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György Lukács

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György Lukács

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Ontologia dell’essere sociale e composizione di classe

02 martedì Dic 2014

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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di Costanzo Preve

«Primo Maggio» n. 16 1981-82

Queste brevi note sono dedicate alla segnalazione e alla sollecitazione a uno studio personale approfondito della fondamentale opera dell’ultimo Lukács, Ontologia dell’Essere Sociale, Editori Riuniti (due volumi in tre tomi, di cui il primo già pubblicato anni fa, L. 45.000). Lo scrivente, che considera la tendenza filosofica fondamentale e l’argomentazione teoretica di base di questo lavoro estremamente corretta e anzi illuminante per orizzontarsi nell’attuale congiuntura teorica mondiale, è peraltro tristemente consapevole, da un lato, della propria inadeguatezza soggettiva a cogliere appieno la pregnanza filosofica di questo capolavoro di passione teorica, e dall’altro lato, della quasi totale impossibilità oggettiva che nell’attuale situazione storico-politica italiana un lavoro del genere possa anche soltanto essere preso seriamente in considerazione1.

Premesso questo, essendo «Primo Maggio» una rivista di storia del movimento operaio e di analisi e ricerca sulla «composizione di classe» una recensione di carattere genericamente filosofico potrebbe forse essere inappropriata. Ci si accosterà allora all’Ontologia con un’ottica consapevolmente limitata, tendente a discutere quasi esclusivamente il rapporto che crediamo possa intercorrere fra la problematica teorica che emerge dalla Ontologia stessa (la dialettica materialistica fra soggettività ed oggettività a cui il lavoro sociale dà luogo nel rapporto di produzione capitalistico) e l’attuale crisi del pensiero che mette al centro della sua riflessione la «composizione di classe». Non sì troverà qui dunque un riassunto del ricchissimo contenuto dell’Ontologia (da rinviare ad altra sede), ma soltanto una prima tematizzazione di questo rapporto, iniziando da alcune riflessioni sullo stato attuale del «pensiero della composizione di classe» per finire con alcune indicazioni sull’utilità della Ontologia per chi si sente impegnato a proseguire una riflessione sul nodo di problemi che un tempo connotava la «problematica operaista».

1. La tendenza teorica marxista che ha messo al centro dell’analisi del rapporto sociale capitalistico di produzione la problematica della «composizione di classe» ha raggiunto risultati rilevanti, in parte ormai consolidati sul piano storico e irreversibili su quello teorico. Il carattere globalmente positivo di questa tendenza teorica presenta inoltre un aspetto specificamente nazionale, italiano, e un aspetto internazionale, che formano in realtà un unico complesso teorico indissolubile, anche se possono essere meglio trattati separatamente, per comodità e chiarezza.

L’aspetto nazionale della rilevanza della scuola teorica della centralità della composizione di classe deve essere visto nel fatto che solo essa seppe di fatto porsi come alternativa globale allo storicismo togliattiano. Quest’ultimo non ebbe certo mai vera rilevanza teorica, essendo sempre più in fondo modellato sulle esigenze tattiche del «far politica» del «partito nuovo» e funzionando come ideologia della legittimazione di quest’ultimo e come «campo teorico» nel quale potevano anche giocare delle «mezze ali» (da Amendola a Ingrao).2 Lo storicismo fu comunque il medium della socializzazione intellettuale di intere generazioni di «oppositori politici» della DC, e di fatto agì come potente «ostacolo epistemologico» alla comprensione del ruolo specifico delle lotte operaie nello sviluppo capitalistico; quando fece uso del concetto di «composizione di classe» lo fece in modo statistico-positivistico, senza mai legare composizione tecnica e composizione politica nel loro rapporto con la lotta di classe.3 Opposizioni teoriche allo «storicismo marxista» ce ne furono certo molte (da Della Volpe a Luporini, da Colletti prima maniera a Geymonat), ma l’unica opposizione teorico-pratica fu di fatto storicamente soltanto la scuola della composizione di classe.4

L’aspetto internazionale deve essere visto invece nel fatto che la scuola della «composizione di classe» seppe in un certo modo opporsi simultaneamente agli impianti teorici in apparente opposizione ma in realtà in segreta solidarietà antitetico-polare del «marxismo orientale» e del «marxismo occidentale», queste due grandi narrazioni «marxiste» rispettivamente della crescita delle forze produttive e dell’autocoscienza rivoluzionaria del soggetto-oggetto della storia idealtipicamente concepito, il proletariato astratlo in-sé-e-per-sé. Entrambe queste «grandi narrazioni» saltavano con palese fastidio le corpose specificità materiali dei comportamenti e delle culture delle concrete «composizioni di classe», la prima perché interessata esclusivamente alla manipolazione dei concreti comportamenti operai dentro la compatibilità del meccanismo politico del «socialismo reale», la seconda perché interessata alla concettualizzazione di forme pure e astrattamente perfette di comportamento rivoluzionario «veramente» comunista. La teoria della composizione di classe si sporcava invece le mani con la forza-lavoro come capitale variabile e nello stesso tempo come limite logico-storico del capitale, incurante della Grande Narrazione della Classe Operaia come principale forza produttiva (marxismo orientale) o come soggetto-oggetto unico della storia che raggiunge l’autocoscienza finale di essere tale (marxismo occidentale).

Consapevole della propria novità teorica, e inebriata dei suoi successi, la teoria della composizione di classe fece molto precocemente lo sciagurato «passetto in avanti» che l’avrebbe patologicamente trasformata in una forma di gentilianesimo operaio (1’«operaismo», appunto), per il quale lo stesso rapporto di produzione capitalistico è posto (e dunque, a rigore, è revocabile, come in ogni idealismo che si rispetti) dalla attività «classista» della composizione di classe stessa, che si tratta volta per volta di definire nella sue forme fenomeniche (dalla «autonomia del politico» alla pratica autovalorizzante del desiderio). L’acclimatarsi rigoglioso di questo «gentilianesimo operaio» è certo facilmente spiegabile in termini di continuità storica del ceto intellettuale italiano, analogamente alla continuità storica delle strutture statuali dal fascismo alla democrazia cristiana. Ma non è questo l’essenziale, e anzi una analisi in termini di mera sociologia degli intellettuali potrebbe portarci fuori strada. La questione di fondo risiede nel fatto che in effetti la teoria della composizione di classe, così come è stata di fatto finora praticata, si trova strutturalmente in bilico fra due crepacci teorici e pratici. Da un lato, non può e non deve regredire, in modo esplicito o silenzioso agli impianti concettuali dello storicismo italiota, del materialismo dialettico orientale o del marxismo filosofico occidentale, pena la perdita secca e immediata di tutte le conquiste teoriche faticosamente realizzate. Dall’altro lato, la continua immanente tentazione strutturale di trasformare l’attività generica della composizione di classe in un demiurgo onnipotente del rapporto sociale di capitale la porta facilmente a confluire (come ramo e affluente apparentemente «di sinistra» e «operaio») in quel grande mare di pensiero soggettivistico e irrazionalistico che ha mutuato oggi dalla storia dell’architettura il nome di «pensiero post-moderno», in cui, consegnato il lavoro sociale e la riproduzione materiale alle macchine, i soggetti si aggirano fra simulazioni simboliche mimando un comunismo psichedelico fra le macchinette elettroniche. Molti indizi permettono di affermare che a questo si è già da tempo arrivati.5 La filosofia accademica italiana usa già il concetto di «composizione di classe» come legittimazione pseudo-materiale e referente/destinatario della propria lettura soggettivistico-irrazionalistica dei rapporti sociali.6 Il massimo esponente dell’operaismo legittima con la propria personale interpretazione della composizione di classe la sparizione completa del nesso che lega dialettica, lavoro sociale e memoria storica, fondando il «comunismo» proprio sulla radicale assenza di memoria storica, vista quest’ultima (in modo pseudonicciano) come nemica dell’erompere del desiderio liberatore.7 Infine la scuola della «autonomia del politico» (uno dei fenomeni più ipocriti e reazionari della storia – peraltro non brillante – della cultura politica italiana) ha già da tempo abbandonato ogni riflessione materialistica sulla teoria della composizione di classe per i giochi di simulazione politologici conditi con una sorta di misticismo filosofico a metà fra esistenzialismo e neo-positivismo.8

In tutti e tre i casi segnalati (ma se ne potrebbero fare altri) c’è un denominatore filosofico comune: il rifiuto radicale di una considerazione ontologica della specificità dell’essere sociale, il sorriso di scherno verso ogni tentativo di riconsiderazione materialistica della teoria del valore, e soprattutto la volatizzazione del ruolo cardine del lavoro sociale nella riproduzione dei rapporti sociali. Si fa uso letteralmente di tutto quello che offre il mercato filosofico internazionale, in un bricolage frenetico che offre l’apparenza di una grande varietà e anticonformismo di superficie, combinando insieme Baudrillard e Heidegger, Luhmann e Lyotard, Wittgenstein e Foucault. Non bisogna però farsi trarre in inganno dall’effetto di diversità da supermercato. Questi materiali tecnici apparentemente eterogenei si combinano in realtà in un «sistema teorico» ferreo e chiuso assai più di quello hegeliano. Questo sistema teorico ruota intorno all’idea-forza della sparizione della centralità del lavoro sociale alienato come chiave ermeneutica fondamentale per la comprensione dei rapporti di classe.9 La risoggettivizzazione esistenzialistica che ovviamente ne consegue deve però adattarsi all’epoca della «tecnica» in cui viviamo, con conseguente adozione di tutta la concettualizzazione neo-positivistica del lavoro capitalistico diviso, dalle scienze della natura alle scienze sociali.10 L’effetto finale è una «virile» e «disincantata» ermeneutica della manipolazione, che può essere maxweberianameme accettata come «gabbia d’acciaio» o heideggerianamente messa in discussione come «destino della metafisica occidentale» (ed è ovvio che questo seconda versione è molto più simpatica della prima), ma che è comunque interpretata come «falsificazione definitiva» del materialismo storico e della critica dell’economia politica. Coloro stessi che mantengono l’aspirazione al «comunismo» come valore lo fanno ormai in modo del tutto staccato dalle legalità ontologiche strutturali che il mondo dell’essere sociale presenta.11 In questa situazione l’Ontologia di Lukács si pone a un tempo come radicalmente «inattuale» (di fronte alle tendenze filosofiche che appaiono maggioritarie oggi) e sorprendentemente «attuale» nell’indicare gli elementi teorici generali per un superamento in avanti dell’impasse concettuale in cui ci troviamo, e in cui si trova ovviamente anche ciò che resta di razionale e di progressivo nella teoria della composizione di classe.12

2. Il termine Ontologia dell’Essere Sociale non è affatto «vecchio» e obsoleto come potrebbe sembrare al lettore distratto. Tutt’altro. In primo luogo, il termine «ontologia» deve essere inteso nel contesto di un indirizzo polemico verso la «tendenza gnoseologica» della filosofia borghese contemporanea (Lukács parla anche talvolta di ontologia come di intentio recto e di gnoseologia come di intentio obliqua, in un’accezione che peraltro non ha nulla a che fare con la «teoria del rispecchiamento» ingenua del Diamat sovietico, ma che incorpora nella nozione di intentio recto la distinzione dialettica fra essenza e fenomeno). In un primo tempo questa tendenza gnoseologica era legata al compromesso fra borghesia e religione (il «compromesso bellarminiamo») in cui il pensiero borghese legato allo sviluppo della scienza e della tecnica riceveva il semaforo verde per il suo libero procedere nella incorporazione capitalistica del sapere scientifico mentre in cambio accettava di non dare una interpretazione materialistica generale alla totalità dinamica del sapere scientifico in continua crescita. In un secondo tempo, caduta ogni pretesa di residua «verità ontologica» dei dogmi religiosi, e ridotto il bisogno religioso a categoria esistenzialistico-psicologistica atta a «dare un senso» all’universo sociale capitalistico che in quanto tale non ne ha nessuno, la tendenza gnoseologica diventa apertamente sofistica accademica estenuata, da un lato, e teoria generale dell’uso manipolatore delle scienze sociali come «ingegneria capitalistica», dall’altro.13 In secondo luogo, il termine «ontologia dell’essere sociale» deve essere inteso nel contesto di una polemica esplicita con il «marxismo orientate», l’ideologia statale di legittimazione dei paesi a «socialismo reale» che, in qualità di «marxismo monopolistico di stato», sancisce pseudoscientificamente l’inesorabilità storica del «meccanismo unico» di politica, economia e ideologia che sincronizza insieme stato, partito e sindacato come caso particolare dell’applicazione alla società umana delle leggi generali «dialettiche» della natura e della storia. Il «marxismo orientale», questa grande narrazione feticistica delle forze produttive, è costantemente e dettagliatamente individuato nell’opera di Lukács come scolastica della manipolazione, naturalizzazione unidimensionale della storia umano-sociale e ideologia del potere.

È proprio in quanto il dispotismo burocratico del «socialismo reale» violenta sistematicamente e strutturalmente il carattere specificatamente «ontologico» dell’agire sociale umano in ciò che appunto lo differenzia dai complessi inorganici e organici del mondo naturale che lo stesso termine di «ontologia dell’essere sociale» è automaticamente in opposizione frontale con il marxismo sovietico.14 In terzo luogo, il termine «ontologia dell’essere sociale» deve essere inteso nel contesto di una polemica esplicita contro ogni tentativo (spesso perseguito in modo soggettivamente onesto e ricco di intelligenza) di opporsi al «marxismo orientale» in nome di un «marxismo occidentale» il quale, riprendendo posizioni del giovane Lukács o di Karl Korsch, lavora sull’ipotesi di una concezione idealistica di proletariato come coincidenza di soggetto e di oggetto caratterizzante proprio l’essere sociale capitalistico rispetto ai modi di produzione precapitalistici. Il «marxismo occidentale», questa grande narrazione idealistico-esistenzialistica del soggetto rivoluzionario, è costantemente e dettagliatamente individuato nell’opera di Lukács come risposta ontologica a una falsa ontologia (il Diamat), cioè come risposta soggettivistica impotente alla manipolazione pseudooggettivistica dell’universo sociale (si pensi all’opposizione di Sartre al marxismo sovietico, s’intende non dal punto di vista della sua legittimità politica – sacrosanta – quanto dal punto di vista della sua capacità teoretica di superare realmente lo stalinismo).15 In quarto luogo, il termine «ontologia dell’essere sociale» deve essere inteso programmaticamente come riaffermazione dell’unità inscindibile fra materialismo dialettico e materialismo storico, non certo nel senso della individuazione delle «leggi sociali» come caso particolare, applicato al sociale, delle «leggi dialettiche» del mondo naturale (si è già visto come questa non sia altro che l’ideologia della legittimazione dell’odierno «socialismo reale»), quanto nel senso della inseparabilità di principio fra ideologia e scienza, fra filosofia e conoscenza scientifica, fra forma e contenuto.16

Come si vede, si sono qui elencate almeno quattro buone ragioni per motivare la scottante attualità di questo «titolo», apparentemente così obsoleto e «fuori moda». E tuttavia, siamo rimasti ancora a monte del discorso di fondo da fare che ci permetterà di cogliere il nucleo teorico della proposta ontologica di Lukács, fondata sull’isolamento metodologico della categoria di lavoro come posizione teleologica, da un lato, e come modello di prassi sociale, dall’altro lato. La scelta metodologica «strategica» della categoria ontologica del lavoro non ha ovviamente nulla a che vedere né con l’apologetica lavoristica delle mani callose, del sudore della fronte e del lavoro «produttivo» (Lukács non è Kim II Sung, e neppure Lin Piao – qui non c’è nessun Yu Kong che rimosse le montagne né tantomeno Robinson Crusoé che costruisce il «capitalismo in una sola isola») né con una teoria generale del lavoro «creatore» (già individuata come teoria borghese nel Marx della Critica al Programma di Gotha). Tutto al contrario. Il lavoro è la «categoria ontologica centrale», la Urform della prassi umana, perché è in virtù delle sue caratteristiche e in particolare del suo carattere teleologico che l’Essere Sociale si costituisce nella sua originalità, nella sua differenza qualitativa rispetto alla sfera della natura organica e inorganica. L’attività lavorativa consiste nella «posizione di uno scopo all’interno dell’essere materiale» e la sua realizzazione come risultato adeguato, ideato, voluto, rappresenta la formazione di una nuova oggettività. Mentre tutta la filosofia tradizionale, da Aristotele a Hegel, mette aporeticamente in antitesi teleologia e causalità, nel lavoro – sostiene Lukács – la teleologia appare come categoria specifica della prassi sociale, ma all’interno del mondo causalmente determinato. Si tratta di una «concreta, reale, necessaria coesistenza» di causalità e teleologia, nell’ambito della quale la causalità si trasforma, per opera della teleologia in «qualcosa di posto», ne assume cioè il carattere fondamentale che consiste nel richiedere un «autore consapevole», una «coscienza che ponga degli scopi». L’atto del «porre» ha dunque, nella visione lucacciana, un «carattere ontologico insuperabile» in virtù del quale la coscienza umana cessa di essere un epifenomeno e dà impulso alla trasformazione e innovazione della natura.17

A questo punto, siamo già in grado di fare due osservazioni. In primo luogo, la delucidazione ontologica del rapporto fra causalità e teleologia condotta da Lukács permette di prendere posizione nei confronti della posizione teorica che ha in Lucio Colletti il principale sostenitore, posizione che liquida integralmente come «metafisico» tutto il complesso teorico marxiano, viziato secondo Colletti di «dialettismo teleologico» e opposto alla «causalità scientifica» delle scienze della natura. Nelle parti della sua opera dedicate a Hegel, Lukács chiarisce invece come sia proprio nella polemica contro l’assorbimento metafisico della causalità nella teleologia (e inversamente nell’assorbimento della teleologia nella causalità) che il concetto marxiano di lavoro si demarca nettamente da quello hegeliano, con il quale rompe proprio su questo punto.18 È noto che l’automatismo teleologico che mette la dialettica al di sopra e fuori dei complessi di posizioni teleologiche dei singoli e dei gruppi umani concretamente definiti dentro le possibilità storiche determinate dai rapporti sociali di produzione (e ovviamente dalla loro rivoluzionarizzazione cosciente) finisce con l’avallare o una vera e propria «teoria del crollo» o quanto meno una ancora più ambigua e teoricamente pericolosa «idea generica di crollo». Le posizioni teoriche di Colletti (e si vedano, a un maggior livello di serietà, le posizioni di Bedeschi, e, a un livello più folkloristico e da rotocalco, quelle di Pellicani e Settembrini) sono rivolte a liquidare la nozione classico-marxiana del rapporto fra causalità e teleologia insieme con la posizione volgar-marxista. Tutto il lavoro di Lukács è una risposta preventiva e esauriente a questo episodio italiano di quel grande fenomeno filosofico «imperialistico» che è stato nel secondo dopoguerra il pensiero di Sir Karl Popper, il cui rapporto con il Diamat è simile a quello dei duellanti nei pupi siciliani: combattono con grandi urli e sfide, ma hanno bisogno l’uno dell’altro.19

In secondo luogo, e ciò è ancora più importante, la delucidazione metodologica lucacciana del rapporto fra causalità e teleologia finisce inevitabilmente con l’incontrare l’analoga problematica che nel linguaggio di Heiddeger si chiama rapporto fra destino storico del mondo occidentale e progettualità soggettiva dentro questa destinalità. Sempre più appare infatti chiaro che il punto di tangenza fra Heidegger e il marxismo non sta (come si è a lungo creduto) nella opposizione piccolo-borghese del vivere-per-la-morte all’ottimismo proletario del vivere-per-la-rivoluzione, quanto piuttosto nella spietata (e corretta) diagnosi negativa heideggeriana del marxismo come culmine soggettivistico della metafisica occidentale in cui l’umanesimo prometeico del lavoro è soltanto posto a livello della totalità, ma non messo in questione.20

E tuttavia, quale differenza fra Lukács e Heidegger! Il passeggiatore solitario della Foresta Nera coglie certo in modo profondo e acuto la struttura teorica portante della metafisica occidentale (parola che è anche una metafora per indicare il destino del mondo borghese capitalistico diventato da «occidentale» una società «mondiale») e la coglie in modo molto più profondo, a esempio, dei «francofortesi». Tuttavia in lui permane irrisolto il rapporto fra differenza ontologica e struttura dialettica dei comportamenti umani e delle posizioni teleologiche, con finale svalutazione dell’agire politico e invito all’ascolto dell’Essere.21 In Lukács invece una analoga posizione di svalutazione dell’umanesimo prometeico del lavoro (nel suo linguaggio: soggettivismo settario e manipolazione staliniana) mantiene però aperta la possibilità di esiti alternativi e non manipolatori delle posizioni teleologiche legate al lavoro stesso. Ci sta qui indubbiamente una nozione più corretta di dialettica.

Le due osservazioni fatte sopra ci permettono dunque di capire che il progetto teorico dell’Ontologia non ha nulla a che vedere, da un lato, con l’automatismo dialettico-teleologico imputato pretestuosamente da Colletti a tutto il pensiero marxiano e che è in grado di opporsi seriamente, dall’altro, agli esiti antidialettici che coronano la spietata (e, ripetiamo, fondamentalmente giusta) diagnosi di Heidegger sull’umanesimo/economicismo come coronamento finale, segretamente e paradossalmente nicciano, della metafisica occidentale. Tutto questo non è poco. Tornando alla «teoria della composizione di classe» vediamo infatti che essa, avendo sempre disprezzato la filosofia e facendosene un vanto, è scivolata (così come i famosi «scienziati praticoni» contro i quali polemizzava il vecchio Engels) verso le peggiori filosofie che il mercato delle idee offriva: gentilianesimo attivistico e demiurgico, niccianesimo straccione della «rude razza pagana», teoria dei rizomi e delle macchine desideranti, autovalorizzazioni proletarie e mitizzazione politologica del comando.

Tutto questo era in una certa misura inevitabile. La teoria della composizione di classe doveva rompere, per costituirsi autonomamente come tale, con quelle forme di pseudo-teologismo pretestuoso e ideologico per il quale la «classe operaia» era una sorta di ideal-tipo progettuale che doveva sempre «farsi carico delle superiori esigenze della comunità nazionale», in vista, ovviamente, di una sorta di modello di capitalismo keynesiano e/o di socialismo reale. Se questo era il «fine», era inevitabile concludere con lo slogan: abbasso il regno dei fini! Ed è interessante che la polemica contro il regno dei fini di neokantiana e socialdemocratica memoria coincidesse con un «vogliamo tutto!» che dovrà un giorno essere analizzato come paradigma delle grandezze e delle miserie del Sessantotto.

Il carattere ontologico del concetto lucacciano di posizione teleologica non ha ovviamente nulla a che vedere con il socialismo neo-kantiano del «regno dei fini» da approssimare con la popperiana «ingegneria sociale e spizzico». È infondato dunque il timore di chi può pensare che si voglia ritornare a una concezione finalistica e ideal-tipica della classe operaia che abolisca quella materialistica e strutturale della teoria della composizione di classe. Lo impedirebbe lo stesso approccio ontologico lucacciano.22

La scuola della composizione di classe dovrà invece prima o poi fare chiarezza al suo interno sul suo atteggiamento verso la teoria marxiana del valore. È noto che la composizione staliniana della presunta «legge del valore-lavoro» ha fatto cadere in discredito l’intera concettualizzazione marxiana del valore, debolmente difesa da chi pensava di cavarsela riducendo il «valore» a semplice metafora della «alienazione» o del «mondo-a-testa-in-giù» del Colletti prima della abiura. Nella Ontologia la teoria del valore è ampiamente trattata in termini non dissimili da quelli che caratterizzano in Italia scuole marxiste come quella di Gianfranco La Grassa. Conformemente al carattere filosofico dell’opera non si è di fronte a un approccio tecnico ai primi problemi economici della teoria del valore, quanto invece a una trattazione ontologica generale che connette l’«astrazione reale» del valore con la specificità del modo di produzione capitalistico (e su questo Lukács è sufficiente chiaro).23

Tutti sanno che la tendenza teorica immanente alla teoria della composizione di classe conduce (almeno nella forma che fino a ora conosciamo) all’abbandono, implicito o esplicito, della teoria del valore. Nessun anatema, nessuna scomunica, nessun peccato mortale: tutto deve essere discusso, tutto deve essere preso in considerazione. Tuttavia sarebbe assurdo chiudere gli occhi di fronte agli esiti di questo abbandono: soggettivizzazione integrale di tutta la sfera dell’agire sociale, opposizione polare dell’insorgere ribellistico della classe contro il comando dispotico del capitale più o meno «socialista», esercizi politologici in bilico fra lo «scambio politico» e le nostalgie cromwelliane di una volontà stracciona di potenza. Vi è qui un campo di riflessione per tutti i sostenitori della teoria della composizione di classe.24

3. L’unità armonicamente flessibile del nucleo teorico di base dell’Ontologia offre uno stridente contrasto con la disarticolazione del pensiero marxista italiano dell’ultimo ventennio. Quest’ultimo è stato caratterizzato, in economia, dalla ricezione neo-ricardiana della cosiddetta «scuola di Modena» e dalla estenuante e sterile scolastica sraffiana; in politica, dalle velleitarie manipolazioni politologiche delle varianti della scuola della autonomia del politico; in filosofia, dal bricolage soggettivistico dei temi più disparati mutuati da praticamente tutte le scuole filosofiche del Novecento. Non si tratta qui soltanto dell’opportunismo degli intellettuali italiani «mercuriali e frettolosi» (la stupenda definizione è di Sergio Bologna), necessitati per ragioni accademiche a versare il loro «sapere marxista» nelle compartimentazioni universitarie legalmente riconosciute. Questo fatto certo esiste, e rende impossibile lo scrivere la storia del marxismo italiano degli ultimi tempi, in cui non c’è più il carcerato Gramsci, l’ingegner Bordiga, eccetera, ma solo le scadenze dei concorsi universitari. Tuttavia non è certo questo l’elemento essenziale. La disarticolazione accademica del marxismo italiano è invece da ricondurre (a parere dello scrivente) alla debolezza strategica anticapitalistica del referente sociale fondamentale, la composizione di classe caratterizzata dalla dominanza dell’operaio-massa e dalla nuova piccola borghesia «effimera»; questa composizione di classe si è rivelata capace di dare poderose spallate e di sapere mettere la sabbia negli ingranaggi della riproduzione, ma non di conseguire vittorie strategiche sul piano politico.25

Giusto o sbagliato che sia questo giudizio (che certo molti lettori rifiuteranno con indignazione e fastidio), resta in tutta la sua interezza il contrasto fra l’unità teorica dell’Ontologia e la disarticolazione del mercato italiano delle idee. Si presti molta attenzione al fatto che l’opera dì Lukács si intitola Ontologia dell’Essere Sociale, e non ardisce esplicitamente intitolarsi Ontologia del Capitalismo Contemporaneo oppure Ontologia del Socialismo Reale. Lukács infatti da un lato è consapevole dello stato di assoluta inadeguatezza dell’attuale teoria marxista nei confronti di una analisi scientifica sia del capitalismo occidentale sia del socialismo reale, e ritiene correttamente dall’altro che un lavoro filosofico-ontologico si esercita su un materiale che sta a monte di una analisi concreta e specifica, che è cosa ben diversa. E tuttavia l’«essere sociale» è una evidente metafora sia del capitalismo sia del socialismo reale, che vengono correttamente posti insieme in quella che nel linguaggio più formalizzato di Ernst Bloch si chiamerebbe «unità avvolgente dell’epoca» e nel linguaggio più formalizzato di Charles Bettelheim si chiamerebbe «comune dominanza del modo di produzione capitalistico».26

È questo un punto di importanza strategica. La separazione di principio fra capitalismo occidentale post-keynesiano, da un lato, e socialismo reale post-staliniano, dall’altro, si manifesta oggi in molte forme. E tuttavia soltanto la piena consapevolezza della loro reale unità ontologica, proprio partendo apparentemente «alla lontana» (dal lavoro e dalla riproduzione, dalla ideologia e dalla estraneazione), può permettere di porre le condizioni preliminari per uscire dalla presente impasse teorica. Da questo punto di vista poco conta che nelle sue dichiarazioni giornalistiche Lukács (a differenza di Ernst Bloch) abbia ripetutamente sostenuto che il «peggior socialismo è migliore del migliore capitalismo», avallando così la separazione di principio fra il mondo sociale dei paesi dell’Ovest e dei paesi dell’Est. Conta invece molto di più il fatto che nella sua opera filosofica fondamentale (da questa – e non dalle dichiarazioni giornalistiche – occorre giudicare un filosofo) Lukács non porta affatto acqua al mulino della tesi di una separazione ontologica di principio fra l’agire sociale e le posizioni teleologiche possibili a Est e a Ovest, quanto invece al contrario sostiene organicamente la tesi dell’unità estraniata dell’universo sociale attuale, ad Est come ad Ovest.27

Vi è qui un punto di grande importanza per la teoria della composizione di classe. Anch’essa infatti oppone un rifiuto di principio alla trattazione differenziata dell’azione della classe operaia nei paesi in cui ufficialmente la classe operaia stessa è «al potere» e nei paesi in cui essa è invece ancora ufficialmente «forza-lavoro». Anzi, punto forte della teoria della composizione di classe è l’unità metodologica nella trattazione delle lotte in URSS e negli USA, in Italia e in Polonia, in Francia e in Ungheria. Come si vede, vi è qui un punto di tangenza con la problematica teorica lucacciana di grande importanza teorica e pratica.

Qui si vorrebbe mettere provvisoriamente il punto finale. Inutile infatti è recriminare ancora sugli esiti irrazionalistici e soggettivistici di un Tronti o di un Negri, di un Vattimo o di un Cacciari. Basta. Quello che c’era da dire, sul versante critico-negativo, è già stato grosso modo detto. Ora bisogna andare avanti, passare all’elaborazione in positivo e alla produzione di nuove conoscenze. Queste ultime non verranno presto, e certamente non verranno «a comando» e «su commissione». Non spetta neppure a un’opera di filosofia il farlo, in quanto essa riflette soltanto sulle condizioni metodologiche che rendono possibile l’avanzamento reale della conoscenza. Il ringraziamento che dobbiamo a Lukács è il ringraziamento a chi, in un momento oscuro, ci esorta a «non disperare» sui destini storici delle nostre convinzioni non solo con un generico appello alla «speranza» (si pensi all’ultimo Sartre) ma anche e soprattutto con la razionalità convincente di una analisi dialettica della ontologia dell’essere sociale.28

1 Significative e sintomatiche sono infatti alcune delle prime ricezioni. Una osservatrice generalmente attenta come Laura Boella, («Il Manifesto» 24 luglio 1981) definisce «ingenua» la rinascita teorica marxista propugnata da Lukács, derubricata (e così liquidata) a «grande e tragico documento degli anni ’60». Il progetto teorico lucacciano dell’Ontologia viene così privato del largo respiro che possiede e fatto diventare un episodio rispettabile ma caduco delle grandi speranze destinate a cadere con la caduta della primavera di Praga, laddove al contrario l’opera è assolutamente indipendente dalla fiducia nella riformabilità interna o meno dei sistemi di socialismo reale, mirando a un obiettivo teorico ben più alto, quello della rifondazione ontologica della filosofia marxista. Ancora più sintomatico è il fatto che gli stessi Editori Riuniti (cfr. notiziario libri ER, supplemento all’Unità del 28 giugno 1981) facciano segnalare il libro da un corsivo di Agnes Heller (nota oppositrice dell’insieme del progetto teorico lucacciano), nel quale, fra vari riferimenti alle qualità morali e al dramma storico delle vite intellettuali di Lukács e di Sartre, si prendono le distanze nel modo più netto dall’intenzione teorica che regge il testamento teorico di Lukács. In completo e cosciente disaccordo con queste valutazioni lo scrivente ritiene invece che l’Ontologia, sia invece l’opera teorica più riuscita di Lukács (anche se non certo la più brillante, che è forse Storia e Coscienza di Classe, né la più rigorosa, che è forse l’Estetica).

2 A più riprese Lukács ha esplicitamente fatto riferimento a Togliatti come a un tattico geniale e a un tempo come a un pensatore mediocre o addirittura inesistente. Nel contesto del discorso lucacciano il «tattico» e portatore di una visione potenzialmente manipolatrice della realtà sociale pericolosa per ogni rifondazione reale di una prassi socialista ontologicamente seria.

3 Si vedano i lavori dello storicista Giorgio Amendola sulla classe operaia italiana. L’attenzione ai dati numerici e occupazionali che vi si può trovare non ha nulla a che vedere con il rapporto fra composizione tecnica e politica della classe e la natura volta a volta specifica della lotta anticapilalistica e della stessa definizione differenziata di dominio capitalistico.

4 I1 generico termine di «scuola della composizione di classe» deve essere inteso come termine di demarcazione teorica e pratica da tutte le varianti esclusivamente culturali dell’opposizione alto storicismo.

5 Alcuni noti esponenti dell’«operaismo» (si vedano recenti dichiarazioni di Massimo Cacciari) affermano a gran voce di non voler aderire affatto alla «ideologia post-moderna di cui anzi colgono bene il carattere apertamente anti-operaio e filo-capitalista. Ma queste dichiarazioni appaiono un po’ tardive e imbarazzate: senza la seminagione ventennale di soggettivismo operaistico non avremmo avuto l’attuale congiuntura teorica italiana dominala dal post-moderno.

6 Si vedano in generale gli interventi di Pier Aldo Rovatti su «Aut Aut». In modo ancora più evidente questo appare in Gianni Vattimo (cfr. «Alfabeta», 29 settembre 1981): la sua ricostruzione della storia della filosofia italiana dopo il 1945 utilizza lo stesso concetto di «composizione di classe» come riferimento sociologico «materiale» al presunto venir meno di ogni filosofia fondata sul lavoro e sulla dialettica in favore di una filosofia del simulacro e della differenza. Sarebbe proprio l’attuale «composizione di classe» che caratterizza la società post-moderna che non saprebbe più che farsene della dialettica: conclusione che assomiglia come una goccia d’acqua a quella di Toni Negri.

7 Si veda l’ultimo scritto, assolutamente rivelatore, di Antonio Negri (cfr. Elogio dell’assenza di memoria, in «Metropoli», 5 giugno 1981). Negri lega insieme (del tulto correttamente) lavoro, dialettica e memoria storica, come termini correlati di un unico complesso teorico inscindibile. Ma poiché la sua concezione «autovalorizzante» del comunismo inteso come pienezza del consumo sociale tardo-capitalistico fruito e desiderato dall’«operaio sociale» perverso-polimorfo volta decisamente le spalle a una visione ontologico-dialettica del lavoro, e poiché il lavoro stesso è dialettica e viceversa, Negri in modo del tutto conseguente tira la conclusione che solo la più radicale assenza anche solo di «curiosità» per la memoria storica può permettere all’operaio sociale di non ricadere nell’obbrobrio laburistico-socialista della dialettica. Si tratta di un classico tema nicciano: la storia è nemica della vita e della sua pienezza, l’infrazione differenziale è l’unico rimedio contro la legittimazione dialettica della società repressiva. In Negri il tema nicciano è «genialmente» applicato alla «differenza» dalla tradizione del movimento operaio, la quale è effettivamente, aggiungiamo noi, utilizzata prevalentemente nella congiuntura attuale in modo reazionario. Tuttavia non è questo il modo corretto di lottare contro questo uso reazionario della tradizione del movimento operaio. La memoria storica è infatti inscindibilmente composta di due elementi contraddittori: da un lato vi è realmente una feticizzazione reazionaria di elementi culturali e politici legati alla precedente composizione tecnico-politica di classe, dall’altro lato vi è però anche una sedimentazione di cultura anticapitalistica ricca di esperienze vissute, passibile di diventare il lievito politico di una ricomposizione anticapitalistica. Ma per capire questo occorre essere – appunto – dialettici.

8 Gli esponenti di quest’ultima praticano anch’essi, per motivi assolutamente opposti a quelli di Negri, la totale «abolizione» della memoria Storica. Alberto Asor Rosa ci fa sapere («La Repubblica», 4 settembre 1981) di essere stato un «comunista che ha dissentito fin dal primo momento con la strategia del compromesso storico» (sic!). Sembra di sognare. Anche i bambini sanno infatti che nell’infausto triennio 1976-1979 l’unico esponente noto del PCI che si pronunciò apertamente e non in modo mafiosamente cifrato contro il compromesso storico applicato nell’unica forma concretamente possibile (e non fumosamente fantapolitica) fu il vecchio Terracini. Ma ora queste immorali canagliette vantano primogeniture per gli anni ’80. E si veda anche Mario Tronti («Laboratorio Politico», 3); il politologo afferma ora in modo ieratico che sarebbe sbagliato voler perseguire una sorta di nuovo New Deal. Nuovamente sembra di sognare.
Costui ha affermato proprio questo per dieci anni, ma ora, senza sottoporre la precedente opinione a un esame autocritico, dice disinvoltamente l’esatto opposto. Laddove l’elemento canagliesco non sta ceno nell’essersi sbagliali (figuriamoci!), quanto nel fare i furbi all’italiota sui propri errori. Un’ultima osservazione. Poiché questi signori, bene o male, fanno il «clima culturale» della sinistra italiana, non esiste alcuna seria possibilità che un lavoro ontologico come quello di Lukács, tutto rivolto contro la manipolazione tattica della realtà sociale per fini di potere politico, abbia la minima risonanza fra gli intellettuali italiani.

9 Questo si esprime popolarmente nello slogan seconda il quale quella che deve esser perseguita oggi non è l’idea «moderna» di liberazione del lavoro, ma l’idea «post-moderna» di liberazione da lavoro (cfr. Renato Nicolini in «Il Contemporaneo», «Rinascita», n. 22, 1981).

10 Significativo è l’uso di Heidegger nella recente filosofia politica di «sinistra». Esso potrebbe sortire risultali altamente positivi, dal momento che la nozione filosofica chiave di solidarietà antitetico-polare del nesso economicismo/umanesimo non è stata affatto scoperta da Althusser nella famosa Risposta a John Lewis, ma era già stata ampiamente tematizzata nella heideggeriana Lettera sull’Umanesimo: nozione chiave da cui partire per un reale superamento del marxismo della III Internazionale. Al contrario Heidegger viene usato non per gli spunti ontologici che pure contiene, ma proprio come vate di una accettazione destinale della «post-modernità» come rivelazione finale della metafisica occidentale (vedine le letture di Vattimo e di Cacciari).

11 Esemplare la scuola di Budapest, e in particolare Agnes Heller. Ancora una volta ribadiamo che si tratta a nostro parere di una prospettiva filosofica non più avanzata, ma più arretrata della prospettiva ontologica tardo-lucaciana. Quest’ultima infatti cerca di connettere i «bisogni» con una teoria materialistica della riproduzione sociale in condizioni contraddittorie di «estraneazione», mentre la prima regredisce di fatto ad una posizione smithiana (e dunque pre-marxiana, non post-marxiana) del rapporto fra bisogni ed essere sociale.

12 Conformemente alla natura di questa segnalazione (che non è una «recensione» ma un invito al lettore di «Primo Maggio» a misurarsi da solo con lo studio diretto di quest’opera fondamentale) lo scrivente, per guadagnare spazio, non ritiene di dover fare un riassunto dell’opera. Ci si consentano solo alcune sommarie indicazioni. L’opera è divisa in una parte di introduzione storica e di polemica teorica generale (volume 1) e in una parte sistematica che discute ontologicamente le categorie che Lukács propone (volume II in due tomi). La prima parte è divisa a sua volta in quattro parti: la prima tematizza il nesso fra neopositivismo e esistenzialismo come posizione antiontologica fondamentale caratterizzante il pensiero moderno della manipolazione, «borghese» e «socialista»; la seconda discute i tentativi fatti all’interno della filosofia borghese stessa (in particolare da Hartmann) per contrastare questa tendenza, tentativi falliti per lo scarso radicamento dialettico-materialistico di questa ontologia; la terza discute la «falsa e vera ontologia di Hegel», e consiste in un mirabile saggio sul rapporto fra Hegel e Маrx e i loro rispettivi progetti teorici; la quarta analizza i principi ontologici fondamentali di Marx, e consiste in una dettagliata analisi la quale, a mio parere, dimostra come il progetto teorico originale marxiano fosse strutturalmente differente sia dal «marxismo orientale» sia dal «marxismo occidentale». La seconda parte è divisa a sua volta in quattro parti: la prima analizza la categoria del lavoro come posizione teleologica che fa nascere una «nuova oggettività», le cui leggi di movimento fanno nascere catene causali di natura qualitativamente diversa dalle catene causali tipiche delle scienze della natura: la seconda analizza la riproduzione sociale, momento ontologico in cui l’«astrazione» del lavoro, dispiegatasi socialmente come «concreta» divisione del lavoro, dà luogo a un «complesso di complessi» che rappresenta la realtà poliedrica della società in cui concretamente viviamo; la terza, analizzando il «momento ideale» e l’ideologia, rappresenta una mirabile confutazione di tutte le posizioni scientistiche e meccanicistiche del rapporto fra struttura e sovrastruttura; la quarta infine tratta della «estraneazione», categoria che comprende tutti i concreti aspetti ontologici della situazione sociale nel capitalismo e, ciò che più conta, la discussione della possibilità ontologica di superamento reale del capitalismo stesso. Anche se la morte di Lukács non ha reso possibile il progetto di continuazione all’Ontologia in un’Etica, si può tranquillamente affermare che l’opera non è mancata o incompleta, perché la «fondazione ontologica dell’etica» raggiunge già un buon grado di compiutezza.

13 Nella filosofiat torinese della scuola di Abbagnano, non a caso fiorita all’ombra del vallettismo negli anni cinquanta (ma non si vuole qui certo stabilire un nesso causale о organico, ma solo segnalare una contiguità) la coesistenza fra raffinatezze gnoseologiche neokantiane, esistenzialismo attivistico laicizzato e apertura manipolatoria alle scienze sociali capitalistiche può addirittura essere toccata con mano. Non a caso la scuola fenomenologica milanese di Enzo Paci, che manteneva almeno una intenzione teorica anticapitalistica, ruppe con il «razionalismo» torinese del quale comprendeva bene – sotto l’арраrente asettica «deduzione» delle categorie kantiane – il carattere di apologetica capitalistica.

14 A ciascuno la prova. Si prenda, con modica spesa (i libri sovietici costano poco), un trattato sovietico di filosofia (a esempio il recente A. Sceptulin, La filosofia marxista-leninista, edizioni Progress, Mosca 1977, in lingua italiana). Un atteggiamento snobistico verso questi polpettoni tremendi ha poco senso: piaccia o non piaccia, questa è la filosofia che si diffonderà nei prossimi anni dall’Angola al Vietnam, dall’Etiopia a Cuba e che tenterà una controffensiva nella stessa Europa Orientale, in cui è attualmente del tutto delegittimata. Qualunque lettore attento può rendersi conto da solo che tutto il lavoro di Lukács è costruito, punto per punto, come confutazione convincente e superamento reale di questa scolastica manipolatoria.

15 Nella misura in cui la teoria della «composizione di classe» si evolve patologicamente in feticizzazione soggettivistica e anti-ontologica della «composizione di classe» stessa, che diviene demiurgicamente la leva che solleva l’intero rapporto sociale capitalistico, la teoria della composizione di classe diventa una variante del marxismo occidentale stesso. Di secondaria importanza diventa il fatto che il proletariato venga inteso sartrianamente come gruppo in fusione contro il pratico-inerte, trontianamente come rude razza pagana o negrianameme come devastatore di supermercati.

16 In questo senso la posizione lucacciana è più corretta di quella di Althusser, volta a una separazione troppo rigida tra ideologia e scienza. La posizione di Althusser si giustifica peraltro ampiamente data la congiuntura teorica in cui sorse. Si noti infine che la critica di Althusser alla dialettica idealistica hegeliana finisce per essere molto simile a quella lucacciana. nonostante il diverso linguaggio e l’opposta terminologia.

17 Laura Boella (recensione citala nella nota 1) inizia con il mettere correttamente in rilievo i punti qui indicati, per poi effettuare una virata di 180 gradi. Boella ritiene che il concetto di causalità lucacciano sia «chiuso», renda la storia un semplice progresso in avanti, senza incertezze e possibili rischi di fallimento. Considera ambigua l’opinione lucacciana secondo cui l’uomo può porre solo quegli scopi di cui domina effettivamente i mezzi di realizzazione, senza i quali la «posizione dello scopo rimane soltanto un progetto utopistico, una specie di sogno, più o meno come lo è stato il volo, da Icaro fino a Leonardo e oltre ancora». A questa posizione oppone il concetto (mutuato dal Bloch di Experimentum Mundi) di «causalità discontinua», come categoria caratterizzata da una sorta di «stato di sospensione», elemento di indeterminatezza che non si trasforma subito in effetto ed in questo modo permette al lavoro umano di aprirsi realmente al futuro come reale Siberia (nel linguaggio della Boella, «più in direzione dell’aut-aut kierkegaardiano che della mediazione hegeliana»). Lo scrivente esprime qui un totale dissenso con le opinioni di Laura Boella. Infatti la Boella rifiuta in toto (come la Heller, del resto) il progetto lucacciano, lasciando sintomaticamente cadere la domanda, apparentemente incidentale: «Chi non problematizzerebbe oggi l’assegnazione al lavoro del ruolo di categoria centrale della prassi sociale?». Problematizzare, nel linguaggio educato della Boella, è un modo cortese per negare. A questo punto poco vale opporre alla presunta «ontologia chiusa» di Lukács la «ontologia aperta» di Bloch. Di «ontologia qualsivoglia» non ne rimane in piedi nemmeno l’ombra, ma riemerge soltanto tutta la vecchia problematica del soggettivismo esistenzialistico e della teoria dei bisogni (nella forma educata alla Heller о in quella «maleducata» alla Negri, a piacere). Il lettore non si stupisca di questa polemica con Laura Boella. Non si tratta di beghe fra filosofi. Tutt’altro. È qui invece in gioco una «posta teorica» molto grossa; l’accordo o meno sul carattere ontologico centrale della categoria di lavoro, in mancanza del quale è inutile fare generiche considerazioni di «stima» sull’ultima fatica del vecchio Lukács.

18 È interessante notare che su questo punto nodale della differenza specifica fra dialettica hegeliana e dialettica marxiana Lukács, usando ovviamente un linguaggio del tutto diverso, finisca con il dire cose analoghe a quelle dette da Althusser sulla differenza fra contraddizione semplice (hegeliana) e contraddizione surdeterminata (marxiana). La contraddizione semplice ha infatti una struttura realmente teleologico-metafisica, in quanto si basa sul modello dell’uno che si divide necessariamente in due per ricomporsi necessariamente in uno e così via. La contraddizione surdeterminata non possiede questa struttura teleologico-metafisica, perché il «complesso dei complessi» dei nessi causali necessari stabilisce regolarità ontologiche prive di «fini predeterminati». Naturalmente il fatto che Lukács conservi un linguaggio, un periodare e una terminologia spesso hegelo-marxisia tende a celare questa profonda somiglianza. Ma essa non sfuggirà a chi faccia attenzione all’essenziale.

19 Il rifiuto collettiano della dialettica è abbastanza noto nel dibattito filosofico italiano, anche se la sub-cultura craxiana ed i rotocalchi culturali «progressisti» non si prendono la briga di approfondirne le argomentazioni, dal momento che l’unico argomento di carattere genericamente ontologico che interessa loro in questo anno del signore 1981 e il culo di Lori Del Santo. Sub-cultura сraxiana e rotocalchi radical-chiс capiscono per istinto che il rifiuto collettiano della dialettica è qualcosa di profondamente anti-comunista (non certo solo di anti-PCI, anche se tutto fa brodo), questo va loro bene, e tanto basta. Desta invece meraviglia la quasi totale cecità che c’è «a sinistra» sul fatto che non esiste quasi differenza filosofica fra i rifiuti della dialettica di un Colletti, di un Negri o di un Vattimo, con tutte le opportune distinzioni che pure si potrebbero fare in termini di destinatari sociali, rispettabilità accademica e tiratura editoriale. Si ha forse paura di cadere nel malcostume staliniano della diffamazione per «amalgamazione», paura ampiamente motivata? Ma qui non c’è nessuno sciagurato «fronte rosso» nella filosofia da difendere incarcerando i dissidenti. Anzi. C’è soltanto, con correttezza pluralistica, da rilevare alcune significative convergenze teoriche correlandole con la attuale congiuntura storica.

20 Come è noto, il marxista-umanista Lucien Goldmann aveva a suo tempo proposto un paragone storico fra un Lukács interpretato in chiave «marxista occidentale» (come autore di Storia e coscienza di classe) e un Heidegger interpretato in chiave di «filosofo esistenzialista della crisi» (come autore di Essere e tempo). È chiaro che le osservazioni che qui vengono fatte non hanno nulla in comune con quella (pur rispettabile, ma idealistica) problematica. Qui il confronto è stabilito fra l’ultimo Lukács della Ontologia, da un lato, ed il secondo Heidegger caratterizzato dalla Lettera sull’Umanesimo, dall’altro. Lo scrivente ritiene infatti che la critica compiuta da Heidegger nei confronti della nozione di «lavoro-produzione» così come di fatto è sta caratterizzata e praticata dai marxismi storicamente costituiti non possa essere applicata allo sforzo ontologico di Lukács.

21 In Heidegger, come è noto, non si tratta di «ritornare» alla situazione precedente lo sviluppo destinale della metafisica occidentale fino al suo coronamento nella Tecnica planetaria. Ma non si tratta neppure di «accettare» questo sviluppo apologizzandolo e «ringraziandolo». Heidegger non è infatti né un positivista né un critico romantico e passatista della scienza e della tecnica. Come Rousseau aveva assolutamente bisogno della nozione di «stato di natura» per criticare la società del suo tempo, pur ritenendo assolutamente irrealizzabile un ritorno indietro a esso, così Heidegger ha bisogno di ipotizzare una situazione ontologico-sociale pre-metafisica per poter interpretare il destino storico della società attuale, senza che questo implichi affatto il progetto di tornare a prima di Platone.

22 Ancora una volta: la «composizione di classe» non ha nulla di cui debba «farsi carico», in una accezione corretta di essa. È nella accezione trontiana che essa deve farsi carico del New Deal statuale attraverso l’autonomia del politico, cosi come nell’accezione negriana essa si fa carico di anticipare i nuovi comportamenti acquisitivi post-socialisti e post capitalisti non ancora maturali presso i restanti strati sociali. La questione è di vedere se i comportamenti e le posizioni teleologiche concrete delle singole concrete composizioni politiche di classe siano o no in grado di procedere o meno verso il superamento della estraneazione e la generalità-per-sé della specie. Agli studiosi dell’operaio di mestiere e dell’operaio-massa l’impostazione almeno di massima del problema.

23 Il rapporto del materialismo storico con la teoria del valore è analogo al rapporto del materialismo dialettico con la teoria della materia. E infatti non può essere una pura coincidenza il fatto che i sostenitori della totale obsolescenza della teoria del valore siano quasi sempre inclini ad una interpretazione fortemente empiriocriticista dei risultali della fisica moderna (ho presente in questo momento alcuni grotteschi scritti di Franco Piperno, ma non solo).

24 Questo problema teorico non si pone ovviamente in modo ultimativo, per una rivista come «Primo Maggio». Essa infatti, come rivista e miscellanea di saggi e documenti per una storia di classe, ha come compito primario quello di fornire al lettore informazioni, anziché interpretazioni. Tuttavia (pensiamo a editoriali come quello scritto da Marco Revelli per il numero 15) non può certo fare a meno, nella prognosi e nel commento dei fatti, di schemi interpretativi espliciti o impliciti. Non si tratta certo di fare una riunione di redazione per stabilire l’atteggiamento da prendere verso la teoria del valore. Si tratta di tematizzare questo problema proprio partendo dalla difesa del proprio punto di vista teorico e politico.

25 Lo scrivente si rende conto che queste osservazioni possono dare al lettore la sgradevole impressione che si voglia ancora una volta ricavare la sovrastruttura dalla struttura. È infatti esattamente quello che lo scrivente vuole coscientemente fare. Questo non significa peraltro che la spinta salarialistica del l’operaio-massa produca necessariamente neo-ricardismo in economia, che la spinta gestionale e di potere del ceto politico sedimentato nella curva ascendente della spallata operaia produca necessariamente l’autonomia del politico nelle scienze politiche, e che infine i bisogni estetizzanti e effimeri del consumo culturale della nuova piccola borghesia urbana dei servizi produca necessariamente il soggettivismo esistenzialistico in filosofia. Lo stesso Lukács nel capitolo sulla «ideologia» ci mette in guardia da questi ricalchi frettolosi. È vero invece che la pratica sociale specifica di consistenti gruppi intellettuali è la premessa ontologica per l’elaborazione di ideologie giustifìcazionistiche e/o di protesta.

26 Ernst Bloch, parlando di «unità avvolgente dell’epoca», parla anche di unità fra la «noia monolitica» a Est e la «noia pluralistica» a Ovest. La sua opera ontologica, Experimentum Mundi, presenta interessanti parallelismi con l’opera di Lukács, ed è infatti caratterizzata dal rifiuto di principio di usare «due pesi e due misure» per l’Est e per l’Ovest. In quanto a Charles Bettelheim, l’atteggiamento snobistico che la teoria della composizione di classe ha sempre avuto nei suoi confronti è assolutamente immotivato. Rifiutare la sua impostazione vuole infatti dire per forza di cose accettare l’impostazione di chi disarticola l’unità della nostra epoca in un Ovest capitalistico e in un Est a modo di produzione asiatico, dispotismo orientale, eccetera, con tanti saluti, tra l’altro, all’unità tematica di applicazione della stessa teoria della composizione di classe.

27 Un serio studioso di Lukács e Bloch. Guido D. Neri, (cfr. Aporie delle realizzazione, Feltrinelli) insiste infatti sul diverso atteggiamento di Lukács e Bloch verso il socialismo reale. Non si vuole qui certo negare che diversi atteggiamenti si possano riscontrare, non solo nelle dichiarazioni e nelle interviste, ma nello stesso apparato categoriale e concettuale. Ma si vuole qui insistere sul fatto che l’aspetto dominante dei due pensatori è l’unità tematica nella trattazione ontologica dell’essere sociale in condizioni di capitalismo occidentale e di socialismo reale.

28 Sarebbe importante che finalmente si assumesse a oggetto di seria analisi teorica la differenza strutturale fra gli impianti categoriali rispettivi di Lukács e di Sartre. A questo proposito lo scrivente ha già ampiamente espresso la sua opinione.

“Il romanzo storico” di György Lukács in Italia.

10 lunedì Nov 2014

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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di Andrea Manganaro

«Moderna : semestrale di teoria e critica della letteratura», VIII, 1 2, 2006.

 

Sono trascorsi poco più di quaranta anni dalla pubblicazione in Italia, nel 1965, de Il romanzo storico di G. Lukács: un’opera che già nel 1968, chi provava ad aggiornare un consuntivo sulla presenza di Lukács in Italia (quello, acutissimo, sul decennio precedente, era di Franco Fortini) disponeva sugli scaffali degli «ammirevoli classici», più che dei libri «utili per il presente». Anno centrale, nel nostro paese, per la storiografia e la critica letteraria, quel 1965 in cui apparvero anche Scrittori e popolo di Asor Rosa, Verifica dei poteri di Franco Fortini, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano di Timpanaro. Non era “nuovo” però il ponderoso saggio di Lukács edito da Einaudi con introduzione di Cesare Cases: proveniva infatti quasi da un’altra epoca e un altro mondo, Il romanzo storico, elaborato, attraverso varie stesure, a Mosca, durante i terribili anni trenta. E giungeva con notevole ritardo in Italia, un decennio dopo l’edizione della traduzione tedesca, di poco preceduto dalla pubblicazione di due opere giovanili (Teoria del romanzo, 1962 e L’anima e le forme, 1963) che attestavano concezioni fortemente divergenti da quelle della maturità e segnatamente da Il romanzo storico. Posizioni senz’altro antitetiche nella concezione del rapporto arte-scienza e quindi della forma saggio e della qualità della scrittura: «Felice il tempo nel quale la volta stellata è la mappa dei sentieri praticabili e da percorrere, che il fulgore delle stelle rischiara»: così iniziava Teoria del romanzo, il libro dell’inverno 1914-15 in cui tale genere si annunciava come la categoria centrale del pensiero estetico di Lukács, ma con la nostalgica evocazione di un utopico passato del mondo dell’epos e della sua totalità perduta – antecedente la scissione io-mondo della moderna (fichtiana) «epoca della compiuta peccaminosità». E risulta davvero difficile ravvisare, in questo incipit, identità autoriale con chi, lo stesso Lukács, avrebbe poi voluto «scriver male», premunirsi intenzionalmente da prelievi di luccicanti citazioni, bandire ogni approccio aforistico, non potendo più sottrarsi al «demone dell’oggetto», alla continua tensione alla totalità, ad indicare sempre «il rapporto d’insieme, lo sviluppo sistematico e storico».

Nel secondo decennio del Novecento Lukács d’altra parte si trovava nel pieno del cammino attraverso la svolta del destino, come ebbe a scrivere provando a fare la storia di se stesso. E la «svolta del destino», cui giunse, quasi ripercorrendo nella propria vicenda intellettuale e nelle due opere giovanili le tappe del pensiero classico tedesco, da Kant a Hegel, era l’incontro con Marx, cui approdava attraverso la catastrofe del primo conlitto mondiale e la rivoluzione russa, e che lo condusse alla partecipazione all’effimera esperienza della repubblica sovietica ungherese di Bela Kun, quindi alla geniale analisi della reificazione nell’utopica (e presto eretica) Storia e coscienza di classe. Un cammino (l’approdo al marxismo, alla militanza politica) che da una parte si tende a ignorare, non scorgendo alcuna svolta effettiva, appiattendo le varie fasi della sua opera su una invariante linea di continuità segnata da un presunto persistente idealismo. E, da altro punto di vista (e comunque con analoga assenza di storicizzazione) un cammino che non pochi (lettori o critici) eliminerebbero, se potessero: come attesta la diffusa e persistente opposizione assiologica del giovane Lukács al Lukács maturo, sul quale peserebbe non solo «l’assorbimento» di tematiche tipiche dell’era staliniana (quali il «concetto della lotta fra progresso e reazione»), ma anche una addebitata inevitabile compromissione o strumentalizzazione durante lo stalinismo. A nulla valendogli per un più ponderato giudizio le condanne subite, la partecipazione al 1956 ungherese dalla parte di Imre Nagy, l’esilio. E soprattutto, per quanto qui ci riguarda in primo luogo, il fatto, che sia i burocrati staliniani, sia uno dei più implacabili accusatori del «tradimento dei chierici comunisti», Czeslaw Miłosz de La mente prigioniera, si accorsero che non solo il filone non realista della letteratura borghese (dilatato da Flaubert, al decadentismo e all’avanguardia) era osteggiato da «questo teorico del realismo socialista immaginario» (Cases), ma lo stesso cosiddetto «realismo socialista [allora] esistente».

L’opera di Lukács non trovava un terreno obiettivamente predisposto alla sua ricezione in Italia. Le origini tedesco hegeliane del suo marxismo, il quadro di riferimento mitteleuropeo, il suo macrostoricismo volto a definire i processi essenziali di intere epoche per aree sovranazionali, la sua avversione al naturalismo, contrastavano con la ricerca italiana di una autoctona tradizione progressista italiana, con la chiusura entro limitati orizzonti nazionali, con la prevalente tendenza letteraria neorealistica Le sue prime pagine pubblicate in Italia, nel 1947, sul «Politecnico», furono accompagnate da una nota, forse di Vittorini, che presentandolo come il «maggior teorico marxista vivente», definiva la sua critica “quaderno dal fronte” più che “quaderno dal carcere”. Veniva così prefigurata quella futura, più o meno latente, opposizione Gramsci (meglio ancora De Sanctis-Gramsci) / Lukács, che avrebbe contrassegnato la cultura e la critica letteraria marxista italiana. E se a questo, individuato da Fortini, un altro volessimo aggiungerne, di iniziali giudizi premonitori delle linee tendenziali della ricezione di Lukács in Italia, potremmo indicare quello pronunciato nel 1949 da Benedetto Croce a proposito di Goethe e il suo tempo, e in particolare della valutazione storica del Faust. Alla «critica sociale» di colui che definiva con sarcasmo l’«insigne ripetitore» di Marx, Croce opponeva l’eterna «poesia» e scorgeva nella pubblicazione dell’opera dell’ungherese in Italia l’annunzio di una pervasiva invasione, da parte dei «neoscolari di Marx ed Engels e Lafargue», nel campo della «storia della poesia e dell’arte», per «farne governo a lor modo». Giudizio, questo, che in una cultura letteraria a lungo segnata (anche, più o meno consapevolmente, dentro la linea De Sanctis-Gramsci) dalla perdurante egemonia crociana e dalla astoricità dei suoi criteri estetici, può essere assunto come una predizione: prospettava infatti la diffidenza in Italia nei confronti della lukacsiana individuazione dei rapporti fra struttura socioeconomica e letteratura, ma anche la diffusa semplificazione sociologica nell’indagine dei rapporti fra storia e le forme letterarie. Taceva Croce su un’altra concezione presente in Goethe e il suo tempo antitetica alla sua estetica, alla sua negazione dei generi (e incompatibile col crocianesimo lungamente protrattosi in Italia): il saggio lukacsiano sul Carteggio fra Goethe e Schiller, del 1934, e pertanto contiguo cronologicamente all’originale stesura del Romanzo storico, poneva le basi, a partire dall’illuminismo tedesco e dalla rilettura di Aristotele sulle soglie della modernità, di una definizione dei generi letterari fondata su basi storico sociali, che avrebbe trovato sviluppo nell’ottica storico sistematica de Il romanzo storico

Quell’ intitolazione aggettivale, romanzo storico, potrebbe trarre in inganno e spiazzare chi pensasse di leggere o la trattazione specifica di un sottogenere o un manuale esaustivo. È ciò che in larga parte è avvenuto. Il tema affrontato nell’opera è infatti il nesso “romanzo e storia”, che forse sarebbe stato titolo meno esposto a fraintendimenti.. La sua possibile ambiguità fu segnalata in una recensione, nello stesso 1965, da Guido Piovene, che, oltre a riserve sulla lista di presenze e assenze, fornì come antidoto ai suoi lettori della «Stampa» l’avvertenza che comunque il romanzo ammirato da Lukács deve essere «sempre storico», sia che rappresenti «la storia passata», sia che rappresenti il «“presente come storia”» E coglieva nel vero, il recensore, per «il presente come storia», per il presente rappresentato cioè nella «necessità intrinseca del processo storico»: così in Stendhal, Balzac (e si potrebbe aggiungere, Verga, considerandolo un realista e non naturalista, secondo la terminologia lukacsiana). Semplificava però il recensore nel primo caso, poiché, come è noto, non è di per sé il passato (tempo della vicenda, esattezza dei particolari) a rendere «storici» per Lukács i romanzi di Scott, Manzoni o Puskin, ma la rappresentazione di momenti significativi (svolte e contraddizioni) del passato nazionale nel loro processo storico. Ed appunto alle oggettive condizioni della storia italiana, non alle sue «crisi», ma alla sua unica immutabile crisi, Lukács riconnetteva l’unicità dei Promessi sposi (nell’opera di Manzoni e nella letteratura italiana): non a condizioni soggettive dell’autore, ma alla scelta del contenuto, l’unica possibile per un romanzo che volesse essere effettivamente storico. La storia italiana non presentava infatti i processi di crescita, con le relative «crisi», che invece in Inghilterra avevano fornito una «base reale» al romanzo storico, ma «una situazione di perenne crisi», dovuta alla «divisione» del paese, al «carattere feudale-reazionario», alla «soggezione a potenze straniere». Scegliendo di rappresentare questa unica permanente crisi in un episodio concreto, Manzoni faceva sì che il «destino dei due protagonisti diventa[sse] la tragedia del popolo italiano», rendendo allo stesso tempo, per l’unicità della crisi rappresentabile, «necessariamente […] unico» ed irripetibile «questo romanzo».

Che su questo «penetrante» giudizio sui Promessi sposi fosse il caso di riflettere, dovette ammetterlo, in una semi-stroncatura sulle pagine dell’ «Unità», anche Carlo Salinari, sebbene il proposito non pare poi aver dato frutti. E non sembrano rintracciabili tracce evidenti di una attenzione a questa impostazione del problema neanche nel dibattito degli anni settanta sui manzoniani del “compromesso storico”. Salinari, non contestava la periodizzazione de Il romanzo storico: dapprima il sorgere del romanzo storico classico e poi del romanzo del presente come storia in seguito alla Rivoluzione francese, che aveva «aveva fatto della storia un’esperienza vissuta dalle masse»; poi, dopo il 48, la fine della fase progressiva della borghesia e della «storia come processo complessivo». Criticava invece la valutazione data da Lukács dei romanzi che di quelle fasi storiche erano il prodotto, non corrispondendo necessariamente a fase storica regressiva un romanzo esteticamente inferiore, non essendo possibile valutare Flaubert inferiore a Scott, che peraltro era stato giudicato dallo stesso Lukács esteticamente meno elevato di Manzoni, nonostante la più favorevole materia offertagli dai processi della storia inglese. Salinari puntava il dito su un aspetto problematico de Il romanzo storico, sulle aporie di alcune connessioni tra processi storici e valutazione estetica. È però anche vero che ciò che interessava a Lukács non era l’apprezzabilità della forma esteriore ma la possibilità conoscitiva consentita dalle condizioni storiche, dall’onestà dello scrittore, dalla sua fedeltà all’oggetto, dalla sua «capacità di abbracciare e di intendere integralmente l’orizzonte di cui si gode a un momento dato». Riducendo di fatto quell’opera di Lukács ad una «narrazione storica organica», Salinari ne attaccava però i principi teorici e la metodologia. I limiti dello studio di Lukács non gli apparivano riconducibili, come per Cases, alla congiuntura storica, alla politica dei fronti popolari degli anni trenta, ma ai suoi stessi fondamenti teorici: la dialettica fenomeno-essenza, la categoria del particolare e il tipico, la concezione di realismo fondata sul romanzo prequarattontesco elevato a norma e a metodo. Pur con qualche travisamento, Salinari coglieva effettivi limiti dell’impianto lukácsiano, che nel suo teleologico storicismo tendeva, come avrebbe detto Brecht, ad approfondìre la positività dell’antico rispetto alla negatività del nuovo e guardava al tramonto della narrazione e all’avvento postquarattontesco della descrizione naturalistica come a una decadenza, non valorizzando, come provò a fare Benjamin nel saggio su Nikolaj Leskov richiamato da Luperini, le possibilità conoscitive che in forme nuove i tempi nuovi offrivano.

Se il canone delle esclusione e delle eccellenze fissato in Il romanzo storico, o la periodizzazione storiografica hanno richiamato l’interesse dei comunque non molti lettori di quest’opera di Lukács, poco diffuso è stato l’interesse prestato in Italia alla teoria dei generi letterari, del loro storico e dialettico differenziarsi di cui Lukács si occupa nel II capitolo dell’opera. Fu in verità individuata, la centralità e l’importanza di tale argomento, nella prima recensione del volume apparsa in Italia, nel 1956, su «Società», la rivista diretta da Manacorda e Muscetta, a firma del germanista Paolo Chiarini, che aveva letto l’edizione tedesca dell’opera di Lukács, cogliendone il movente teorico, ancor più che storiografico, consistente nell’«identificazione dei modi entro cui si compie, in corrispondenza di una determinata base sociale, la differenziazione dei generi letterari». Si individuava come la distinzione dei generi, prendendo le mosse da Goethe e Schiller e ancor prima da Lessing, si fondasse sul piano categoriale e consistesse in modalità diverse del rispecchiamento della realtà, reso nel romanzo cona la rappresentazione della hegeliana «totalità degli oggetti», e nel dramma dalla rappressentazione della «totalità del movimento»]

La teoria dei generi letterari, veniva affrontata da Lukács muovendo dalla teoria dei motivi di Goethe (i motivi progressivi, regressivi, ritardanti dell’intreccio) per delineare come nel romanzo e nel dramma si configuri la dialettica tra necessità e libertà, Mostrando ad esempio, nell’intensificarsi, nel romanzo, dei motivi regressivi (quelli che fermano lo svolgimento dell’azione, parandosi come ostacoli) il configurarsi della forza propulsiva che spinge avanti i processi storici

Tale teoria dei generi letterari, storico sistematica, (non tipologico – classificatoria) delineata nel Romanzo storico, ha però avuto poca fortuna in Italia, sia per l’antica prevenzione di ascendenza crociana nei confronti dei generi letterari, sia per l’irruzione del descrittivismo strutturalista. Nuoceva certamente a Lukács la sua disattenzione agli aspetti formali (nel senso di forma esteriore) che otrebbe risultare frustrante al critico letterario. L’attenzione sua era volta al processo genetico dell’opera, al raffigurarsi in essa del contenuto storico, al farsi dell’opera, non al come è fatta. Anche nella sua teoria dei generi egli conduceva in eredità nella nostra epoca la «filosofia classica tedesca». L’elenco dei suoi auctores, con Marx, Hegel, Goethe, comprendeva, non certo ultimo, Aristotele. E non solo per la sua distinzione categoriale dei generi,il concetto di “azione”, ma perché, come scriveva già in Goethe e il suo tempo, citando Schiller «con senso pieno di attualità», Aristotele è «un giudice infernale per tutti coloro che si attengono servilmente alla forma esteriore o per quelli che si ritengono al difuori di ogni forma». L’importanza della teoria dei generi, ne Il romanzo storico, è stata però richiamata in tempi recenti da un libro di Margherita Ganeri, alla quale va anche il merito di aver ritrovato il valore attuale di quest’opera, nonostante i limiti nella comprensione della letteratura nel Novecento, nella sua concezione antiformalistica, nella valenza politica e ideologica del genere letterario. Le complesse questioni teoriche sui generi letterari affrontate nel II capitolo de Il romanzo storico anche in questo importante studio non sono però state assunte come centrali. Esse hanno invece di fatto costituito il costante punto di riferimento della ricerca e dell’insegnamento di metodologia letteraria, teoria della letteratura ed estetica condotta nell’ateneo catanese, fino alla sua recente scomparsa, da Gaetano Compagnino. Il genere si determinava per questo studioso, in una ottica storico sistematica lukácsiana, e pertante distante da ogni superficiale sociologismo o descrittivismo strutturalista, [cito] come «sistema dinamico di legalità formative aperto alla storia», al quale la singola opera è legata da un «nesso di specificazione-determinazione». E in una attenzione ovviamente privilegiata al romanzo ottocentesco, Compagnino recuperava, nell’ottica lukácsiana, la teoria goethiana dei motivi dell’intreccio e le categorie aristoteliche, per delineare come nelle modalità di costituzione del mythos si configurino le forze dei processi storici. Non nella referenzialità esterna (i temi o la materia), ma nelle omologie tra le dinamiche dell’intreccio e quelle dello sviluppo sociale che esso rappresenta.

Nella sua ricerca teorica volta alla definizione dei concetti fondamentali per l’analisi costitutiva del genere romanzo, questo studioso marxista risaliva a quella «filosofia classica tedesca» che Lukács nella sua prospettiva teleologica aveva compiuto il grande sforzo di trasmettere alla nostra epoca (e lui riteneva, al socialismo). Compagnino integrava il pensiero lukacsiano con concetti dell’hegeliano De Sanctis tendendo a trasferire, ad esempio, anche mediante Gramsci, il rapporto Scott-Balzac delineato ne Il romanzo storico nella relazione e nei nessi romanzo storico-verismo, Manzoni-Verga. E in particolare nell’analisi costitutiva del Mastro don Gesualdo riutilizzava la categoria del presente come storia e la dialettica moderna tra forma drammatica e forma romanzesca.

Nella direzione di ricerca di questo studioso che tenacemente rivisitava l’estetica di Lukács, il romanzo storico offriva un modello di trattazione storico sistematica del genere nella prospettiva di una letteratura non nazionale (italiana), ma europea: tale non per la comparatistica rilevazione dei cosiddetti temi o influssi, ma perché fondata sui nessi tra processi storici e forme letterarie, in uno spazio europeo articolato anche nelle diseguaglianze degli svolgimenti e quindi nella molteplicità dei tempi (quello della Russia di Tolstoj non essendo lo stesso sincronicamente cronologico della Francia e aggiungerei, il tempo della Sicilia di Verga non essendo lo stesso di Zola).

Al di là degli aspetti inattuali perché troppo connessi ad una atmosfera storica “irrecuperabile” (Cases), al di là dei limiti nella comprensione della letteratura del secondo ‘800 e del ‘900, il Romanzo storico di Lukács, ha, ritengo, ancora da insegnare a chi si pone il problema della storicità delle forme letterarie. E, in quest’ottica, ad una sua lettura, possono ancora risuonare nella mente i versi del Faust suggeriti da Fortini per comprendere Lukács: «come soltanto la mente che s’apprende a scialbe cose / non sgombra mai ogni speranza!”

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