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György Lukács

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György Lukács

Archivi tag: anticapitalismo romantico

Il retaggio di questa epoca

22 venerdì Gen 2016

Posted by nemo in I testi, Traduzioni italiane

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Tag

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di György Lukács

da Problemi teorici del marxismo, «Critica marxista», 1976.

Il saggio di cui diamo qui la traduzione italiana non risulta sia stato mai pubblicato altrove. L’originale tedesco (20 cartelle dattiloscritte con correzioni di pugno dell’autore) è stato rintracciato fra le carte di Lukács dopo la sua morte e si trova ora registrato sotto la sigla LAK 11/94, nell’Archivio e Biblioteca Lukács dello Istituto di filosofia dell’Accademia ungherese delle scienze. La stesura del saggio viene fatta risalire ad un periodo che intercorre fra il 1935 ed il 1938. È da supporre, comunque, che sia stato scritto dopo il VII Congresso dell’Internazionale comunista, in un’atmosfera politico-culturale che sollevava, fra l’altro, il problema del rapporto fra il movimento operaio e la cultura borghese. Il significato di questo scritto va dunque oltre la semplice presa di posizione critica verso un libro e un autore, pur importante come Ernst Bloch. Per una breve presentazione critica del testo vedi F. Görgényi, «E. Bloch e i limiti del concetto di utopia», in Világosság, 1975, n. 8-9, pp. 524-525. Ringraziamo András Knopp e i dirigenti dell’Archivio Lukács per averci permesso di pubblicare questo saggio, (n.d.r.).

***

Ernst Bloch, l’autore del libro Erbschaft dieser Zeit (Il retaggio di questa epoca) (Oprecht e Helbing, Zurigo, 1935) che ci accingiamo a recensire, è una delle personalità più interessanti della letteratura teorica tedesca contemporanea. Il suo periodo giovanile cade nell’ultimo decennio antecedente la guerra mondiale, quando nella filosofia tedesca era generale l’aspirazione alla «Weltanschauung», quando procedeva vigorosamente il superamento del neokantismo. (Il primo scritto di Bloch, la sua tesi di laurea, è una critica a Rickert).

La tendenza di fondo di quel processo fu imperialistico-reazionaria. Spengler e Klages, Leopold Ziegler e il conte Keyserling sono i personaggi filosofici, ora celebri, che questo movimento ha prodotto. Bloch, il quale condivideva con i suoi contemporanei molte premesse gnoseologiche, se ne distinse fin dal principio su un punto estremamente importante. Il suo tendere all’idealismo oggettivo, quantunque assai di frequente si convertisse anche in lui in aperto misticismo, non aveva mai un intendimento apologetico. Nei confronti della propria epoca aveva un atteggiamento di opposizione, pur se ancora abbastanza confuso. La guerra imperialistica, poi, e il processo che porta alla guerra sono andati sempre più rafforzando questo atteggiamento di opposizione, hanno spinto Bloch sempre più a sinistra.

Già i saggi da cui nasce il suo primo libro, Geist der Utopie (Spirito di utopia), sono diretti contro la Germania della guerra mondiale. Vero è che Bloch allora criticava la guerra imperialistica della Germania dal punto di vista di un pacifismo largamente mistico, orientato in senso democratico-occidentale. Il secondo libro, Thomas Münzer als Theologe der Revolution (Thomas Münzer teologo della rivoluzione), contiene però ormai un’adesione alla rivoluzione, alla «figura liebknechtiana» di Münzer. Anche questo libro opera con un concetto idealistico-mistico della rivoluzione. Bloch crede che la dottrina economica del marxismo debba essere «approfondita» enucleando gli «eterni» momenti della ribellione umana contro lo sfruttamento e l’oppressione. Il suo Thomas Münzer, perciò, non è un personaggio storico, quale fu descritto da Engels. Al contrario, proprio per la sua «teologia» egli dev’essere indicato a modello delle lotte odierne: l’attuale lotta di liberazione del proletariato, secondo Bloch, dovrebbe pervenire all’altezza e profondità münzeriane del «pensiero utopico», per conseguire un potere realmente vittorioso.

In tal modo Bloch assume nella letteratura teorica tedesca una originale posizione di outsider. Egli combatte da anni lo svolgimento filosofico reazionario della Germania, ma lo combatte a partire da premesse filosofiche che hanno moltissimo in comune con gli orientamenti contro cui muove. Cosicché è finito in una posizione intermedia, abbastanza isolata, fra i due campi avversi.

Ma proprio questa discordia del suo atteggiamento di fondo, non superata dalla sua evoluzione verso sinistra, gli garantisce un’influenza ideologica nell’emigrazione antifascista. Infatti la discordia di fondo della posizione di Bloch è tipica di tutta una corrente nel campo dell’antifascismo borghese di sinistra. Il processo di fascistizzazione della Germania e in particolare la presa del potere da parte di Hitler hanno fatto non solo di Bloch, ma anche di molti altri scrittori borghesi di sinistra degli accaniti nemici del fascismo. Tuttavia questa evoluzione politica verso sinistra in molti di essi non è andata di pari passo con una revisione della base filosofica su cui poggia la loro attuale concezione del mondo, con una critica dell’idealismo e specialmente delle sue specifiche forme di manifestazione imperialistiche. Anche l’avvicinamento al marxismo da parte di Bloch, che ha proceduto molto più avanti rispetto alla gran maggioranza degli antifascisti borghesi di sinistra, non contiene nessuna critica dell’idealismo. Ma appunto per questo egli diviene una presenza affascinante per una grande parte di questa emigrazione. Per costoro Bloch diviene un’incarnazione del «marxismo» ad essi più agevolmente accessibile, più congeniale alla fase di sviluppo ideologico in cui si trovano. Come tale, come marxista e rivoluzionario che, però, possiede la giusta sensibilità per tutte le finezze della coltura, lo celebra Klaus Mann sulla rivista di Amsterdam Die Sammlung, parlando del suo nuovo libro come di «un ardito inventario del nostro patrimonio spirituale»; e altrettanto fa F. Burschell sulla Neue Weltbühne.

Bloch è sul piano politico notevolmente più a sinistra di quegli intellettuali che egli influenza sul piano spirituale. Egli non soltanto è un risoluto antifascista, ma è in più un avversario convinto del sistema capitalistico. Per lui non vi sono dubbi che solamente il proletariato rivoluzionario è la potenza in grado di abbattere Hitler e che il socialismo subentrerà al fascismo.

Quando, dunque, Bloch pone al centro del suo libro la questione del retaggio, egli lo fa a partire da tali convinzioni storico-politiche. Il problema centrale di questo libro, da cui scaturisce poi quello del retaggio, concerne gli alleati della rivoluzione proletaria, la conquista dei piccoli borghesi urbani e dei contadini alla rivoluzione socialista. Già l’aver posto energicamente tale questione onora il pensatore e combattente Bloch. Già questo atto mostra che egli, dopo i suoi primi libri, si è decisamente mosso verso sinistra.

Per rispondere a tale questione Bloch intende scegliere come filo conduttore il marxismo. Il lettore marxista, tuttavia, è subito colpito dal fatto che egli non collega la conquista degli alleati con quella della maggioranza della classe operaia alla rivoluzione proletaria sotto la guida del partito comunista, ma pone invece la prima del tutto indipendentemente dalla seconda. Questa debolezza di metodo, che qui appare in piena luce, nasce da una concezione volgarizzata e stravolta dell’economia marxista, che ha legami assai profondi con l’atteggiamento fondamentale, filosofico-idealistico, di Bloch. La conseguenza è che, laddove il marxismo vede problemi dell’essere materiale, Bloch è capace di osservare soltanto problemi meramente ideologici. A dispetto di questa debolezza fondamentale della sua posizione, su cui torneremo diffusamente, Bloch pone il problema del retaggio con chiarezza e nei suoi termini di principio. Egli guarda al tramonto del capitalismo e insieme a quello della cultura del capitalismo, quindi domanda: che cosa prenderà il proletariato, il costruttore del nuovo mondo, del socialismo, da questo mondo tramontante? Che cosa vi è che valga la pena di prendere? Che cosa diverrà parte integrante della nuova cultura? E considera l’entrare in possesso di questa eredità come una lotta ideologica. Solo più avanti ci fermeremo a criticare il metodo e il contenuto della sua teoria del retaggio. Qui dobbiamo anzitutto sottolineare il merito di Bloch per aver comunque posto la questione nei suoi termini di principio.

«La sassaia aurifera» – Anche nella concretizzazione dei suoi problemi Bloch parte da una piattaforma nettamente antifascista. Per lui, correttamente, il carattere del Terzo Reich è di essere una dittatura aperta e infame del capitale monopolistico. E da questa visione corretta sorgono per lui gli ulteriori problemi. Dopo aver riscontrato una «spinta» anticapitalistica anche fuori del proletariato, il suo sforzo onestamente rivoluzionario e antifascista è diretto a incanalare questa «spinta» anticapitalistica nella corrente della rivoluzione proletaria. Si tratta dunque di lottare per le vittime della propaganda demagogica del fascismo.

Si comprende allora come Bloch parta dalla ideologia di queste vittime traviate. Rincresce però che rimanga fermo all’ideologia. Tanto più rincresce, in quanto non si tratta di uno sbaglio casuale, ma invece della conseguenza necessaria dell’attuale metodo di Bloch. Abbiamo già indicato quale sia il suo rapporto con l’economia politica marxista. La concezione ristretta ed errata dell’economia politica marxista è tanto più pericolosa per Bloch in quanto vi è in essa qualcosa che si avvicina molto alla ideologia dell’anticapitalismo romantico, nella forma oggi assai diffusa. I piccoli borghesi, tormentati dai colpi di una terribile crisi economica, nella loro disperata impotenza vanno sognando di un assetto «senza economia»; molti credono che l’«economia» da cui vengono torturati sia una maligna invenzione di ebrei, liberali e marxisti, ma che per l’appunto debba essere, allora, qualcosa che è possibile abolire. Ora, tentando di dare chiarezza rivoluzionaria alla nostalgia anticapitalistica presente in tali torbide ideologie, Bloch finisce in un vicolo cieco ideologico, giacché egli stesso subisce l’influsso di questa ideologia. Bloch disconosce il nesso fra l’esistenza dell’uomo e la produzione materiale. Perciò non sottolinea nel socialismo il superamento dell’«asservente subordinazione» dell’uomo alla divisione del lavoro, il superamento della divisione sociale del lavoro fra città e campagna, fra lavoro fisico e intellettuale, ma opera invece con un concetto astratto, borghese, dell’«economia», la quale nel socialismo dovrebbe degradare a un’importanza periferica.

In tal modo Bloch non coglie a fondo il complicato nesso dialettico fra la situazione sociale dei «ceti medi» e la loro ideologia romantico-anticapitalistica. In tal modo egli finisce invece per riallacciarsi a questa ultima acriticamente. È vero che tenta, e persino con passione, di darne una critica, ma questa critica, priva di base materiale, non ha alcuna possibilità di essere realmente dialettica. Il suo metodo si riduce, alla fin fine, a una contrapposizione fra i lati «buoni» e quelli «cattivi» di questa ideologia.

È, questo, in generale un tratto caratteristico della mera critica ideologica al fascismo, che non parte dall’analisi realmente concreta della base materiale. E.H. Gast, ad esempio, nella sua recensione del romanzo di Thomas Mann su Giacobbe contrappone il «giusto» e «superiore» mito di Thomas Mann al «falso» e «inferiore» mito dei fascisti, l’irrazionalismo «autentico» di Mann all’«inautentico» e «barbaro» irrazionalismo dei fascisti. (Die Sammlung, 1934, gennaio). Altrettanto fa il filosofo socialdemocratico Herbert Marcuse, il quale mette a contrasto l’«autentica filosofia della vita» di Dilthey e Nietzsche con la falsa filosofia della vita dei fascisti (Zeitschrift für Sozialforschung, III, 2). I punti di vista di Bloch sono molto più profondi che non quelli di Gast o di Marcuse. Costoro vogliono separare completamente il fascismo dal «normale» sviluppo ideologico della borghesia, mentre Bloch intende mettere in luce tanto le connessioni quanto le differenze. Cosicché egli vede quanto c’è di reazionario e controrivoluzionario anche nella fase prefascista dell’imperialismo e al fascismo contrappone non un capitalismo «normale», ma la rivoluzione proletaria. Tuttavia l’erroneità del metodo spinge Bloch molto lontano dall’obiettivo cui mira, la dialettica rivoluzionaria, e conduce anche lui a un eclettico da-un-lato/dall’altro.

Questo restare impaniato di Bloch nell’ideologia dell’anticapitalismo romantico produce in lui una concezione fondamentalmente falsa del marxismo e del retaggio marxista. Dice: «Quando il socialismo scientifico si trasferì in Francia e Inghilterra, nell’illuminismo francese e nell’economia politica inglese, quando il marxismo volgare ebbe dimenticato, qui le guerre dei contadini tedeschi, là il retaggio della filosofia tedesca: i nazisti dilagarono nelle regioni originariamente münzeriane, ora vuote…» (p. 96). È molto probabile che Bloch intenda qui polemizzare contro il revisionismo, contro la liquidazione della dialettica rivoluzionaria, contro il completo abbandono dei contadini, ecc. Nel suo discorso, tuttavia, questo rimprovero rivolto al marxismo volgare trapassa in un rimprovero al marxismo stesso per aver raccolto l’eredità di Smith e Ricardo e dello sviluppo materialistico da Bacone a Feuerbach. A causa di questa falsa concezione Bloch perde ogni possibilità di condurre un’analisi reale delle correnti ideologiche da lui indagate. Può analizzarle soltanto come ideologie e, come tali, può «approfondirle» filosoficamente. Così resta, però, sempre sul terreno delle ideologie che va criticando.

Questo metodo falso non può che produrre nel concreto contenuti falsi. Bloch vede chiaramente come l’ideologia dei piccoli borghesi e dei contadini stia in contraddizione con i loro interessi reali, che dovrebbero renderli alleati della rivoluzione proletaria. Egli vede che queste ideologie sono fuorvianti, che portano i piccoli borghesi e i contadini in un vicolo cieco, e cerca di mettere allo scoperto tali contraddizioni in modo tale da aiutare i traviati a trovare la retta via. A questo scopo costruisce una sua teoria delle «contraddizioni inattuali». Contraddizione «attuale» è per Bloch l’antagonismo fra borghesia e proletariato; e perciò è possibile esprimerlo adeguatamente nel linguaggio del marxismo. L’esistenza dei contadini è invece una contraddizione «inattuale»: questi vivono «fuori» dal mondo del capitalismo e delle sue odierne contraddizioni «attuali». Da questa situazione sorge da un lato la possibilità per i fascisti di conquistare i contadini e i piccoli borghesi con la loro scadente demagogia, dall’altro il compito per il marxismo di assumere nella propria dialettica i problemi specifici che ne risultano, di farsi realmente «totale», di elaborare dialetticamente la contraddizione «inattuale».

Riscontriamo qui tutto un groviglio di false affermazioni. Anzitutto la piccola borghesia urbana e particolarmente il ceto impiegatizio è, anche secondo quanto dice lo stesso Bloch, un prodotto del capitalismo, e perciò dovrebbe, anche secondo la sua teoria, per ragioni di coerenza, essere oggetto della contraddizione «attuale». Ma Bloch, che ha letto sia Marx sia Lenin, dovrebbe sapere e, se non fosse impegolato nei pregiudizi idealistici dell’anticapitalismo romantico, saprebbe che nonostante tutti i residui precapitalistici la specifica situazione odierna delle campagne è prodotto e risultato dello sviluppo capitalistico. Se avesse inteso l’economia marxista in tutta la sua reale estensione e profondità, avrebbe visto che dovunque egli pensa di dover applicare la sua nuova teoria della «contraddizione inattuale», la teoria di Marx e Lenin ha già messo in luce i problemi concreti dello sviluppo capitalistico e della strategia rivoluzionaria del proletariato.

Bloch non vede come ciò che egli definisce «passato inelaborato» sia di continuo riprodotto dal capitalismo. Proprio il fatto che il fascismo sugli istinti ribellistici dei piccoli borghesi e dei contadini innesti una ideologia che è il rinascimento di ogni arretratezza e barbarie dovrebbe ammonire un onesto e convinto antifascista come Bloch alla massima cautela proprio su questo punto. In quanto nemico della bugiarda ebrezza dei fascisti, dovrebbe contrapporre a questa il sobrio pathos della reale conoscenza rivoluzionaria.

Purtroppo, fa il contrario. Nel torbido miscuglio di queste ideologie egli pensa di trovare, con i mezzi della critica ideologica, un contenuto autentico, rivoluzionario, non ancora scoperto dal marxismo. Questo contenuto rivoluzionario sarebbe il fondamento della «contraddizione inattuale», sarebbe quella «irratio autentica» che Bloch contrappone all’irrazionalismo bugiardo delle ideologie imperialistiche e fasciste. Tale concezione è un’eredità del suo periodo precedente. Egli prende le mosse dalla giusta idea secondo cui la rivoluzione proletaria si fa erede di tutte le lotte di classe contro lo sfruttamento e l’oppressione. Tuttavia proprio nella mistica confusione dei vecchi moti insurrezionali egli vede un retaggio attuale ancora non utilizzato dal marxismo, un elemento di sviluppo del marxismo.

Sfugge a Bloch quale sia il modo in cui procede l’elaborazione critica del retaggio, il suo superamento, nel materialismo dialettico. Il problema del superamento è inteso da lui in maniera puramente idealistico-ideologica. Gli sfugge il processo reale della storia nel quale vengono superate realmente contraddizioni reali. Certo, né nella storia reale, nel suo adeguato rispecchiamento nel pensiero, il marxismo-leninismo, questo superamento si verifica in modo lineare e meccanico. Tutto il problema marx-leniniano della liquidazione ad opera della rivoluzione proletaria dei problemi della rivoluzione borghese rimasti insoluti (questione agraria, questione nazionale, ecc.) è un esempio di questa concreta ineguaglianza dello sviluppo. Mentre però i problemi reali della rivoluzione borghese rimasti insoluti vengono realmente superati (superati anche nel senso di conservati) nella strategia della rivoluzione proletaria, questa conservazione superante non riguarda invece le ideologie che li accompagnano. Infatti queste ultime sono inseparabilmente connesse con la situazione economica dei contadini e dei piccoli borghesi, che presenta elementi ambigui e perciò necessariamente reazionari. Tale connessione non può non farsi sentire anche nelle ideologie dei loro più significativi rappresentanti rivoluzionari del passato. Il marxismo-leninismo eredita le reali tradizioni rivoluzionarie di questi vecchi movimenti popolari, le porta a un livello superiore (ed è, questo, un altro importante momento del superamento che Bloch trascura del tutto), ma va totalmente oltre le vecchie forme delle loro ideologie. Bloch, per contro, vede proprio in tali ideologie il momento da conservare. «Mancando però alla propaganda marxista ogni contraltare al mito, ogni trasformazione degli inizi mitici in sogni reali, dionisiaci, in sogni rivoluzionari: per effetto del nazionalsocialismo diviene visibile anche un pezzo di colpa, quella cioè del troppo corrente marxismo volgare» (p. 55). Fin quando egli critica il «settarismo compiaciuto di sé» di molti marxisti prima dell’avvento al potere di Hitler, ha ragione. E tanto maggiore è il suo merito, in quanto egli si è pronunciato con il suo libro prima del VII Congresso internazionale. Fin quando polemizza contro il fatto che molti comunisti hanno misconosciuto che «il fascismo specula anche sui migliori sentimenti delle masse, sul loro senso di giustizia e talvolta persino sulle loro tradizioni rivoluzionarie» (Dimitrov), egli si trova ancora sulla strada giusta. Ma in Bloch, nel corso della battaglia in difesa della propria linea, vanno confondendosi i confini tra il marxismo volgare e il marxismo reale. L’avversario primo di questa sua teoria del retaggio rivoluzionario è infatti Friedrich Engels, il quale in una lettera definisce quella ideologia, di cui Bloch vuol sapere quale sia il contenuto aureo, semplicemente e ruvidamente come «stupidità». Engels così prosegue: «Il basso
livello dello sviluppo economico nel periodo preistorico ha come complemento, ma anche in parte come condizione, e persino come causa, le false rappresentazioni della natura» (Lettera a C. Schmidt del 27 ottobre 1890), e Bloch polemizza assai aspramente contro questa proposizione «troppo illuministica». Egli dice sintetizzando: «Inverosimile che la qualità di tutte le mitologie e occultismi – nel loro lato esorcizzante e dissolvente – sia stata esclusivamente di essere ipostatizzazioni di un’economia indecifrata e non anche un concorrere di una natura indecifrata, ancora indecifrata in se stessa» (p. 137). È chiara, qui, la concezione ristretta che Bloch ha della economia marxista, un aspetto per lui fatale. Giacché misconosce il nesso dialetticamente enunciato da Engels fra lo sviluppo storico dell’economia e quello della conoscenza della natura, le rappresentazioni che gli uomini si fanno della natura acquistano per lui una mistica oggettività apparente. Nella sua visione la natura, che esiste indipendentemente dalla coscienza umana, non viene conosciuta sempre più adeguatamente in concomitanza con il processo di produzione materiale, ma invece proprio le rappresentazioni dei primi e primissimi gradi della conoscenza umana della natura rimanderebbero a connessioni ormai divenute di nuovo irraggiungibili per i gradi superiori (capitalismo). L’idealismo di Bloch qui si tramuta direttamente in fatto reazionario; perfino nell’occultismo egli rintraccia elementi da ereditare, «un segmento di contenuti designati (solo designati) mitologicamente che sono, a dir poco, estranei al segmento meccanico, anzi in parte forse giacciono al di sotto di ogni orizzonte monoblocco» (p. 130).

Tali brani mostrano a sufficienza a quali pericolose conseguenze pervenga Bloch andando fino in fondo con il suo metodo errato. Il che tanto più rincresce in quanto nella sua analisi della cultura contemporanea è rilevabile non soltanto una tendenza antifascista, ma anche un sano istinto plebeo. Proprio a causa della sua ampia e profonda cultura Bloch è lontanissimo da una cieca sopravvalutazione della cultura e civiltà del periodo odierno. Egli si distingue notevolmente, a suo vantaggio, da quegli antifascisti borghesi che, pur combattendo l’ideologia del fascismo, cercano di salvare l’ideologia imperialistica. La condanna blochiana della cultura borghese risale molto addietro rispetto al periodo imperialistico e intende costituirsi come critica dell’ideologia dell’intera epoca della decadenza. Quantunque anche qui si introduca a disturbare il discorso l’anticapitalismo romantico, facendogli dirigere il fuoco principale dell’attacco contro il periodo liberale dello sviluppo borghese, senza una critica abbastanza netta delle controtendenze reazionarie. Il tentativo blochiano di scoprire un nuovo metodo di lotta contro la ideologia del fascismo deve quindi considerarsi fallito. È fatica vana cercare l’«oro» nella ideologia di contadini e piccoli borghesi arretrati. L’«oro» è contenuto per questi ceti negli istinti anticapitalistici che scaturiscono dalla loro condizione sociale scissa, dall’oppressione e lo sfruttamento che esercita su di loro il capitalismo monopolistico. Questo «oro» non è però rintracciabile per la via di Bloch, – tale via conduce soltanto a eternare la loro confusione ideologica, – ma invece su quella della teoria e prassi marxiste-leniniste (come assai persuasivamente mostrano l’andamento delle cose in Urss e gli effetti della tattica del Fronte popolare). Esse, chiarendo le loro esperienze, li aiutano a superare nella pratica, nella lotta per i loro interessi reali, la confusione ideologica.

Montaggio dialettico – Il secondo importante problema posto dal libro di Bloch è quello del retaggio dell’attuale cultura capitalistica. Tale questione è per noi assai interessante perché Bloch fornisce molto materiale concreto sul formalismo nell’arte e tratta di numerosissimi problemi che nell’odierna discussione contro il formalismo sono di grande peso.

Egli vede chiarissimamente lo stato di catastrofico dissolvimento in cui si trova l’attuale cultura capitalistica. «Insegnanti, artisti, scrittori non trovano più nessuna cultura sul terreno del capitale, ad eccezione di quella ironica o stravagante, una cultura che è mancanza di patria, che s’identifica con la mancanza d’oggetto stessa» (p. 305). E ancora più decisamente sulla collocazione dei poeti nell’epoca attuale: «Così, importanti poeti non trovano più nei materiali da impiegarsi subito, ma solo dopo averli spezzati. Il mondo imperante non diffonde più per loro uno splendore rappresentabile, che sia da affabulare, ma solo vuotezza, e dentro scarti mescolabili». Aggiunge poi, alludendo in specie a Joyce, che questa situazione si verifica «perché all’uomo manca qualcosa, la cosa più importante…» (pp. 189-190).

Tale corretto giudizio, confermato da un’ampia analisi dei più significativi scrittori, musicisti e filosofi contemporanei, induce Bloch a considerare il problema stilistico del montaggio come il punto centrale delle attività artistiche e filosofiche attuali. E ovviamente egli pone il problema del retaggio a partire di qui. La questione in sé è certamente legittima. Molto meno lo è la risposta di Bloch. Il quale infatti afferma: «Pure alcunché, come anzitutto il singolare “montaggio” tardoborghese, comporta senza dubbio più che il tramonto» (p. 13). Dobbiamo perciò anzitutto conoscere la concezione blochiana del montaggio. Il concetto di montaggio – e ciò è assai interessante – per Bloch ha una estensione enorme: «Esso va dai collages a Joyce, fino a Brecht e oltre»; persino la filosofia ha attualmente il montaggio come suo principio metodologico fondamentale.

La sua teoria del montaggio prende le mosse dalla concezione, cui abbiamo fatto cenno, del rapporto degli artisti e del loro pubblico con la realtà contemporanea. Il punto basilare è la perdita di connessione. Secondo Bloch il montaggio ha di positivo che non tenta di mascherare la perdita della connessione, come fa ancora la Nuova oggettività, ma invece parte apertamente e consapevolmente dalla sconnessione della realtà per gli intellettuali borghesi dei nostri giorni. «Le parti non concordano più luna con l’altra, sono divenute distaccabili, rimontabili… Nel montaggio tecnico e culturale tuttavia viene disvelata la connessione della superficie vecchia… il montaggio appare sul piano culturale come la forma più alta di intermittenza spettrale sopra la dispersione, anzi in dati casi come forma attuale di inebriamento e irrazionalità… esso non simula una qualche stabilità, con cui s’intenda rendere solido il davanti… Da ruderi che non trovano il coraggio di fosforeggiare, da parte del vecchio mondo che vengono di continuo mutate di funzione solo per usarle nel vecchio mondo» (pp. 162-164).

Il montaggio in tal modo viene fissato concettualmente come tipico prodotto decompositivo dell’ultimo sviluppo ideologico della borghesia. Anzi per Bloch proprio la coerenza con cui tiene fermo alla sconnessione della realtà apparente dà al montaggio preminenza e superiorità rispetto alla Nuova oggettività. «C’è qui un’interruzione e una nuova connessura in un senso che va molto oltre lo scambio di parti tecniche o addirittura il fotomontaggio, eppure questa forma obbedisce ancora come a una vera “opera frammentaria”… esso improvvisa con la connessione scoppiata, trasforma gli elementi divenuti puri, con cui la Oggettività forma rigide facciate, in tentazioni e tentativi entro uno spazio vuoto. Questo spazio vuoto è sorto appunto perché è franata la cultura borghese; e in esso gioca non solo la razionalizzazione di un’altra società, ma più visibilmente una nuova figurazione nascente dalle particole del retaggio culturale divenuto caotico» (p. 156).

Tuttavia, quanto è corretta la messa a nudo che Bloch fa dei fondamenti ideologici del montaggio, tanto sono errate le conseguenze che tira dalle proprie costatazioni. Ma queste conclusioni sbagliate non tolgono valore alla sua analisi. Proprio il nostro dibattito sul formalismo ha mostrato quanto siano pochi gli artisti e i critici in possesso di una certa chiarezza sui presupposti ideologici del formalismo. Ecco perché ha valore durevole la sottolineatura blochiana dell’importanza ideologica che spetta al riflesso del mondo lacerato nella sua connessione e, di conseguenza, alla fine dello «splendore estetico». Coloro i quali, criticando apparentemente il contenuto del formalismo, glorificano però la «maestria» dei suoi rappresentanti, potrebbero imparare dall’analisi di Bloch che il formalismo deve necessariamente distruggere tutti i presupposti di una reale maestria (senza virgolette). Vale a dire la raffigurazione del tipico, il suo sviluppo artistico-organico dalla raffigurazione dell’individuale. Purtroppo l’analisi di Bloch anche in questo ambito resta ferma al piano idealistico. Egli anche qui distingue semplicemente in maniera eclettica il «lato buono» del montaggio dal «lato cattivo» e non si accorge che, laddove l’assenza di connessione viene sostituita da una connessione astratta, questa può essere appunto solo una «sostituzione» e non un reale superamento. E proprio per questo non vede la profonda affinità artistica che intercorre fra il montaggio «marxista» e quello borghese. Il primo argomento apparentemente di gran peso addotto da Bloch a favore della sviluppabilità del montaggio per la cultura socialista è il suo criterio generale dell’eredità. Egli trae questo criterio dal proprio orientamento di opposizione al capitalismo imperialistico, ma lo trae ancora una volta in modo astratto e formale. «Questo è anche qui il criterio delle parti di eredità utilizzabili: esse nel tardocapitalismo, che le forma, non possono non essere tanto imperfette e impedite quanto sospette» (p. 167). Il montaggio è quindi sospetto per l’odierno capitalismo, il quale ne impedisce lo sviluppo. Questo argomento, però, cade quando si approfondisce l’analisi. È tipico, cioè, della cultura borghese nel suo periodo tardo il fatto che nuovi fenomeni artistici o filosofici vengano dapprima sbeffeggiati e derisi, per essere poi considerati, in base a una fortissima sopravvalutazione, parti integranti della cultura capitalistica. Abbiamo qui un caso – interessantissimo e nelle sue cause concrete certamente meritevole di studio – di sviluppo ineguale. Tuttavia da questo fatto in sé non consegue per nulla che tali fenomeni artistici «sospetti» o «impediti» abbiano un significato che realmente indichi il futuro. A nessun marxista verrà in mente di considerare come retaggio in tale senso il poeta Maeterlinck o il filosofo Nietzsche, quantunque essi al loro apparire siano stati respinti dalla borghesia come molto «sospetti». Né Bloch ha argomenti per dimostrare che la borghesia del capitalismo monopolistico abbia combattuto il montaggio nell’arte con maggior energia rispetto a un qualsiasi indirizzo borghese precedente. Al contrario, il corteo trionfale del montaggio è stato assai più rapido e meno impedito che non quello dei precedenti indirizzi artistici. Se poi Bloch vuol discutere il problema del «sospetto» come criterio di ereditabilità, dovrebbe fare attenzione a quanto chiaramente sospetto e odioso sia per la borghesia fascista e in via di fascistizzazione il vero realismo. Naturalmente la borghesia reazionaria protesterà sempre quando un artista userà il metodo del montaggio per esprimere con esso contenuti scomodi o pericolosi. In tal caso, però, è «sospetto» il contenuto e non il metodo. Cosicché Bloch dovrebbe indagare nel concreto rispettivamente che cosa tale contenuto significhi sul piano di classe e artistico, e che cosa la forma espressiva del montaggio abbia da dire a questo contenuto. Ma per Bloch la questione sembra risolta a priori. E in un senso positivo per il montaggio. La sua prova a favore è null’altro che la prassi letteraria di Bert Brecht e quella «filosofica», fondata sul montaggio, di Walter Benjamin. Il secondo esempio è impossibile prenderlo sul serio. Il caso Brecht richiederebbe un’indagine molto accurata. Bloch invece non comincia neppure l’indagine: è tanto profondamente persuaso del puro carattere socialista dei contenuti di Brecht che ne difende persino gli «spregiudicati usi di modelli neomachisti». E quanto al carattere socialrealistico del montaggio brechtiano, non va più in là di una nuda asserzione.

Dietro tali argomenti formalistici e dogmatici c’è ancora una volta la blochiana teoria generale del salvataggio della «irratio autentica». Questa teoria è però ancora più storta e fragile qui, se possibile, di quanto non fosse quand’era applicata alle tradizioni ribellistiche dei piccoli borghesi e dei contadini. Bloch parla del montaggio come della forma «dell’inebriamento e della irrazionalità attuali». Ora, noi abbiamo già discusso la teoria blochiana delle contraddizioni «attuali» e «inattuali», concludendo che è insostenibile. Ma anche secondo l’ottica di questa teoria risulta incoerente attribuire un valore alla «irrazionalità attuale» (grande-borghese). Bloch stesso, infatti, nella prima parte della sua critica ha propugnato la teoria secondo cui questo residuo irrazionale, non-superato e valido, si riferisce soltanto a classi la cui esistenza, a suo giudizio, non è legata al capitalismo, alla lotta di classe fra borghesia e proletariato. Se dunque, come dice la teoria blochiana, la «irratio autentica» discende dalla «inattualità», con quale legittimità egli d’un tratto considera la «irrazionalità attuale» come valore e non come prodotto di decadenza all’interno della assai «attuale» grande borghesia? Quantunque, perciò, la sua teoria debba essere rifiutata come teoria anche in questa sua applicazione, nondimeno tale rifiuto non ci impedisce di riconoscere il valore del molto e ricchissimo lavoro compiuto da Bloch. Egli critica la letteratura, la musica e la filosofia moderne sulla base di una loro conoscenza intima e profonda, e spesso le critica con acutezza distruttiva e spirito abbagliante.

Bloch mostra come, nell’espressionismo, sia nata la forma del montaggio. Un ulteriore sviluppo verso la disintegrazione della forma si ha nel surrealismo. Quindi abbiamo la descrizione estremamente efficace del modo in cui il montaggio surrealistico si presenta in Joyce, che egli giustamente considera, accanto a Green e Proust, come punto culminante di queste tendenze. Sul linguaggio di Joyce dice: «Una bocca senza io è qui all’interno del meccanismo in scorrimento, li in mezzo lo beve, lo balbetta, lo fa sfogare. Il linguaggio si adegua pienamente a questa disintegrazione, è non finito e già formato, perfettamente regolare, ma aperto e confuso. Ciò che vedi nei periodi di stanchezza, nelle pause fra i discorsi o quando uno è sognante o anche distratto, parla, s’ingarbuglia, fa giochi di parole: qui tutto è fuor di misura. Le parole sono divenute disoccupate, licenziate dal loro rapporto di senso, ora il linguaggio va come un verme tagliuzzato, ora si condensa come in un cartone animato, ora sta sospeso e si ficca nell’azione come un soffitto teatrale» (p. 184). Ecco un’eccellente descrizione del linguaggio joyceano, forse la migliore dataci finora. Ma al contempo essa è, proprio per la sua penetranza descrittiva, la critica più distruttiva che sia finora stata scritta sul linguaggio di Joyce. Tale giudizio annientante, infatti, questa volta non è «montato» in un’analisi, ma è contenuto organicamente nella descrizione stessa. Altrettanto interessante, ma anche molto più consapevolmente critica, è l’analisi che Bloch conduce del musicista Stravinskij. Bloch inizia questa analisi con immagini del tutto caratteristiche: «Su una cosa cava si può fischiare bene. Così appunto fa Stravinskij con se stesso e le sue cose. Ha già sperimentato molto. Il vuoto rimbomba su se stesso seducente, si veste anche, indossa roba vecchia, diviene come una maschera e risuona in quella guisa». E dopo questa introduzione ci dà un contributo assai interessante sul nesso fra l’Edipo di Stravinskij e la stabilizzazione relativa. «La musica qui approva… il nastro scorrevole della necessità, nobilita il lavoro a catena senza pause, il destino senza luce… Questa rigidità è il tributo del successivo Stravinskij alla reazione parigina, anzi, alla stabilizzazione capitalistica del mondo, da cui discende anche quel che viene definito l’“oggettivismo” di questa musica». È ancora una volta una strana ironia che proprio qui, dopo questa analisi distruttiva dell’apologetica capitalistica nella musica di Stravinskij, proprio su costui egli applichi il suo criterio del retaggio autentico. Quanto nel caso concreto sia privo di valore il suo criterio, è dimostrato appunto dalla descrizione riassuntiva dell’effetto provocato da Stravinskij: «Sebbene alla Nuova oggettività abbia aggiunto la musica-macchina, insomma l’inumanità musicale, Stravinskij appare alla borghesia non meno sospetto che up to date; il “fascista” fa l’effetto di un “bolscevico della cultura”» (pp. 173-177).

Le medesime contraddizioni fra splendide descrizioni e analisi, da un lato, e false conclusioni, dall’altro, le ritroviamo quando Bloch si occupa della filosofia contemporanea. Vero è che di fronte a determinati fenomeni assume un atteggiamento inequivoco di rifiuto e che spesso conforta tale rifiuto con azzeccatissime irrisioni. Così definisce Klages un «deciso filosofo da fine-settimana»; sulla filosofia di questi dice in modo liquidatorio: «Un fiume cosmico deposita sulle rive frutti di letture» (p. 243). Con altrettanta pertinenza e arguzia a proposito di Spengler: «Lo storico Spengler è, non un profeta rivolto indietro, ma un antiquario rivolto in avanti» (p. 234). Tuttavia è nel medesimo tempo molto caratteristico che Bloch sia in Klages sia in Spengler critichi non le basi gnoseologiche, l’agnosticismo e la mistica, ma soltanto le conseguenze grottesche che, derivando da tali basi, vengono alla luce nella loro stravolta e apologetica «immagine del mondo». Questo non casuale difetto di critica nei confronti dell’idealismo indebolisce talvolta anche l’asprezza della sua critica verso l’essenza reazionaria di questi scrittori. In tali casi la critica si ferma alla battuta spiritosa e arguta, invece di svelare realmente l’elemento pericoloso delle tendenze reazionarie. Particolarmente chiara emerge tale debolezza quando la sua presa di posizione non è di netto rifiuto. In Nietzsche, per esempio, Bloch vuol salvare come retaggio il «lato buono» del principio dionisiaco. A tale scopo nel «dionisiaco» egli scopre un tratto plebeo: «…tuttavia “Dionisio” è appunto per la “morale da schiavi” un dio non ignoto, ma invece lieto, anzitutto un dio esplosivo. Saturnali si chiamavano le feste degli antichi schiavi, e la vite di Gesù, per quanto la Chiesa l’abbia completamente svigorita, nella cristianissima guerra dei contadini ha mostrato meno morale da schiavi di quel che piaccia ai signori» (p. 270). Bloch sa bene che tali vedute non hanno nulla a che vedere con Nietzsche. Il fine di Nietzsche è un fine «privato, camuffato in maniera aristocratico-reazionaria, un’utopia romantica, senza contatto con la storia, e per nulla con la classe oggi decisiva; ma la storia si prende da sé il suo contatto, l’astuzia della ragione è grande» (ibidem).

Qui la debolezza idealistica della concezione della storia in Bloch risulta straordinariamente chiara. In primo luogo, infatti, vuol dire sottovalutare fortemente il significato reazionario della filosofia di Nietzsche negarle il «contatto con la storia». Essa invece ha contatti addirittura saldissimi, ma per l’appunto puramente ed esplicitamente reazionari. In secondo luogo, non ci si può immaginare nulla di più antistorico di questa blochiana «astuzia della ragione» nella storia. Persino se Bloch avesse dimostrato un significato rivoluzionario dei Saturnali per le insurrezioni degli schiavi romani (cosa che egli non fa), dove sarebbe la loro relazione reale con il Dioniso «rivoluzionario»? E con le guerre dei contadini?! La prevenzione idealistica di Bloch, che nell’ideologia cristiana dei contadini insorti nel XVI secolo gli fa vedere, non un riflesso della debolezza e arretratezza del loro movimento, ma un valore attuale, da restaurare, per il moderno movimento operaio, lo conduce qui in una brutta confusione. Egli collega del tutto arbitrariamente l’un mito all’altro nell’intento di pervenire a una connessione storica generale. Cosicché perde ogni terreno reale, storico, sotto i piedi, soggiace in questo punto pienamente a quel «metodo» arbitrario, idealistico-mistico, divenuto predominante nella filosofia reazionaria in specie a partire da Nietzsche. Invece di aprire la strada a un nuovo retaggio per il marxismo, egli si pone nel quadro di quelle pseudofilosofie reazionarie la cui vuotezza e arbitrarietà in altri luoghi del suo libro combatte vivamente, la cui indole reazionaria egli, antifascista convinto, altrimenti respinge con passione. Tuttavia la contraddizione da noi individuata in Bloch opera anche in questi casi. Egli descrive, per esempio, con grande penetrazione, e non senza un certo rispetto e una certa simpatia, lo sviluppo della moderna Fenomenologia, la scuola di Husserl. Quando però analizza l’ultimo galoppino di questa scuola, Martin Heidegger, il suo istinto rivoluzionario lo costringe a descrivere in un modo distruttivamente ironico l’apologetismo formalmente complicato, ma assai scarso nel contenuto, di questa celebrità della Germania fascista. «La morte eterna rende alla fine il concreto assetto sociale “dell’uomo” così indifferente, che esso può anche restare capitalistico. L’affermazione della morte come destino assoluto e dell’unico “verso dove” è per la controrivoluzione di oggi quel che in passato era per essa la consolazione di un aldilà migliore» (pp. 220-221). Tale critica dei singoli rappresentanti della cultura borghese è l’aspetto più valido del libro di Bloch. Ed essa sta in stridente contrasto con la sua concezione generale del retaggio. A Bloch accade il contrario di ciò che accadde a quel mago del vecchio Testamento il quale era andato per maledire gli ebrei, ma le cui maledizioni furono mutate in benedizioni da Jahveh. Bloch vuol salvare il «contenuto in oro» della cultura borghese disintegrantesi. Siccome però in questa spedizione di salvataggio egli va con un reale dispendio di sapere e di intelligenza, distrugge strada facendo con critiche spietate tutto quel che vorrebbe salvare. Quando, dunque, dal mucchio di rovine, che egli stesso davanti agli occhi del lettore ha ulteriormente demolito, cerca di levar fuori un retaggio positivo, appare non organico, non convincente. Ed è appunto un suo merito che le sue stesse conclusioni appaiano tanto poco persuasive, che queste siano invalidate dalle sue stesse esposizioni. Tale contraddittorio autosopprimersi del suo metodo tramite l’applicazione al materiale concreto dà al lettore una speranza: che questo metodo idealistico-mistico non sia l’ultima fase dello sviluppo di Bloch, che la sua onesta e coraggiosa collaborazione alla lotta contro il fascismo lo aiuti a superare la odierna brusca contraddizione fra la sua chiara presa di posizione politica contro il fascismo e le sue concessioni filosofiche alle correnti idealistiche reazionarie.

(traduzione di Alberto Scarponi)

La lotta fra progresso e reazione nella cultura d’oggi

14 sabato Nov 2015

Posted by nemo in I testi

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di György Lukács

[A haladas és reakció harca a mai kulturabán, in «Társadalmi Szemle», giugno-luglio 1956; G.L., La lotta fra progresso e reazione nella cultura d’oggi, trad. it. Giorgio Dolfini, Feltrinelli, Milano 1957,  ora in G.L., Marxismo politica culturale, Einaudi, Torino 1968].


I.

Quando parliamo di un problema che divide tutta un’epoca in due campi opposti, dobbiamo chiederci qual è, nella teoria e nella prassi, il principio che agisce qui, vale a dire la forza che stabilisce questa scissione in due campi.

Sembra evidente, anche a prima vista, che ci troviamo di fronte a due mondi: quello del capitalismo e quello del socialismo. Una contrapposizione, questa, indubbiamente giusta, in quanto rispecchia la contraddizione fondamentale della nostra epoca. Tuttavia il problema che si pone è questo: se si possa trasporre una tal contraddizione su un piano concreto direttamente e senza alcuna mediazione. Continua a leggere →

Il profeta dell’anticapitalismo romantico

02 martedì Giu 2015

Posted by nemo in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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di Michael Löwy

«Lettera Internazionale, n. 23, 1990.

György Lukács è stato probabilmente il primo autore ad impiegare il concetto di anticapitalismo romantico; questo termine comincia infatti ad apparire nei suoi scritti sin dagli anni’30. Sebbene non sia mai giunto a svilupparne una definizione sistematica, alcuni elementi di tale concetto sono impliciti nelle sue opere filosofiche e letterarie. Lukács concepiva il romanticismo non come una categoria puramente estetica o letteraria, ma come un fenomeno più ampio, che investiva, oltre all’arte e alla letteratura, la politica, la filosofia, la sociologia, l’economia politica e la religione. Non gli sfuggiva inoltre il rapporto tra romanticismo e capitalismo, la differenza tra la forma romantica e le altre forme di coscienza anticapitalistica: la critica romantica della civilizzazione borghese moderna è basata su valori sociali o culturali precapitalistici.

L’anticapitalismo romantico è stato una delle principali correnti di pensiero della modernità e una delle più influenti Weltanschauungen della cultura europea, sin dalla fine del 17° secolo. Al tempo della formazione di Lukács – i primi anni del 20° secolo – rappresentava ormai la visione dominante nella vita intellettuale della Germania e dell’Europa centrale.

Non c’è niente di più intrigante e contraddittorio dell’anticapitalismo romantico. La sua enigmatica ambiguità è magnificamente rappresentata dal personaggio di Leon Naphta nella Montagna incantata di Thomas Mann: gesuita e comunista, di origine ebraica, nemico giurato del filantropo liberale Settembrini, Naphta esalta la lotta dei Padri della Chiesa contro il capitalismo e si sente in sintonia con il movimento romantico, con la sua «ambiguità fantastica», capace di fondere insieme reazione e rivoluzione. Lukács è stato spesso indicato come il modello di questa creazione letteraria di Thomas Mann, un’ipotesi questa che contiene almeno una parte di verità.

Weber sottolinea in molti suoi scritti come il capitalismo e la società industriale siano caratterizzati dal disincanto del mondo (Entzauberung der Welt), cioè dalla sostituzione di sentimenti e valori con il calcolo razionale dei profitti e delle perdite. L’anticapitalismo romantico – con la sua tipica attrazione per la religione e il misticismo – è una forma di rivolta contro questa Entzauberung e un disperato tentativo di rigenerare il mondo attraverso la restaurazione dei valori qualitativi sradicati dalle macchine e dai libri contabili.

Il circolo di Max Weber ad Heidelberg è stato uno dei principali centri accademici neoromantici. L’attrazione dei suoi membri per la letteratura russa e per il pensiero religioso era espressione del loro distacco dallo spirito eccessivamente razionale del capitalismo occidentale. Due dei suoi membri, il giovane filosofo ebreo Ernst Bloch e György Lukács, portarono alle sue conseguenze più radicali ed escatologiche questo sentimento generale.

L’ambiguità dell’anticapitalismo romantico si manifestò nello sviluppo di due correnti contrapposte: una conservatrice e perfino reazionaria (e infine fascista), l’altra utopista e rivoluzionaria. Lukács e Bloch non furono gli unici esponenti di quest’ultima corrente. Ad essa appartennero anche molti scrittori espressionisti, la Scuola di Francoforte, i rivoluzionari bavaresi del 1919 (Landauer, Toller, Muhsam, Levine) e numerosi rivoluzionari della Budapest del 1919. In quell’anno, Thomas Mann viveva a Monaco, e rimase molto colpito dagli avvenimenti di quella rivoluzione. Il suo diario rivela un vivo interesse per gli scritti di Gustav Landauer, un’altra possibile fonte di ispirazione per il personaggio di Naphta1.

L’utopia dell’uomo muovo

L’anticapitalismo romantico è la chiave per comprendere i primi lavori di Lukács e il suo personale approccio al marxismo, agli antipodi del materialismo storico ortodosso della Seconda Internazionale. Nel suo periodo premarxista (fino al 1919), Lukács sognava un’utopia romatica in cui potessero fondersi Kultur, Gemeinschaft, religione e socialismo, come sostanze spirituali dotate di affinità elettiva, estranee al mondo superficiale, prosaico, entzaubert, della società borghese.

Il romanticismo fu il tema centrale delle sue prime riflessioni letterarie e filosofiche. Al 1907 risale il progetto di un grande libro, Die Romantik des neunzehnten Jahrhunderts. I capitoli principali avrebbero dovuto essere: 1 Goethe e Fichte, 2 La tragedia del romanticismo (Schelling, Schlegel, il misticismo), 3 Vecchio e nuovo romanticismo (il nuovo come reazione), 4 Germania e Francia (lo Sturm und Drang e il romanticismo francese), 5 I preraffaelliti (romanticismo artistico e socialismo), 6 Romanticismo à rebours (Schopenhauer, Baudelaire, Kierkegaard, Flaubert e Ibsen). I suoi taccuini di questo periodo contengono numerosi estratti da Novalis, Schelling, Schlegel e Schleiermacher. Ma, come dimostra il piano dell’opera, l’interesse di Lukács non era limitato alla letteratura tedesca: ad attirarlo era l’intero universo dell’anticapitalismo romantico. Una fonte di ispirazione sempre più importante divenne per lui la letteratura russa, nella sua dimensione politica e religiosa (Tolstoj e soprattutto Dostoevskij). In una intervista del 1974, Ernst Bloch ricordò l’«immensa influenza» esercitata all’inizio del secolo dalla cultura russa, dall’«universo spirituale di Tolstoj e Dostoevskij», in una parola dalla «Russia immaginaria», sugli intellettuali tedeschi, e in particolare sul suo amico Lukács. Per Lukács (come per Bloch) gli scrittori russi rappresentavano l’aspirazione a superare l’individualismo disperato e desolato dell’Europa occidentale e a procedere verso la creazione di un uomo nuovo in un mondo nuovo.

Se il saggio sulla Filosofia romantica della vita in L’anima e le forme (1910) criticava il romanticismo tedesco, ciò avveniva, paradossalmente, perché il suo rifiuto del mondo esistente non era abbastanza radicale. Il romanticismo aveva creato un mondo organico, unificato, poetico e spirituale e lo aveva identificato con quello reale. Per Lukács, un’autentica opera d’arte poteva essere realizzata soltanto attraverso la netta separazione delle sfere eterogenee, «la creazione di un mondo nuovo ed unitario definitivamente separato dalla realtà».

La teoria del romanzo (1916) è intrisa di nostalgia romantica per i tempi felici in cui «le vie erano illuminate dalla luce delle stelle», le età epiche caratterizzate dalla perfetta corrispondenza delle azioni con le esigenze interiori. L’immutabile archètipo era rappresentato dalla Grecia omerica, mentre il Medioevo cristiano – Giotto e Dante – si configurava come una nuova Grecia, l’ultima manifestazione dell’organic Gemeinschaft, della naturale unità delle sfere metafisiche. Tuttavia, diversamente dai romantici, Lukács non credeva possibile o desiderabile una restaurazione: «…in un mondo chiuso noi non potremmo respirare. Noi abbiamo scoperto la produttività dello spirito…». Il fallimento dei romantici conseguiva dall’impossibilità di «ritornare ai tempi dell’epos cavalleresco». Invece di aggrapparsi al passato, Lukács sognava un futuro utopico, un paradiso terrestre, una porta verso una nuova epoca della storia del mondo, il superamento della società borghese e della civilizzazione industrial-capitalistica, l’era della «perfetta innocenza» (Epoche der vollendeten Sündhaftigkeit), un nuovo mondo del quale Tolstoj era stato l’araldo e Dostoevskij, forse, il nuovo Omero o Dante. L’intenzione non era quella di resuscitare l’antica Grecia o il mondo chiuso medioevale, ma di creare una nuova comunità che avrebbe dovuto esprimersi artisticamente mediante una «forma rinnovata di epos»2. Al romanticismo nostalgico sembra sostituirsi qui, con una decisiva metamorfosi spirituale, un romanticismo utopistico, orientato verso il futuro, benché affascinato al tempo stesso dalla «Russia metafisica», il «sogno Russia» al quale si riferiva Bloch.

Una versione romantica del marxismo

Anche dopo la sua iscrizione al Partito comunista ungherese (dicembre 1918) – una decisione che può essere compresa soltanto a partire dal suo precedente anticapitalismo romantico e dalla sua partecipazione alla rivoluzione ungherese del 1919 – il pensiero di Lukács mantenne la sua dimensione romantica. Per un lungo periodo, essa si combinò con il marxismo in una fusione intellettuale estremamente originale e sottile, il cui prodotto più compiuto fu il saggio La vecchia e la nuova cultura (1919), pubblicato quando Lukács era commissario del popolo per l’Educazione nel Governo Rivoluzionario Ungherese. Questo lavoro contrappone la Kultur organica della Grecia e del Rinascimento (che sembra sostituire il precedente modello medioevale Giotto-Dante), quando la vita e la produzione erano dominate dal künstlerischer Geist, alla totale mercificazione dell’arte e della cultura nel capitalismo. Il rivoluzionamento della produzione operato dal capitalismo esige la fabbricazione delle cosiddette «novità» e quindi una trasformazione rapida della forma e della qualità dei prodotti, indipendentemente dal loro valore estetico o d’uso. Ciò comporta il dominio tirannico della moda. (Troviamo intuizioni simili in alcuni scritti di Walter Benjamin sulla moda e sulla falsa «novità» del prodotto.) Moda e cultura sono concetti che nella sostanza si escludono reciprocamente (dem Wesen nach sich ausschliessende Begriffe). Con la generale mercificazione della vita, la cultura autentica comincia a declinare. Il capitalismo distrugge la culturale (è kulturzerstörend). Lukács concepisce la rivoluzione socialista come una restaurazione culturale. Una cultura organica «diviene di nuovo possibile». In modo tipicamente romantico/rivoluzionario, il socialismo è concepito come ripristino della continuità interrotta dal capitalismo: il futuro utopico (la nuova cultura) getterà un ponte verso il passato precapitalistico (la vecchia cultura), sul vuoto dell’attuale capitalismo (la non cultura).

Pochi anni dopo, in Storia e coscienza di classe (1923), Lukács sembra voler prendere le distanze dall’anticapitalismo romantico. Dopo Rousseau, il concetto di «crescita organica» viene assumendo, «nella battaglia contro la reificazione, un significato sempre più reazionario, dal romanticismo tedesco alle scuole storiche di diritto, Carlyle, Ruskin, etc.». Ma, allo stesso tempo, si riconosce che, ben prima di Marx, autori come Carlyle avevano compreso e descritto l’essenza antiumana (windermenschliches) del capitalismo, la sua natura distruttrice e oppressiva di tutto ciò che è umano. Una nostalgia tipicamente romantica affiora a volte in alcuni passaggi, per esempio nel paragone tra la soggezione di ogni forma di vita alla meccanizzazione e al calcolo razionale nel capitalismo e «il processo organico vitale di una Gemeinschaft» come nel villaggio tradizionale. Il tema centrale del libro, l’analisi critica della reificazione (Verdinglichung), in tutte le sue forme – economica, giuridico-burocratica, culturale – è largamente ispirato dalla sociologia neoromantica tedesca: Tönnies, Simmel, Weber.

Senza dubbio, i motivi sociologici vengono qui riformulati da Lukács nei termini di una critica marxista della reificazione capitalista. Ma a volte egli procede, in quest’opera, nel senso opposto. Partendo da alcuni passaggi del Capitale, sviluppa una critica particolarmente acuta della meccanizzazione del lavoro e della quantificazione del tempo, critica che possiede innegabili affinità con il romanticismo. Secondo alcuni critici neo-kantiani di Lukács, per Colletti ad esempio, questo genere di analisi dimostra che il filosofo ungherese sostituì il romanticismo bergsoniano al marxismo. Ma si potrebbe anche supporre che Lukács abbia potuto scrivere questo libro soltanto grazie a un elemento di anticapitalismo romantico presente nello stesso Marx. Come sottolineò giustamente Paul Breines, il giovane Lukács tentò di «restituire al marxismo la sua dimensione romantica perduta»3.

Gli scritti letterari di Lukács degli anni 1922-23 contengono dei riferimenti molto significativi a scrittori anticapitalisti romantici, in particolare a Dostoevskij, che ai suoi occhi rappresentava l’esempio più radicale di rigetto utopico della civiltà borghese occidentale. In un articolo del 1922, pubblicato nella Rote Fahne (il quotidiano del Partito Comunista tedesco), La confessione di Stavrogin, Lukács esalta la capacità di Dostoevskij di descrivere un mondo utopico, in cui «tutto ciò che di meccanico e inumano, privo di anima (seelenlos) e reificato, possiede la società capitalistica, è abolito». Un articolo del 1923 sembra echeggiare l’ultimo capitolo della Teoria del romanzo. Dostoevskij è visto come il precursore dell’essere umano futuro, «già socialmente ed economicamente liberato», in grado di vivere pienamente la propria vita interiore.

La svolta

Verso la fine degli anni ’20, Lukács divenne apertamente ostile al romanticismo, e questo mutamento fu accompagnato, negli anni immediatamente successivi, da contraddizioni e improvvisi ripensamenti4.

Probabilmente, la posizione di Lukács deve essere messa in rapporto con l’inizio, pressoché simultaneo, della sua «riconciliazione forzata» con lo stalinismo. Era il periodo del piano quinquennale di Stalin (1928-33), che innalzava l’industrializzazione ad alpha ed omega della «costruzione del socialismo» e non concedeva, naturalmente, nessuno spazio alla nostalgia romantica. Arthur Koestler rievoca nella sua autobiografia i suoi pensieri di militante comunista nel 1930: «Quando ho detto che mi ero innamorato del piano quinquennale, non si trattava di una esagerazione … La teoria marxista e la pratica sovietica rappresentavano il definitivo e ammirevole compimento dell’ideale di progresso del XIX secolo, a cui dovevo fedeltà. La forza più potente della terra avrebbe senza dubbio apportato la massima felicità al massimo numero di persone».

Ma la relazione tra il dogma stalinista e l’atteggiamento di Lukács verso il romanticismo è più complessa. In anni successivi, infatti, egli tornerà a guardare con simpatia agli scrittori dell’anticapitalismo romantico. Il mutamento delle sue posizioni culturali potrebbe essere messe in relazione anche con il sorgere del nazismo, che appariva a lui (come a molti altri) il risultato logico della reazione romantica, operante nella cultura tedesca, ma anche questa versione è tutt’altro che ovvia e non può spiegare le interpretazioni sorprendentemente divergenti di Dostoevskij che egli diede nel 1931, nel 1943 e nel 1957. Per decenni, in realtà, Lukács sembra essere stato combattuto tra l’Aufklärung e l’anticapitalismo romantico. L’ideologia democratico-liberale e razionale del Progresso (che egli tentò di riconciliare con la dura realtà totalitaria dello Stato sovietico), era quella prevalente, ma la vena dell’anticapitalismo romantico riemergeva a tratti inaspettatamente.

Il termine «anticapitalismo romantico» apparve per la prima volta in un articolo del 1931 su Dostoevskij, in cui Lukács gettava repentinamente nella pattumiera il grande scrittore russo che aveva ispirato i suoi ideali giovanili romantico-rivoluzionari. Secondo questo saggio, che fu pubblicato a Mosca, l’influenza di Dostoevskij discendeva dalla sua capacità di trasformare i problemi dell’opposizione romantica al capitalismo in problemi «interiori», «spirituali», permettendo così agli intellettuali piccolo-borghesi di «approfondire» la propria Weltanschauung in una rivoluzione religiosa da salotto (religiöselnde Salon-Revoluzzerei). Un giudizio, questo di Lukács, che avrebbe potuto essere esteso presumibilmente ai suoi stessi scritti, come a quelli di Bloch, almeno fino al 1931.

I primi lavori di Lukács avevano costantemente collegato Tolstoj e Dostoevskij, pur sottolineando sempre la superiorità di quest’ultimo. Nel 1931, Lukács passa invece a contrapporre Tolstoj, come rappresentante della «tradizione classica della classe borghese rivoluzionaria in ascesa» – una definizione alquanto singolare per uno scrittore che disprezzava tanto i lussi cittadini ed ammirava la povera gente di campagna – a Dostoevskij, i cui scritti vengono intesi come l’espressione delle tendenze romantiche e reazionarie latenti della piccola borghesia. Nella peggiore delle ipotesi Dostoevskij è presentato come «lo scrittore dei Cento Neri e dell’imperialismo zarista», e nella migliore come l’autore di una «frazione dell’opposizione intellettuale anticapitalistica romantica piccolo borghese», un gruppo sociale oscillante tra destra e sinistra, ma per il quale «un largo viale conduce alla destra, alla reazione (oggi al fascismo), e solo uno stretto e disagevole sentiero alia sinistra, alla rivoluzione». La conclusione di questo avvincente brano di delirio dogmatico è che, con l’inevitabile declino della piccola borghesia, «la gloria (Ruhm) di Dostoevskij svanisce ingloriosamente (Ruhmlos)»5.

Un’autocritica spietata

Quest’articolo dà inizio a un modello di analisi riscontrabile nella maggior parte degli approcci successivi di Lukács all’anticapitalismo romantico: da una parte, la constatazione del carattere contraddittorio dei fenomeno e dall’altra una tendenza (a volte completamente unilaterale) a considerare dominante in esso l’inclinazione reazionaria e perfino fascista. Non stupisce che questo saggio abbia fatto andare su tutte le furie il suo amico romantico/rivoluzionario Ernst Bloch e contribuito a raffreddare i loro rapporti6.

La natura di questo articolo non mi consente di analizzare tutte le mutevoli prese di posizione di Lukács nei riguardi dell’anticapitalismo romantico un itinerario bizzarro, tortuoso e sconcertante. Mi limiterò ad alcuni degli esempi più significativi.

In un articolo pubblicato pochi mesi dopo il saggio su Dostoevskij, Lukács torna nuovamente sul tema del nesso immediato tra il fascismo tedesco e «l’arsenale teorico dell’anticapitalismo romantico», pur operando una distinzione tra «l’onestà soggettiva ancora presente in Sismondi e nel giovane Carlyle» e le manipolazioni della propaganda fascista.

Lukács non poteva fingere di ignorare che le radici del suo stesso approccio al marxismo e alla rivoluzione si trovavano nella cultura dell’anticapitalismo romantico. Ma ciò, invece di indurlo ad approfondire la sua analisi, lo portò invece, in un manoscritto del 1933 sulle origini culturali del fascismo, a inasprire la propria autocritica. Secondo questo scritto, Storia e coscienza di classe è un libro pericoloso che contiene «le più gravi concessioni al punto di vista idealistico borghese del mondo». Dopo aver sottolineato la continuità tra l’idealismo tedesco e il fascismo, aggiunge: «Come seguace di Simmel e Dilthey, come amico di Max Weber e Emil Lask, come lettore entusiasta di Stefan George e di Rilke, ho vissuto anch’io l’evoluzione qui descritta … Ho visto molti amici della mia giovinezza, sinceri e convinti anticapitalisti romantici, finire travolti dalla tempesta del fascismo». Il legame decisivo tra la visione anticapitalistica romantica e il suo particolare approccio alla causa rivoluzionaria – un percorso condiviso da molti altri intellettuali tedeschi, in particolare da quelli ebrei con un retroterra romantico – non viene qui neppure preso in considerazione.

Questo manoscritto del 1933, una sorta di primo abbozzo per la Distruzione della Ragione, tenta un’analisi più generale e sistematica del risveglio dell’anticapitalismo romantico alla fine del XIX secolo. In esso Lukács, pur classificando tutti i critici in chiave anticapitalistico-romantica della società borghese come «rivoluzionari romantici» (o perfino come precursori del fascismo), opera tuttavia un’importante distinzione all’interno del neo-romanticismo. Il periodo precedente al 1914, visto attraverso gli scritti di Nietzsche, Tönnies, Simmel, Weber, Huch e la Lebenphilosophie, si ispirava al Frühromantik ed era ancora sufficientemente ambiguo da consentire un’interpretazione di «sinistra». Il periodo del dopoguerra, visto attraverso gli scritti di Heidegger, Jünger, Spengler, Freier, Bäumler e Rosenberg, si richiamava invece direttamente allo Spätromantik ed era apertamente reazionario, se non fascista. La transizione dal primo al secondo periodo fu caratterizzata da una tendenza sempre più spiccata verso l’irrazionalità e il mito. Si tratta di un’ipotesi interessante, che non tiene conto tuttavia dell’evoluzione di pensatori di sinistra come Marcuse, Benjamin, Fromm, Löwenthal e molti altri, che ebbe innegabili legami con la cultura neo-romantica.

La polemica contro l’espressionismo

Lukács fu particolarmente interessato all’opera di Nietzsche. In un articolo del 1934, intitolato Nietzsche precursore dell’estetica fascista, l’autore di Così parlò Zarathustra è presentato come un seguace della tradizione anticapitalistica romantica. Come tutti gli scrittori di questa corrente, «egli compie un continuo raffronto tra la mancanza di cultura del presente (Kulturlosigkeit) e la cultura superiore dell’epoca precapitalista o del primo capitalismo. Come tutti i critici romantici della degradazione dell’uomo prodotta dal capitalismo, Nietzsche combatte il feticismo della moderna civilizzazione, opponendogli la cultura di stadi economici e sociali più arretrati». Lukács appare inconsapevole del fatto che una tale forma di critica culturale, che in effetti gioca un ruolo regressivo in Nietzsche, poteva, in un altro contesto, assumere un carattere rivoluzionario, come ad esempio nel suo articolo del 1919, La vecchia e la nuova cultura. La sua unica concessione fu quella di riconoscere a Nietzsche intenzioni sincere, fuorviate dalla manipolazione nazista delle sue idee: «Il fascismo deve abolire tutto quanto vi è di progressivo nell’eredità borghese; nel caso di Nietzsche deve falsificare o negare ogni espressione di una critica romantica soggettivamente sincera della cultura capitalistica»7.

Lukács valuta in modo non dissimile l’espressionismo nel famoso saggio Grandezza e decadenza dell’espressionismo (1934), in cui questo movimento artistico è messo in relazione con l’anticapitalismo romantico e vengono delineate interessanti analogie con la Filosofia del denaro di Simmel. Ignorandone completamente la dimensione rivoluzionaria, Lukács definisce qui l’espressionismo come «una delle tante tendenze ideologiche borghesi che sarebbero in seguito approdate al fascismo; il cui ruolo ideologico nello spianargli il cammino fu pari a quello delle altre tendenze dell’epoca». Tre anni dopo la pubblicazione di questo saggio, i nazisti organizzarono l’infame mostra sull’«Arte degenerata», in cui furono esposti lavori di quasi tutti i più noti pittori espressionisti. In una postilla aggiunta nel 1953 all’articolo sopra citato, Lukács si mostra imperturbabile. «Il fatto che i nazionalsocialisti abbiano rifiutato in un secondo momento l’espressionismo in quanto forma d’arte degenerata non inficia in nessun modo la verità storica dell’analisi qui esposta»8.

Questa presa di posizione lo portò ad un altro scontro polemico con l’amico di un tempo ed alter ego, Ernst Bloch. Nel 1953 Lukács scrisse una recensione critica di Eredità nel nostro tempo, in cui si sosteneva che fino a quando Bloch avesse continuato a richiamarsi acriticamente all’anticapitalismo romantico, la sua concezione del marxismo sarebbe rimasta sostanzialmente errata. Bloch viene quindi inaspettatamente (ma acutamente) paragonato al «socialdemocratico Herbert Marcuse», che «esaltava l’autentica» Lebenphilosophie di Dilthey e Nietzsche in opposizione a quella falsa dei fascisti9. Nel 1938, nel corso della sua polemica con Bloch, in Es geth um den Realismus, (così come in altri scritti contemporanei) Lukács torna nuovamente sulla distinzione tra le «intenzioni soggettive» sincere di alcuni artisti espressionisti, e il contenuto «oggettivo» (reazionario) della loro opera. Come esempio di questa contraddizione, egli cita… i suoi primi lavori. Malgrado le sue buone intenzioni la Teoria del romanzo era «un’opera del tutto reazionaria», intrisa di misticismo idealista. Persino Storia e coscienza di classe viene definita retrospettivamente «reazionaria in ragione del suo idealismo». Es geht um den Realismus sviluppa quella che è forse la premessa storico-filosofica fondamentale dell’approccio unilaterale di Lukács all’anticapitalismo romantico. In essa si parla infatti del pericolo di un «avvelenamento demagogico» della cultura popolare in conseguenza della decomposizione delle forme antecedenti di vita popolare prodotta dal capitalismo, un processo definito tuttavia «in sé economicamente progressivo». Questa fede nella natura intrinsecamente progressiva e benefica dello sviluppo capitalistico e del razionalismo industriale gli consentì di cogliere la dimensione sovversiva e potenzialmente rivoluzionaria di una critica nostalgicamente rivolta alle forme di vita sociale e ai valori culturali del passato.

Un itinerario tortuoso

Dopo l’articolo del 1931 su Dostoevskij, Lukács appare rinchiuso in uno schema analitico dogmatico che sottolinea quasi esclusivamente gli elementi reazionari e le tendenze pre-fasciste (certamente presenti) della cultura anticapitalista romantica. Ciò nonostante troviamo, in alcuni saggi scritti a Mosca tra il 1939 e il 1941, una valutazione sorprendentemente favorevole di Balzac e Carlyle. Ribattendo a quei critici letterari sovietici che «esaltavano» la tradizione borghese «progressiva» contro le idee «reazionarie» di Balzac, Lukács respinge quella che giudicava una mistificazione liberal-borghese, «la mitologia di uno scontro tra Ragione e Reazione o, in un’altra variante, il mito della lotta tra l’angelo illuminato del progresso borghese … e il demonio nero del feudalesimo». Secondo lui, le intuizioni di Balzac e Carlyle riguardo alla natura del capitalismo – in particolare sulla sua tendenza alla distruzione della natura – non potevano essere espunte meccanicamente dall’insieme della loro visione generale (in cui era compresa la loro ideologia conservatrice), secondo il buon vecchio metodo proudhoniano di separare il lato «buono» delle realtà economiche e sociali da quello «cattivo». Nelle opere di questi scrittori la critica perspicace del capitalismo è intimamente connessa alla loro idealizzazione del Medioevo. Balzac è penetrante grazie al suo anticapitalismo romantico e non suo malgrado10.

Un articolo del 1943 su Dostoevskij è ancora più interessante. In esso Lukács non solo riesamina completamente la sua precedente posizione eccessivamente negativa, ma dimostra anche una sorprendente consapevolezza delle potenzialità rivoluzionarie insite nell’anticapitalismo romantico (sebbene l’espressione non compaia mai nel saggio). Secondo Lukács, i libri di Dostoevskij esprimono una «ribellione contro le deformità morali e spirituali dell’essere umano prodotte dallo sviluppo capitalistico» e una «vibrante protesta contro tutto ciò che è falso e distorto nella società borghese moderna». Contro questo mondo disumano, Dostoevskij sognava di una trascorsa età dell’oro, simboleggiata dalla Grecia arcaica così come è raffigurata dal pittore Claude Lorrain in Acis e Galatea. La rivolta spontanea e selvaggia dei personaggi di Dostoevskij ha sempre un rapporto inconscio con quest’età dell’oro: «Questa rivolta è la grandezza progressiva poetica e storica di Dostoevskij; essa accese un bagliore nell’oscurità della miseria di Pietroburgo, un bagliore che illuminò le strade verso l’avvenire sull’umanità».

Insomma, l’età dell’oro del passato getta la sua luce sulle vie che conducono al futuro utopico: sarebbe difficile immaginare una formula più pregnante per definire quella Weltanschauung romantica e rivoluzionaria che Lukács sembra di nuovo far sua nel 1943. Nella prefazione nel febbraio del 1946 ai suoi saggi sugli scrittori realisti russi, Dostoevskij viene accolto come autore progressivo, capovolgendo così il giudizio espresso negli anni ’30. Nel riconoscere gli elementi reazionari e mistici delle intenzioni soggettive (Subjektiven Meinungen) di Tolstoj e Dostoevskij, Lukács insiste ad assegnare la priorità al significato sociale e storico obiettivo di questi autori. «Il fattore determinante è il legame umano ed artistico dello scrittore con un movimento popolare vasto e progressivo … le radici di Tolstoj si trovano tra la gente di campagna, quelle di Dostoevskij tra gli strati sofferenti della plebe delle città, quelle di Gor’kij tra il proletariato e i contadini poveri. Ma tutti e tre nel più profondo della loro anima sono radicati in questo movimento, che cerca e combatte per la liberazione del popolo. Altro che “i Cento Neri …”!»

Ma durante i primi anni del secondo dopoguerra, il precedente atteggiamento antiromantico di Lukács ebbe di nuovo il sopravvento, come si desume da un confronto tra le sue diverse interpretazioni del personaggio di Naphta nella Montagna incantata. Nel 1942, pur etichettando l’ideologia di Naphta come «demagogia reazionaria» Lukács ammette tuttavia che Thomas Mann se ne era servito per mettere in evidenza «il carattere seducente (spirituale e morale) dell’anticapitalismo romantico» e «la correttezza di alcuni elementi della sua critica dell’attuale vita quotidiana». Ciò nonostante, pochi anni più tardi «il gesuita Naphta» è definito semplicemente come «il portavoce della Welthanschauungen reazionaria, fascista e antidemocratica». La sua analisi assomiglia molto ad una versione raffinata di quello scontro mitico tra «l’angelo di luce del progresso borghese e il nero diavolo del feudalesimo», a cui aveva accennato ironicamente nel 1941. Il tema centrale della Montagna incantata è «lo scontro ideologico tra la vita e la morte, la salute e la malattia, la reazione e la democrazia», il duello intellettuale tra «l’umanista democratico italiano Settembrini e l’allievo ebreo dei gesuiti Naphta, portavoce di un’ideologia cattolicizzante e prefascista». Sembra evidente che una semplificazione così unilaterale e grossolana non afferra l’ambivalenza affascinante del personaggio di Naphta, e riduce il suo anticapitalismo romantico, la sua complessa e paradossale ideologia religiosa-rivoluzionaria, alla sola dimensione conservatrice e oscurantista.

La distruzione della ragione.

Molti scritti di Lukács risentono di questo giudizio arido e limitato della cultura romantica. Il caso più noto è quello della Distruzione della Ragione (1955), in cui l’intera storia del pensiero tedesco, da Schelling a Tönnies, da Dilthey a Simmel e da Nietzsche a Weber viene dipinta come un assalto in grande stile della reazione contro la ragione e tutte le correnti del romanticismo, «dalla scuola storica del diritto a Carlyle», vengono accusate di aver favorito «una totale irrazionalizzazione della storia» e quindi, in ultima analisi, il trionfo dell’ideologia fascista.

I critici giudicano generalmente questo libro un pamphlet stalinista. Ciò non è del tutto esatto, dato che il suo leitmotiv non è, come per Zdanov e i suoi seguaci, la contrapposizione tra scienza (o filosofia) «proletaria» e scienza «borghese», ma piuttosto quella tra Ragione e Irrazionalità. Il suo limite più grave è di ignorare quella che la Scuola di Francoforte definisce «la dialettica dell’illuminismo», la trasformazione della ragione in uno strumento al servizio del mito, dell’oppressione e dell’alienazione. Paradossalmente, in quest’opera il concetto di anticapitalismo romantico è quasi del tutto assente. I romantici e i loro seguaci vi vengono trattati semplicemente da reazionari e da irrazionalisti. Uno dei pochi autori esplicitamente citati nel libro come anticapitalisti romantici è Ferdinand Tönnies, che è presentato in una luce piuttosto favorevole: «Scopriamo in Tönnies, rispetto all’anticapitalismo romantico precedente, una differenza: non vi è in lui la nostalgia di un ritorno a situazioni sociali sorpassate, in particolare al feudalesimo. La sua posizione costituisce piuttosto la base di una critica culturale che sottolinea nettamente i tratti negativi e problematici della cultura capitalistica, insistendo al tempo stesso sul carattere inevitabile e fatale del capitalismo». Tuttavia, l’opposizione tra Gesellschaft e Gemeinschaft, il tema centrale dei lavori sociologici di Tönnies, non rappresenta per Lukács altro che una deformazione «anticapitalista-romantica, soggettiva e irrazionalista» della realtà dello sviluppo capitalista già osservato da Marx11.

Lungo tutta l’evoluzione spirituale di Lukács, il rapporto con Dostoevskij appare sintomatico del suo atteggiamento generale verso l’anticapitalismo romantico. Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, la tendenza predominante fu l’anatema, di cui si può cogliere ancora un’eco nel Significato del realismo contemporaneo (1957), probabilmente uno dei peggiori saggi che Lukács abbia mai prodotto. In un primo momento egli sembra voler riconoscere lo sforzo critico dello scrittore russo. «Ciò che fa soffrire l’eroe di Dostoevskij è la disumanità tipica degli esordi del capitalismo, che marchia di sé tutti i rapporti umani». Ma il punto essenziale è un altro. «La protesta di Dostoevskij contro la disumanità del capitalismo si trasforma rapidamente in una critica del socialismo e della democrazia, fondata su una sofistica confusionista e su un anticapitalismo di tipo romantico». Il processo iniziato da Dostoevskij sarebbe stato sistematizzato da Nietzsche e avrebbe infine condotto al fascismo. Questo rifiuto del progresso e della democrazia si sviluppò progressivamente fino a sfociare nella demagogia sociale dell’hitlerismo». Un simile ragionamento astratto, che stabilisce una sorta di continuità ideologica irreversibile e ineluttabile da Dostoevskij a Hitler, è quanto meno assurdo e contrasta con l’influenza determinante esercitata dallo scrittore russo su tanti intellettuali rivoluzionari – a cominciare dallo stesso Lukács.

Gli ultimi anni

Gli anni che seguirono segnarono una sorta di pausa. Nelle sue grandi opere degli anni’60 – l’Estetica e l’Ontologia – il problema dell’anticapitalismo romantico è per lo più dimenticato e i riferimenti alla cultura romantica sono relativamente neutrali. Negli ultimi anni della sua vita, Lukács tornò infine ad avvicinarsi in modo più equilibrato ed aperto all’anticapitalismo romantico, quasi sempre in occasione delle riedizioni di suoi scritti giovanili. Ad esempio, nella prefazione alla ristampa del 1967 di Storia e coscienza di classe, riconobbe di dovere «qualcosa di positivo» a quell’«idealismo etico, con tutti i suoi tratti anticapitalisti romantici» e che questi elementi «con molteplici e profonde modificazioni» si erano integrati nella sua nuova visione del mondo (marxista)12. In un’intervista concessa nel 1966 a Wolfgang Abendroth, dichiarava: «Oggi non rimpiango di aver appreso le prime nozioni di scienza sociale da Simmel e Max Weber, piuttosto che da Kautsky. Ritengo che non si possa negare l’utilità di questa circostanza ai fini della mia evoluzione»13.

Ancora una volta, l’atteggiamento di Lukács verso Dostoevskij è l’indice del suo atteggiamento generale nei riguardi dell’anticapitalismo romantico. Nella prefazione del 1969 alla raccolta ungherese dei suoi saggi (Útam Marxhoz o La mia strada verso Marx), Lukács riferisce come la sua iniziale «ribellione anticapitalista romantica, rivolta contro le basi stesse del sistema costituito», fosse ampiamente ispirata da «un’interpretazione rivoluzionaria di Dostoevskij». Ancora più esplicitamente, nella prefazione del 1969 alla raccolta Letteratura ungherese, Cultura ungherese, egli rammenta che prima del 1917: «… ponevo i grandi autori russi, primi fra tutti Dostoevskij e Tolstoj, tra i fattori rivoluzionari decisivi … Fu in questo momento della mia evoluzione che l’anarco-sindacalismo francese mi influenzò in modo considerevole. Non sono mai riuscito a far mia l’ideologia social-democratica di questo periodo, e in particolar modo quella di Kautsky».

Da queste note autobiografiche risulta chiaramente l’ispirazione che Lukács trasse dalle varie forme di anticapitalismo romantico – dalla sociologia tedesca alla letteratura russa – durante i suoi anni di Bildung spirituale e politica. Furono esse ad ispirargli la lotta contro l’ideologia dominante liberal-razionalista (o positivista-utilitarista), inclusa la sua versione socialdemocratica, e lo condussero a sostenere i movimenti che si opponevano all’ordine borghese, dapprima gli anarco-sindacalisti e poi il bolscevismo. Ciò nonostante, dai tardi anni ’20, fino alla fine degli anni ’60, escluso un breve periodo nel corso della seconda guerra mondiale, Lukács soffrì di una strana cecità ideologica e sembrò percepire solo l’aspetto reazionario, irrazionalista, prefascista dell’anticapitalismo romantico.

Come possono essere spiegati questi stupefacenti cambiamenti? Corrispondevano a un movimento interno all’evoluzione filosofica di Lukács? Erano il riflesso di determinate circostanze storiche: l’ascesa del fascismo, l’uso di riferimenti romantici nei discorsi nazisti? O riflettevano le tante svolte a cui andò incontro la linea politica del Comintern e dell’Unione Sovietica? Non sono in grado di rispondere a queste domande. In ogni caso, questo percorso tormentato e contraddittorio dimostra che Lukács oscillava, come Hans Castorp, l’eroe del suo romanzo preferito, tra due poli: un «Settembrini marxista» e un «Naphta rivoluzionario». Egli non riuscì mai a superare le antinomie tra le sue stesse Weltanschauungen in una sintesi dialettica, l’Aufhebung della contraddizione tra romanticismo e illuminismo.

Bibliografia

T. Perlini, Utopia e prospettiva in Lukács, Bari, De Donato 1968.
G. Bedeschi, Introduzione a Lukács, Bari, Laterza, 1970.
N.M. De Feo, Weber e Lukács, Bari, Laterza, 1971.
G. Vacca, Lukács o Korsch?, Bari, Laterza, 1969.
R. Caccamo-De Luca, L’intellettuale come “utopia”: il caso Lukács -Mannheim, Roma, Elia, 1977
Y. Bordet, Lukács, il gesuita della rivoluzione, Milano, Sugar, 1979.
E. Matassi, Il giovane Lukács, Napoli, Guida, 1979.
F. Fehér-À.Heller-G.Markus-A.Radnóti, La scuola di Budapest: sul giovane Lukács, Firenze, La Nuova Italia, 1978.
R. Valle, Dostoevskij politico e i suoi interpreti, Roma, Archivio Guido Izzi, 1990.

Note

1 T. Mann, Journal 1918-1921, 1933-34 (Paris, Gallimard, 1985), 88, 89, 106, 108, 121: «nel libro di Landauer ci sono molte cose che mi sono piaciute … Sto studiando la possibilità di introdurre degli elementi russo-chiliastico-comunisti nella Montagna incantata».

2 G. Lukács, Teoria del romanzo (Sugar, Milano, 1962) pp. 55, 61, 217.1 presupposti religioso-rivoluzionari di questo libro si trovano nella contemporanea Dostoevskij-Notizen (scoperta e trascritta da F. Fehér), in cui la letteratura russa, il messianesimo ebraico, il misticismo, Kierkegaard, Nietzsche e Sorel sono fusi in una filosofia deila storia romantica e apocalittica. L’alternativa al moderno stato europeo, che non è altro che «die organisierte Tuberkolose», è una forma utopica della Gemeinde russa.

3 G. Lukács, Geschichte und Klassenbewusstein (Storia e coscienza di classe, Milano, Sugar, 1967, p. 119). Vedi anche L. Colletti, Il Marxismo e Hegel (Bari, Laterza, 1973).

4 Il primo scritto in cui questa nuova posizione fa la sua comparsa è una recensione del 1928 del libro di Carl Schmitt sul romanticismo politico. Lukács appoggia senza alcuna riserva la tesi di Schmitt – a mio avviso molto superficiale – riguardo all’«occasionalismo e alla mancanza di contenuto politico del pensiero romantico». Seguendo Schmitt, Lukács insiste sull’«incoerenza» dei romantici, sul loro soggettivismo antiscientifico, sul loro esasperato estetismo, ecc.

5 Lukács paragona il percorso di Dostoevskij, dalla cospirazione rivoluzionaria alla religione ortodossa e allo zarismo, all’evoluzione di Friedrich Schlegel, il repubblicano romantico che si unì infine a Metternich e alla Chiesa cattolica.

6 Cfr. Ernst Bloch, «Intervista con Ernst Bloch»: «Mio caro amico, gli ho detto, mio mentore per quanto concerne Dostoevskij e Kierkegaard … Che ti è accaduto per scrivere una cosa simile su Dostoevskij?»

7 In Friedrich Nietzsche, di F. Mehring e G. Lukács (Berlino, Aufbau Verlag, 1957).

8 G. Lukács «Grosse und Verfall des Expressionismus», Essays über Realismus (Saggi sul realismo, Torino, Einaudi, 1970).

9 Il riferimento è al saggio di Marcuse («Der Kampfgegen den Liberalismus in der totalitären Staatsauffassung»). La recensione di Lukács rimase inedita a lungo. Ne esiste una traduzione italiana in G. Lukács, Intellettuali e irrazionalismo, a cura di V. Franco (Pisa, Ets, 1984).

10 G. Lukács, Ecrits de Moscou (Parigi, Editions Sociales, 1974).

11 G. Lukács, Die Zerstörung der Vernunft (La Distruzione della ragione, Torino, Einaudi 1959, p. 129, 600-7).

12 G. Lukács, «Prefazione alla nuova edizione (1967)», in Storia e coscienza di classe, cit., р. IX.

13 Conversazioni con Lukács, di W. Abendroth, Hans Heinz Holz, Leo Kofler (Bari, De Donato, 1968, p. 122).

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