzata; non è mai completamente presente in ciascuna opera singola, abbiamo davanti a noi, pienamente realizzati, solo dei frammenti dell’intero. Con Balzac il romanzo dell’idealismo astratto, come forma, si esaurisce: la realtà del mondo moderno non fornisce più materiale idoneo alla sua costruzione.

Si fa perciò lentamente strada, come sostituto del primo, il secondo tipo generale di narrazione, il romanzo della disillusione romantica. Qui l’accento viene posto direttamente sull’anima, sulle esperienze soggettive dell’eroe che ha il compito di interpretare il mondo prendendo le mosse dalla propria coscienza. Mentre la forma precedente minacciava di disintegrarsi in una serie di vuote avventure, in una letteratura picaresca o di svago, il secondo tipo di romanzo è minacciato dal pericolo del solipsismo. Il suo eroe è contemplativo e passivamente ricettivo; la sua storia è sempre sul punto di dissolversi nel frammentario e nel puramente lirico, in una serie di momenti ed umori soggettivi in cui si disperde ogni senso concreto del narrare .

Ma a questo punto Lukács fa un’osservazione estremamente interessante (e con essa, come è stato spesso affermato, egli anticipa tutta la direzione del romanzo contemporaneo quando – siamo nel 1914 – era ancora solo una linea di tendenza). Infatti, mentre il mondo esterno nelle prime forme di romanzo era prima di tutto spaziale, mentre l’esperienza che l’eroe si faceva di tale mondo assumeva la forma di una serie di avventure e vagabondaggi attraverso uno spazio geografico, ora, nel romanzo della disillusione romantica, la forma dominante che assume la realtà esterna sarà quella del tempo. Sarà questo slittamento verso la metafisica che salverà da una poesia puramente statica i più illustri esempi, quali l’Educazione sentimentale di Flaubert, della nuova forma, e che giustificherà e permetterà un tipo di autentica narrazione. Ora l’eroe contemplativo-passivo potrà nuovamente agire, e il racconto della sua vita darà nuovamente luogo ad una storia; ma questi atti ora sono atti nel tempo, sono speranza e memoria. Ora il romanzo può nuovamente esprimere una specie di unità di significato e vita, solo che si tratta di un’unità ricacciata indietro nel tempo, un’unità solo ricordata. Nel presente, infatti, il mondo sconfigge l’eroe, frustra sempre il desiderio di riconciliazione: ma quando egli ricorda il suo fallimento, è, paradossalmente, tutt’uno con il mondo. Il processo della memoria ha perciò inserito la renitenza del mondo esterno nella soggettività, ripristinando qui una specie di passata unità. L’eroe che ricorda è un po’ come il romanziere: per entrambi il tempo è profondamente ambiguo, è una forza capace sia di dare la vita che di distruggerla. Nella vita dell’eroe è la fonte d’ogni angoscia, d’ogni perdita, l’elemento attraverso cui apprende la vanità dell’esistenza umana. Ma il tempo è anche per l’eroe come per il lettore il tessuto della vita, la sostanza dell’esperienza; è, pertanto, ad un tempo, durata e flusso, fonda la densità alla narrazione proprio mentre essa racconta il tragico transito effimero d’ogni cosa.

Dopo aver parlato di questi due tipi fondamentali di narrazione, Lukács ci presenta come tentata sintesi il Wilhelm Meister di Goethe e i racconti di Tolstoj. Come era logico aspettarsi, queste sintesi sono polarizzate, rispettivamente, intorno alla dimensione soggettiva ed intorno alla dimensione oggettiva. In Wilhelm Meister un eroe di tipo romantico, relativamente ricettivo-passivo, finisce collo scoprire un universo esterno dotato di significato, un ambiente sociale che non si oppone più al singolo, bensì gli permette la realizzazione dei suoi talenti e delle sue potenzialità soggettive: un ambiente le cui istituzioni non sono disumanizzate ed alienate, ma che nella sua gerarchia dei compiti riflette un disegno e perciò si pone nuovamente su di una scala umana. Tuttavia, questa riconciliazione è fondata su un tour de force: infatti l’intero libro è condizionato dall’esistenza dell’élite massonica che fa la sua comparsa verso la fine. Tutte le avventure e gli incontri apparentemente accidentali di Wilhelm Meister alla fine risulteranno essere prove e lezioni deliberate che erano state progettate per lui da quella casta sacerdotale onnisciente nella quale infine sarà accolto. Pertanto l’apparente solidità del romanzo di Goethe è il risultato di una forzatura, di una deformazione della realtà esterna che viene piegata al soddisfacimento del desiderio: l’Utopia non viene conquistata concretamente passo dopo passo, ma verrà imposta d’autorità alla fine del libro con effetto di retroazione e di trasformazione del suo stesso esordio.

Tolstoj, d’altro canto, trae profitto da un elemento della sua situazione storica che manca nell’esperienza del romanziere dell’Europa occidentale: la presenza della natura stessa, che offre, con rinnovata solidità, il piano di fondo alla rappresentazione del mondo esterno, il secondo termine di opposizione per il narratore. Mentre in occidente il dramma del singolo e delle sue passioni veniva contrapposto alla vuota convenzionalità del suo mondo sociale, in Tolstoj entrambi i fenomeni sono deformati e viziati, entrambi entrano in conflitto con la natura, con la fugace visione di una originaria esistenza naturale, genuina, riunificata. Tuttavia ancora una volta questa tensione è precaria: infatti non dipende da una narrazione compiuta che abbia per oggetto il polo naturale, la vita naturale, ma da una mera visione lirica di ciò che una simile vita potrebbe essere. In questo senso Tolstoj non riesce a reinventare l’epica, crea solo dei frammenti che si sforzano di raggiungere l’unità epica.

Lukács dà per scontato, alla fine della sua opera, che la condizione preliminare per la trasformazione del romanzo in epica non è la volontà del romanziere, bensì la trasformazione della sua società e del mondo. Non può darsi un’epica rinnovata finché il mondo stesso non sia stato trasfigurato, rigenerato; e il suo commento finale ai romanzi di Dostoievskij, che offrirebbero una fugace visione di questa Utopia finale, completamente umanizzata, deve venir preso più come una profezia che come un’analisi formale.

La ricchezza e la suggestione di Teoria del romanzo consistono più nei problemi che la sua struttura speculativa gli permette di sollevare, che nelle soluzioni che propone. Innanzitutto, v’è una contraddizione tra forma e contenuto che getta dubbi sulle sue stesse conclusioni. Infatti, se a livello formale, come analisi dell’opera del romanziere, del suo sforzo incessante di riconciliare materia e spirito, la Teoria del romanzo è irreprensibile, tuttavia, nella misura in cui il libro comprende anche una teoria dell’eroe, una teoria sul contenuto del romanzo, ci sorprendiamo a scoprire un’intera serie di presupposti impliciti, un’intera psicologia preconcetta che entra in conflitto con l’ossatura concettuale hegeliana, che è neutrale o meramente formale, del resto del libro. Qui Lukács descrive la ricerca dell’eroe come un tentativo di «mettere alla prova la propria anima» (Browning), di vincere la nostalgia primordiale dell’essere «ritornando a casa» in senso metafisico (Novalis: «Immer nach Hause!»), reintegrando quel «luogo trascendentale» che era la dimora originaria dell’anima. Non c’è nulla da obiettare contro questa dottrina, che ha un suo fascino per la mente moderna e suggerisce le idee di Heidegger e Kierkegaard; quello che è criticabile è la sua incompatibilità con la descrizione formale fornitaci da Lukács del romanzo come un processo di cui non viene dato in anticipo il tracciato, dove, pertanto, persino questa caratterizzazione della ricerca metafisica dell’uomo nel mondo non è ammissibile, e rappresenta un valore precostituito imposto alla iniziale mancanza di forma dell’esistenza.

Possiamo porre questa contraddizione in un altro modo ricordando quanto tutte le analisi lukacsiane del romanzo facciano perno su una sorta di nostalgia letteraria, sulla nozione di un’età d’oro o sull’Utopia perduta della narrazione, nell’epica greca. Senza dubbio, come abbiamo accennato sopra, questa concezione della storia letteraria può venire considerata semplicemente una convenzione per fini organizzativi, o una struttura mitologica per inquadrare le analisi concrete del libro; tuttavia, a lungo andare, la inaccettabilità storica della struttura finisce col viziare le singole analisi. Perciò, ogni successivo mutamento di questa struttura provocherà un riesame, con ripercussioni ad ampio raggio, della storia empirica del romanzo. Evidentemente la realizzazione definitiva di un universo riconciliato verrà dopo proiettata nel futuro e con questo mutamento di prospettive ci troviamo già dentro la teoria marxista della storia. Ma non è tanto questo quello che ci aspettavamo quanto che la rimozione dell’idea dell’età aurea potesse dare origine ad una nuova interpretazione della letteratura moderna ed alla possibilità di momenti, per quanto parziali possano essere, di riconciliazione coi tempi moderni, alla possibilità almeno di esempi, per quanto isolati, di opere d’arte genuinamente concrete; mentre tutto questo sembra precluso dallo schema storico complessivo di Teoria del romanzo.

Tuttavia nella stessa struttura hegeliana del libro vi sono delle debolezze che Lukács cercherà di rettificare con l’opera successiva: il libro mira alla creazione di una tipologia, ad una elaborazione, tipicamente hegeliana, di possibilità puramente formali nello sviluppo cronologico della storia. La manifesta debolezza di questo modo di vedere tipologico salta agli occhi in passi come quello in cui Lukács, avendo definito il romanzo della disillusione romantica come una categoria generale, come genere, ammette che forse esso è formato da un unico rappresentante genuino, da un unico membro, vale a dire dall’Educazione sentimentale di Flaubert. Proprio come il capovolgimento della dialettica hegeliana, operato da Marx, ha dissolto la serie delle forme ideali nella realtà empirica della storia, così dal difetto logico della Teoria del romanzo basta fare un passo per abbandonare i tipi narrativi, per percepire l’opera di Flaubert come un fenomeno storico empirico concreto e unico, come un momento unico nella storia del romanzo, una combinazione di circostanze non generalizzabili. A questo punto ci aspetteremmo poi uno sviluppo ulteriore che porti alle estreme conseguente Teoria del romanzo, fino alla sostituzione della teoria tipologica onnicomprensiva con una serie di monografie storiche concrete, e quindi fino alla dissoluzione di tale teoria nella storia letteraria concreta.

Infine, va notato che persino nella stessa struttura della Teoria vi sono segni di un importante slittamento di prospettiva. Nei primi due capitoli tipologici (quelli che definiscono i romanzi dell’idealismo astratto e della disillusione romantica), il contenuto del romanzo veniva caratterizzato come un’opposizione tra l’uomo e il mondo esterno. Persino quando la resistenza all’eroe assume la forma di altri personaggi, Lukács pensa questa resistenza essenzialmente in termini di conflitto tra l’uomo e il suo ambiente, tra l’uomo e l’universo, tra l’uomo e le cose: gli elementi umani del conflitto vengono sempre assimilati alla categoria più generale del mondo, del Non-Io, dello stato di natura. Questo modo di visualizzare il dramma della vita umana non può essere che metafisico: infatti il suo modello di base è sempre la relazione tra l’uomo e qualche Assoluto a lui esterno.

Tuttavia, quando passiamo ai capitoli su Goethe e Tolstoj, scopriamo che, forse senza che Lukács ne fosse perfettamente consapevole, questo secondo termine metafisico, il mondo, si è impercettibilmente trasformato ed è divenuto la società. Ma a questo punto tutto cambia e la stessa qualità dell’opposizione è diversa: la nuova tensione non è metafisica, ma storica, e la relazione in cui l’uomo si mette in rapporto al mondo non è più statica e contemplativa come lo era la sua situazione metafisica nell’universo. Infatti la società è un organismo che si evolve ed è soggetto a mutamenti, e per la prima volta l’eroe del romanzo, così come lo presenta Lukács, non si limita a contemplare la sua distanza dalla realtà esterna in forma statica, ma gli è dato di cambiarla. A questo punto, pertanto, interviene la grande intuizione di Vico, così proficua per il marxismo e per la storiografia in generale, secondo la quale l’uomo comprende quello che ha fatto e quindi oggetto privilegiato della conoscenza umana non è la natura, bensì la storia7. Quindi è nella stessa elaborazione dei problemi della Teoria del romanzo che ci sono segni decisivi di quel passaggio da un punto di vista metafisico ad un punto di vista storico che verrà ratificato dalla conversione di Lukács al marxismo. Infatti, io sarei tentato di invertire quella relazione causale che viene solitamente data per scontata e di sostenere che se Lukács divenne comunista fu proprio perché i problemi sulla narrazione sollevati in Teoria del romanzo richiedevano una struttura marxista per essere sviluppati e portati alla loro conclusione logica.

II

L’opera successiva di Lukács, Storia e coscienza di classe (1923), comunque, sembra non aver nulla a che fare con questi problemi puramente letterari. Il suo titolo è piuttosto fuorviante: infatti il nuovo libro non è tanto politico quanto epistemologico e mira a porre delle basi tecniche per una nuova teoria marxista della conoscenza. Per «coscienza di classe», perciò, Lukács non intende tanto un fenomeno empirico e psicologico, o quelle manifestazioni collettive esaminate dalla sociologia, quanto piuttosto i limiti a priori o i vantaggi che l’appartenenza alla borghesia o al proletariato conferisce alla capacità della mente di cogliere la realtà esterna. Pertanto quest’opera di Lukács, la cui influenza è stata enorme, si distingue fin dall’inizio dalla solita critica occidentale dell’ideologia, di cui Lucien Goldmann e Sartre potranno essere considerati dei rappresentanti tipici. Infatti il concetto di ideologia implica già da sé mistificazione e raccoglie in sé la nozione di una visione del mondo psicologica e soggetta a fluttuazioni nonché la nozione di una immagine soggettiva delle cose che è, già per definizione, in relazione offuscata con il mondo esterno. La conseguenza è che persino una visione del mondo proletaria viene relativizzata e viene sentita come ideologica, mentre lo standard fondamentale della verità diventa quello positivistico di una «fine dell’ideologia» che ci porrebbe alla presenza dei fatti in sé, senza distorsioni soggettive.

Comunque, è proprio perché Lukács prende in seria considerazione la cosiddetta filosofia borghese che può sviluppare una teoria adeguata della conoscenza proletaria. Per lui, si può dire, ciò che è falso non è tanto il contenuto della filosofia borghese classica, quanto la forma; e con questa distinzione Lukács applica alla sfera filosofica il metodo che Marx stesso aveva sviluppato nella sua critica all’economia borghese. Infatti la critica che Marx rivolge ai suoi predecessori (Smith, Say, Ricardo) era diretta non tanto a questioni di dettaglio della loro opera – la teoria della rendita fondiaria, la circolazione monetaria, l’accumulazione del capitale, ecc. – che in parte vengono inglobate nel suo sistema, ma piuttosto al modello complessivo, o alla mancanza di un modello complessivo, entro cui questi dettagli trovino una interpretazione, e vengano considerati come parti o funzioni di una totalità più ampia. Marx riesce a dimostrare che gli economisti borghesi non solo erano incapaci di elaborare un campo teorico unificato entro cui integrare i vari fenomeni osservati empiricamente, ma persino che essi evitavano istintivamente di farlo. Quasi che essi abbiano avuto sentore delle conseguenze politicamente e socialmente pericolose di quel tipo di modello della realtà economica, totale e sistematico, che verrà successivamente elaborato in Das Kapital; per evitare quelle conseguenze essi sono obbligati a condurre le loro ricerche ad un livello che resta sempre frammentario ed empirico.

Spesso è stata data una interpretazione sbagliata del marxismo in termini di teoria dell’interesse materiale od economico, anche se a livello di psicologia dell’individuo la nozione di interesse egoistico ha delle origini anteriori che risalgono al tempo di Hobbes e La Rochefoucauld. Sarebbe più giusto asserire che il marxismo è una teoria dell’interesse egoistico della collettività o di classe. Infatti, mentre non desta sorpresa né è fonte di paradosso scoprire che un uomo voglia sacrificare i suoi interessi personali immediati a qualche causa o ideale più grande, la stessa adesione appassionata a questa causa, la sua forza cogente, certamente deriva da basi collettive e rappresenta un meccanismo di difesa del gruppo o della classe di cui il singolo sente di far parte. Il membro di una data classe perciò difende non tanto la propria esistenza e i propri privilegi individuali, quanto le condizioni che rendono possibili quei privilegi: ed anche nella sfera del pensiero egli si avventura solo fino al punto oltre il quale quelle condizioni potrebbero venire messe in discussione. Possiamo, pertanto, dire, con una terminologia più astratta, che l’influenza della coscienza di classe sul pensiero viene sentita non tanto al livello della percezione dei singoli dettagli della realtà, quanto al livello della forma complessiva, o Gestalt, secondo cui quei dettagli vengono organizzati ed interpretati.

Lukács, ponendosi sulle orme di Marx critico delle teorie economiche borghesi, in Storia e coscienza di classe scopre i limiti della filosofia borghese nella sua incapacità o resistenza a venire a patti con la categoria stessa della totalità. Qui non ci troviamo alle prese con uno standard di giudizio meramente esterno, ma piuttosto con un dilemma che ha tormentato i filosofi classici, come si può vedere dalla direzione che aveva assunto la filosofia tedesca pre-marxista circa il problema dell’universalità del soggetto individuale o conoscente – una universalità che veniva postulata solo in forma astratta nel concetto dell’io trascendentale di Kant o nello Spirito Assoluto di Hegel. L’originalità di Lukács consiste nell’aver riportato questo problema filosofico astratto alla sua collocazione concreta nella realtà sociale, e nell’aver posto la questione della relazione tra l’universalità colta a livello epistemologico e la classe di appartenenza dell’individuo pensante.

Infatti, la filosofia critica di Kant aveva già assegnato i suoi confini ultimi a quell’ideologia dell’universalità cui aspirava la razionalità borghese. (Per Kant, naturalmente, questi confini non sono solo quelli del pensiero borghese, ma della mente umana in generale: ma questo modo astorico di porre il problema non fa altro che sottolineare la sua profonda identificazione con il tipo di pensiero che stava esaminando). Secondo Kant, la mente può capire tutto ciò che riguarda la realtà esterna, tranne, in primo luogo, il fatto incomprensibile e contingente della sua esistenza: essa può analizzare esaustivamente le proprie percezioni della realtà, senza, peraltro, riuscire mai a confrontarsi con i noumeni, o le cose-in-sé. Per Lukács, comunque, questo dilemma della filosofia classica, di cui il sistema kantiano costituisce un esempio macroscopico, ha le sue origini in un atteggiamento ancor più fondamentale, pre-filosofico, verso il mondo, che è in definitiva di carattere socio-economico: vale a dire, nella tendenza della borghesia a comprendere la nostra relazione con gli oggetti esterni (e quindi, di conseguenza, anche la nostra conoscenza di quegli oggetti) in modo statico e contemplativo. Come se la nostra relazione fondamentale con le cose del mondo esterno non consistesse nel farle o nell’usarle, ma nella contemplazione immobile, chiusi in un tempo sospeso al di sopra d’una voragine che il pensiero non potrà perciò varcare. Il dilemma delle cose-in-sé, diviene, quindi, una specie di illusione ottica o falso problema, una specie di riflessione distorta su questa situazione geneticamente immobile che è il momento privilegiato della conoscenza borghese.

Tuttavia questa relazione statica con gli oggetti della conoscenza è essa stessa solo un riflesso della esperienza di vita della borghesia nella sfera socio-economica. Il rapporto dei borghesi con ciò che producono, le merci, le fabbriche, la stessa struttura del capitalismo, è un rapporto contemplativo, in quanto essi non sono consapevoli del fatto che il capitalismo è un fenomeno storico, essendo a sua volta risultato di forze storiche ed avendo insite in sé le possibilità del cambiamento o della trasformazione radicale. Essi possono capire tutto ciò che riguarda il proprio ambiente sociale (i suoi elementi, i suoi funzionamenti e le leggi implicite) ma non riescono a capirne la storicità: il loro razionalismo può assimilare ogni cosa tranne le questioni fondamentali che riguardano l’origine e lo scopo. In questo senso il capitalismo è a sua volta la prima cosa-in-sé e la contraddizione prioritaria che costituisce il fondamento di tutti gli altri suoi ulteriori dilemmi più particolari e più astratti,

Quando ci rivolgiamo alla coscienza di classe del lavoratore, a quelle che sono le nuove possibilità di pensiero insite nella struttura di un’epistemologia proletaria, evidentemente non basta asserire che le questioni filosofiche sono diverse, che non si pongano più i vecchi problemi e dilemmi. Ciò che Lukács deve dimostrare è che il pensiero proletario ha appunto la capacità di risolvere proprio quelle antinomie che il pensiero borghese non riesce per sua natura a risolvere. Egli deve dimostrare che c’è qualcosa nella struttura del pensiero proletario che permette l’accesso alla totalità o alla realtà, a quella conoscenza totalizzante che era il grande scoglio per la filosofia borghese classica; deve, quindi, sostituire il modello statico di conoscenza da cui traevano origine i dilemmi classici della borghesia. Egli deve scoprire qualcosa nella situazione esistenziale del proletariato che corrisponda, come realtà concreta, a quell’unione di soggetto e oggetto, di conoscente e conosciuto, che Hegel ha postulato come soluzione, nella sfera del pensiero puro, del problema kantiano delle cose-in-sé. Questa natura privilegiata della situazione del lavoratore consiste, paradossalmente, nei suoi limiti angusti ed inumani: il lavoratore non può conoscere il mondo esterno con sguardo statico e contemplativo, in un certo senso perché non può conoscerlo tutto, visto che la sua situazione non gli offre l’agio di «intuirlo», nel senso borghese; perché, prima ancora che possa proporsi elementi del mondo esterno come oggetti del suo pensiero, egli sente se stesso come oggetto, e questa sua iniziale alienazione interna, prende la precedenza su ogni altra cosa. Ma è proprio in questa terribile alienazione che consiste la forza della posizione del lavoratore: il suo primo movimento non va verso la conoscenza del lavoro, ma verso la conoscenza di sé come oggetto, verso l’auto-coscienza. Inoltre questa auto-coscienza, essendo inizialmente conoscenza di un oggetto (se stesso, il suo lavoro come merce, la sua forza vitale che egli è costretto a vendere), gli permette una più genuina conoscenza della natura mercificata del mondo esterno di quanta non ne sia concessa all’«obiettività» borghese. Infatti «la sua coscienza è l’auto-coscienza della mercanzia stessa, o, in altre parole, è l’auto-coscienza, o la rivelazione alla coscienza, della società capitalista basata sulla produzione di merci e sullo scambio»8.

In questo nuovo tipo di auto-coscienza sono impliciti tutti gli elementi per una soluzione di quei dilemmi epistemologici in cui si era invischiato il pensiero borghese. Sono le merci che strutturano la nostra relazione originale con gli oggetti del mondo, che danno forma alle categorie attraverso cui vediamo tutti gli altri oggetti. Tuttavia tali oggetti sono ambigui; essi mutano aspetto a seconda di cosa si evidenzia: se la loro natura oggettiva o la loro origine soggettiva. Perciò, per il borghese una merce sarà una solida cosa materiale la cui origine è relativamente insignificante, relativamente secondaria; la sua relazione con questo oggetto si ridurrà alla sola fruizione, o consumo. Il lavoratore, d’altro canto, considera il prodotto finito poco più che un momento nel processo di produzione; il suo atteggiamento verso il mondo esterno risulterà, perciò, significativamente modificato.

Infatti egli visualizzerà gli oggetti che lo circondano in termini di cambiamento, e non chiusi nel presente «naturale» senza tempo tipico dell’universo borghese (cui corrisponde l’esaltazione dell’uomo come universale). Inoltre, nella misura in cui il lavoratore conosce le relazioni reciproche tra utensili ed impianti di produzione, egli arriverà a vedere il mondo esterno non come una collezione di cose separate e senza relazioni di sorta, ma come una totalità in cui ogni cosa dipende da tutte le altre. Perciò, per entrambe le vie, egli giungerà a percepire la realtà come processo, e la reificazione in cui, per la borghesia, s’era congelato il mondo esterno, verrà sciolta. La relazione privilegiata con la realtà, la forma privilegiata di conoscenza del mondo non sarà più statica, contemplativa, né sarà più pura ragione o pensiero astratto, ma sarà quell’unione di pensiero ed azione che il marxismo chiama prassi, sarà attività consapevole di sé. A questo punto il problema kantiano della cosa in sé, del predicato dell’essere, è doppiamente risolto: innanzitutto, si scopre che l’essere è un’astrazione e che il considerarlo come fenomeno separato conduce necessariamente a delle antinomie nella misura in cui la realtà di base del mondo consiste nel divenire. E in secondo luogo, come già si può intravvedere nel sistema hegeliano, il mondo esterno, modificato dal lavoro umano e considerato ora come storia e non come natura, è della stessa sostanza della soggettività del lavoratore: la soggettività degli uomini può venire ora vista come il prodotto di quelle stesse forze sociali che creano le merci e quindi, in definitiva, l’intera realtà in cui gli uomini vivono.

D’ora innanzi Lukács, accettando la definizione di Lenin in Materialismo ed Empiriocriticismo, caratterizzerà il processo di conoscenza come un processo di rispecchiamento (Widerspiegelung) della realtà. Ma le varie polemiche a cui la cosiddetta teoria della conoscenza come rispecchiamento ha dato origine possono venire evitate vedendo in questa figura del discorso non tanto una teoria con tutte le carte in regola, quanto il segno di una teoria che deve ancora venire elaborata: «la scoperta del riflesso sta sempre ad indicare l’esistenza di un legame articolato tra per lo meno due sistemi di relazioni; la nozione di rispecchiamento a questo punto ha la funzione di una indicazione (‘segnale’) di questo legame articolato. Ma quando deve essere determinata la natura di questo legame … allora solo il concetto di processo è davvero operativo, vale a dire produttivo della conoscenza di tale legame»9. La figura del rispecchiamento del reale nel pensiero è, perciò, solo una specie di stenografia concettuale che serve a sottolineare la presenza di quella specie di operazione mentale che abbiamo altrove descritto come «tropo storico», vale a dire l’operazione del mettere in contatto l’una con l’altra due realtà distinte ed incommensurabili, una appartenente alla sovrastruttura e l’altra alla base, l’una culturale e l’altra socio-economica.

Possiamo ora trarre alcune conclusioni circa le implicazioni di Storia e coscienza di classe nei confronti dei problemi letterari di cui Lukács si era precedentemente occupato. È l’epistemologia, e la filosofia astratta in generale, che tende, per la propria logica interna, a ridurre il fenomeno del rispecchiamento ad una specie di immagine mentale statica più o meno adeguata alla realtà esterna. Quella che Lukács definisce come verità proletaria è, al contrario, il senso delle forze operanti nel presente, un disciogliersi della superficie reificata del presente entro la coesistenza di tendenze storiche, diverse tra di loro e conflittuali, una traduzione di oggetti immobili in atti o atti potenziali e nelle conseguenze degli stessi. Saremmo tentati di asserire che per il Lukács di Storia e coscienza di classe la soluzione definitiva del dilemma kantiano non va ricercata nei sistemi filosofici del diciannovesimo secolo, quindi nemmeno nel sistema hegeliano, quanto piuttosto nel romanzo del diciannovesimo secolo: infatti il processo che egli descrive non assomiglia tanto agli ideali della conoscenza scientifica quanto all’elaborazione della trama narrativa.

Pertanto, con la sua svalutazione della filosofia borghese, Storia e coscienza di classe pone le basi per quella differenziazione dell’esperienza estetica che Lukács elaborerà più dettagliatamente nell’Estetica10, opera nella quale viene valorizzata la narrazione in quanto dimensione che presuppone non la trascendenza dell’oggetto (come nella scienza) o quella del soggetto (come nell’etica), ma la neutralizzazione di entrambi, la loro riconciliazione reciproca, anticipando così nella propria struttura l’esperienza di vita di un mondo utopico.

Tuttavia, nella misura in cui la costruzione dell’Utopia non spetta più alla letteratura, ma piuttosto alla prassi e all’azione politica, l’intera struttura organizzativa di Teoria del romanzo deve venire riesaminata. Ora, infatti, alla visione nostalgica di una qualche età dell’oro in cui era ancora possibile una totalità epica, si sostituisce una visione della storia secondo la quale gli uomini appaiono già implicitamente riconciliati con il mondo circostante, in quanto quel mondo è il risultato del lavoro e dell’azione umana. Tuttavia anche il non riuscire a vedere attraverso ed oltre la superficie reificata del mondo esterno, è il risultato di un condizionamento storico: infatti, prima del diciannovesimo secolo, quando vennero poste le basi del capitalismo moderno nella forma dell’industrializzazione totale dell’ambiente e nella organizzazione mondiale del sistema di mercato, mancavano ancora molte delle condizioni che rendono possibile una comprensione genuinamente storica della vita. Bisognava, quindi, aspettare il diciannovesimo secolo perché ciò che era stato inteso (ed espresso) come un conflitto tra l’uomo e il destino o la natura, potesse venire narrato entro le categorie puramente umane e sociali di quello che Lukács chiamerà (d’ora innanzi) realismo.

III

Dopo Storia e coscienza di classe, perciò, non è più possibile un ritorno a quel tipo di deduzione hegeliana e tipologica delle strutture narrative possibili che era stata intrapresa nella Teoria del romanzo. Ora, al contrario, Lukács si propone il compito di esaminare le condizioni di possibilità di quelle opere che sono riuscite a «riflettere» la realtà sociale nella sua storicità, vale a dire, si propone di dare una spiegazione teorica all’esistenza di quelli che egli chiama i grandi realisti: Goethe, Scott, Balzac, Keller e Tolstoj. Che egli poi scivoli, in modo piuttosto discutibile, da un atteggiamento descrittivo ad uno prescrittivo ed attacchi gli scrittori moderni in nome di un modello a priori del realismo, non inficia questo punto di partenza, dove la parola realismo serve semplicemente a designare l’esistenza empirica di un concreto corpus di opere che si offrono ad una coerente esplorazione.

Senza dubbio il metodo più ovvio ed immediato cui si può ricorrere per caratterizzare gli elementi distintivi del realismo, consiste in una analisi del contenuto delle opere realistiche, ed in particolare della loro componente umana, cioè dei personaggi. Per Lukács i personaggi realistici si distinguono da quelli propri di altri tipi di letteratura per la loro tipicità: essi rappresentano, in altre parole, qualcosa di più ampio e più significativo di quanto non siano i loro destini singoli ed isolati. Essi sono individualità concrete, e tuttavia, al medesimo tempo, sono in relazione con qualche sostanza umana più generale e collettiva. La nozione di tipicità, che per la teoria letteraria occidentale è divenuta antiquata, se non addirittura sospetta, era già presente in quello che rappresenta il primo modello su larga scala della critica letteraria marxista, vale a dire l’assiduo scambio di lettere tra Marx, Engels e Lassalle, che aveva come argomento l’opera teatrale, Franz von Sickingen, di quest’ultimo. Tale scambio epistolare chiamava, perciò, esplicitamente, in causa il problema del dramma storico o dell’opera d’arte in generale nella sua dimensione storica; e la versione lukacsiana di questo problema è stata elaborata con grande respiro ne Il romanzo storico.

Infatti, anche se la sua rilevanza rispetto alle altre forme della letteratura può venire messa in discussione, è indiscutibile che l’opera storica, mirando esplicitamente a dare una immagine di un intero periodo storico, ha in se stessa uno standard in base al quale può venire giudicata; cosicché il problema di se i personaggi e la collocazione di un’opera storica siano adeguati al fine di riflettere la circostanza storica di fondo, acquista validità in quanto problema della stessa forma. Il problema è quello del ruolo che nell’opera d’arte giocano le due dimensioni dell’accidentale e del necessario. La libera volontà di rappresentare che il drammaturgo o il romanziere storico esercitano sulla struttura formale è estensibile al contenuto che egli (per libera scelta iniziale) si è assegnato come oggetto? Per Lassalle la tragedia di Sickingen (che egli considera emblematica della situazione tragica più generale della rivoluzione tedesca del 1848) consiste in una sfasatura morale ed intellettuale: il leader della prima rivolta contro i grandi prìncipi durante gli sconvolgimenti della Riforma tedesca è caduto a causa della sua inveterata mentalità politica e diplomatica, indulgente come fu in quanto uomo di stato, al fascino complicato della Realpolitik e degli intrighi tra i prìncipi, fino a perdere di vista le vitali energie rivoluzionarie generate dagli stessi fini rivoluzionari. La difesa che Lassalle fa del suo lavoro teatrale sembra a prima vista inconfutabile: questa era la tragedia che egli voleva scrivere, dice a Marx ed Engels, anche se avrebbe potuto sceglierne molte altre. Se avesse scelto di narrare la storia di Thomas Münzer, ammette, le stesse basi della situazione tragica sarebbero state totalmente diverse.

Ma per Marx ed Engels il dramma è difettoso perché la sfasatura sottolineata da Lassalle non è la causa vera della caduta di Sickingen. La causa non era solo morale, ma anche sociale: Sickingen non avrebbe mai potuto avere l’appoggio dei contadini rivoluzionari perché i suoi fini sociali di fondo erano assai diversi dai loro, avendo come mira non la liberazione della regione, ma il ripristino della piccola nobiltà soggetta al dominio dei grandi prìncipi e della chiesa. Pertanto, secondo Marx ed Engels la situazione tragica eli Sickingen era una situazione oggettiva e non aveva nulla a che vedere con le tormentose scelte morali consumate nella sua mente o con i magniloquenti atteggiamenti morali che il personaggio poteva assumere sulla scena. Essendo il dramma così com’è, il personaggio di Sickingen non giunge a porsi come tipico di un reale dilemma storico: la situazione del dramma, infatti, non fornisce un modello genuino delle forze operanti nel periodo in questione; e Marx ed Engels dimostrano come tutte le debolezze formali del dramma (i discorsi interminabili e le reminiscenze di Schiller piuttosto che di Shakespeare) siano il risultato di quella debolezza fondamentale che è l’inadeguatezza dell’opera alla sua materia prima. L’attualità di quest’analisi, come di quelle di Lukács ne Il romanzo storico, consiste nell’idea che la forma dell’opera dipende da una logica più profonda insita nella materia prima; la parola tipico serve ad indicare l’articolarsi di questa realtà di base, contenuto o sostanza dell’opera d’arte, in personaggi singoli.

Naturalmente questa categoria è stata bistrattata dalla pratica del marxismo volgare che consisteva nel ridurre i personaggi a mere allegorie delle forze sociali e nel trasformare i personaggi «tipici» in meri simboli di classe: il piccolo borghese, il controrivoluzionario, l’aristocratico agrario, l’intellettuale socialista utopico, e così di seguito. Sartre ha messo in luce che anche queste categorie sono idealistiche in quanto presuppongono che ci siano forme immutabili, idee eterne di stampo platonico, delle varie classi sociali: tali categorie trascurano proprio la storia e la nozione della specificità della situazione storica cui Lukács è sempre stato fedele nella sua critica.

Non possiamo qui esaminare gli aspetti più immediati ed interessanti dell’analisi lukacsiana dei tipi nel romanzo storico e in particolare la sua distinzione tra figure storiche d’importanza mondiale (vale a dire, i grandi nomi della storia, i Richelieu, i Cromwell o i Napoleoni) e le figure inventate, medie e relativamente anonime, che, ad esempio, Scott colloca al centro dei suoi romanzi. È sufficiente far rilevare che qui, come altrove, il metodo di Lukács è formale; in questo caso il metodo fa leva sulla distinzione tra le forme del dramma e quelle del romanzo e le corrispondenti differenze funzionali tra i personaggi di entrambe le forme. Le grandi figure storiche, i personaggi guida della storia (Macbeth, Wallenstein, Galileo), saranno le figure centrali del dramma poiché in questo modo la collisione drammatica sarà più concentrata ed intensa; mentre il romanzo, che mira ad una rappresentazione totale dello sfondo storico, può tollerare queste figure solo in ruoli episodici e secondari, perché è in questo modo, distante e di scorcio, che esse fanno parte della nostra vita ed esperienza di ogni giorno.

Ma le caratteristiche essenziali del tipico vanno ritrovate altrove: in particolare, si deve osservare che per Lukács il tipico non è mai una questione di precisione fotografica. In quel continuo confronto tra Balzac e Zola, su cui torneremo, egli fa notare che il carattere balzachiano, con la sua melodrammaticità, la sua esagerazione romantica e il suo aspetto grottesco irreale, riesce ad esprimere le sottostanti forze sociali ed è profondamente tipico, più di quanto non lo siano i caratteri schematici e stereotipi (il contadino ricco, il minatore, il proprietario della fabbrica, il negoziante e così via) di Zola, anche se questi ultimi potrebbero a prima vista apparire più consoni ai fini essenziali del realismo. È come se, nelle opere di Zola, l’idea, la teoria preconcetta, si frapponesse tra l’opera d’arte e la realtà da esibire: Zola sa già quale sia la struttura organica della società; e questa è la sua debolezza. Per lui la materia prima fondamentale, le professioni, i tipi di caratteri socialmente determinati, sono già stabiliti in anticipo: questo equivale a dire che si è lasciato vincere dalla tentazione del pensiero astratto, dal miraggio di una conoscenza statica, oggettiva della società. Egli ha implicitamente ammesso la superiorità del positivismo e della scienza sulla pura immaginazione. Ma dal punto di vista di Lukács, secondo il quale la narrazione è la categoria fondamentale e la conoscenza astratta soltanto un suo surrogato, questo vuol dire che il romanzo, nelle mani di Zola, ha smesso di essere lo strumento privilegiato per l’analisi della realtà ed è stato declassato a mera illustrazione di una tesi.

Balzac, invece, non sa in anticipo quello che scoprirà. La Prefazione a La Comédie humaine dimostra che egli si propone di costruire una tipologia, una ampia zoologia della società umana, ma che le energie dell’opera vengono messe in moto dall’idea di un metodo, piuttosto che dalla scoperta anticipata di una specie di tavola degli elementi fondamentali. Inoltre, la sensibilità di Balzac per la storicità e per il mutamento storico è così intensa che egli non riuscirebbe ad immaginare un archetipo fisso dei tipi sociali, ad esempio del piccolo borghese: nella sua opera infatti il piccolo borghese è sempre caratteristico di un dato periodo, di un dato decennio, e in costante evoluzione nel suo stile d’abbigliamento, nei suoi mobili, nel suo linguaggio e nella mentalità, dai tempi di Napoleone agli ultimi anni di Luigi Filippo. Pertanto, un carattere di Balzac non è tipico di un qualsiasi genere di elemento sociale fisso, come una classe, ma piuttosto del momento storico stesso; e con ciò i toni più carichi e più schematici od allegorici della nozione di tipicità svaniscono completamente. Il tipico, a questo punto, non è una relazione biunivoca tra i singoli personaggi nell’opera (Nucingen, Hulot) e le componenti fisse e stabili del mondo esterno (finanza, aristocrazia, nobiltà d’origine napoleonica), ma rappresenta piuttosto una analogia tra l’intera trama, come conflitto di forze, e il momento globale della storia, quando venga considerato come un processo.

A questo punto si dovrebbe forse osservare che l’intera discussione sul contenuto delle opere d’arte è in realtà una discussione formale. Se siamo partiti avendo l’aria di voler discutere del contenuto è stato a causa della natura del romanzo o del dramma storico, nella cui struttura è mantenuta una costituzionale distinzione tra forma e contenuto. Infatti, mentre il romanzo ordinario dà l’impressione d’offrirsi a una lettura del tutto disimpegnata, di essere un’opera autosufficiente che non ha bisogno di nessun oggetto o modello nel mondo esterno, il romanzo storico è sempre caratterizzato da come afferra questo modello, questa realtà esterna, che mentre leggiamo abbiamo sempre davanti agli occhi. Anche se noi non abbiamo alcun interesse intellettuale per l’esattezza storica delle rappresentazioni del Medioevo di Scott o della Cartagine di Flaubert, non possiamo fare a meno di intuire questa realtà esterna, non possiamo fare a meno di intenderla come oggetto reale (in senso husserliano), e non ha importanza se questo avviene in modo vago e carente; la stessa struttura del nostro leggere un romanzo storico comporta un esame comparativo, implica una sorta di giudizio di realtà.

Pertanto, quando ci volgiamo da questa forma specializzata al romanzo realistico in generale, possiamo riformulare tale questione in termini puramente formali: ma, in questi termini, gli elementi umani dell’opera, i personaggi, divengono materia prima al pari di qualsiasi altro elemento, come, ad esempio, la materiale messa in opera del libro, e infine la nozione di tipico, non più coerente con questo punto di vista formale più generale, lascia il campo libero ad un altro tipo di terminologia. Qui, la caratteristica principale del realismo letterario viene vista nella sua qualità antisimbolica: il realismo stesso viene contraddistinto dal suo movimento, dalla narrazione e dalla drammatizzazione del contenuto; viene caratterizzato, come dice il titolo di uno dei più raffinati saggi lukacsiani, dall’essere narrazione piuttosto che descrizione.

È forse più semplice cominciare con la parte negativa della definizione, con quella ostile diagnosi del simbolismo che si presenterà come una costante lungo tutta la carriera di Lukács: per lui il simbolismo non è solo una tecnica letteraria tra le altre, ma rappresenta un modo di percepire il mondo qualitativamente diverso da quello realistico. Il simbolismo, potremmo dire, è qualitativamente un’espressione di second’ordine, rappresenta sempre l’ammissione, da parte del romanziere, di una sconfitta; infatti, col far ricorso ad esso lo scrittore ammette che v’è un significato originario, oggettivo, negli oggetti, che gli risulta inaccessibile, ammette di dover inventare un significato nuovo e fittizio per nascondere quest’assenza di fondo, questo silenzio delle cose. Il simbolismo, naturalmente, non è tanto un prodotto dell’estetica personale dello scrittore, quanto della stessa situazione storica: originariamente tutti gli oggetti hanno un significato umano. Persino la natura stessa è umanizzata dal modo in cui l’uomo la trasforma in propria dimora e la piega ai propri bisogni (così il suolo roccioso e sterile della Grecia viene rivoltato come un guanto e reso da ostile amico mediante una economia che si adatta ad esso con la navigazione, il commercio e la produzione artigianale). Questa originaria significatività degli oggetti diviene visibile solo nella misura in cui il loro legame con il lavoro umano e la produzione non sia occultato. Ma nella moderna civiltà industriale è un legame difficile da trovare: gli oggetti sembrano condurre una vita propria, indipendente, ed è proprio questa illusione che sta all’origine del fare simbolico. In Zola la miniera viene sentita come una belva divoratrice di carne umana che sovrasta come un incubo l’intero paesaggio. In Joyce, l’ufficio nel giornale ha l’apparenza di una caverna dei venti: quale che sia il significato storico e realistico che possiede, tale significato sembra esser divenuto troppo scialbo e prosaico per l’opera d’arte. I mobili in The Spoils of Poynton, le città brulicanti e tetre di Dickens e Dostoyevskj, il paesaggio moralmente espressivo di Gide o D. H. Lawrence sono, nell’opera d’arte, elementi auto-sufficienti e dotati di significato autonomo. Persino gli oggetti neutrali di un Robbe-Grillet sono il risultato di questo processo di simbolizzazione: infatti anch’essi rispondono, ma col silenzio, e l’occhio continua a cercarli per qualche schema ossessivo che li circonda, per trovarvi un’immediata comprensibilità visiva, che rimane per sempre in dubbio.

Pertanto il simbolismo non è il risultato delle proprietà delle cose stesse, ma della volontà del creatore, che d’autorità impone alle cose un significato: si è in presenza del vano tentativo della soggettività di elaborare un mondo umano al di fuori di sé ma trovandone in se stessa la struttura. In questo, è molto meglio la precedente etica borghese dell’imperativo morale, dell’ideale o Sollen, che Lukács critica nella Teoria del romanzo. Nelle opere d’arte simboliche vi e lo sforzo di raggiungere qualche relazione, che sia dotata di significato, con il mondo esterno, con la realtà oggettiva, per ritrovarsi con le mani vuote, avendo trascorso la vita in mezzo ad ombre, non essendo riusciti ad attingere null’altro che noi stessi nel mondo che ci circonda.

Questo è forse il momento di fare qualche commento sul ripudio dell’arte moderna e del modernismo in generale che è implicito in questa idea di Lukács. Ne Il Castello di Kafka, dopo che uno dei personaggi ha dimostrato a K. che tutte le sue azioni possono venire interpretate in un modo del tutto diverso e sotto una luce molto più sfavorevole, l’eroe replica: «Quello che tu hai detto non è falso: è ostile». Questo potrebbe essere il motto atto a caratterizzare le osservazioni di Lukács sull’arte moderna. Esse sono sia diagnosi che giudizi: tuttavia l’intera dimensione del giudizio è ambigua, perché presuppone che lo scrittore moderno abbia avuto qualche possibilità di scelta e che il suo destino non sia già stato segnato dalla logica del momento storico in cui vive. La stessa ambiguità è visibile anche nella teoria rivoluzionaria marxista, dove la rivoluzione non può scoppiare fino a che non siano mature le sue condizioni oggettive, ma dove, nel medesimo tempo, Lenin può apparentemente forzare queste condizioni sulla base di una scelta di volontà e può fare una rivoluzione proletaria prima che la precedente rivoluzione borghese abbia terminato il suo corso.

Pertanto, se tralasciamo quella parte dell’opera di Lukács che comprende una serie di raccomandazioni rivolte all’artista (e che è resa problematica dal fatto che qui Lukács si rivolge contemporaneamente a un duplice pubblico – gli scrittori del realismo socialista e i «realisti critici» dell’occidente), scopriamo che la sua analisi del modernismo si basa su di un avvenimento fondamentale per l’arte moderna: vale a dire, sull’osservazione di un salto di qualità che si è verificato in epoca recente e che ha dato origine ad una differenza incolmabile tra quella che è la letteratura dei nostri giorni, che ha avuto origine ai tempi di Baudelaire e Flaubert, e la letteratura classica precedente. Senza dubbio, a seconda dell’ampiezza delle nostre lenti storiche, il taglio può venire spostato indietro, forse verso l’inizio del diciannovesimo secolo, al periodo della rivoluzione francese e del romanticismo tedesco. A questo riguardo è significativo che l’atteggiamento di Lukács riproduca quasi esattamente quello di Goethe ed Hegel verso il Romanticismo. Il Classicismo è una cosa sana, ha detto Goethe, il Romanticismo è una cosa malata. Ed Hegel ha criticato il soggettivismo del romanticismo per lo più usando gli stessi termini che Lukács riserva ai moderni. Il giudizio è quello inevitabile che una filosofia del concreto deve passare sull’astratto; e si dovrebbe aggiungere che molto spesso è proprio da un punto di vista antiquato e persino reazionario (si pensi a Yvor Winters e allo stesso Edmund Burke) che vengono fatte le analisi più penetranti del presente. Il vantaggio che ha Lukács sui teorici più apologetici del moderno consiste nella forma di pensiero, volto alla comparazione ed alla differenziazione, che gli è propria. Egli non è immerso nel fenomeno moderno né si è consegnato completamente nelle mani dei valori fondamentali di tale fenomeno, ma riesce a vederlo attraverso occhi distanti: può definirlo e segnare i confini entro cui è circoscritto in quanto momento storico, distinguendolo da ciò che esso storicamente non è; tuttavia questa comparazione implicherà sempre, per la sua stessa struttura, un giudizio da un punto di partenza più arretrato.

A questo punto si dovrebbe osservare che la critica di Lukács all’arte moderna era già implicita nella stessa Teoria del romanzo. Abbiamo mostrato come i quattro capitoli tipologici di quest’ultima si dividessero in due gruppi: il primo (sui due tipi base) coglieva la relazione dell’uomo con il mondo in modo metafisico, il secondo (su Goethe e Tolstoj), vedeva tale relazione in termini sociali o storici. Non era certo dovuto ad un puro caso che i primi due capitoli fossero così ricchi di suggestioni ed indicazioni sull’arte moderna: infatti l’arte moderna o simbolica è caratterizzata proprio dal suo modo astorico, metafisico di considerare la vita umana nel mondo. La distinzione tra realismo e arte simbolica moderna era, pertanto, già presente nel passaggio ad un romanzo che percepiva la realtà, e l’ambiente umano, in termini di storia umana. Così, per una specie di deviazione, troviamo che la metodologia di fondo del primo periodo, la separazione tra anima e mondo, significato e vita, mantiene la sua vitalità negli scritti successivi: è diventata un motivo sotterraneo e, pur avendo Lukács abbandonato la nota terminologia hegeliana, continuerà ad informare la sua distinzione tra simbolismo e realismo, tra una sintesi puramente volontaristica di significato e vita e una sintesi che sia in qualche misura presente in modo concreto nella stessa situazione storica.

Per Lukács, comunque, la forma simbolica è solo un sintomo di una forma di comprensione sottostante e più profonda che egli chiamerà descrizione, riferendosi con ciò a un modo statico e contemplante di considerare la vita e l’esperienza che è l’equivalente letterario dell’atteggiamento oggettivo borghese in filosofia. Infatti, la forma realistica, la stessa possibilità della narrazione, si ha solo in quei momenti della storia in cui la vita umana può venire percepita in termini di confronti e drammi individuali e concreti, in quei momenti in cui la storia e le trame individuali possono far da veicolo all’espressione di qualche verità più profonda e generale. Ma questi momenti son divenuti abbastanza rari nei tempi moderni, mentre sono più frequenti altri momenti in cui sembra che non accada nulla di reale, e la vita viene sentita come un’attesa senza fine, una perpetua frustrazione dell’ideale (Flaubert): quando la sola realtà dell’esistenza umana sembra essere la cieca routine e l’ingrato lavoro quotidiano, sempre uguale a se stesso giorno dopo giorno (Zola); quando, infine, la stessa possibilità che accada qualcosa sembra scomparsa e lo scrittore pare riconciliarsi ad una struttura in cui la verità della singola giornata può rappresentare il microcosmo della vita (Joyce). In queste situazioni storiche, persino quando l’opera letteraria sembra violenta ed agitata, queste esplosioni, ad un più attento esame, mostrano d’essere pure imitazioni degli eventi, pseudoeventi creati arbitrariamente dal romanziere, che non riesce a trovare nulla da dire sul flusso incolore dell’esperienza reale. Infatti, il melodramma (si pensi a Zola) è uno degli espedienti principali di cui la letteratura moderna si è servita per cercare di dissimulare le sue contraddizioni: lo scontro violento tra unità collettive (la plebaglia in Germinale, i barbari in Salammbô) o tra bene assoluto e male assoluto, nasconde l’assenza di qualsiasi genuina interrelazione umana a livello individuale, nella esperienza vissuta individuale. E quando l’arte moderna assume risolutamente questa situazione, essa abbandona interamente la trama, rinuncia alla narrazione nel vecchio senso e cerca di trasformare in forza la sua debolezza di fondo.

Perciò la descrizione, come forma dominante di rappresentazione, è il segno del crollo di una relazione vitale con l’azione e con la possibilità dell’azione. Lukács confronta la corsa dei cavalli in Nana di Zola con l’episodio simile in Anna Karenina. Il primo è un brillante pezzo convenzionale osservato dall’esterno che non ha nulla a che fare con i destini dei personaggi. Nel secondo, i personaggi sono appassionatamente coinvolti: non sono necessarie prolisse descrizioni esterne perché noi sentiamo l’intensità dell’evento non per mezzo della contemplazione visiva, ma attraverso le speranze e le aspettative dei personaggi. La descrizione ha inizio quando le cose esterne vengono sentite come alienate dall’attività umana e come statiche cose-in-sé, ma raggiunge il suo punto culminante quando persino gli esseri umani che popolano questi scenari senza vita si disumanizzano, divengono strumenti inerti, puri oggetti in movimento che devono venire rappresentati dall’esterno.

Lukács spiega i momenti realistici, genuinamente narrativi, della letteratura, in due modi: attraverso la situazione e gli atteggiamenti personali degli scrittori, e attraverso la loro situazione storica oggettiva. L’analisi delle condizioni soggettive che rendono possibile il realismo forma un parallelo con l’analisi in Storia e coscienza di classe, delle condizioni che rendono possibile la conoscenza della totalità, sebbene sul piano letterario la spiegazione possa sembrare relativamente semplicistica: i grandi realisti, ci dice Lukács, sono quelli che in qualche modo partecipano pienamente alla vita dei propri tempi, che non sono solo osservatori, ma anche attori «impegnati», in un senso molto meno limitato e politico di quello implicito nell’uso sartriano di «impegnato». Tuttavia, nei suoi esempi di impegno, Lukács porta il suo materialismo fino alle estreme, e persino paradossali, conclusioni: se è la struttura materiale, la situazione sociale che ha il diritto di precedenza sulla mera opinione, sull’ideologia, sull’idea soggettiva che uno si fa di se stesso, allora noi possiamo essere portati a concludere che in certe circostanze un conservatore, un realista, un cattolico credente, potrebbero comprendere le genuine forze operanti nella società meglio di uno scrittore di tendenze socialiste. Qui sta la forza del paragone di Lukács tra Balzac e Zola. Potrebbe sembrare velleitario e provocatorio sostenere che il campione di Dreyfus era staccato dai problemi fondamentali del suo tempo; tuttavia, persino uno scrittore così poco politico come Henry James ha acutamente osservato che non solo l’impegno politico di Zola è nato dopo che era finita la sua carriera creativa nella letteratura, quasi si trattasse di un sostituto di quest’ultima, ma anche che in esso si riflette un senso di fastidio o di insoddisfazione, che ha le sue radici nella vita privata dello scrittore, come la sensazione di non essere mai riuscito ad afferrare realmente qualche esperienza genuina. E non si possono avere dubbi sul fatto che i metodi di lavoro di Zola (una specie di divisione razionalistica del lavoro, la scelta del tema che precede la scelta dei personaggi, l’accuratezza di documentazione e note sull’ambiente, una visita sul posto, e così via) siano quelli dell’osservatore esterno piuttosto che quella di chi partecipa con l’immaginazione. Mentre Balzac, con tutta la sua critica intellettuale e morale di quell’epoca borghese, della corruzione mondana della monarchia di Luglio, visse fino all’estremo, fin dentro le sue passioni esistenziali, le ambizioni di fondo del proprio tempo, con i suoi sogni di ricchezze estratte dalle miniere d’argento della Sardegna, di una rapida fortuna costruita sul teatro, collezionando febrilmente tesori posticci, arredando una casa dopo l’altra, desiderando la sicurezza definitiva del proprietario terriero – e scoprendo infine le forze trainanti del suo momento storico già radicate in sé: senza dunque aver bisogno di osservarle in altri, dall’esterno. Senza dubbio è inutile proporre questa vita come un modello per lo scrittore realistico, come Lukács qualche volta sembra fare, ma si dovrebbe far rilevare che nuove analisi psicologiche, del tipo di quelle di Sartre su Flaubert, sono soltanto dei ritocchi a questo modello di base ottenuti grazie alle tecniche psicoanalitiche. In base ad esse, la pratica formale di Flaubert viene considerata un riflesso del suo distacco dalle possibilità dell’azione vissuta, nella sua situazione di secondogenito a cui siano stati negati i pieni traguardi pratici della vita borghese.

Ma questa disposizione soggettiva dello scrittore realista è solo l’inverso delle possibilità oggettive della situazione storica in cui vive e che la sua opera riflette. È stata la fortuna storica di Balzac l’aver potuto essere testimone non del successivo, pienamente sviluppato capitalismo del tempo di Flaubert e Zola, ma degli stessi esordi del capitalismo in Francia; di essere stato contemporaneo ad una trasformazione sociale che gli ha permesso di vedere gli oggetti non come sostanze materiali finite, ma come prodotti dell’attività umana; di aver potuto recepire il cambiamento sociale come una rete di storie individuali. Possiamo drammatizzare tutto questo dicendo che in Balzac le fabbriche in quanto tali non esistono ancora, che non vediamo i prodotti finiti, ma gli sforzi dei grandi capitalisti e degli inventori per costruirle. La realtà sociale ed economica è ancora relativamente trasparente, il risultato dell’attività umana è ancora visibile ad occhio nudo. Ma la sola fabbrica presente nelle opere di Flaubert è poi quel laboratorio di ceramica che è solo una fase di passaggio nella carriera alterna di Arnoux; ed è un luogo attraverso cui Frédéric passa con fastidio infinito attento solo agli occhi e alle mani di Madame Arnoux che pazientemente spiega il meccanismo della produzione («Ce sont les patouillards», ella dice. Egli trovò la parola grottesca, del tutto inadatta ad esser pronunziata dalle sue labbra»). Come Frédéric, anche Flaubert è condannato dalla sua situazione storica a vivere un monotono turismo tra monumenti industriali che per lui non vogliono dire nulla. E, come si è già visto, quando Zola cerca di soffiare della vita dentro questa esistenza intollerabilmente inerte, può far ricorso solo al mito e alla violenza melodrammatica.

Pertanto, il realismo dipende dalla possibilità di accesso alle forze che provocano il mutamento in un dato momento storico. Al tempo di Balzac, tali forze erano quelle dell’inizio del capitalismo; ma la natura delle forze non è poi così importante: infatti, in altra situazione, la vitalità letteraria di Tolstoj è resa possibile dall’emergenza, nella società russa, della classe dei contadini, con cui egli si identifica in modo utopico e religioso, ma la cui presenza gli dà una forza che resta preclusa agli scrittori occidentali a lui contemporanei. (Anche qui, andrebbe osservato che l’analisi è ancora sostanzialmente quella della Teoria del romanzo; tranne per il fatto che alla formulazione relativamente metafisica di una natura originaria nell’ambiente di Tolstoj, Lukács qui sostituisce la realtà sociale, vale a dire sostituisce la classe dei contadini all’ideale della natura e della vita naturale).

Pertanto, quell’ideale del concreto, che nella Teoria del romanzo era presente come volontà di ripristinare la narrazione epica, resta tale e quale nella teoria del realismo, in cui si dimostra – nello spirito di Storia e coscienza di classe – che tale ideale, come, d’altro canto, la stessa prassi rivoluzionaria, dipende da quei momenti storici privilegiati in cui è nuovamente possibile scoprire un modo nuovo di immettersi nella società come totalità. Nel medesimo tempo, la valorizzazione della narrazione, che è qui implicita, sottolinea una preoccupazione che diventa sempre più centrale per tutte le scuole del pensiero moderno. Infatti, indagando attraverso una rigorosa selezione condotta sugli ultimi studi di filosofia della storia da un punto di vista analitico, un filosofo americano ha dimostrato che persino la storiografia cosiddetta scientifica ha una struttura essenzialmente narrativa11 ; mentre linguisti come A. J. Greimas hanno rafforzato questo tipo di interessi presenti nella loro sfera analizzando tutti i tipi di materiali verbali, e persino le argomentazioni filosofiche astratte, in termini di un modello narrativo che non è altro che il meccanismo centrale dell’enunciato in quanto tale12. L’opera di Lukács, comunque, fornisce un’ossatura teorica per queste osservazioni essenzialmente empiriche, insistendo sulla relazione tra narrazione e totalità: ciò conferma l’opinione di un esperto della levatura di Martin Heidegger che nel marxismo ha visto non solo una teoria puramente politica od economica, ma soprattutto un’ontologia ed un modo originale per ristabilire la nostra relazione con l’essere13. Ma di tale apertura sull’essere, ora concepito come sostanza sociale e storica, la narrazione è sia il segno formale che l’espressione concreta.

1 Susan Sontag: «Anch’io sono propensa a concedere a Lukács il beneficio del dubbio, se non altro per esprimere con ciò la mia protesta contro la sterilità della Guerra Fredda che ha reso impossibile negli ultimi dieci anni, se non per un periodo di tempo più lungo, una seria discussione sul marxismo. Resta però il fatto che noi possiamo essere generosi verso l’‘ultimo’ Lukács solo a costo di non prenderlo sul serio e di considerare il suo fervore morale come un fatto estetico, come una faccenda di stile e non come un’idea…» (Against Interpretation, New York, 1966, p. 87). Adorno: «La persona Lukács è al di sopra di ogni sospetto. Ma la struttura concettuale a cui egli sacrifica l’intelletto è così angusta da soffocare tutto ciò che per vivere ha bisogno di esprimersi liberamente: il sacrifizio dell’intelletto ([N.d.T.] in italiano nel testo) certo non lascia quest’ultimo indenne…» (Noten zu Literatur, 3 voll., Francoforte, 1958-1965, II, p. 154). George Steiner: «Il tedesco è la lingua principale di Lukács, ma egli ha usato questa lingua in modo sgradevole. Il suo stile è quello di un esiliato; egli, infatti, non ha più la padronanza della lingua viva» (Language and Silence, Londra, 1969, p. 295).

2 Lettera a Starkenburg, 25 gennaio 1894, Marx-Engels, Basic Writings on Politics and Philosophy, Ed. L. Feuer, New York, 1965, p. 411.

3 «Ciò di cui l’uomo ha bisogno per la sua vita esterna – casa, tenda, sedia, letto, arma bianca, nave con cui attraversare l’oceano, carro da combattimento, il cucinare, l’uccidere, il mangiate e il bere – non deve essere divenuto semplicemente una serie di mezzi morti da usare per un fine; egli deve sentirsi ancora vivo in tutte queste cose con l’interezza del suo essere di modo che a ciò che è meramente esterno venga dato, mediante la stretta connessione con l’essere umano, un carattere singolo di ispirazione umana» (Hegel, Aesthetik, 2 voll., Francoforte, 1955, II, p. 414, citato in Lukács, Studies in European Realism, New York, 1964, p. 155). Vedi anche la sezione sul «mondo della prosa» citata più oltre, pp. 352-354. Infatti, le sezioni dell’Estetica di Hegel che più ci interessano come lettori moderni sono non tanto quelle che descrivono la struttura epica in quanto tale, ma quelle che direttamente o per implicazione mostrano cos’è che nel mondo moderno esclude a priori quel tipo di interezza. Noi leggiamo Hegel negativamente piuttosto che positivamente e La Teoria del romanzo di Lukács altro non è che la continuazione logica dell’estetica hegeliana dopo la morte dello Spirito Assoluto. Hegel, quindi, è ancora oggi estremamente attuale, come ben si può vedere dal seguente passo: «Le macchine e le fabbriche di oggigiorno, assieme ai prodotti che ci danno e in generale ai mezzi che anualmente usiamo per soddisfare i nostri bisogni esterni sono – esattamente come la moderna organizzazione dello stato – in certo qual senso stonati rispetto al background da cui nasce l’epica vera e propria».

4 Georg Lukács, Theories des Romans, Neuwied, 1962, p. 87. In questo senso il libro di Lukács può venire visto come un’applicazione delle categorie dell’analisi sociale weberiana alle strutture della trama in quanto quest’ultime rispondono ad una caratteristica dialettica weberiana tra l’attività umana e quel significato essenziale che non può più essere ad essa immanente, ma anzi la trascende ed è staccato dal mondo, se non è addirittura, come nel caso della burocrazia e del mondo secolarizzato (entzauberte) assente: queste analisi, come le analisi weberiane, sfociano, come nel proprio naturale completamento, in una tipologia.

5 La teoria di Lucien Goldmann dell’eroe problematico, che mette in luce questo aspetto del contenuto del romanzo a spese di altri, più formali, elementi, mi sembra di gran lunga più angusta dell’idea di Lukács che l’ha ispirata.

6 Theories des Romans, p. 90.

7 «Il mondo della società civile certamente è stato fatto dagli uomini… i suoi principi, pertanto vanno ricercati nelle modificazioni della nostra mente umana stessa. Chiunque rifletta su questo può solo stupirsi del fatto che i filosofi abbiano speso tutte le proprie energie nello studio del mondo della natura che, essendo stato fatto da Dio, da esso soltanto può venire conosciuto; e meravigliarsi del fatto che essi abbiano trascurato lo studio delle nazioni, o mondo civile, che, essendo stato fatto dagli uomini, da essi soltanto può venire conosciuto» (Giambattista Vico, The New Science, trad. T. G. Bergin e M. H. Fisch, Ithaca-New York, 1968, p. 96). Vedi anche Erich Auerbach, «Vico and Aesthetic Historicism», in Scenes from the Drama of European Literature, New York, 1959.

8 Geokg Lukács, Histoire et conscience de classe, Parigi, 1960, p. 210.

9 J. L. Houdebine, «Sur une lecture de Lénine», in Tel Quel: Théorie d’ensemble, Parigi, 1968, pp. 295-296.

10 Ma già delineato in precedenza in «Subject-Object Relationship in Art», Logos, VII, 1917-1918, pp. 1-39.

11 «Mi sembra che ci siano delle buone ragioni tanto a sostegno della tesi che noi possiamo ricostruire una spiegazione ‘scientifica’ in forma narrativa, quanto della tesi opposta, e non credo che un resoconto in forma narrativa perda la forza esplicativa dell’originale» (Arthur C. Danto, Analytical Philosophy of History, Cambridge, Inghilterra, 1965, p. 237).

12 A. J. Greimas, Sémantique structurale, Parigi, 1966, pp. 173-191.

13 Heidegger, Brief über den Humanismus, Francoforte, 1947, p. 27. L’Ontologia che Lukács aveva progettato è descritta nel suo Colloquio (Gespräche) con Holz, Kafler e Abendroth (Amburgo, 1967).

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«Compagno Lukács, sembri piuttosto pessimista»
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