di Nicolae Tertulian
da György Lukács nel centenario della nascita 1885-1985, a c. di D. Losurdo, P. Salvucci, L. Sichirollo, Quattroventi, Urbino 1986.
Traduzione dal francese di Salvatore Torino.
La storia delle idee dell’ultimo quarto di secolo ha preso in considerazione, del confronto Lukács/Adorno, soprattutto il giuoco delle antinomie e dei conflitti esplosi tra i due filosofi e studiosi di estetica, in seguito alla violenta diatriba lanciata da Adorno nel saggio «Espresste Versöhnung» (Conciliazione sforzata) pubblicato nel 1958 e riprodotto nel volume Noten zur Literatur (Note per la letteratura, 1943-1961, tr. it., Torino, Einaudi, 1979, pp. 238-266), e della replica di Lukács nella Prefazione del 1962 alla Die Theorie des Romans (Teoria del Romanzo, Milano, SugarCo, 1963). La verità è che Lukács, pur sfruttando ogni occasione per manifestare il proprio atteggiamento fortemente critico nei riguardi di Adorno, si è rifiutato di ingaggiare un vero e proprio braccio di ferro contro colui che aveva contestato con tanta virulenza il suo libro Wider den missverstandenen Realismus (Il significato attuale del realismo critico, pubblicato per la prima volta, in Italia, nel 1957 da Einaudi).
L’opposizione tra Lukács e Adorno assume tutta la sua rilevanza, se si tiene conto che si tratta di due filosofi il cui pensiero ha forti radici comuni e presenta finanche incontestabili omologie. La matrice hegeliana, da cui i due teorici traggono la sostanza del loro pensiero dialettico, è presente ovunque nei loro scritti. L’uno e l’altro hanno assimilato in profondità, in succum et sanguinem, la critica di Hegel nei riguardi della soggettività kantiana o fichtiana e del suo preteso potere costitutivo, facendo della tensione dialettica tra soggettività e oggettività la chiave di volta del loro pensiero.
Lo scopo perseguito da Adorno, nell’attacco contro il libro Il significato attuale del realismo critico, è quello di presentare la storia di Lukács come una deplorevole regressione intellettuale. La maggior parte delle argomentazioni di Adorno tendono a mostrare come una coscienza estetica un tempo avanzata (quella dell’autore di L’anima e le forme e Teoria del romanzo) sia finita per essere obnubilata, atrofizzata e degradata a causa del suo impegno politico. Adorno, d’altronde, parla esplicitamente, nell’introduzione al suo testo, del caso Lukács come di un «sacrificio dell’intelletto»: «La persona di Lukács sta al di sopra di ogni dubbio. Ma il tessuto concettuale cui egli ha sacrificato l’intelletto è così ristretto che qualunque cosa voglia in esso respirare più liberamente vi soffoca…» (Note per la letteratura, cit., pp. 239-240).
Il fatto che nella sua implacabile requisitoria Adorno non si limiti a stigmatizzare la posizione del suo avversario con sentenze emesse dall’alto, ma si sforzi di sviluppare una critica interna ed un’analisi immanente dello scritto di Lukács (anche se il testo non è privo di una certa dose di arroganza e di invettive), conferisce alla sua polemica un sicuro interesse. Si è certamente in diritto di interrogarsi sull’oggettività del ritratto che egli abbozza di Lukács, sulla fedeltà dello specchio che egli tende al suo interlocutore. Molto spesso il suo testo contribuisce a mettere in luce più la propria posizione estetica che a fornire una immagine autentica, non-riduttrice, di quella di Lukács. Ma è proprio attraverso questo giuoco di specchi deformanti, attraverso questo scontro basato talvolta su semplificazioni e malintesi, che si arriva al confronto spettacolare di due concezioni estetiche dalle finalità profondamente divergenti. È incontestabile che gli argomenti ad effetto (percutants) di Adorno mettono a dura prova le formulazioni (vues) estetiche di Lukács e una ricostruzione post festum di questa battaglia ideologica ci consente una comprensione più profonda delle due estetiche.
Nella sua polemica Adorno era sinceramente convinto che ci fosse in Lukács un rapporto di connessione troppo stretto tra l’arte e la realtà empirica, sottovalutando in maniera colpevole le metamorfosi, spesso radicali, alle quali il soggetto creatore sottopone la materia empirica. Non esitava, in questo senso, a parlare del «volgare materialismo accanito» che caratterizzerebbe la fedeltà di Lukács all’idea dell’arte come «rispecchiamento della realtà obiettiva» (ibid., p. 240). Paradossalmente, Adorno condivideva pienamente la critica di Hegel all’idea di una soggettività «pura», sradicata, ed aveva fatto della tesi hegeliana secondo la quale la profondità della soggettività si misura nel suo molteplice radicarsi nel mondo oggettivo, un leitmotiv del proprio pensiero.
È così, per esempio, che, nelle considerazioni che egli svolge (nelle lezioni sulla Terminologia filosofica, tenute a Francoforte nel 1962-63) intorno alla nozione di «profondità», vediamo Adorno rendere un grande omaggio alla tesi di Hegel sulla alienazione del soggetto come condizione del suo vero sviluppo (épanouissement). È alla fine di queste considerazioni che egli ricorda la fondatezza del «disgusto» di Goethe per il culto della pura interiorità, sintomo tipico, secondo Adorno, del rancore piccolo borghese nei confronti del mondo (non manca neanche qui di denunciare nella critica heideggeriana della ‘curiosità’, l’espressione filosofica di una tale «interiorità piena di rancore»: cfr. Philosophische Terminologie Band 1, Suhrkamp, stw, 1973, pp. 142 e segg.; Terminologia filosofica, trad. it., Torino, Einaudi, 19752, p. 139).
Ora, ci sembra incontestabile, che sono proprio le idee di Hegel e di Goethe a costituire i veri pilastri della concezione estetica di Lukács (abbiamo cercato di mettere in evidenza questa filiazione decisiva delle idee estetiche di Lukács nelle nostre considerazioni sul rapporto soggetto-oggetto nell’estetica di Lukács; cfr. il nostro libro: Georges Lukács. Etapes de sa pensée esthétique, Sycomore, 1980, pp. 243 e segg.). È vero che è soprattutto nella grande Estetica, apparsa cinque anni dopo il saggio polemico di Adorno, che Lukács ha pienamente sviluppato questa filiazione e si può immaginare che Adorno avrà visto non senza sorpresa Lukács fondare le sue idee estetiche su postulati filosofici che erano propri, ad Adorno, particolarmente cari e vicini.
Ma nel saggio la «Conciliazione sforzata», Adorno sembrava persuaso che Lukács sacrificasse la dialettica intima del processo di creazione artistica ad un «oggettivismo» inestetico (anésthétique), ad una rappresentazione troppo semplicistica tra arte e realtà. Non cessava di rimproverargli una identificazione meccanicistica del contenuto artistico con il reale, una cecità davanti all’alchimia sottile alla quale la materia del reale sarebbe sottomessa da parte di ciò che Adorno amava chiamare «la legge della forma» o «la tecnica». La posta in giuoco del dibattito era evidentemente l’atteggiamento di Lukács nei riguardi dell’arte moderna. È in questa occasione che Adorno ricordava l’importanza del principium stilisationis nell’arte, principio che il giovane Lukács aveva spesso evocato nei suoi primi scritti e che il Lukács della maturità avrebbe perso di vista con la sua adesione alla funesta «teoria del rispecchiamento».
È interessante vedere come, pur partendo da un principio filosofico ed estetico che condivide con Lukács – quello del carattere mediato della soggettività artistica –, dell’idea che il processo di creazione artistica consiste in fondo nella manifestazione del contenuto oggettivo latente della soggettività germinale (idea che ritroveremo nella tesi dell’Estetica di Lukács sull’alienazione di sé del soggetto e la soppressione di questa alienazione con il ritrovamento di sé), Adorno perviene a conclusioni totalmente opposte. Mettiamo momentaneamente tra parentesi gli sviluppi polemici di Adorno che accusa Lukács di imporre all’arte esigenze riservate piuttosto alle scienze sociali, ignorando così la specificità irriducibile dell’arte e il ruolo costitutivo della soggettività in questo campo, tanto queste considerazioni ci sembrano radicalmente infirmate dai testi di Lukács, soprattutto dalla grande Estetica, e tanto, esse ci sembrano non cogliere l’essenziale del pensiero profondo di quest’ultimo.
Lo sforzo teorico di Adorno è finalizzato a perseguire nel movimento interno delle opere, nella loro pura immanenza estetica, nelle più sottili articolazioni della loro «tecnica», l’iscrizione delle tensioni sociali, dello «spirito oggettivo» dell’epoca. Si sforza senza tregua di rispettare, nello stesso tempo, l’autonomia dell’opera d’arte, la sua distanza irriducibile di fronte alla realtà empirica, e il suo carattere di fatto sociale (l’espressione durkheimiana è usata in modo appropriato nel testo tedesco della Teoria estetica).Dobbiamo sottolineare quest’aspetto del pensiero di Adorno, perché è a partire da questa «distanza di fronte all’empirico» e da questa «negazione determinata» del reale immediato, caratteristiche sine qua non della creazione artistica, che egli si crede autorizzato a ricusare con tanto vigore «la teoria del rispecchiamento» di Lukács. Come perviene a conciliare in maniera convincente questi due aspetti apparentemente contraddittori dell’opera d’arte, l’autonomia strutturale e il carattere sociale?
Una sottile dialettica della relazione soggetto-oggetto prende corpo nel cuore stesso della riflessione estetica di Adorno. Egli tiene a sottolineare che il soggetto che si oggettivizza nell’opera d’arte non è il demiurgo essere-per-sé, sovrano ed autosufficiente, di cui parlava la teoria classica dell’arte. La soggettività che si esprime nell’opera d’arte gli appare piuttosto come la cristallizzazione ultima di esperienze sociali molteplici, che finiscono per decantarsi nei movimenti più intimi dell’opera e a sedimentarsi in modo duraturo nella sua forma e nella sua tecnica.
Basta leggere le pagine che Adorno dedica a Beethoven o a Brahms nella Introduzione alla sociologia della musica, o alla poesia lirica nel Discorso sulla poesia lirica e la società (alla fine del quale egli analizza le poesie di Mörike e di Stefan George) per cogliere i tratti caratteristici del metodo critico che propone: immergendosi nell’interiorità dell’opera, di cui pensa di rispettare rigorosamente l’autonomia monadologica (il paragone dell’opera d’arte con la «monade senza finestre» leibniziana è stata formulata per la prima volta dal giovane Lukács nell’estetica di Heidelberg), il critico tende a «delineare» in che modo il soggetto lirico o il soggetto-compositore assorba e raffiguri, in ciò che sembra essere il movimento autarchico dell’opera, le contraddizioni sociali dell’epoca. Adorno tiene spesso a fissare l’attenzione sulla distanza polemica che il soggetto artistico prende necessariamente rispetto alla realtà esistente: l’energia creatrice dell’artista che si aliena nella sua opera (Adorno parla hegelianamente di una «auto-alienazione» o di una oggettivizzazione, il cui risultato è una «oggettività alla seconda potenza», Objektivität zweiter Potenz) sembra nutrirsi spesso degli ostacoli e delle resistenze che l’incontrovertibile realtà sociale oppone all’auto-affermazione dell’umanità del soggetto. Adorno ci avverte che si possono ritrovare nella materia dell’opera i membra disjecta di una società data, ma che la vera vocazione dell’opera è quella di riconciliare in modo ideale, sublimato, trasfigurato, ciò che nella realtà sociale empirica resta diviso, antinómico, irriconciliato. È ciò che il critico chiama la funzione critica inerente all’arte vera. L’arte è definita in questo senso come la «conoscenza negativa» del reale (questa definizione si trova nell’articolo contro Lukács, La Conciliazione sforzata, op. cit., p. 248). Ma è esagerato dire che Adorno incontri così, senza accorgersene, una delle tesi fondamentali dell’estetica di Lukács, quella sviluppata nel capitolo su La missione defeticizzata dell’arte della grande Estetica? Come si spiegano, allora, le grandi divergenze tra due studiosi di estetica che sembrano lavorare con strumenti concettuali comuni, ereditati dalla matrice kantiana e hegeliana con la mediazione del pensiero di Marx?
Ma prima di rispondere a questa domanda, gettiamo uno sguardo su certe analisi più concrete di Adorno, il che ci permetterà di comprendere meglio la sua posizione. Quando parla di Beethoven, soprattutto nel capitolo finale, intitolato «Vermittlung» (Mediazione), della sua Introduzione alla sociologia della musica, pone l’accento sulla totalità che si sviluppa in maniera dinamica come principio ispiratore di quella grande musica. Adorno si preoccupa di mostrare come il lavoro tematico di Beethoven, il principio della variazione in sviluppo (entwicklende Variation), perviene a generare spontaneamente la totalità (che domina «il chimismo dell’opera»), attraverso il superamento reciproco delle opposizioni, degli «interessi individuali».
Il suo obiettivo è di mostrare come attraverso una dialettica che si sviluppa in maniera autonoma, attraverso movimenti che si affermano secondo la loro propria legge interna, attraverso opposizioni, collisioni di motivi individuali e di «negazioni determinate», il discorso musicale beethoveniano arrivi a creare una totalità dinamica nella quale l’individuale e il generale convergono, in modo del tutto simile al divenire dello spirito nella filosofia hegeliana. Le analogie tra Kant e Beethoven, ma soprattutto tra Hegel e Beethoven, sono sottolineate spesso da Adorno. Ma lo scopo principale delle sue considerazioni è quello di indicare l’omologia perfetta che esiste tra lo spirito dialettico della musica beethoveniana e il pathos libertario della società del suo tempo. Il leitmotiv della dimostrazione è che non si tratta per nulla di una «imitazione» del reale o di un «rispecchiamento» del reale da parte della musica beethoveniana, ma di una convergenza, o meglio di una consustanzialità tra un discorso musicale che si sviluppa in maniera autonoma e lo spirito obiettivo profondo dell’epoca del compositore.
Ci sembra evidente che Adorno abbia qualche difficoltà a spiegare come si produca questa osmosi, se si tien conto che egli rifiuta a priori la teoria del rispecchiamento. Egli stesso parla, d’altronde, di una «macchia cieca della conoscenza» quando si tratta di spiegare «l’armonia tra le forze umane di produzione e la tendenza storica» (Introduzione alla sociologia della musica, trad. di G. Manzoni e introd. di L. Rognoni, Torino, Einaudi, 1971, p. 254). Egli si limita a suggerire che la convergenza tra la struttura della musica beethoveniana e la società del suo tempo (chiamata convenzionalmente quella della «borghesia in ascesa») avrebbe come condizione il fatto che la forma di intuizione primaria (di carattere musicale) di Beethoven si trovava mediata in sé dallo spirito della sua classe intorno al 1800. Ciò che lo interessa visibilmente è di dialettizzare questo rapporto tra arte e società, evitando sia la «categoria dubbia» dell’«influenza» che quella meccanicistica (mécanique) del «rispecchiamento»: persegue la migrazione dei conflitti e delle tensioni sociali dell’epoca nello spazio interno dell’opera, confidandoci (en nous confiant) che l’artista assorbe necessariamente questi elementi obiettivi, pur sottoponendoli ad uno sviluppo del tutto autonomo. La coscienza (l’io) del grande artista è per Adorno una coscienza (un io) forte, resistente, che non si piega alle esigenze empiriche del mondo esterno, ma che arriva attraverso il processo di oggettivizzazione dell’opera a padroneggiare difficoltà e resistenze di carattere obiettivo, fino ad esprimere nella sua auto-affermazione una tendenza collettiva, trascendendo la realtà esistente. L’utopia libertaria che risuona nella musica di Beethoven supera lo spirito ufficiale del suo tempo, il quale si incarnerebbe piuttosto in Rossini.
Il rimprovero fondamentale che Adorno rivolge a Lukács nel saggio La conciliazione sforzata è, per l’essenziale, che quest’ultimo resterebbe insensibile, se non cieco alle metamorfosi sottili alle quali la tecnica artistica – particolarmente quella della letteratura di avanguardia – sottopone i contenuti reali. È un grande segno di incomprensione estetica, dice Adorno, identificare semplicisticamente la presenza massiccia del patologico in un settore importante della letteratura di avanguardia, o il sentimento potente del non-senso del mondo in certe opere di Beckett con la semplice trasposizione di situazioni reali nelle opere d’arte. Lukács sembra ignorare che la solitudine, lo sradicamento o la «perdita del mondo» (Weltverlorenheit) rappresentati da certi eroi della letteratura di avanguardia non sono semplici «copie» delle situazioni esistenti tali quali nella realtà, dunque, come sembra affermarlo lo studioso di estetica ungherese, una canonizzazione, per riproduzione non-critica, dell’alienazione reale. Le argomentazioni di Adorno tendono a mettere in luce il ruolo decisivo della mediazione soggettiva nella configurazione artistica, mediazione che Lukács, secondo Adorno, sembra ignorare e ciò fa sì che la rappresentazione esatta, muta, della disperazione o del non-senso in certe opere di avanguardia acquisisca implicitamente un senso critico e polemico.
L’interesse dell’argomentazione di Adorno riposa sulla volontà di presentare Lukács come una coscienza estetica alienata a causa del suo impegno politico: sacrificando al dogma del «realismo socialista» e lavorando con strumenti concettuali rudimentali come il «rispecchiamento» o la «prospettiva», questi arriverebbero inevitabilmente ad occultare il tessuto artistico propriamente detto delle opere e, su un piano più generale, la logica interna del processo artistico.
Ma una analisi attenta del testo incriminato di Lukács da parte di Adorno mostra, in maniera paradossale, che il rimprovero principale – il rimprovero di Lukács – nei riguardi delle opere dell’avanguardia è giustamente l’assenza di una più profonda mediazione, soggettiva e oggettiva, delle situazioni evocate. Ciò che Lukács deplora, è l’insufficienza del filtro, radicato nella personalità dell’artista, sono le carenze dell’io profondo (ciò che il giovane Lukács chiamava, con una espressione kantiana, «l’io intelligibile»), attraverso cui il mondo è rifratto in opere di questo genere. Il punto centrale della sua argomentazione non è rispecchiamento empirico della realtà, come glielo rimprovera Adorno, ma la qualità della soggettività costituiva, quella che si esteriorizza e si oggettiva attraverso l’opera. Quando paragona il monologo di Leopold Bloom o di sua moglie nell’Ulisse di Joyce al monologo interiore di Goethe in Lotte in Weimar di Thomas Mann, Lukács crede di essere all’ascolto dell’io profondo dello scrittore, la sua attenzione si fissa sulla fluidità che anima lo spazio interno dell’opera ed è a partire da questa prospettiva che formula il suo giudizio su ciò che egli considera essere «la differenza di livello» tra i due scrittori; è così che egli giunge ad opporre la poesia umana complessa del romanzo di Thomas Mann al fotomontaggio di associazioni di carattere naturalistico di Joyce. Allorché rifiuta, in pari tempo, nell’introduzione al capitolo intitolato significativamente «L’uomo come nocciolo o come scorza» dell’Estetica, il culto della sensazione rara o un certo impressionismo lirico di Hofmannsthal, o, al polo opposto, il culto dell’oggetto, epurato da ogni antropomorfismo, nel «nouveau roman» di Alain Robbe-Grillet, egli lo fa in nome di una sola e stessa esigenza, in nome di uno sguardo rispettoso della pluridimensionalità e della profondità del mondo.
Non bisogna dimenticare che il rimprovero principale rivolto da Lukács a certe opere dell’avanguardia è che esse restano fissate, nonostante la stilizzazione estrema alla quale sono sottoposte le situazioni reali, al livello dell’immediatezza di queste situazioni, caratteristiche per l’individuo che si confronta con la reificazione generalizzata della tarda società borghese: senza la «distanza critica» necessaria e senza le molteplici mediazioni alle quali la soggettività profonda dei grandi artisti ha sempre sottoposto la materia empirica del reale.
La polemica di Adorno è basata sull’idea che Lukács vorrebbe imporre agli artisti moderni una logica della positività, che per Adorno significa una alienazione della stessa arte moderna ed una regressione brutale in rapporto alle sue vere conquiste. Adorno parla spesso, nel suo testo, dell’«ottimismo ufficiale» che contaminerebbe i ragionamenti di Lukács. Ci si può porre qui una domanda decisiva: è il critico in diritto di confrontare la visione del mondo degli scrittori studiati, visione nella quale egli vede a giusto titolo il principio ispiratore della loro opera, con la sua prospettiva, quella che a maggior ragione considera come giusta e legittima? Non rischia così di cadere in un edificante moralismo (Adorno parla d’altronde del «colore moralista dei concetti critici di Lukács», op. cit., p. 358), che sostituirebbe l’analisi estetica con una pedagogia umanista, e ammonirebbe ex cathedra, la coscienza degli scrittori?
Tutti i critici di Lukács pensano che egli trasgredisca l’immanenza estetica delle opere, imponendo alla loro dialettica interna esigenze eteronome. Ma un’analisi attenta dei suoi testi mostra che egli cerca di svelare nell’intimità delle opere sottoposte alla sua critica uno scivolamento verso uno stato di «falsa coscienza», le cui conseguenze negative sul piano estetico gli appaiono considerevoli. Quando esige una distanza critica nei confronti dei sentimenti provocati dall’alienazione generalizzata e dall’instabilità permanente del mondo che circonda la coscienza degli scrittori (angoscia, paura, diffidenza, ecc.), egli non lo fa in nome di un intervento discorsivo, che spezzerebbe l’immanenza estetica delle opere, o di una presenza tematica diretta delle «contro-tendenze e contro-forze» di cui parla nel Significato attuale del realismo critico. Si tratta piuttosto di un richiamo alla lucidità dello scrittore che non deve lasciare che la sua coscienza si immobilizzi davanti all’irrazionalità del mondo, e può trovare nel suo io profondo una forza di resistenza e di opposizione.
Harold Rosenberg ha ritenuto giusto di ironizzare su questo «volontarismo» di Lukács, che esigerebbe dagli scrittori e dagli artisti una coscienza diversa (altra) da quella che è stata loro imposta dalle condizioni di vita reali. L’articolo di Harold Rosenberg è stato pubblicato nella rivista americana «Dissent», con il titolo G. Lukács e la terza dimensione, ed è stato riprodotto poco dopo (nel 1965) da «Les Temps modernes». Il critico americano cerca di appoggiarsi su Marx e in particolare su una tesi famosa del Manifesto del partito comunista per opporsi a Lukács. Si ritrovano nella sua argomentazione certe tesi di Adorno, di cui tuttavia sembra ignorare il saggio polemico diretto contro Lukács:
«Si Marx a raison et si ‘l’instabilité permanente’ est bien un trait de notre époque, ses effets, après cent ans, n’ont pas manqué de teinter d’angoisse tous nos sentiments et ‘l’agitation permanente’ a fait du chaos l’élément constitutif de la sensibilité contemporaine. En donnant une forme à ces états tels qu’ils sont effectivement éprouvés, la littérature et l’art moderne ne se réfèrent nullement à une condition intemporelle mais à une condition caractéristique de ce temps… La conception que se fait Lukács de la dialectique matérialiste exige paradoxalement que les conditions d’existence soient transformées dans la littérature avant qu’elles ne l’aient été dans la vie. Un art qui traduit l’‘instabilité permanente’ est, quel que soit par ailleurs son caractère, simple ‘naturalisme’ aux yeux de Lukács, et par là même inférieur aux oeuvres réalistes issues des constructions mentales propres à une perspective humaniste sociale». La conclusione di Harold Rosenberg vuole essere sferzante: «Si, pour Marx, toutes formes solides se volatilisent, pour Lukács, elles n’ont aucun droit de se comporter ainsi dans le roman» (G. Lukács et la troisième dimension, «Les Temps modernes», 1965, pp. 921-922).
Nella Conciliazione sforzata, Adorno fonda anche lui la sua critica estetica e le sue prese di posizione nei riguardi di Lukács su una rappresentazione precisa della storia. È d’altronde uno degli aspetti più appassionanti e più istruttivi della polemica tra i due pensatori il modo con cui ciascuno trasforma l’estetica e i suoi propri giudizi sull’arte contemporanea in un terreno di elezione per la propria filosofia della storia. La violenza di certe frasi di Adorno contro Lukács, specie quando Adorno parla dell’atteggiamento di Lukács verso Beckett, si può comprendere unicamente come lo scontro di due visioni della storia contemporanea profondamente diverse. «Critici di tendenza totalitaria come Lukács – scrive Adorno in un saggio sul Finale di partita di Beckett – che infuriano contro quell’invero terribile semplificatore che è Beckett accusandolo di decadenza, fanno assai bene l’interesse dei loro capi: odiano in Beckett ciò che hanno tradito» (Versuch das Endspiel zu verstehen, tr. it., Tentativo di capire il «Finale di partita», in Note per la letteratura, op. cit., pp. 269-270).
È precisamente nel suo articolo su Beckett che Adorno afferma la sua convinzione che la società contemporanea ha subito un cambiamento profondo in rapporto a quella che era stata oggetto dell’analisi di Marx. La «negatività sociale» (die gesellschatliche Negativität) avrebbe assunto tali proporzioni, la reificazione dei rapporti sociali avrebbe raggiunto un tale grado di universalità, che l’idea di una razionalità intrinseca al processo storico, dovendo necessariamente condurre all’abolizione di questa società, gli sembra irrimediabilmente superata. Adorno parla volentieri dell’«irrazionalità» della tarda società borghese, che non gli sembra più padroneggiabile da un soggetto storico positivo. Bisogna ricordarsi, a questo proposito, che alla fine del secondo dei suoi Tre studi su Hegel, Adorno rimprovera a Lukács di aver «riaccesa» una delle tesi «più dubbie» di Hegel, quella su «la razionalità del reale», mentre l’idea che i membra disjecta della società borghese sarebbero suscettibili di essere uniti in una totalità armonica (conformemente al principio hegeliano che la «totalità è verità») gli appariva fuori luogo. Il carattere incommensurabile del male sembra dominare la rappresentazione di Adorno sulla società contemporanea. «L’irrazionalità della società borghese nella sua fase più tarda è restia a farsi comprendere: erano ancora bei tempi quelli in cui si poteva scrivere una critica dell’economia politica di questa società, cogliendola pienamente nella ratio a lei propria. Perché la società ha ormai gettato questa ratio tra i ferri vecchi sostituendola virtualmente con una autorità immediata su ogni cosa» (Note per la letteratura…, op. cit., p. 270). È perfettamente comprensibile che attraverso una tale visione del mondo, Beckett si riveli per Adorno una figura paradigmatica della letteratura moderna. Lo studio che il critico ha consacrato al Finale di partita svela pienamente le sue affinità profonde con l’autore che avrebbe conferito una espressione-limite alla situazione storica della «catastrofe permanente».
Adorno nutriva uno scetticismo profondo riguardo all’esigenza lukacsiana di relativizzare questo sentimento dell’irrazionalità del mondo contemporaneo come se si trattasse di una apparenza o di un simulacro. Lukács, in effetti, non metteva in dubbio l’autenticità di questo sentimento del mondo (Grunderlebnis) che è dell’avanguardia, ma era fermamente convinto che fermarsi lì significava limitarsi al piano dell’immediatezza. Tutti i suoi ragionamenti erano impregnati dalla convinzione che la pressione invadente dell’alienazione, malgrado le sue apparenze di universalità, può essere demistificata (sfatata) e che potenzialità di resistenza e di opposizione alla negatività esistono sempre nell’immanenza stessa del processo storico. Adorno faceva, al contrario, della «immersione impietosa» nella negatività, del fatto di assumere senza compromessi l’atomizzazione radicale della vita e della distruzione dei punti di appoggio tradizionali, fino alla distruzione delle forme ereditate, la fonte di vitalità delle grandi opere dell’avanguardia. «Ciò soltanto dà la sua forza a Kafka, Joyce, Beckett, alla grande musica moderna. Nei loro monologhi echeggia l’ora che è suonata per il mondo: perciò eccitano molto più di quelle che descrivono in modo comunicativo il mondo» (Conciliazione sforzata, in Note per la letteratura, op. cit., p. 255).
Adorno, conseguentemente, si rifiutava di lasciarsi imprigionare da ciò che egli chiamava in modo sarcastico «l’ottimismo ufficiale delle contro-tendenze», di cui Lukács parlava nel suo piccolo libro del 1957.
Ma è sulla nozione di realismo che la separazione si delinea con più forza. Adorno era persuaso che i cambiamenti intervenuti nella struttura della società moderna implicavano che il vero realismo, nel romanzo contemporaneo, comportasse, in maniera apparentemente paradossale, l’abbandono della forma realistica tradizionale. Il punto di partenza delle sue riflessioni a tale riguardo, è la crisi dell’individuo. Nell’epoca del mondo amministrato, della standardizzazione e della reificazione generalizzata dei rapporti interumani, la realtà dell’individuo autonomo, capace di opporsi alla pressione delle circostanze e di giungere finanche a padroneggiarle, gli sembra del tutto superata. Ora, è giustamente questa realtà che forniva la trama sostanziale del romanzo realista tradizionale. Nell’introduzione al testo su «La posizione del narratore nel romanzo contemporaneo», Adorno ha formulato chiaramente «il paradosso» della situazione del narratore davanti alla realtà contemporanea: «non si può più raccontare, mentre la forma del romanzo esige narrazione» (Note per la letteratura, op. cit., p. 38).
Si rifa spesso ad un testo di Brecht, estratto da L’opera da quattro soldi (Dreigroschenbuch),che caratterizza lo ens realissimum della società contemporanea come un insieme di processi e non di fatti immediati, di processi che non si lasciano direttamente rappresentare: «La situazione viene complicata dal fatto che mai una semplice ‘riproduzione della realtà’ dica qualcosa sulla realtà. Una fotografia delle industrie Krupp o della AEG non dice praticamente nulla su queste istituzioni. La realtà vera e propria è scivolata nella funzione. La reificazione dei rapporti umani, e dunque ad esempio la fabbrica, non ci dà più i rapporti stessi» (op. cit., p. 141).
Nella Lettura di Balzac, Adorno non si accontentava di citare Brecht come testimone in favore dell’idea che il realismo come forma letteraria sarebbe superato, «poiché come rappresentazione della realtà non colse la realtà», ma rimprovera en passant Brecht stesso, «che si infilò nella camicia di forza del realismo trattandolo da costume da mascherata» (Note per la letteratura, op. cit., p. 141).
È interessante constatare quanto Adorno sia rimasto fedele nel movimento del suo pensiero alle idee sviluppate nella Teoria del romanzo dal giovane Lukács. La tensione tra ciò che Lukács chiamava il mondo della «convenzione», quello dei rapporti umani reificati (che egli indicava anche come «seconda natura»), e la «pura interiorità» dell’anima, esiliata senza via di scampo in mezzo a questo mondo, è il punto di partenza delle considerazioni di Adorno sul romanzo contemporaneo. Egli si rapportava già esplicitamente a questa idea lukacsiana in uno dei suoi primi testi, la conferenza tenuta nel 1932 alla Kant-Gesellschaft di Francoforte, con il titolo Die Idee der Naturgeschichte; associava in maniera molto significativa, agli sviluppi lukacsiani le tesi di Walter Benjamin sul «lato malato della storia» (la «facies hippocratica der Geschichte») come fonte dell’arte allegorica (Th. W. Adorno, Philosophische Frühschriften in Gesammelte Schriften, Band 1, Surkamp, 1973, pp. 355 ss.). Definendo i romanzi moderni come «epopee negative», Adorno non faceva in fondo che radicalizzare e spingere al limite le tesi di Lukács, il quale si chiedeva alla fine della Teoria del romanzo se gli scritti di Dostoevskij possano ancora considerarsi romanzi, o se non siano piuttosto le prefigurazioni di una resurrezione dell’epopea nel mondo moderno.
Il romanzo moderno appariva ad Adorno come la «cifra» di una situazione storica nella quale si assiste alla «liquidazione dell’individuo». L’abdicazione del soggetto sotto «l’orrore dell’anonimato» non si lascerebbe più esprimere dalla fedeltà alle apparenze, ma dall’acquisizione di una dimensione metafisica, radicata nell’«io intelligibile» dei personaggi (e non nel loro io immediato «empirico») di cui la «tendenza antirealista» del romanzo moderno è l’espressione artistica necessaria. «Il momento antirealistico del nuovo romanzo, la sua dimensione metafisica, viene essa stessa maturata dal suo oggetto reale, una società nella quale gli uomini sono strappati gli uni dagli altri e da se stessi. Nella trascendenza estetica si riflette il disincanto del mondo» (Il narratore del romanzo contemporaneo, in Note per la letteratura, op. cit., p. 40).
Tanto il ragionamento di Adorno sembra pertinente ed illuminante, tanto la sua volontà di mostrare che la categoria del realismo, nell’accezione lukacsiana del termine, oltre a quella che sarebbe diventata inoperante per la letteratura moderna, sarebbe in fondo inapplicabile anche ai grandi classici del diciannovesimo secolo (Balzac e Dickens, per esempio), testimonia di un evidente partito preso. Adorno vuole demistificare l’immagine proposta da Lukács dei grandi realisti del passato, dimostrando (e la sua argomentazione è lungi dall’essere priva di interesse) quanto poco la loro creazione fosse sottomessa alla legge del rispecchiamento mimetico. Balzac non gli sembra, in questo senso, del tutto cosi lontano dai grandi romanzieri del ventesimo secolo (Joyce, Kafka, Musil), quelli che egli chiama ironicamente «le vittime avanguardistiche della giustizia di classe lukacsiana» (Conciliazione sforzata, in Note per la letteratura, op. cit., p. 252).
In un passo molto interessante del testo su Balzac, Lettura di Balzac, Adorno propone una interpretazione molto personale dell’interpretazione formulata da Engels, nella lettera assai nota a Margaret Harnkess, che preferiva Balzac a «tutti i Zola passati, presenti e futuri». Certo, Adorno non si nasconde che Engels fa in questa lettera l’elogio del realismo di Balzac, ma egli ci tiene a precisare che, settant’anni dopo l’affermazione di Engels, l’opera di Balzac appare meno realista di quanto non lo fosse agli occhi dei fondatori del marxismo. Questi erano posti a confronto con l’ondata ascendente di un romanticismo fiorente da bottega; ciò sarebbe sufficiente per togliere all’affermazione di Engels la cauzione che i sostenitori dell’estetica marxista ufficiale vi vogliono trovare per sostenere la loro posizione. Adorno non esita ad interpretare l’elogio di Balzac fatto da Engels a danno di Zola come la testimonianza, in fondo, di una preferenza per gli aspetti «meno realistici» di un’opera che si distingueva nettamente dalla fedeltà pragmatica al reale, su una base di argomenti scientisti, come si caratterizzerebbe l’opera di Zola. È qui che Adorno fa un parallelo rivelatore tra la storia della letteratura realista e ciò che gli sembra essere un fenomeno analogo nella storia della filosofia: identificando più o meno il realismo al naturalismo e stabilendo una stretta connessione tra naturalismo e positivismo, caratterizzati entrambi da una rappresentazione limitata del reale, ridotta all’«esposizione protocollare dei fatti», Adorno riscontra che le recriminazioni degli scrittori naturalisti nei riguardi dei loro predecessori, accusati di essere insufficientemente realisti (Zola versus Balzac), somigliavano perfettamente alle accuse di «metafisica» lanciate dai positivisti ai loro antenati, i veri filosofi.
En passant, Adorno stesso menziona che l’idea di una convergenza tra il senso profondo dell’opera (il senso «metafisico») e lo spirito oggettivo dell’epoca, al di là delle intenzioni discorsive dello scrittore, si trova anche nelle considerazioni di Lukács sul realismo di Balzac. Ma egli rifiuta di seguire Lukács nella assolutizzazione del concetto di realismo: l’idea di «senso» metafisico dell’opera gli sembra incompatibile con la canonizzazione del realismo, nel senso lukacsiano del termine (Lettura di Balzac in Note per la letteratura, op. cit., p. 145).
Adorno e Lukács erano invece d’accordo nell’affermare la «trascendenza» dell’opera d’arte in rapporto alla praxis immediata e alle contingenze politiche. Focalizzare l’attenzione sulla dinamica interna dell’opera, decifrando nella concatenazione dei temi e nel campo delle tensioni l’iscrizione del contenuto di «umanità» – è un motivo comune ai loro pensieri estetici. Assillati da propositi pieni di acrimonia sostenuti spesso da ciascuno dei due pensatori nei riguardi dell’altro, i commentatori hanno agevolmente ignorato le somiglianze evidenti tra certe tesi importanti delle due Estetiche: nessuno, secondo le nostre conoscenze, ha pensato di rilevarle con uno studio comparativo. Non bisogna dimenticare, per non citarne che un solo esempio, la loro comune diffidenza verso l’estetica delle Lehrstücke (Opere didattiche) brechtiane: un impegno politico troppo diretto e ostentato delle opere d’arte sembrava loro, ad entrambi, contrario alla specificità dell’attività estetica (Adorno formulò le sue riserve rispetto alle Lehrstücke di Brecht in una lettera inviata a Ernst Krenek il 26 maggio 1935; più tardi sviluppò i suoi argomenti sconfessando non solo certi lavori teatrali di Brecht ma anche il teatro impegnato di Sartre, nel testo Impegno riprodotto in Note per la letteratura; Lukács, da parte sua, prese le distanze dall’estetica brechtiana nel secondo volume della sua Estetica.
L’ombra della grande estetica hegeliana appare spesso sullo sfondo delle considerazioni formulate dall’uno o dall’altro. Quando si tratta di formulare la severa critica dello stile di Toscanini nell’interpretazione delle grandi opere del passato (soprattutto le sinfonie di Beethoven), rimproverandogli un «perfezionismo» tecnico, cieco a certe sfumature, infinitesimali ma decisive che conferiscono all’opera profondità e «infinità intensiva» (per usare questa volta una espressione cara a Lukács), Adorno fa appello alla nozione di «senso», trascendente «l’éclat sensuel», mutuata dalla famosa definizione hegeliana del bello come «apparizione sensibile dell’Idea» (cfr. Die Meistersschaft des Maestro, in Klangfiguren, Musikalische Schriften 1, Gesammelte Schriften, Band 16, p. 66; Il fido maestro sostituto, trad. it., Torino, Einaudi, 1982, p. 38). I riferimenti all’estetica hegeliana abbondano anche nella Filosofia della musica moderna. Quanto a Lukács, egli ha sempre riconosciuto in Hegel il punto più alto dell’estetica del passato.
Segnalare i punti di convergenza, spiegabili con una eredità filosofica comune (senza più insistere sull’influenza duratura esercitata sul pensiero di Adorno dalla Teoria del romanzo e dalla Storia e coscienza di classe),non significa nascondere la divergenza, perfino l’opposizione, degli orizzonti ermeneutici di questi due critici. Adorno ha cercato di far valere il daltonismo estetico di Lukács rispetto all’arte moderna, mettendo in evidenza certe insufficienze fondamentali della sua filosofia dell’arte; ma, la concezione estetica di Lukács, l’abbiamo già visto, non si lascia così facilmente semplificare, essa si rivela più differenziata e più complessa (dunque più resistente) dell’immagine costruita da Adorno. La polemica intorno all’opera di Bartók può essere a tal fine rivelatrice. È fuor di dubbio che, sul piano della competenza tecnica, Adorno fosse infinitamente più preparato per l’analisi del discorso musicale. Tuttavia, Lukács non ha esitato ad opporre, nell’Estetica, un rifiuto (molto) categorico al verdetto di Adorno su Bartók. Nel suo studio intitolato Invecchiamento della musica moderna, riprodotto nel libro Dissonanze (Milano, Feltrinelli, 1959), Adorno metteva vigorosamente in questione una dichiarazione di fedeltà riguardo al principio della tonalità, fatta da Bartók, in nome del suo profondo radicamento in certe tradizioni del folclore: con un ragionamento un po’ sbrigativo Adorno si stupiva che un antifascista così convinto come Bartók, la cui condotta su questo piano gli sembrava esente da qualsiasi sospetto, abbia potuto parlare in nome di un simile populismo (Adorno usa il termine «völkisch», con tutte le connotazioni negative che la parola ha assunto nel vocabolario della destra), tanto la connessione tra fascismo e populismo (id est folklorisme) gli sembrava evidente.
Non era difficile a Lukács contestare la sinonimia astratta (folclorismo-populismo-fascismo) evidenziata da Adorno contro Bartók, mostrando il senso completamente differente dell’attaccamento al folclore del suo compatriota. Ma la posta in gioco del dibattito supera di gran lunga la polemica limitata a questo punto. Bela Bartók apparteneva alla generazione dei grandi innovatori della musica moderna e, nelle prime pagine della Filosofia della musica moderna, Adorno gli accordava un posto di rilievo tra Schönberg e Stravinsky (si avvaleva in questo senso di uno studio di René Leibowitz pubblicato in «Les Temps Modernes»), collocandolo al di sopra di Stravinsky. Tuttavia, nel suo saggio Invecchiamento della musica moderna, Adorno prendeva Bartók come bersaglio, partendo dalla dichiarazione summenzionata, per denunciare una tendenza più generale che egli giudicava reprensibile: Bartók si è rivelato un compagno infedele della vera avanguardia, numerose sue composizioni sono più retrograde se rapportate alle posizioni conquistate dalla scuola di Vienna (è solo un continuatore di Brahms in molte sue composizioni). Trascinato dalla sua verve dimostrativa, Adorno lo rimprovera di avere sostituito le sonorità minacciose, eruttive ed estreme (ungeheuer) delle composizioni di avanguardia con opere «addomesticate», una musica che somigliava ad un incendio di puszta con la csardas, scegliendo infine come patrono il Liszt del Mazeppa (Invecchiamento della musica moderna, in Dissonanze, op. cit., pp. 161-162). Lukács difende Bartók contro Adorno, avvalendosi di un esempio preciso, quello di un’opera che amava più di ogni altra: la «Cantata profana» (composta da Bartók nel 1930, su un testo mutuato da canti popolari romeni). Rifiuta il carattere «astratto» del rimprovero di folklorismo rivolto da Adorno a Bartók e si pone nello spazio interno dell’opera, cogliendo nelle qualità specificamente musicali della «Cantata profana» (il carattere straziante del canto dei figli trasformati in cervi nel rispondere al richiamo del padre) l’espressione «paradossale-tragica» della «disperazione», la voce umana della resistenza nei confronti della negatività sociale, che in quell’epoca assumeva l’aspetto del fascismo nascente e trionfante (cfr. Lukács, Estetica, trad. it., Torino, Einaudi, 1973, vol. 2, pp. 631-632).
L’interesse di questa presa di posizione consiste nel mostrare con evidenza che il discorso correntemente sostenuto sull’insensibilità di Lukács nei riguardi dell’arte moderna deve essere seriamente sfumato, se non addirittura rivisto (pensiamo, per esempio, alle opinioni reiterate di Fritz Raddatz, dopo il suo saggio su Lukács e Adorno Der hölzerne Eisenring…, pubblicato in «Merkur» e ripreso nel libro Revolte und Melancholie, fino ai suoi articoli più recenti, quali quello sulla corrispondenza del giovane Lukács, in cui avanza, impavido, gli stessi clichés).
L’estetica lukacsiana è lungi dall’essere priva di strumenti concettuali inerenti alla comprensione dell’arte del ventesimo secolo come credono i suoi avversari (Adorno in testa). Contrariamente a numerosi pregiudizi ben radicati, conviene ristabilire anche la verità per quel che concerne il suo atteggiamento rispetto all’opera di Franz Kafka (oggetto importante delle recriminazioni di Adorno verso Lukács): molti testi pubblicati da Lukács, a cominciare dall’Estetica, rivelano la profonda ammirazione che egli riserva all’autore del Processo.
In riferimento ai giudizi critici espressi nel 1958 nel libro di Lukács Il significato attuale del realismo critico, Adorno ha creduto di vedere nel cambiamento di atteggiamento nei riguardi di Kafka un test sulla fragilità della concezione estetica lukacsiana. In una lettera dell’8 dicembre 1967 diretta all’editore delle opere di Lukács, Frank Benseler, in cui egli cominciava col protestare nel vedere il suo nome mescolato da Benseler tra i critici «borghesi» di Lukács (e, per colmo di orrendi versi a fianco di Fadeev, per il quale d’altronde Lukács fu anche, per molto tempo una bestia nera!), Adorno parlava di una informazione «credibile» secondo cui Lukács avrebbe dichiarato, durante la sua prigionia rumena (fu deportato nel novembre del 1956 con Imre Nagy e gli altri dirigenti della rivoluzione ungherese in Romania), di aver compreso che Kafka era uno scrittore realista. Adorno scriveva a Benseler «… Lukács, come sembra, ha rivisto la sua posizione nei riguardi di Kafka, allora il suo verdetto su Beckett non può neanche essere mantenuto; è vero che dovrebbe allora criticare il preteso realismo socialista molto più risolutamente di quanto gli sia possibile fare … Io credo d’altronde che un vecchio amico di Lukács come Bloch è d’accordo anch’egli con me su questo punto». Alla fine della sua lettera, Adorno faceva un complimento a Lukács, cercando di mostrarsi più morbido nei riguardi del suo avversario di quanto non lo fosse stato nel suo vecchio articolo Conciliazione sforzata: «Va da sé che il mio rispetto davanti al coraggio con cui Lukács ha preso le sue distanze nei riguardi degli studiosi di estetica più limitati del Diamat non è scalfito da questa controversia» (abbiamo consultato la lettera di Adorno a Benseler negli Archives-Lukács di Budapest, perché Frank Benseler ne aveva inviato una copia a Lukács).
Ci sembra evidente che Adorno ignorasse i diversi passi degli scritti di Lukács in cui questi forniva, in maniera succinta, le ragioni estetiche ed etiche del suo giudizio più sfumato sull’opera di Kafka in rapporto al testo del capitolo «Franz Kafka oder Thomas Mann?» del suo libro sul realismo critico. In una lettera ad un critico brasiliano, Carlos Nelson Coutinho, datata 26 febbraio 1968, Lukács deplorava del resto il carattere insufficiente di certi ragionamenti formulati nel suo vecchio libro, spiacendosi di aver redatto troppo in fretta il testo consegnato alle stampe. Noi pensiamo soprattutto al parallelo illuminante tra le opere di Swift e di Kafka, formulato per la prima volta nella prefazione del 1964 al sesto volume delle sue opere pubblicate presso Luchterhand: i due scrittori avrebbero costruito un’immagine fantastica e profetica delle tendenze negative del loro tempo, le parabole di Kafka che rappresentano la contro-umanità del mondo dell’ultima parte del regno di Franz Joseph, lasciando trasparire attraverso una negatività onnipresente la rivolta contro l’aberrazione. Le esortazioni di Adorno affinché Lukács modificasse anche il suo giudizio su Beckett sono rimaste senza seguito. La distanza tra le due posizioni si rivelava su questo punto irriducibile. Lukács non poteva rassegnarsi all’estinzione di una vox humana nell’evocazione di un mondo rovesciato: l’immersione compiacente nella decomposizione, di cui accusava Beckett, suscitava la sua ostilità profonda. È in nome della presenza di un tale fluido di umanità nelle profondità dell’opera di Kafka che egli opponeva in una pagina della sua Estetica il Processo di quest’ultimo al Molloy di Beckett.
Adorno, da parte sua, reagiva vivacemente quando la sua difesa di una «logica della decomposizione» («Logik des Zerfalls»), conseguenza inevitabile sul piano estetico di un’arte eminentemente negativa, era interpretata come un atto di compiacenza, se non di capitolazione, davanti alla negatività dominante. Era il senso del rimprovero che gli rivolgeva Lukács, nella prefazione alla Teoria del romanzo, cioè di abitare in un «Grand Hotel Abgrund», un grand hotel di fronte a un abisso, da dove assaporava un conforto raffinato contemplando lo spettacolo del precipizio, dell’assurdo e del non-senso. Quando Rolf Hochhuth, ammiratore delle posizioni di Lukács, invia a questi una lettera che deve servire da prefazione ad un articolo di omaggio per il suo ottantesimo compleanno, in cui prende di mira la tesi adorniana sulla «dimissione del soggetto» (Abdankung des Subjetks), dimissione raffigurata da certe opere di avanguardia, Adorno gli risponde con una Lettera aperta a Rolf Hichhuth (pubblicata nel 1967 in FAZ e riprodotta in Note per la letteratura, 1961-1968, Torino, Einaudi, 1979, pp. 265-272): egli cerca di persuadere il suo interlocutore che il teatro dell’assurdo, in particolare, e l’arte negativa, in generale, hanno una funzione critica molto più convincente e più profonda, contrariamente alla negatività sociale, dell’arte «umanista», di cui Adorno deplora la Weltfreundlichkeit (la benevolenza nei riguardi del mondo) come forma di compiacenza estremamente insidiosa.
La controversia estetica tra Adorno e Lukács sottintendeva opzioni politiche divergenti. Nonostante una forte matrice comune del loro pensiero, le divergenze che apparivano nei loro giudizi estetici erano legate, mediante molteplici mediazioni, a convinzioni politiche e finanche filosofiche molto diverse. La poca stima con la quale Adorno considerava non solo le opere di Gorki (in una pagina della Teoria estetica, gli opponeva Strindberg, come autocoscienza dell’individualismo borghese in dissoluzione), ma anche gli ultimi lavori teatrali di Brecht, contrastava con il giudizio di Lukács che apprezzava molto l’uno e l’altro. Questa opposizione è solo un esempio tra gli altri dei loro approcci estetici divergenti, avallati dalla divergenza della loro presa di posizione politica.
I sarcasmi di Adorno nei riguardi di concetti quali il «realismo critico» e, soprattutto, il «realismo socialista» sono abbastanza conosciuti, mentre Lukács non esitava a difendere quest’ultimo concetto, sia nell’Estetica che nel piccolo libro molto elogiativo su Solzenicyn (distinguendolo dunque con cura dall’accezione funesta che gli è stata data dall’estetica ufficiale del Diamat): le connotazioni politiche di queste prese di posizione appaiono evidenti.
Un episodio rimasto poco conosciuto ci servirà ad illustrare in maniera eloquente questa situazione. Nel 1949, di ritorno in Germania, dopo l’esilio americano, candidato ad una cattedra di filosofia all’Università di Francoforte, Adorno apporende che la rivista «Merkur» si prepara a pubblicare un articolo di Max Bense sulle posizioni filosofiche difese da lui e Horkheimer nella Dialettica della ragione .Adorno prega il redattore-capo della rivista, Hans Paeschke, di fargli pervenire le bozze e constata che Bense associa l’orientamento del loro pensiero (il suo e quello di Horkheimer) a quello di Lukács e di Bloch. Avverte subito il suo amico Horkheimer, che si trovava ancora negli Stati Uniti, e il loro scambio di lettere mostra fino a qual punto i due fossero preoccupati, in quel momento, di essere associati a pensatori ritenuti rappresentare davanti all’opinione pubblica il «campo socialista». In più Adorno prepara per «Merkur» una messa a punto, destinata a formulare con estremo vigore l’opposizione radicale che li separava, lui e Horkheimer, dalla politica dei «Turkistaner» (è sotto questo nome di codice che tutti e due designavano nelle loro lettere i sovietici e i loro alleati). Egli scrive anche a Bense per chiedergli insistentemente di segnalare, almeno, nel suo articolo, questa opposizione, al fine di evitare ogni identificazione con i «doctores» Lukács e Bloch. L’allarme di Adorno è sicuramente spiegabile con la congiuntura politica in Germania in quel periodo (non bisogna dimenticare che lui e Horkheimer volevano allora reintegrare l’Istituto di sociologia a Francoforte e che egli stesso era candidato ad un posto di professore all’Università): fin da allora prendere fermamente le distanze riguardo alla sinistra comunista appariva loro dunque indispensabile per non mettere in pericolo i loro disegni. Ciò che è più interessante, per il nostro caso, è un passo della lettera indirizzata da Adorno a Hans Paeschke, il 12 dicembre 1949, in cui menziona che Horkheimer e lui stesso stanno preparando il secondo volume della Dialettica dell’Illuminismo, che doveva contenere un «confronto critico con Lukács». Il passo deve essere citato interamente (si rapporta al desiderio espresso da Adorno di impedire la pubblicazione, tale e quale, dell’articolo di Max Bense, e forse al desiderio espresso da Paeschke di accettare eventualmente un articolo di Adorno su Lukács): «Credo mio dovere fare appello alla sua comprensione, che lo studio (di Max Bense, N.T.) ci associa confusamente con certi teorici con i quali noi ci troviamo nella più aspra opposizione: per il secondo volume della Dialettica noi lavoriamo ad una discussione critica con Lukács (an einer kritischer Auseinnandersetzung mit Lukács), e con il mio amico di un tempo Ernst Bloch sono inimicato, per ragioni obiettive (aus sachliche Motiven), da diversi anni». Le nostre ricerche non ci hanno permesso di stabilire se il progetto di un secondo volume della Dialettica della ragione sia stato effettivamente messo in cantiere (con una analisi critica degli scritti di Lukács), o se si trattasse di una semplice formula di circostanza, destinata ad un fine ad hoc .Resta il fatto incontestabile che la presa di distanza molto netta nei riguardi di Lukács, come del resto nei riguardi di Bloch, aveva nel contesto per Adorno un senso politico preciso: rimarcare la propria opposizione vigorosa come quella di Horkheimer, ad ogni impegno a fianco della sinistra comunista. «Merkur» pubblicò finalmente l’articolo di Max Bense nel numero di marzo del 1950, ma Horkheimer e Adorno rinunceranno a pubblicare la loro messa a punto, redatta da Adorno: rileggendola oggi, non si può non essere colpiti dalla lucidità di Adorno per quel che concerne alcune tendenze repressive della politica sovietica.
La cronaca dei rapporti Adorno-Lukács comporta un ultimo sussulto, piuttosto inatteso, se prendiamo in considerazione una testimonianza contenuta in una lettera indirizzata il 19 novembre 1968 a Lukács da Franz Benseler. Quest’ultimo parlava di una lunga conversazione che aveva avuto con Adorno: si assiste ad un voltafaccia abbastanza spettacolare della posizione di Adorno rispetto a Lukács (ma le circostanze del tutto personali di questa nuova presa di posizione le conferiscono, a nostro avviso, un interesse piuttosto aneddotico). Adorno aveva fatto sapere a Benseler la sua viva irritazione per un brano, fortemente critico nei suoi riguardi, del libro di Bloch Ateismo e Cristianesimo recentemente apparso (Bloch parlava della «disperazione reificata» presente nel pensiero di Adorno; per un’analisi delle divergenze Bloch-Adorno su questo punto si veda il libro di Marc Jiménez, Vers une esthétique negative, pp. 191 ss.): è in questa occasione, scrive Benseler a Lukács, che Adorno gli aveva parlato del suo (nuovo) disaccordo con Bloch e gli aveva detto chiaramente che avrebbe preferito intendersi con Lukács («er möchte sich mit Ihnen gern verständigen») perché giudicava la posizione di Lukács molto più solida (dauerhafer) di quella di Bloch, in ogni caso «inattaccabile sul piano morale». Nella sua risposta, contenuta in una lettera datata 28 novembre 1968, Lukács scrive a Benseler che trova del tutto divertente «die Sache Adorno», tuttavia si mostra «estremamente scettico» rispetto all’accostamento di Adorno al suo pensiero. Reitera la sua antica persuasione che Adorno svolge «un ruolo schopenhaueriano» nella vita intellettuale (ricordando che considera la dialettica negativa come un Gran Hotel «Abgrund»; tuttavia, si può dubitare che in quel momento egli avesse letto effettivamente la Dialettica negativa): egli sottolinea, al contrario, che malgrado tutto ciò che lo separa filosoficamente da Bloch, ha sempre stimato in massimo grado la sincerità del suo impegno a sinistra. Nondimeno, Lukács aggiunge, in conclusione, anche lui è stato tentato nel vedere nell’affermazione di Adorno quanto all’accostamento col suo pensiero «un sintomo del tempo»: alla fine del 1968, Lukács era incline a palesare segni di cambiamento in favore della sua linea di pensiero.
Possiamo soltanto ripeterlo: la storia delle idee degli ultimi decenni considererà soprattutto i dissensi profondi fra i due studiosi di estetica e filosofia e il significato del conflitto che li vide in contrasto. Anche se possiamo essere tentati di evidenziare, perché sono stati troppo spesso dimenticati o trascurati, certi tratti comuni o certi punti di convergenza tra le due posizioni: il profondo radicamento comune nella critica marxiana della reificazione, l’assimilazione dell’eredità hegeliana, l’ostilità comune rispetto al neo-positivismo o al pensiero di Heidegger, la fedeltà a certi concetti estetici fondamentali («l’immanenza del senso», la «totalità intensiva», la migrazione dell’esteriorità storico-sociale all’interno dell’opera, la «plurivalenza» – la «Mehrdeutigkeit» o la «Vielschichtigkeit» – del senso estetico, il carattere di «verità» dell’opera d’arte, ecc.), tuttavia le divergenze prevalgono di gran lunga. La militanza estetica di Adorno, sin dagli inizi, in favore delle posizioni della «scuola di Vienna» (Schönberg, Webern, Alban Berg) ha segnato la scala di valori lungo tutta la sua vita intellettuale; per Lukács, la creazione di questi compositori sembra essere rimasta terra incognita (nell’estetica si trovano soltanto una o due menzioni sporadiche, anche se elogiative, nei riguardi di «Wozzeck» di Alban Berg). L’affinità che Adorno si è scoperta, agli inizi, per il «pensiero barocco» di Kierkegaard, in consonanza con la forte influenza esercitata su di lui in quel momento da Walter Benjamin, apparteneva in quel tempo, per Lukács, definitivamente al passato (Kierkegaard lo ha fortemente segnato nel periodo de L’Anima e le forme e della Teoria del romanzo).Al contrario, Lukács ha concentrato tutto lo sforzo della sua maturità a valorizzare i principi del realismo nell’arte del XX secolo, interessandosi vivamente a scrittori ed artisti come Thomas Mann e Roger Martin du Gard, Joseph Conrad e O’Neil, Thomas Wolfe e Styron, Brecht e Arnold Zweig, Cézanne e Bartók, per i quali l’attività critica di Adorno non sembra aver testimoniato un troppo vivo interesse analitico (eccetto le pagine critiche su Brecht).
Si può sicuramente deplorare un certo conservatorismo o tradizionalismo del gusto estetico di Lukács (abbiamo cercato di mostrare i limiti di un tale rilievo critico), che gli ha impedito di prendere in considerazione, in modo adeguato, fenomeni importanti della musica moderna, come le opere già menzionate di Anton von Webern o dell’ultimo Alban Berg (quelle che Adorno ha analizzato in maniera squisita), o l’evoluzione della poesia moderna nel suo insieme (ammiratore da giovane di Stefan George, non è più ritornato, in modo approfondito, su analisi di questo genere; in pittura, le sue preferenze si fermavano a Cézanne e a Van Gogh). Ma non ci si può esimere, tuttavia, dal rilevare l’assenza di una vera analisi dei romanzi di Thomas Mann negli scritti critici di Adorno (non si sa quel che pensava del Doktor Faustus, romanzo al quale ha dato un importante contributo grazie alle informazioni musicali fornite all’autore), come pure l’ignoranza volontaria in cui ha tenuto, in quanto critico, le opere contemporanee che uscivano dal perimetro dell’avanguardia.
La scala dei valori estetici nei due critici è dunque rimasta essenzialmente opposta. Quanto alla filosofia, Adorno non ha mai nascosto la convinzione che l’epoca delle grandi sintesi totalizzanti appartenesse ad un passato definitivamente chiuso (la Dialettica negativa ne fornisce la testimonianza). Lukács è rimasto fedele alla convinzione opposta e, scrivendo negli ultimi anni della sua vita una voluminosa Ontologia dell’essere sociale (il termine stesso di Ontologia era violentemente abborrito da Adorno), egli ha voluto offrire, implicitamente, un’ultima e sferzante smentita alle posizioni difese dai suoi avversari della Scuola di Francoforte.