[Il testo apparso è apparso in un inserto dell’«Unità» dedicato all’Ungheria in occasione delle celebrazione del 25° anno della sua liberazione]
di György Lukács
«l’Unità» 2 aprile 1970
Brani da un saggio inedito di G.L.
I miei primi passi non hanno alcun peso letterario. È cosa nota che io provengo da una famiglia capitalista. Senza voler annoiare i lettori con dati autobiografici, voglio solo dire brevemente che, sin dalla mia infanzia, ero profondamente insoddisfatto del modo di vita dell’ambiente che allora mi circondava. E, dato che, in seguito alla attività economica di mio padre, eravamo continuamente a contatto con i rappresentanti del patriziato urbano e della piccola nobiltà impiegatizia, questo mio atteggiamento scostante si estendeva naturalmente anche a loro. Così, già molto presto, avevano finito per dominare in me dei sentimenti di opposizione nei confronti dell’Ungheria ufficiale. Conformemente al mio livello immaturo di allora, con questo mio spirito di opposizione io esaminavo ogni campo della vita, dalla politica fino alla letteratura, il che, evidentemente, trovava in me la sua espressione sotto forma di un qualche socialismo immaturo. Poiché non ho alcun documento scritto di quest’epoca, naturalmente vive in me il dubbio se non abbellisco posticipatamente questa mia tendenza di sviluppo.
È indifferente in che misura io oggi consideri infantile l’avere generalizzato senza critica questa mia avversione, applicandola a tutta la vita ungherese, alla storia ed anche alla letteratura (fatta eccezione per il solo Petöfi), è certo, comunque, che questa concezione dominava sul mio pensiero. La controforza principale, il suolo stabile allora possibile per me, dove potevo puntare i piedi, era esclusivamente la letteratura straniera moderna di allora, di cui avevo fatto la conoscenza all’età di 14-15 anni circa. Avevano agito su di me in primo luogo la letteratura scandinava (principalmente Ibsen), lo sviluppo tedesco (da Hebbel e Keller a Hauptmann), i francesi (Flaubert, Baudelaire, Verlaine), la poesia inglese (in primo luogo Swinburne, poi Shelley e Keats); in seguito assunse una grande importanza la letteratura russa.
Poiché secondo i ricchi budapestini di allora, la scuola veramente chic era il Ginnasio Riformato, i miei genitori mi iscrissero in questo istituto. Si trattava però di una pessima scuola. A titolo di spiegazione voglio ricordare solo due fattori. Il primo è che dagli studenti di quella scuola era uscita una parte notevole di quello strato della piccola nobiltà e pseudo-nobiltà che aveva avuto un ruolo dirigente nella difesa e nei tentativi di restaurazione della vecchia Ungheria. Il secondo è che vi insegnavano diverse figure dirigenti del conservatorismo letterario ungherese. In seguito a questa, non casuale, coincidenza delle circostanze, i miei tentativi di liberarmi dell’asservimento intellettuale dell’Ungheria ufficiale mi avevano portato in direzione dell’esaltazione del modernismo internazionale. Il mio spirito di opposizione aveva trovato la sua prima espressione nei miei compiti scolastici, provocando lo sdegno violento dei miei professori. La loro continuazione organica fu la mia prima attività di critico nella rivista intitolata «Magyar Szalon». Naturalmente questi germogli non hanno alcun valore letterario.
Questo ingenuo avvio non fu seguito da una attività letteraria. Al contrario, il precoce inizio fu seguito da una pausa di diversi anni, dal periodo dello studio. Penso, a questo proposito, principalmente al mio ruolo nella compagnia teatrale moderna, denominata «Thalia». Fu qui che imparai nella pratica cos’è il dramma e cosa significa, per me, il teatro; fu qui che sparì definitivamente la mia opinione erronea originale, secondo cui la partecipazione alla letteratura per me poteva realizzarsi solo in un’opera letteraria.
La mia partecipazione alla «Thalia», – pur se significativa – non fu altro che un episodio iniziale di tutto il mio sviluppo successivo. Le sue conseguenze pratiche mi allontanarono dal lavoro teatrale; prese in me avvio la preparazione alla ricerca teorica e storica dell’essenza delle forme letterarie e verso il lavoro scientifico e filosofico. Con questo, sotto l’influenza straniera (principalmente tedesca), si acutizzò nuovamente in me l’opposizione contro la vita ungherese di allora. E non vi è nulla di sorprendente nel fatto che, nelle date condizioni, il mio punto di partenza potesse essere solo Kant. Così, era anche naturale che, quando cercavo le prospettive delle generalizzazioni filosofiche, le loro basi e il metodo di applicazione, trovai nel tedesco Simmel l’indicazione teorica, non per ultimo perchè con questo – sia pure in modo deformato – in un certa senso io mi stavo avvicinando anche a Marx. Il mio interesse per la storia della letteratura mi aveva ricondotto dalle «celebrità» del presente agli scienziati della metà del secolo, presso i quali avevo trovato metodi più avanzati di quelli usati allora nel campo della comprensione sociale e storica.
Disprezzavo profondamente la teoria e la storia ungherese. Ben presto, però, subentrarono nella mia vita forti controforze in opposizione a questa unilateralità teorica. Nel 1906 uscì il volume «Nuove poesie» di Endre Ady, il più grande poeta rivoluzionano borghese del secolo XX e nel 1908 lessi le poesie di Béla Balàzs nell’antologia letteraria intitolata «Domani». In breve tempo fummo legati da un’amicizia personale e da una stretta alleanza letteraria.
Il mio incontro con le poesie di Ady fu – come si dice oggi – uno choc per me. Naturalmente, solo molti anni più tardi, incominciai a comprendere e ad elaborare gli effetti di questo choc. Nel 1910 feci il primo tentativo per chiarire filosoficamente l’importanza di questa impressione, ma, in sostanza – solo molto più tardi, in età più adulta – compresi veramente l’importanza decisiva del mio incontro con le poesie di Ady per lo sviluppo della mia concezione ideologica. Benché in tal modo io pecchi contro l’ordine di tempo, penso che sia questo il posto in cui devo descrivere tale effetto. Si tratta in breve del fatto che la filosofia tedesca – non solo Kant e i suoi seguaci miei contemporanei –, ma anche Hegel (che solo parecchi anni dopo esercitò la sua influenza su di me), nonostante gli effetti ideologici apparentemente perturbatori, erano rimasti conservatori nelle questioni del grande sviluppo della società e della storia; la riconciliazione con la realtà (Versöhnung mit der Wirklichkeit) è uno dei postulati della filosofia di Hegel. Ady ebbe su di me un effetto decisivo proprio per il fatto che mai per un solo momento non si era riconciliato con la realtà ungherese. Già nel periodo dell’adolescenza viveva in me il desiderio per una ideologia di questo tipo, senza che lo fossi capace di formulare questi miei sentimenti o di esserne consapevole.
È interessane che, in seguito all’effetto vasto e profondamente trasformatore di questa percezione del mondo, io inserii nella mia visione del mondo, in tutto il mio pensiero, i grandi scrittori russi, in primo luogo Dostoevskij e Tolstoj, come fattori rivoluzionari decisivi. Tutto ciò non significava naturalmente la piena eliminazione della base sociale-storica oggettiva. Al contrario, fu proprio in questo grado di sviluppo che il sindacalismo francese esercitò su di me una forte influenza. Non fui invece mai capace di familiarizzarmi con la teoria socialdemocratica di allora e, in particolare, con Kautsky.
Il mio incontro con Ernst Bloch diede un forte slancio al mio sviluppo filosofico. Avevo iniziato come critico, ma ben presto compresi che senza una base filosofica scientifica (sociale-storica) non può esistere neppure una critica veramente attendibile. In base alle mie esperienze di allora non credevo che fosse valida una filosofia come quella incarnata ultimamente da Hegel. (Con questo metro, non consideravo come filosofi veri neppure quei miei contemporanei che altrimenti rispettavo, dai quali avevo imparato molto. Basti, a questo proposito, accennare a Dilthey e a Simmel).
Concludendo brevemente, il mio incontro del 1910 con Bloch mi aveva pertanto convinto che può esistere una filosofia nel senso classico della parola, anche in quei giorni. Sotto questa impressione, trascorsi l’inverno 1912-1913 a Firenze, per poter rivedere, senza essere disturbato, la mia estetica, come prima parte della mia filosofia. Nella primavera del 1912 venne a Firenze anche Bloch e mi convinse ad andare con lui ad Heidelberg, dove l’ambiente sarebbe stato particolarmente favorevole per il nostro lavoro.
Non vi era nulla che mi trattenesse dal trasferirmi ad Heidelberg, anzi, che eventualmente vi fissassi il mio domicilio. È vero che avevo sempre preferito la vita in Italia piuttosto che in Germania, ma la speranza di trovare la comprensione era più forte di ogni altra cosa. Fu così che mi recai ad Heidelberg, non sapendo fino a quando vi avrei vissuto.
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Non ho qui la possibilità di illustrare, sia pure in grandi linee, il mio sviluppo successivo. Devo comunque aggiungere che furono i problemi interni del movimento clandestino ungherese (e precisamente l’influenza esercitata su di me dalle posizioni di Jenő Landler) ad allontanarmi dal settarismo «messianistico» di allora e ad avvicinarmi ai problemi concreti del nostro movimento. Le tesi di Blum del 1928-29 (la dittatura democratica come passaggio alla dittatura del proletariato) significarono per me l’inizio della svolta. Da allora, lotto come comunista ungherese contro ogni deformazione della democrazia socialista e saluto oggi di cuore il 25esimo anniversario della Liberazione.