Viva Lukács, abbasso Lukács

«l’Unità», 24 luglio 1985

di Mauro Ponzi


Cesare Cases ha raccolto in un volume i saggi e il carteggio scambiato con il grande filosofo ungherese: un lungo sodalizio tra “amore e odio”

Nel centenario della nascita di Lukács, l’editoria pullula di saggi, di articoli, di libri sul filosofo ungherese; tutti più o meno tesi a individuarne la “grandezza”, il “valore”, l’“eredità”. Da questi si distingue nettamente il libro appena uscito da Einaudi (Su Lukács. Vicende di un’interpretazione) in cui Cesare Cases raccoglie i saggi scritti sul filosofo ungherese tra il 1956 e il 1985. Il volume nel suo complesso è un vero e proprio “omaggio a Lukács” (così s’intitola anche il primo saggio). In genere le apologie (e quelle su Lukács in particolare) sono patetiche e un po’ noiose; questo libro di Cases invece è interessantissimo e si legge tutto d’un fiato. In primo luogo perché non è un’apologia, in secondo luogo perché Cases fa sfoggio di tutta la sua ironia, così caustica da rasentare il sarcasmo, in terzo luogo perché contiene degli elementi autobiografici (e un interessantissimo carteggio con Lukács stesso) che fanno del volume nel contempo anche un saggio su Cases.

Continua a leggere
Pubblicità

Il demone della totalità

di Claudio Magris

«Corriere della sera», 6 giugno 1981


Nel decennale della morte del filosofo ungherese György Lukács

Doveva essere probabilmente il 1952, in occasione di qualche congresso internazionale della gioventù socialista, nella Vienna ancora occupata dalle quattro potenze vittoriose della seconda guerra mondiale ed avvolta in quell’atmosfera di epico ed errabondo smarrimento che Il terzo uomo, il famoso film con Orson Welles, ha colto così intensamente nell’impavida malinconia della sua vicenda e del suo motivo musicale. Almeno così ricorda Wolfgang Kraus, il sensibile e polivalente saggista viennese cui si deve una vigile opera di interpretazione e di mediazione dei fermenti intellettuali nei paesi dell’Est. Kraus, allora molto giovane, racconta — con qualche incertezza nei dettagli cronologici, ma con vivezza e precisione nei particolari significativi e nelle immagini — di avere ascoltato un discorso tenuto da Lukács nella cantina del caffè «Landtmann», l’accogliente ed amabile locale situato sul Ring, vicino al Burgtheater. Era, ricorda Kraus, un grigio ed aggressivo discorso di propaganda sovietica, pronunciato davanti ad un gruppo sparuto di ascoltatori — circa una trentina — e contemporaneamente trasmesso per radio in tutti o quasi tutti i paesi comunisti.

Continua a leggere

I luoghi comuni del realismo

di Vittorio Saltini

«L’Espresso», n. 3, 21 gennaio 1968.


Piero Raffa, Avanguardia e Realismo, Rizzoli, L 1.800.

Nel libro “Avanguardia e realismo), il saggio più ampio vuol essere una contrapposizione della mentalità di Brecht (secondo Raffa, realista, avanguardista e «nihilista») alla mentalità di Lukács, imputato in quanto umanista, «oggettivista» e retrogrado. Quest’antitesi di Brecht e Lukács diventa col tempo sempre meno accettabile. Ed è curioso che Raffa intenda criticare Lukács servendosi di frasi di Brecht come questa: «Quando l’arte rispecchia la vita, lo fa con specchi speciali. L’arte non diventa irreale quando altera le proporzioni». Giacché proprio per Lukács, che è stato il più duro critico di Zola e del naturalismo, l’arte davvero realistica altera appunto le proporzioni del quotidiano. Lukács ha la massima considerazione di scrittori come Swift e Hoffmann, e se fa obiezioni a Kafka non è certo perché Kafka “deforma”, ma per il particolare fondamento ideologico di tale deformazione. Ma dall’alto del suo neopositivismo, Raffa tratta l’«intrepido Don Chisciotte» Lukács con una sufficienza incosciente pari solo a quella con cui Pietro Citati ogni tanto lo liquida con due battute in qualcuna delle sue collezioni di aggettivi sul “Giorno”. Ma anche il tono di Raffa si fa notare: «Il fideismo da me individuato quale tratto caratteristico della mentalità di Lukács…».

Continua a leggere

L’arte moderna e la grande arte

di György Lukács

«Rinascita-Il Contemporaneo» n. 9, 27 febbraio 1965


Il dialogo con György Lukács che qui riportiamo, si è svolto a Budapest il 7 febbraio 1965. Nel riferire le dichiarazioni rilasciate dalla studioso ungherese, usiamo volutamente una forma discorsiva. Dipende da due motivi. Anzitutto molte risposte hanno, per ammissione dello stesso Lukács, il valore di una prima approssimazione ai problemi che il marxismo si pone oggi in tutti i paesi e in tutti i partiti comunisti. È un contributo, cioè, che lo stesso Lukács considera provvisorio, almeno per quanto riguarda le formulazioni delle proposte da lui fornite. Inoltre dobbiamo avvertire i nostri lettori che alcune affermazioni troppo recise (come i giudizi sulle esperienze letterarie e artistiche contemporanee o la professione di fede «antimodernista») erano pronunciate non senza qualche sfumatura di ironia o di auto-ironia che diventa difficile far balenare in un testo scritto. Per riprodurre almeno in parte il tono di vivacità che il nostro interlocutore ha voluto usare durante il colloquio, abbiamo pensato di riferire le sue dichiarazioni nella forma più diretta.

Continua a leggere

Nel corso di una tavola rotonda – Franco Fortini

di Franco Fortini

Aa.Vv., Filosofia e prassi. Attualità e rilettura critica di György Lukács e Ernst Bloch, a cura di R. Musillami, Diffusioni ’84, Milano 1989 [ora in Lukács chi? a cura di L. La Porta, Bordeaux, Roma 2021].


Non vorrei correre il rischio che hanno corso i miei due amici1: di parlare di tutto (Lukács) e in una certa misura di nulla. Di nulla, perché hanno fatto riferimento alla relazione di Preve che io non conosco. E poi c’è un’altra ragione, strettamente personale, alla quale bisogna accennare e cioè il fatto che sono quarant’anni che indirettamente discuto con Lukács tramite Cases. Quando Cases nelle pagine molto divertenti, molto belle d’introduzione alla sua raccolta degli scritti lukacsiani, dice che gli rimarrà sulle spalle in eterno la fama di essere stato l’introduttore di Lukács in Italia – cosa che egli nega – devo dire che perlomeno per me questo è vero. Negli stessi anni, negli stessi mesi in cui Cases frequentava Lucien Goldman a Zurigo, in quella stessa Zurigo, dove ho conosciuto Cases, mi aggiravo senza avere la possibilità, che Cases invece aveva, di leggere opere preziose come Storia e coscienza di classe perché non leggevo il tedesco; ma è per tramite suo e tramite l’amico Renato Solmi che siamo venuti a contatto con quel magico libretto. Non so donde provenisse quella copia, so che Solmi e Cases la usavano come se fosse un libro sacro; insomma era impressionante il tipo di partecipazione e di magia che emanava questa copia di Storia e coscienza di classe che qualche anno più tardi girava per Milano.

Continua a leggere

N. Tertulian, Modernité et Antihumanisme. Les combats philosophiques de Georg Lukács (segnalazioni)

95603

Nicolas Tertulian

Modernité et Antihumanisme

Les combats philosophiques de Georg Lukács

Klincksieck, 2020

368 pages
coll. Critique de la politique
N° dans la collection : 20
Parution : 08/11/2019
EAN13 : 9782252043363

Ce livre rassemble des articles dont la rédaction s’étend sur plus de trois décennies. Il esquisse les linéaments d’une philosophie de la démocratie radicale, centrée sur la figure du penseur hongrois Georg Lukács (1885-1971).
À travers une critique rigoureuse des tendances antihumanistes du XXe siècle — et notamment des systèmes conceptuels développés par Martin Heidegger et Carl Schmitt —, Lukács a rappelé dès les années 1930 les exigences d’une pensée européenne responsable, désireuse à la fois d’assumer ses origines révolutionnaires et de tirer les conséquences des grandes catastrophes politiques du XXe siècle. Dans son oeuvre propre, Lukács pose les fondements philosophiques d’une pensée de l’égalité et de l’inclusion qui, sans rien perdre du mordant critique de sa matrice marxiste, s’efforce d’articuler les différents niveaux de manifestation d’une rationalité plurielle. La tâche ultime de la philosophie ne doit pas être de séparer, d’opposer et de discriminer, mais de retrouver dans la théorie de la connaissance, l’expérience quotidienne, la création artistique, l’instauration institutionnelle, l’unité d’un projet humain. Lukács revient ainsi au premier plan du combat pour une modernité ouverte et sans mépris, pour une véritable culture de l’égalité dans la démocratie.

Lire un extrait…

*

Nicolas Tertulian, né en 1929 à Iaşi en Moldavie roumaine, est un philosophe, esthéticien et essayiste, installé en France depuis 1982. Spécialiste reconnu de la pensée de Georg Lukács, il a enseigné de 1982 à 2010 l’« Histoire de la pensée allemande (XIXe-XXe siècle) » à l’EHESS. Il est l’auteur, en français, de deux ouvrages consacrés à la pensée lukácsienne. D’innombrables publications, du Brésil au Japon, ont fait connaître ses travaux, notamment ses études critiques sur Heidegger et Schmitt. Nicolas Tertulian est décédé en septembre 2019 à Suresnes, sans avoir vu paraître ce livre.

*

Table des matières

Présentation de Pierre Rusch

Première partie. Lukács et la pensée ontologique du XXe siècle
Chapitre 1 : Histoire de l’Être et révolution politique. Réflexions sur un ouvrage posthume de Heidegger
Chapitre 2 : Qui a peur du débat ? Réponse à M. de Beistegui
Chapitre 3 : Lukács et Heidegger – les deux ontologies (une confrontation)
Chapitre 4 : Le concept d’aliénation chez Heidegger et Lukács
Chapitre 5 : Nicolai Hartmann – Lukács, une alliance féconde

Deuxième partie. Lukács et le marxisme du XXe siècle
Chapitre 6 : Adorno – Lukács : polémiques et malentendus
Chapitre 7 : Distanciation ou catharsis ? (Sur les divergences entre Brecht et Lukács)
Chapitre 8 : Gramsci, l’Anti-Croce et la philosophie de Lukács
Chapitre 9 : Ernst Bloch – Georg Lukács, paradoxes d’une amitié
Chapitre 10 : Sartre : de l’intelligibilité de l’histoire

Troisième partie. Figures de l’antidémocratie
Chapitre 11 : Croce et Gentile – de l’amitié à l’hostilité
Chapitre 12 : Arnold Gehlen – la genèse de sa pensée
Chapitre 13 : Carl Schmitt : la théologie politique
Chapitre 14 : Carl Schmitt : le juriste et le Führer
Chapitre 15 : Scènes de la vie philosophique sous le IIIe Reich : Steding, Schmitt, Heidegger

György Lukács, uomo buono

di Cesare Cases

«il manifesto», 28 giugno 1983


Filosofo marxista, uomo politico, studioso di estetica, critico letterario: l’ungherese morto nel 1971 ha nutrito fin troppo abbondantemente pensatori e studiosi di sinistra, che ora fanno a gara nel dimenticarsi di lui. Con qualche eccezione. Di Lukács gli Editori riuniti hanno appena pubblicato Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo (Gelebtes Denken). È un libro non organico, ma ricchissimo. Comprende, oltre alle contratte annotazioni autobiografiche di Lukács (il Pensiero vissuto vero e proprio) un testo affascinante, ricavato da lunghe conversazioni – dialogo davanti al registratore con il filosofo ottantaseienne, a cura di Istvan Eörsi. Ci sono anche Un ultimo messaggio dello stesso Eörsi, ulteriori Annotazioni di Lukács, un apparato di note, un Dizionario biografico e un Indice dei nomi utili per decifrare la mappa intellettuale e politica di un secolo. Versione italiana, prefazione e cura sono di Alberto Scarponi, che si è giovato di una revisione sul testo originale ungherese. Per certi versi, questa edizione italiana si presenta così più completa di quella tedesca (1981) di cui è la traduzione. Ringraziamo dunque l’editore Prismi di Napoli, che in questa occasione ci consente di anticipare alcune pagine di un saggio di Cesare Cases che apparirà nel volume a più voci Il marxismo della maturità di Lukács, a cura di Guido Oldrini, annunciato per il prossimo autunno. Oltre a quello di Cases, figurano nell’indice scritti di Istvan Hermann, G. Oldrini, Stefan Morawski, Miklós Almasi, Istvan Fehér, Nikolae Tertullian. Il titolo del saggio di Cases è «L’uomo buono». Così Lukács fu definito, nel corso di una conversazione del 1962, da Heinz Maus, «francofortese» discepolo di Horkheimer, uno dei pochi, se non l’unico – nota Cases – rimasto in Germania durante il nazismo. Secondo Maus, il filosofo ungherese «rientrava nella grande tradizione europea dell’ottimismo storico». E la sua Estetica «implicava la resistenza contro il filisteismo partitico, politico, pragmatico» tanto quanto contro «il movimento dell’arte per l’arte, il formalismo». È questa la tesi, suggestiva, che qui Cases discute. Per il lettore che si avvicini ora a Lukács, sarà un’utile introduzione al segreto di questo pensatore considerato «ufficiale», che sempre evitò di dichiarare bancarotta, e che pure una volta – subito dopo l’autunno di Praga – fu sentito pronunciare queste frase: «Probabilmente l’intero esperimento iniziato nel 1917 è fallito, e bisogna ricominciare tutto da capo un’altra volta in un altro luogo». Ognuno tragga la conclusione che vuole, (s.c.) Continua a leggere

LINKS – Rivista di letteratura e cultura tedesca – Zeitschrift für deutsche Literatur- und Kulturwissenschaft

Si segnalano i seguenti articoli su Lukács dalla rivista

LINKS – Rivista di letteratura e cultura tedesca – 
Zeitschrift für deutsche Literatur- und Kulturwissenschaft
Anno XVI, 2016

links

* Georg Lukács, Brief an Hans Mayer vom 19. Juni 1961. Realismus-Debatte und Politik

* Mauro Ponzi, Die “Eingleisigkeit” der Dialektik. Ein Rückblick auf die Auffassung des Verhältnisses Kunst-Politik bei Brecht und Lukács

* Konstantin Baehrens, “[D]en ganzen menschen”. Lukács’ Humanistische Anthropologie und die literatur der Deutschen Klassik

* Matteo Gargani, “L’intero segreto della concezione critica”. Sul lavoro in Lukács e Marx

 

Georg Lukács e a literatura do século XX

di Carlos Nelson Coutinho

da Lukács, Proust, Kafka, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, 2005.

[Questo testo rappresenta il capitolo 1 del libro, la cui Appendice contiene uno scambio di lettere tra l’autore e L., e una rassegna dei passi di testi lukacsiani in cui l’ultimo L. parla di Kafka. Come si capirà leggendo il capitolo qui proposto, il libro nel suo complesso vuole condurre un’analisi dell’opera dei due autori citati nel titolo, partendo da tarde categorie lukacsiane criticando quelle espresse da L. medesimo in L’attualità del realismo critico, in particolare l’opposizione realismo/avanguardia – specie per i due autori in oggetto – e la posizione di fronte al socialismo quale criterio di valore per giudicare un’opera del XX secolo. L’importanza di questo scritto ci sembra risiedere non solo nella serietà dell’argomentazione – la cui validità è oggetto del giudizio del lettore – ma anche nell’aver affrontato testi lukacsiani non tradotti in italiano e – per quel che ne sappiamo – per niente letti dai critici italiani].


1.

Uma análise das obras de Marcel Proust e de Franz Kafka — ainda que sumária e parcial, como a que pretendo esboçar nos capítulos seguintes deste livro — requer sempre uma justificativa prévia. Poucos autores, contemporâneos ou não, mereceram uma similar atenção por parte da crítica. Quase todos os pensadores importantes do século XX sentiram a necessidade de acertar contas com a obra destes dois autores, sobretudo com aquela de Kafka. Cabe assim uma pergunta: restará algo a dizer sobre Proust e Kafka? Não terá essa vasta literatura crítica, ou pelo menos sua parte mais significativa, indicado e explicitado a totalidade dos possíveis ângulos de abordagem e, sem naturalmente esgotar o conteúdo da produção destes dois autores (que, como o de toda grande obra de arte, é sempre em certo sentido inesgotável), fornecido o máximo de conhecimento possível — na etapa histórica em que vivemos — sobre o seu significado essencial?

Não se trata, evidentemente, de propor uma resposta radicalmente negativa. Nessa massa de análises críticas de variada orientação, podem-se indicar alguns pontos firmes essenciais, ou seja, conquistas que se incorporaram definitivamente à compreensão do significado do mundo estético de Proust e de Kafka. Mas, ao mesmo tempo, também é possível observar que a descoberta de tais pontos e a fixação dessas conquistas ocorreram freqüentemente no interior de visões de conjunto problemáticas, que, em muitos casos, lançaram um denso véu de equívocos sobre a verdadeira natureza estético-ideológica dos relatos destes dois notáveis escritores.

No caso de Proust, tais equívocos dizem respeito, essencialmente, ao lugar ocupado por sua obra na evolução da literatura e, em particular, do romance. Embora À la recherche du temps perdu tenha, na época do seu aparecimento, despertado forte oposição nos meios “vanguardistas”, tornou-se depois moeda corrente na crítica mais recente a inclusão de Proust, juntamente com Joyce e Kafka, entre os iniciadores da “revolução formal” que caracterizarla a chamada “literatura de vanguarda”. Apontada como exemplo de superação da “anacrônica” estrutura romanesca tradicional, a obra proustiana aparece assim desligada da herança realista que, no plano da arte narrativa, alcançou sua máxima expressão no romance do século XIX.

Ainda que dominante, esta leitura “vanguardista” de Proust está longe de ser unânime. Thomas Mann, por exemplo — que jamais se limitou, em suas análises literárias, a uma abordagem puramente estilística dos autores e das obras —, incluiu Proust entre os romancistas do século XIX, colocando-o expressamente ao lado de Balzac, Stendhal, Flaubert, Tolstoi e Dostoievski. Além disso, desde o aparecimento dos primeiros tomos da Recherche, houve críticos franceses que, como Jacques Rivière — cuja análise, de resto, mereceu a aprovação do próprio Proust —, insistiram sobre o caráter antimodernista de sua obra, ou seja, sobre a estreita ligação déla com a “tradição clássica”.1 Estamos diante de duas avaliações radicalmente contrapostas, as quais, precisamente por sua unilateralidade, levam a equívocos. Mas me parece também que, malgrado esta unilateralidade, ambas colocam problemas reais: com efeito, como tentarei demonstrar no capítulo sobre Proust, a melhor chave para entender a obra do romancista francês é mostrar que, embora se situé na tradição do romance do século XIX, ela já antecipa algumas características da literatura própria do século XX, com todas as implicações conteudísticas e formais que disso decorrem.

Já no caso de Kafka, a polêmica não girou sobre a natureza inovadora ou não da forma estética por ele criada: ao que eu saiba, ninguém pos em discussão o caráter vanguardista e inovador de seus relatos. O que aqui esteve em discussão foi, quase sempre, a natureza da visão do mundo que Kafka expressou em sua obra, discussão que deu lugar à criação de inúmeros equívocos. Com seu costumeiro radicalismo, Theodor W. Adorno observou em 1953: “Do que se tem escrito sobre ele [Kafka], pouca coisa conta; a maior parte é existencialismo.”2 E já bem antes, em 1934, Walter Benjamin dissera: “Há dois mal-entendidos possíveis com relação a Kafka: recorrer a uma interpretação natural e a uma interpretação sobrenatural. As duas, a psicanalítica e a teológica, perdem de vista o essencial.”3

No núcleo dessas interpretações equivocadas, parece-me residir, antes de mais nada, um falso conceito de arte, que se expressa, no caso concreto de Kafka, na tentativa de transformar sua obra em “expressão” ou “ilustração” de uma visão do mundo preexistente à construção dos seus relatos. Mais precisamente: o erro fundamental dessas interpretações (existencialistas, psicanalíticas, religiosas, sociológicas) não depende tanto do conteúdo da visão do mundo que em cada oportunidade se atribui a Kafka, conteúdo que — conforme a ideologia do intérprete ou o ambiente cultural do momento — pôde ser indicado como “ilustração” da mística judaica, do complexo de Édipo, da “derrelição” ontológica do homem num mundo absurdo e irracional, das contradiçoes paralisadoras da ideologia pequeno-burguesa de nosso tempo, etc., etc. O problema é que desse modo, implícita ou explicitamente, nega-se o fato de que a obra kafkiana — como toda obra de arte significativa — é representação mimética da realidade social objetiva e não expressão direta de uma subjetividade individual (consciente ou “profunda”) ou pseudo-universal (religiosa ou classista).

Minha convicção — que tentarei expor nos capítulos seguintes deste livro — é que o significado das obras de Proust e de Kafka não reside na “expressão” de uma idéia abstrata qualquer, nem tampouco tem sua gênese na biografia do autor ou na “psicologia social” de uma classe ou de uma nação. Se quisermos alcançãr esse significado em sua riqueza concreta, deveremos analisar estes dois excepcionais escritores à luz de uma poética do realismo, ou seja, de uma teoria da arte como representação (ou figuração mimética) da essência de uma realidade social e humana históricamente determinada. Nos capítulos seguintes, portanto, tentarei definir, por um lado, o conteúdo histórico-humano-social que serve de pressuposto às objetivaçõs estéticas de Proust e de Kafka; e, por outro, o modo pelo qual esse pressuposto é reposto artisticamente na estrutura de seus relatos. Somente a partir desse critério histórico-materialista será possível definir a visão do mundo imanente à obra dos dois autores (única que interessa numa análise estética materialista), bem como os peculiares problemas formais e técnicos que o modo de reposição estética por eles adotado indiscutivelmente coloca.

2.

O leitor informado terá percebido que o método de abordagem acima proposto é aquele formulado e quase sempre aplicado ñas obras da maturidade de Georg Lukács. E aqui se coloca uma questão: esse mesmo leitor saberá também que o juízo de Lukács sobre Proust e, em particular, sobre Kafka, embora tenha sofrido alterações nos últimos anos da sua longa vida, pôde ser considerado — ao contrário daquele que resulta de minhas análises — como essencialmente negativo.

Sobre Proust, Lukács falou muito pouco em sua vasta obra. Ao longo das quase duas mil páginas de sua Estética, por exemplo, o criador da Recherche é mencionado apenas três vezes, e nunca em função de sua obra narrativa, mas de uma incidental observação que ele fez acerca da presença do reflexo da realidade na obra de Mallarmé.4 É também apenas de passagem que Lukács se refere a Proust em duas outras obras, em ambos os casos para indicar que a visão do mundo do narrador francês inspira-se na concepção do tempo de Bergson, que Lukács considera expressão de um intenso subjetivismo irracionalista.5 Já no fim da vida, contudo, num momento em que se dispunha a algumas revisões de seus juízos críticos anteriores sobre a literatura contemporânea (como veremos mais amplamente no caso de Kafka), Lukács afirma, numa entrevista ao poeta inglês Stephen Spender: “O caso de Proust é muito diferente do de Joyce. Em Á la recherche du temps perdu existe um retrato real do mundo, não uma fotomontagem naturalista (pretensiosa e grotesca) de associações [como em Joyce]. O mundo de Proust pôde parecer fragmentário e problemático. De muitas maneiras, ele preenche a situação do último capítulo de L’éducation sentimentale [de Flaubert], em que Frédéric Moreau volta para casa depois do esmagamento da revolução de 1848; ele já não tem nenhuma experiência da realidade, apenas a nostalgia de seu passado perdido. O fato de que esta situação constitua, com exclusividade, o conteúdo da obra de Proust é a razão de seu caráter fragmentario e problemático. Não obstante, estamos diante da figuração de uma situação verdadeira, produzida com arte.”6 Trata-se, a meu ver, de uma fecunda indicação, que — como o leitor poderá comprovar — tento desenvolver no capítulo sobre Proust.

Ao contrário, pelo menos a partir de 1957, foram inúmeras as vezes em que Lukács se referiu a Kafka. Não é difícil perceber que a obra kafkiana provocou no filósofo húngaro uma sincera admiração, ainda que ele a visse como expressão do vanguardismo que tão duramente combatia. Com efeito, Kafka ocupa um posto decisivo na estrutura da obra que, em 1957, Lukács dedicou aos problemas da literatura contemporânea. Contrapondo Thomas Mann e Kafka como a alternativa típica no seio da literatura “burguesa” do século XX, Lukács afirmava nesta obra que, enquanto Mann construíra “um realismo crítico verdadeiro como a vida”, Kafka seria nada mais do que a expressão de “uma decadência artisticamente interessante”.7 A obra kafkiana aparece como a manifestação mais típica da tendência vanguardista, que Lukács rejeitava pelo menos desde os anos 1930. Embora insistisse sobre o talento realista revelado por Kafka na seleção e composição dos detalhes, Lukács afirmava que esse realismo parcial estaria a serviço de uma construção essencialmente alegórica e, como tal, anti-realista: o objetivo final de Kafka seria indicar o “nada” (o absurdo do mundo) como a essência da realidade. Lukács sintetiza de modo bastante claro sua visão da obra kafkiana: “Uma imagem da sociedade capitalista com um pouco de cor local austríaca. O alegórico consiste no fato de que toda a existência dessa camada e de seus dependentes, bem como de suas indefesas vítimas, não é representada como uma realidade concreta, mas como reflexo atemporal daquele nada, daquela transcendência que — não existindo — deve determinar toda a existência.”8

O aparente brilho da análise lukacsiana — que retomava as idéias sobre a alegoria desenvolvidas por Benjamin nos anos 1920 e, desse modo, emprestava um caráter mais sofisticado à sua já antiga condenação sumaria da arte de vanguarda —9 não deve ocultar sua essencial inadequação. Embora com sinal avaliativo invertido, o que Lukács escrevia em 1957 sobre Kafka era também “existencialismo”. Decerto, a interpretação “existencialista”, como veremos no capítulo III, dá conta de parte das produções kafkianas, em particular do romance inacabado O desaparecido (ou América) e de muitos relatos curtos construídos explicitamente como parábolas alegóricas. Mas tal interpretação deixa de lado, por insuficiência ou mesmo por deformação, aquilo que de mais significativo e duradouro foi criado pelo autor de O processo. Em minha opinião, a linha de demarcação entre alegoria e símbolo — tão bem traçada por Lukács em nivel teórico — passa no interior da obra de Kafka e, de modo mais geral, no interior daquilo que o filósofo húngaro chama de “modernismo” ou (como nas línguas neolatinas) “vanguardismo”. Deve-se observar que Lukács, em algumas passagens de escritos posteriores a Realismo crítico hoje, formulou juízos sobre Kafka (assim como o já mencionado sobre Proust) que alteravam objetivamente os formulados em 1957. Todavia, na medida em que ele jamais voltou a tratar sistemáticamente (como fizera em 1957) da obra do autor tcheco, esses juízos fragmentários — ainda que por vezes iluminadores — não podem, por seu caráter tópico, elevar-se a uma nova avaliação global que funcione efetivamente como uma autocrítica.10

3.

Durante algum tempo, estive convencido de que Lukács cometera certamente um “erro de avaliação”, que envolvia Proust e Kafka, mas que tal erro não alterava a justeza essencial de sua teoria sobre a arte e a literatura do século XX.11 Não concordo mais com essa visão simplista, embora recuse igualmente o simplismo oposto, que consistiría em manter a alternativa formulada por Lukács mas com sinal trocado, ou seja, optando por Kafka (pela vanguarda) contra Thomas Mann (contra o realismo).12 São precisamente estas alternativas radicáis que devem ser postas em questão, como tentarei demonstrar em seguida.

O que eu considerava “erros de avaliação” localizados me parecem hoje o índice de certas conexões problemáticas na própria teoria lukacsiana da literatura do século XX, que decorrem em última instancia da concepção geral de Lukács acerca da evolução histórica posterior à Revolução de Outubro de 1917. Desde sua adesão ao marxismo (ocorrida em 1918) até pelo menos meados dos anos 1920, Lukács — como tantos outros comunistas — esteve firmemente convencido de que a época histórica inaugurada pela revolução bolchevique se caracterizava pelo que ele chamou de “atualidade da revolução”, ou seja, pelo fato de que estaría em curso uma rápida expansão aos países ocidentais da revolução socialista concebida segundo o modelo bolchevique. Como se sabe, foi sob a égide desta convicção que Lukács escreveu seus primeiros escritos marxistas.13 Contudo, já no final dos anos 1920, quando havia se tornado evidente o refluxo da onda revolucionária iniciada em 1917, Lukács elaborou uma nova avaliação do presente, cuja primeira expressão aparece em suas Teses de Blum.14 Esta avaliação — que se apoiava essencialmente, como veremos, em dois pressupostos, um bastante problemático e outro inteiramente falso — se manteria pelo menos até meados dos anos 1960, quando o pensador húngaro esboça algumas tardias e quase sempre tímidas tentativas de revisão de suas antigas posições.

O primeiro dos pressupostos a que aludi era a idéia de que uma aliança entre o socialismo e a democracia radical — a grande herança do “período heroico” da burguesia — seria o melhor antídoto contra as tendências reacionárias e fascistas que o capitalismo vinha gestando como resposta à revolução russa. Tal aliança se expressaria, no terreno da ideologia e da arte, por meio de uma aproximação entre os intelectuais burgueses progressistas e os intelectuais socialistas, com base, respectivamente, na defesa da razão e da arte realista. A aliança militar entre as “democracias” ocidentais e a “pátria do socialismo”, ocorrida na luta comum contra o nazifascismo durante a Segunda Guerra Mundial, parecia confirmar plenamente essa idéia, que Lukács partilhou então com a maioria do movimento comunista. Não me parece casual que tenha sido no período das frentes populares — que buscaram e muitas vezes conseguiram criar esta aliança já antes da guerra — que Lukács redigiu algumas de suas principáis obras, não só os belíssimos ensaios sobre o realismo do século XIX (Balzac, Stendhal, Dostoievski, Tolstoi, etc.), mas também as excepcionais monografias sobre O romance histórico e sobre O jovem Hegel, nas quais ele busca precisamente valorizar o legado humanista da burguesia, respectivamente nos terrenos da arte e da filosofia.15

De resto, a enfática defesa desta aliança entre democracia e socialismo permitiu a Lukács evitar o dogmatismo sectario que colocava uma muralha chinesa entre a herança da cultura burguesa (considerada em bloco como reacionária) e uma pretensa cultura socialista “radicalmente nova”. Com isso, ele pôde elaborar uma política cultural relativamente aberta, centrada na valorização da herança democrática que se expressaria no realismo crítico e na defesa da razão, política que se distinguia radicalmente do sectarismo dominante na época de Stalin e mesmo depois dela.16

Não se trata de contestar a validade deste projeto estratégico. É indubitável que Lukács percebeu a problemática essencial do período que se inicia com o refluxo da onda revolucionária iniciada em 1917, ou seja, a necessidade de encontrar um novo modo de articulação entre democracia e socialismo.17 No terreno dos princípios, este projeto era válido não apenas nos anos 1930 e no segundo após-guerra, mas continua a sê-lo — mutatis mutandis — ainda hoje. O que o tornou problemático foram as novas condições geradas precisamente neste segundo após-guerra, quando se tornou evidente que ele não mais poderia ser realizado nos termos em que fora formulado na época das frentes populares. Lukács, contudo, continuou a insistir em sua exeqüibilidade, o que o fez assumir um ponto de vista fortemente “otimista”, cada vez mais negado pelos fatos.

Este “otimismo” transparece em vários escritos lukacsianos imediatamente sucessivos ao fim da guerra. Assim, por exemplo, numa conferência pronunciada em 1946, em um encontro do qual participaram importantes intelectuais da Europa Ocidental, Lukács afirmou com ênfase que estava ocorrendo naquele momento “o começo de um restabelecimento da aliança entre a democracia e o socialismo”.18 Ora, na verdade, o que estava então para se iniciar não era tal aliança, mas sim a “guerra fria”, que consolidaria nos dois lados do mundo um poderoso déficit tanto de democracia quanto de socialismo. O segundo após-guerra, portanto, impôs cada vez mais a necessidade de rever alguns dos conceitos implícitos na estratégia das frentes populares, o que Lukács não quis ou não pôde fazer. Com efeito, tornou-se então evidente que a contradição no seio do mundo burguês não se dava apenas entre a herança da democracia radical e a aberta reação fascista ou belicista, mas também — e agora talvez sobretudo — entre esta herança democrática (cada vez mais fragilizada) e a irrupção de novas formas de dominação e de alienação que já se apresentavam (e iriam se apresentar cada vez mais) sob a cobertura de regimes formalmente democráticos.19

4.

Se esse primeiro pressuposto da visão lukacsiana do presente tornou-se problemático pelas razões apontadas, o segundo revelou-se inteiramente falso: Lukács estava firmemente convencido de que a União Soviética dos anos 1930 e seguintes na qual ele julgava já se ter realizado a transição para o socialismo, ou seja, para uma etapa superior da humanidade continuava a ser um farol seguro e não problemático a indicar o caminho do futuro aos pensadores e artistas que se mantivessem fiéis à herança democrática. Ora, ao contrário do que Lukács supunha, a URSS — que, já em 1932, Gramsci dizia estar dominada pela “estatolatria” — estava longe de se apresentar como expressão de uma humanidade emancipada: a regressão stalinista (iniciada no final dos anos 1920) minimizou, terminando mesmo por extinguir, o fascínio que a Revolução de Outubro certamente exerceu por algum tempo sobre os intelectuais e artistas ocidentais, inclusive sobre muitos daqueles que Lukács considerava “vanguardistas”. De ambos os lados do mundo, portanto, cresceram novas formas — mais sofisticadas porém não menos inumanas — de alienação e de manipulação burocrática da vida. A aliança entre democracia e socialismo, nos moldes em que Lukács a imaginava, não se cumpriu, por escassez tanto de democracia como de socialismo.

Cabe ainda lembrar que somente depois de 1956, ou seja, depois das denúncias dos crimes de Stalin no XX Congresso do PCUS, é que Lukács começou a tomar publicamente distância — e, mesmo assim, quase sempre timidamente — em face das formas sociais e políticas dominantes não só na ex-União Soviética, mas também nos demais países do chamado “socialismo real”, surgidos no segundo após-guerra. Em ambos os casos, a projetada aliança de democracia e socialismo era patentemente desmentida pelos fatos. Esta tomada de distância assume talvez seu ponto mais alto num pequeño livro escrito em 1968, no qual, apesar de indiscutíveis avanços, as formulações do pensador húngaro me parecem ainda insuficientes.20 Neste livro, com efeito, Lukács considera que as deformações do “socialismo real” — que são agora claramente identificadas na ausência de democracia, em particular do que ele chama de “democracia da vida cotidiana” — poderiam ser resolvidas com um simplista e utópico “retorno a Lenin”, a cujo pensamento, diga-se de passagem, Lukács se manteve fanaticamente fiel até o fim da vida. Além disso, as duras críticas contidas neste livro não anulam o fato de que Lukács, malgrado tudo, continuou a se identificar até o fim com o “socialismo real”, como se pôde constatar numa enfática afirmação que ele repetiu reiteradamente em muitas de suas últimas entrevistas: “Do meu ponto de vista, mesmo o pior socialismo é preferível ao melhor capitalismo. Estou profundamente convencido disso e vivi todo este tempo com tal convicção”.21

Por tudo isso, parece-me assim no mínimo problemática a afirmação do pensador húngaro, feita em 1957, de que um dos pontos de discriminação entre o realismo crítico e a “vanguarda” seria a diversa atitude destas duas correntes artísticas em face de uma perspectiva socialista. Para Lukács, o realista crítico “não precisa situar-se no terreno do socialismo, mas basta que o socialismo não seja eliminado a priori dos seus interesses de homem e de artista, que o socialismo não se choque com uma previa recusa do escritor; caso contrário, este escritor privar-se-ia de toda visão orientada para o futuro”.22 Quando se refere à vanguarda, ao contrário, Lukács sente-se “no direito de denunciar, como traço real por trás do cinismo e do niilismo, por trás do desespero e da angústia mais mistificados, a recusa do socialismo”.23 Antes de mais nada, caberia perguntar: mas de que socialismo se trata? Se lembrarmos os traços concretos assumidos pelo chamado “socialismo real”, o único efetivamente existente — que se caracterizava, mesmo depois de Stalin, pela presença de novas formas de alienação e de manipulação burocrática, quando não mesmo pela permanência do uso aberto do terrorismo de Estado —, poderíamos objetar a Lukács que a “recusa do socialismo” nem sempre foi injustificada, nem sempre foi expressão de “cinismo” e de “mistificação”.

Certamente, Lukács tem razão quando afirma que uma perspectiva artística realista deve tomar distância em relação ao presente, ou seja, deve considerar que a realidade da alienação e da manipulação não constitui a condição eterna da vida humana. Mas essa distância pôde não apenas assumir a forma de uma recusa do “socialismo realmente existente” (como ocorre, por exemplo, nos primeiros escritos de Soljenitsin), mas também se fundar numa perspectiva crítica não necessariamente baseada numa abertura para o socialismo em geral (como é o caso, entre outras, da notável obra, de William Styron). A contraposição ao mundo alienado do capitalismo atual de certos valores gerados na época revolucionária da burguesia, como é o caso da luta pela realização da autonomia do indivíduo, pôde funcionar como meio de crítica historicista à aniquilação do indivíduo no presente burocratizado e reificado. Caberia mesmo examinar até que ponto uma perspectiva anticapitalista romântica — que Lukács define univocamente como reacionária — pôde servir de base a construçõs artísticas realistas.

Este novo “estado geral do mundo”, para usarmos uma expressão hegeliana, fez com que um certo pessimismo em face do futuro da humanidade não só encontrasse ampia difusão, mas também se tornasse relativamente justificado. Essa nova modalidade de “consciência infeliz”, para continuarmos com a terminologia de Hegel, era uma “figura do espírito” cuja validade relativa não podia ser prevista no itinerário otimista da “fenomenologia” lukacsiana do presente.24 Uma tal consciência pessimista não era apenas, como parecía supor Lukács, expressão da “decadência”, ou seja, mera resposta reacionária ou desesperada em face das tendências históricas predominantes, as quais, na opinião do filósofo húngaro, apontavam necessariamente para o socialismo — e um socialismo que ele identificava com sua caricatura vigente na União Soviética e nos demais países de modelo soviético. Este pessimismo assinalava também, pelo menos em seus melhores representantes, um justo sentimento de indignação em face do endurecimento burocrático promovido pelo novo capitalismo monopolista, inclusive em suas formas pseudodemocráticas, endurecimento diante do qual o “socialismo realmente existente” estava longe de aparecer como uma alternativa válida. Não foram assim poucos os pensadores e artistas progressistas — alguns abertamente de esquerda — que, com justificadas razões, negaram-se a aceitar a idéia de que “o pior socialismo é preferível ao melhor capitalismo”.

Decerto, a relativa justificação desse pessimismo não anula o fato de que ele frequëntemente expressa uma forma de “falsa consciência”, precisamente na medida em que muitas vezes se coagula na aparente insolubilidade das contradições do período e não é capaz de adotar diante délas um distanciamento crítico. Como Lukács viu corretamente, ainda que com alguns excessos, esta “falsa consciência” pessimista é deletéria no caso da reflexão filosófica, cujo objetivo é precisamente a descoberta das mediações e sua conceituação universalizadora.25 Na arte e na literatura, contudo, as coisas podem se dar diversamente, já que estas últimas têm como meta a figuração de uma particularidade concreta.26

É certo que, em muitas criações artísticas do período — como Lukács apontou corretamente —, as contradições sociais foram transpostas numa abstração falsamente “ontológica”, ou seja, em exemplos de uma pretensa insensatez da realidade enquanto tal, recebendo assim uma configuração formal alegórica e, como tal, anti-realista. Contudo, houve também artistas e escritores de vanguarda — o que Lukács freqüentemente ignorou — que, mesmo sem superarem sua “consciência infeliz” e seu pessimismo, foram capazes de plasmar tais contradições em sua figura social-concreta, apresentando a sua aparente insolubilidade como condição contraria à essência do homem e criando assim autênticos símbolos realistas que expressavam os impasses concretos do homem contemporâneo. Com isso, foram capazes de denunciar esteticamente em suas obras os mitos ideológicos (a “segurança”, o “bem-estar”, o “fim dos conflitos”, etc.) através dos quais se tentou e ainda se tenta legitimar as manifestações aparentemente “democráticas” do capitalismo tardio. Este modo simbólico-realista de expressar artísticamente a “consciência infeliz” contemporânea deu lugar a obras particularmente bem realizadas no terreno da lírica, onde a subjetividade como fator estruturante dispensa claramente a figuração da totalidade. Este me parece ser o caso, por exemplo, de poetas como T. S. Eliot e Rilke (que Lukács avaliava de modo negativo), mas também de outros que ele não conheceu, como Fernando Pessoa e Carlos Drummond de Andrade. E essa possibilidade se apresenta também no caso da arte narrativa, particularmente da novela, como veremos ao examinar mais de perto a obra de Franz Kafka.

5.

Durante os anos 1930 e 1940, como vimos, foi possível a Lukács defender, com relativo apoio nos fatos, sua perspectiva “otimista” de uma aliança estratégica entre a democracia (que ele sempre teve a lucidez de distinguir do liberalismo) e o socialismo realmente existente. Contudo, com a derrota militar do nazifascismo e a imediata eclosão da guerra fria (que pôs por térra as ilusões de uma convergência duradoura entre as “democracias” ocidentais e o “socialismo” de tipo soviético), esta perspectiva “otimista” perdeu seus vínculos com os fatos, convertendo-se em nada mais do que generosa utopia.

Malgrado isso, nos anos 1950 e no inicio dos 1960 — e, em particular, em Realismo crítico hoje —, Lukács continuou a insistir na necessidade desta aliança, que se expressaria artísticamente na convergência entre realismo crítico e “realismo socialista”, isto é, na comum oposição de ambos ao vanguardismo.27 Mas, enquanto ñas décadas de 1930 e 1940 a base política e ideológica de tal aliança era a concreta frente antifascista, que crescera a partir da própria realidade, esta base é agora apontada por Lukács no chamado “Movimento dos Partidarios da Paz”, uma iniciativa soviética de pouquíssimo impacto entre os intelectuais e artistas ocidentais.28 Se a proposta de articular a polaridade entre fascismo e antifascismo com aquela entre irracionalismo e defesa da razão, ou até mesmo entre vanguarda e realismo, podia aparecer (ainda que muitas vezes forgadamente, sobretudo no segundo caso) como parcialmente justificada no período situado entre os anos 1920 e 1940,29 tornava-se agora impossível — sem cometer uma clara violência contra os fatos — colocar a vanguarda ao lado dos que defendiam a guerra ou a julgavam inevitável e o realismo ao lado dos defensores da paz. Mas é precisamente isso o que faz Lukács em 1957: “O nosso fenômeno de base, portanto, é essa convergência de dois pares de elementos contrastantes: por um lado, realismo ou anti-realismo (vanguardismo, decadência); por outro, luta pela paz ou guerra.”30 Basta, entre muitos outros, o expressivo exemplo de Picasso — o criador de Guernica — para demonstrar a falsidade desta correlação.

A angústia dissolutora que Lukács percebe corretamente em autores como Beckett não se liga somente ao temor de uma hecatombe bélica considerada como inevitável, mas reflete também o horror e a desorientação de “consciências infelizes” (coaguladas fetichisticamente nesta infelicidade) diante das formas vitáis assumidas tanto pelo capitalismo monopolista como pelo “socialismo” burocrático. Lukács está certo ao indicar que Beckett e muitos outros escritores e artistas do século XX constroem suas obras numa forma alegórica, ou seja, transformando experiências vitais históricamente concretas da alienação capitalista ou “socialista” em “condição eterna do homem”. Mas, quando ele afirma que “o nada de Beckett é um mero jogo com abismos ficticios, aos quais não mais corresponde algo de essencial na realidade histórica […]”,31 provavelmente porque o perigo da guerra teria sido superado gragas à ação dos “partidarios da paz”, certamente não faz jus nem à sua aguda inteligência nem ao seu espírito crítico.

Por outro lado, não deverá ter escapado ao leitor de Realismo crítico hoje a dificuldade em que se encontrava Lukács para apontar exemplos contemporâneos de um grande realismo crítico nos moldes em que ele o concebía na época. Thomas Mann, morto em 1955, aparece como um gigante isolado (incidentalmente são citados como realistas Federico García Lorca, Sinclair Lewis, Alberto Moravia e pouquíssimos outros), enquanto na outra margem “vanguardista” do rio se situava, junto com Kafka, a grande maioria dos escritores realmente significativos do século XX. Subsumindo ao conceito de alegoría a totalidade da chamada “vanguarda”, Lukács impedia-se de realizar a única operação capaz não só de salvar a justeza essencial de sua teoria estética e de sua poética realista, mas também, como conseqüência, de lhe permitir uma compreensão mais adequada da arte e da literatura do século XX. Esta necessária operação, a meu ver, consistiría num reexame da produção da vanguarda à luz das novas experiencias históricas acima aludidas e, desse modo, numa distinção — no seio desta produção — entre os autores que, por um lado, apontavam no sentido de uma nova floração do realismo crítico (evidentemente transformado em suas estruturas formais por causa do novo “estado geral do mundo”) e, por outro, aqueles que, “ontologizando” os impasses da época, adotavam efetivamente a alegoría como base formal e ideológica da configuração estética do real.

6.

Contudo, seria um equívoco reduzir apenas a essa avaliação problemática do presente as razões dos limites contidos em Realismo crítico hoje, limites que o próprio Lukács reconheceu no fim da vida.32 Essa avaliação problemática se traduz também numa questão de método, cuja elucidação poderá ajudar o leitor a avaliar melhor o objetivo prioritário deste livro, que consiste precisamente em analisar Proust e Kafka à luz das teorías estético-filosóficas de Lukács, mas em contradição com muitas de suas observações concretas sobre estes dois autores e em parcial discordancia com sua análise das alternativas da literatura no mundo contemporâneo.

Uma leitura atenta de Realismo crítico hoje revela que nele Lukács se afasta, em aspectos essenciais, do método estético-crítico que ele mesmo formulou em suas obras teóricas da maturidade e que aplicou com sucesso na maioria de suas análises concretas de períodos e autores singulares, em particular dos romancistas do século XIX. Façamos um rápido paralelo entre Realismo crítico hoje e O romance histórico. Nessa última obra, escrita em 1936-37 — ou seja, em plena época das frentes populares e da luta antifascista —, a preocupação essencial de Lukács consiste em mostrar como uma determinada constelação histórica objetiva, gerada pela Revolução Francesa e pelas guerras napoleónicas, obrigou o romance a renovar sua forma, no sentido de introduzir a historicidade concreta como elemento determinante na caracterização literária dos personagens e das situações. Esse movimento de renovação formal, que tem seu inicio em Walter Scott e se explícita no grande realismo do século XIX (que, como diz Lukács, aprendeu a “tratar o presente como história”33), é apresentado como a reposição estética de concretos pressupostos histórico-sociais, um processo que o pensador húngaro analisa tanto pelo ângulo da gênese quanto por aquele do resultado artístico-formal. O romance histórico, sobretudo em seus tres primeiros capítulos — entre os quais se destaca a belíssima digressão sobre o romance e o drama enquanto estruturas formais que refletem constelações histórico-universais da vida humana, digressão que é certamente a maior contribuição de Lukács a uma teoría marxista dos gêneros literários34 —, aparece assim como um paradigma, talvez o mais alto na obra lukacsiana, de aplicação criadora do método histórico-sistemático no terreno da literatura. Trata-se precisamente de um método que articula orgánicamente as determinações histórico-sociais com as determinações estruturais imanentes (no caso, as determinações estéticas) das objetivações humanas. Faz parte deste método a utilização por Lukács, não só em O romance histórico
mas também na maior parte de sua obra, da fecunda categoría engelsiana da “vitória do realismo”:35 essa renovação formal do romance, essa capacidade de narrar o presente como história, entra freqüentemente em contradição com a concepção do mundo explicitamente professada pelos romancistas da época, como ocorre sobretudo no caso dos conservadores Walter Scott e Balzac.

Realismo crítico hoje funda-se numa diferente abordagem metodológica. Em vez de partir de uma análise da sociedade contemporânea — ou seja, das transformações sofridas pelo capitalismo em sua etapa monopolista e da involução “estatolátrica” da União Soviética stalinista e pós-stalinista —, Lukács toma como pressuposto de sua investigação o que ele chama de “concepção do mundo subjacente à vanguarda”.36 Tal concepção, que se identificaria essencialmente com aquela formulada em nível teórico pelas várias filosofias irracionalistas, teria seu núcleo central na afirmação de que o homem é um ser ontologicamente solitário, afirmação que se choca frontalmente com a velha noção aristotélica de que o homem, ao contrário, é um “animal social”. Além disso, esta concepção vanguardista se caracterizaria por asseverar que o mundo real não tem um sentido imanente, que tal sentido só poderia provir de uma transcendência que na verdade não existe e que, portanto, se identificaria com o nada. Num processo abstrativo pouco dialético, já que não se apresenta como etapa inicial de uma elevação ao concreto, Lukács subsume sob essa concepção do mundo a totalidade dos autores de vanguarda, em particular Proust e Kafka, afirmando que suas obras não passariam de ilustrações alegóricas deste “nada”.

Em Realismo crítico hoje, portanto, não se trata de deduzir dialeticamente as características formais das obras analisadas a partir das determinações histórico-sociais do seu hic et nunc, como ocorre em O romance histórico, mas de demonstrar que tais obras são ilustração alegórica de uma visão do mundo anterior e transcendente ao produto artístico. Mais grave ainda: para tal demonstração, Lukács não recorre a uma análise imanente, estético-formal, dos autores de vanguarda, através da qual se evidenciasse que a concepção do mundo imanente às suas obras é efetivamente similar áquela visão irracionalista que eles ilustrariam alegóricamente.37 O que ele chama de “concepção subjacente à vanguarda” é definida em termos filosóficos gerais, de modo apriorístico em relação à obra concreta dos escritores; e, quando a produção de tais autores é chamada a corroborar a suposta adesão deles a tal concepção, Lukács freqüentemente se vale de suas declarações conceituais, expostas em ensaios teóricos, cartas, diarios, etc., ou mesmo, como no caso de T. S. Eliot, a fragmentos de poemas que, enquanto fragmentos, tornam-se puramente descritivos e não são capazes de evidenciar com que pathos emocional o ego lírico do poeta norte-americano vivencia na criação poética os eventos que descreve. Portanto, Lukács não parte dos autores para determinar a concepção do mundo que eles expressam em suas obras específicamente estéticas, mas comega por expor os traços gerais abstratos desta suposta concepção “vanguardista”, e só num segundo momento busca subsumir a eia os autores de que trata, em particular Kafka. É evidente que este procedimento lhe facilita defender sua tese, afirmada repetidas vezes ao longo do livro, segundo a qual os autores de vanguarda apenas ilustrariam alegóricamente esta abstrata concepção irracionalista do mundo.

Procedendo desse modo, Lukács abandona o emprego de seu próprio método histórico-sistemático, ou genético-estético, impedindo-se ao mesmo tempo de utilizar a fecunda categoria da “vitória do realismo”, que seria particularmente operatoria — como veremos — nos casos de Proust e, sobretudo, de Kafka. Se, como Lukács diz em Realismo crítico hoje, é “a imagem do mundo que deve ser representada na obra”, ou se o esforço do artista passa a ser o de “reproduzir adecuadamente, com meios poéticos, essa visão do mundo”,38 então desaparece o conceito básico da poética lukacsiana, ou seja, o de que a arte é representação mimética da realidade histórico-social objetiva e não expressão direta da visão do mundo do artista. Em conseqüência, desaparece a possibilidade do cotejo entre a objetivação estética e o mundo histórico-social que lhe serve de pressuposto, cotejo que está na base do mencionado conceito de “vitória do realismo”.

O exemplo maior deste equívoco metodológico transparece precisamente na análise de Kafka. Se, em vez de subsumir o autor tcheco a uma concepção do mundo irracionalista, Lukács tivesse buscado efetuar uma análise imanente de sua obra, certamente veria que a “imagem da sociedade capitalista com cor local austríaca”, que para ele é apenas o substrato inessencial de uma fuga na transcendência alegórica, contém na verdade uma reposição estética das conseqüências humanas mais profundas das novas modalidades de alienação geradas pelo capitalismo em sua fase monopolista.39 O método que o filósofo húngaro utiliza em Realismo crítico hoje está mais próximo do método de Lucien Goldmann (que vê a obra de arte como expressão direta de uma “visão do mundo”)40 do que do método teorizado e aplicado em outros inúmeros casos pelo próprio Lukács (o que concebe a arte como representação mimético-evocativa da realidade). A adoção deste “novo” método prejudica boa parte das análises contidas em Realismo crítico hoje, impedindo Lukács até mesmo de utilizar com maior profundidade (como viria a fazê-lo na Estética de 1963) o conceito benjaminiano de alegoria.

7.

O emprego deste “novo” método — ou, se preferirmos, o temporário abandono do autêntico método histórico-sistemático por ele mesmo elaborado — não permitiu que Lukács aplicasse adequadamente à literatura contemporânea uma de suas mais brilhantes teses, ou seja, a de que “a obra de arte autêntica (e somente essa pôde se tornar a base de uma fecunda universalização histórica ou estética) satisfaz as leis estéticas apenas na medida em que, ao mesmo tempo, as amplia e aprofunda”.41 De que modo, na verdade, se daria essa ampliação e esse aprofundamento na literatura do século XX? Durante os anos 1930 e 1940, Lukács subestimou esse problema, parecendo supor que o realismo de nosso tempo — pelo menos o realismo crítico ocidental — seria uma simples continuação formal do realismo do século XIX. Uma primeira tentativa de resposta, todavia, aparece já nos anos 1960, quando o pensador húngaro formula a idéia de que o realismo crítico é compatível com o uso de técnicas criadas pela vanguarda. Referindo-se a seus ensaios da década de 1930, num prefacio escrito em 1965 para uma reedição dos mesmos, Lukács comentou: “Naquele tempo, quando do primeiro choque (de certo modo) com o modernismo, a prioridade da inovação técnica foi radicalmente negada. Todavia, depois se tornou cada vez mais claro para mim, ao analisar artistas e obras particulares, que — embora essa inovação técnica enquanto principio de julgamento estético merecesse certamente uma total repulsa — certas inovações técnicas podiam se converter, enquanto reflexos de relações humanas realmente novas e independentemente das teorias e intenções de seus inventores e propagandistas, em elementos de figurações verdadeiramente realistas.”42

Graças a essa nova formulação, Lukács pôde não apenas avaliar melhor as produções da maturidade de Thomas Mann, mas também apresentar depois de 1957, ou seja, depois da redação de Realismo crítico hoje, sobretudo em muitas das numerosas entrevistas que concedeu no final de sua vida, uma aitude bem mais aberta diante da produção literária de autores mais recentes, como Jorge Semprun, Heinrich Böll, William Styron, Rolf Hochhutt, etc. Além disso, em algumas páginas acrescentadas em 1963 à edição em inglês de Realismo crítico hoje, Lukács apresenta também como autores realistas não só os norte-americanos Thomas Wolfe e Eugene O’Neill, mas também Elsa Morante e Bertolt Brecht.43 Sobre este último, aliás, cabe lembrar que, em 1945, Lukács ainda o considerava como um autor que “reduz a desejada renovação social da literatura a um experimento formal, certamente interessante e inteligente”; já em 1963, depois de conhecer as obras brechtianas mais tardias, em particular Os fuzis da Senhora Carrar e A vida de Galileu, ele afirma enfaticamente que “o Brecht da maturidade, superando suas anteriores teorias unilaterais [o ’efeito de distanciamento’], tornou-se o maior dramaturgo realista de sua época”.44

Mas esta idéia de que técnicas de vanguarda podem servir ao realismo era insuficiente, precisamente na medida em que não passava de uma solução de compromisso. Um esboço de resposta orgánica viria à luz somente em 1969, no belo ensaio que Lukács, dois anos antes da sua morte, dedicou aos primeiros romances de Alexander Soljenitsin, O primeiro círculo e O pavilhão dos cancerosos.45 Com um esforço teórico digno do maior respeito (Lukács atingira os 84 anos e estava empenhado, ao mesmo tempo, em resolver os complexos problemas teóricos surgidos quando da redação de sua grande obra da velhice, a Ontologia do ser social),46 o filósofo húngaro esboça, na primeira parte desse ensaio, as bases para uma reformulação de sua teoria da literatura contemporânea.

Esse ensaio de 1969 assinala, antes de mais nada, um retorno ao método histórico-sistemático que, como vimos, está na base da poética do realismo elaborada pelo Lukács da maturidade. Em vez de ver na narrativa realista de nosso tempo uma simples continuação formal das velhas tradições do século XIX (ainda que “atualizadas” pelo emprego de técnicas de vanguarda), Lukács indica o modo pelo qual os novos pressupostos sociais e ideológicos do capitalismo tardio conduziram a uma modificação formal da estrutura romanesca, cujo centro não mais seria, como no romance tradicional, a figuração de uma “totalidade de objetos” — segundo a formulação hegeliana recolhida por Lukács —,47 mas a de uma “totalidade de reações”. Lukács observa que “a inovação reside no fato de que a unidade de lugar torna-se o fundamento imediato da composição”, graças à criação de uma especie de “teatro social” que agrupa homens diversos e os obriga a definições que eles não tomariam normalmente em sua vida cotidiana. E o filósofo húngaro continua: “Esse ’teatro’ aparece, portanto, como o desencadeador efetivo e imediato de problemas ideológicos existentes por toda parte em estado latente, mas dos quais só se toma consciência, em sua totalidade contraditória, precisamente neste lugar. […] Desapareceu a necessidade de uma fábula épica homogénea. […] Porém, malgrado a ausência de fábula homogénea, e mesmo em conseqüência dessa ausência, reina uma excepcional intensidade de emoção épica, uma dramática interna. […] Relações épicas coerentes podem nascer de cenas particulares de natureza dramática, mas desprovidas aparentemente de laços internos entre si. E essas relações podem igualmente se ordenar numa totalidade de reações a um vasto complexo de problemas de natureza épica”.48

Lukács não viveu o suficiente para extrair todas as conseqüências desta sua nova formulação, o que teria implicado certamente a reavaliação de boa parte dos seus juízos sobre a literatura do século XX. De qualquer modo, tal reavaliação ocorreu efetivamente em alguns casos concretos, mesmo diante de autores que Lukács já avaliara anteriormente de modo positivo. Neste sentido, dois exemplos são particularmente significativos. Um autor como Thomas Mann, por exemplo, não mais lhe aparece — pelo menos a partir de A montanha mágica — como um continuador da narrativa tradicional, mas, ao contrário, como iniciador da nova forma do romance centrada na “totalidade de reações”; Lukács não hesita mesmo em chamá-lo de “inovador formal”.49 Também o Poema pedagógico do soviético Antón Makarenko deixa de ser visto como precursor da “epopéia socialista” (numa época em que Lukács ainda enxergava “elementos de comunismo” na URSS dos anos 1920)50 e passa a ser tratado como um romance, mas também construido tendo como eixo a “totalidade de reações”. Por outro lado, muitas productes literárias até então condenadas como vanguardistas aparecem agora como exemplos realistas da nova forma romanesca (o caso mais vistoso, mencionado pelo proprio Lukács, é o do romance O homem sem qualidades de Robert Musil)51. E, além disso, a descoberta desse novo tipo de figuração romanesca permite a Lukács explicar de modo mais adequado alguns autores que ele antes considerava como híbridos (ou seja, como realistas clássicos que empregavam técnicas de vanguarda); é o caso, sobretudo, de Heinrich Böll. Esse texto tardío de Lukács, apesar de seu caráter mais indicativo do que sistemático, abre um vasto campo para novas pesquisas e, antes de mais nada, para uma reavaliação das próprias posições lukacsianas diante da literatura de nosso tempo. Não posso fazer aqui mais do que chamar a atenção para a sua importância.

As análises de Proust e de Kafka que empreenderei em seguida orientam-se em duas direções convergentes: por um lado, visam a avaliar estes autores à luz do método histórico-sistemático elaborado por Lukács, mas abandonado por ele em Realismo crítico hoje; e, por outro, como conseqüência, tentam dar uma forma relativamente sistemática às indicações fornecidas pelo filósofo em seus últimos anos de vida, não só em referência direta a produção destes dois autores, mas também no que diz respeito aos problemas histórico-sistemáticos da literatura do século XX como um todo. Muitas de minhas formulações — e, em particular, a que considera Kafka um precursor novelístico da nova forma de romance centrada na “totalidade de reações” e não mais na “totalidade dos objetos” — não se encontram nos textos de Lukács, nem mesmo depois do que eu considero como suas últimas “autocríticas” no campo literário.52 Mas estou convencido de que, em última instância, minha pesquisa pode ser considerada “ortodoxamente” lukacsiana, se considerarmos o conceito de “ortodoxia” precisamente no sentido que o próprio Lukács lhe atribuiu, ou seja, no sentido da fidelidade ao método e não necessariamente às afirmações particulares concretas de um autor.53 Creio que esse fato — o desafio de tentar compreender à luz de Lukács dois autores que o próprio Lukács não compreendeu adequadamente — justifica, pelo menos subjetivamente, que eu acrescente um novo título à já ciclópica bibliografia sobre Proust e Kafka.

1 J. Rivière, “Marcel Proust et la tradition classique” [1920], in Vários autores, Les critiques de notre temps et Proust, Paris, Garnier, 1971, p. 25-31.

2Theodor W. Adorno, “Anotações sobre Kafka”, in Id., Prismas. Crítica cultural e sociedade, São Paulo, Ática, 2001, p. 239.

3W. Benjamin, “Franz Kafka. A propósito do décimo aniversario de sua morte”, in Id., Obras escolhidas, São Paulo, Brasiliense, vol. 1, 1985, p. 152.

4G. Lukács, Estetica, Turim, Einaudi, 1970, 2 vols., p. 745-747 e 749. A edição alemã original é de 1963.

5G. Lukács, La distruzione della ragione, Turim, Einaudi, 1959 (ed. alemã original, 1953), p. 24; Id., Realismo crítico hoje, Brasília, Coordenada, 1969, p. 63. Neste segundo livro, partindo de uma citação de Benjamin, Lukács chega mesmo a dizer que Proust radicalizou ainda mais o subjetivismo irracionalista de Bergson: “Mas, enquanto em Bergson, sob a abstração filosófica, existe a aparência — enganadora — de uma totalidade cósmica, em Proust, ao contrário […], esta concepção do tempo é levada às suas extremas conseqüências, de modo que não resta nenhum vestígio de objetividade”.

6Stephen Spender, “Lukács: o homem sem idade”, in Cadernos brasileiros, ano VII, n° 1, 1965, p. 77-78. Trata-se da tradução para o português de “With Lukács in Budapest”, publicada em Encounter, dezembro de 1964.

7G. Lukács, Realismo crítico hoje, cit., p. 133. No prefácio a este livro, datado de abril de 1957, Lukács diz que comegou a redigilo no “outono de 1955”. Cabe lembrar que também Bertolt Brecht expressou um juízo negativo sobre Kafka. Embora tenha apontado corretamente a figuração antecipadora do “Estado-formigueiro” na obra kafkiana, Brecht afirma — em conversa com Walter Benjamin, em 1934 — que “ele [Kafka] não encontrou solução e não despertou do seu pesadelo”, que era “um espírito impreciso, quimérico” e que, portanto, devia “ser deixado de lado” (cf. W Benjamin, “Entretiens avec Brecht”, in Id., Essais sur Bertolt Brecht, Paris, Maspero, 1969, p. 132 e 135).

8G. Lukács, Realismo crítico hoje, cit., p. 73.

9Lukács voltaria a utilizar amplamente as teses de Benjamin, formuladas em Origem do drama barroco alemão (São Paulo, Brasiliense, 1984 [ed. original, 1928], p. 181 e ss.), no belo capítulo sobre “Alegoria e símbolo” da sua Estetica, cit., vol. 2, p. 1473-1516. Cabe observar, porém, que Kafka não é jamais citado nesse capítulo seminal, embora boa parte do mesmo trate da arte contemporânea. Pode-se ainda lembrar que Kafka tampouco aparece na obra que Lukács dedicou à história da literatura alemã (Breve storia della letteratura tedesca, Turim, Einaudi, 1956 [ed. original, 1945]), uma ausência que não pôde ser explicada pelo fato de Kafka não ser alemão, já que Lukács trata amplamente neste livro de um conterráneo de Kafka, o poeta tcheco — mas, como Kafka, de expressão alemã — Rainer Maria Rilke. Isso parece indicar que Lukács ainda não havia tomado conhecimento da obra de Kafka em 1945. Ao que eu saiba, a primeira menção do filósofo húngaro ao narrador tcheco aparece em La distruzione della ragione (cit., p. 792), no “epílogo” datado de Janeiro de 1953; neste epílogo — ainda que afirme não estar tratando do “valor estético” das obras, mas analisando-as apenas como “índice das correntes sociais” —, Lukács se permite o seguinte despropósito: “Hoje, as manifestações literárias paralelas à economia da apologética direta [do capitalismo] e à filosofia semântica são os representantes do desespero niilista, os Kafka ou os Camus”.

10Para tais juízos, cf. “Kafka na obra do último Lukács”, infra, Apêndices, 2, p. 215-219.

11 Cf., por exemplo, a “Introdução” que escrevi para a edição brasileira de Realismo crítico hoje, cit., p. 7-20.

12Também não concordo com a posição dos que subestimam a importância da categoria do realismo na análise das obras de arte, em particular daquela de Kafka. Uma posição deste tipo aparece em Michael Löwy, Franz Kafka: rêveur insoumis, Paris, Stock, 2004, onde há um capítulo intitulado ironicamente “Digression anecdotique: Kafka était-il réaliste?” (p. 149-159). Trata-se certamente de uma anedota (que Löwy repete) a atribuição a Lukács, quando esteve preso num castelo romeno após o esmagamento da rebelião húngara de 1956, da afirmação de que ele agora estaria convencido de que “Kafka era um realista”. É evidente que a questão do realismo em Kafka (e na arte em geral) não se esgota em anedotas deste tipo.

13Cf., em particular, G. Lukács, Scritti politici giovanili 1919-1928, Bari, Laterza, 1972, p. 3-174; là.,”Kommunismus1920-1921, Pádua, Marsilio, 1972; Id., História e consciência de classe [1923], São Paulo, Martins Fontes, 2004; Id., Lenin. Unità e coerenza del suo pensiero [1924], Turim, Einaudi, 1970. Para um balanço autocrítico deste período, cf. Id., “Prefácio” [1967] a História e consciência de classe, cit., p. 1-50.

14Trata-se do informe que Lukács apresentou, em 1928, a um congresso do clandestino PC húngaro, no quai antecipava idéias que, embora condenadas na época por seu partido e pela Internacional Comunista, seriam mais tarde retomadas por esta última na estratégia da “frente popular” (cf. G. Lukács, “Teses de Blum”, in Temas de ciências humanas, São Paulo, n° 7, 1980, p. 19-30).

15G. Lukács, Le roman historique [1936-1937], Paris, Payot, 1965; e Id., Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica [1938], Turim, Einaudi, 1960. Os principais ensaios de Lukács sobre o realismo do século XIX estão reunidos em Saggi sul realismo [1934-1943], Turim, Einaudi, 1950, mas também em Goethe et son époque [1934-1940], Paris, Nagel, 1949, e em Realisti tedeschi del XIX secolo [1935-1940], Milão, Feltrinelli, 1963.

16Entre os muitos textos que buscam mostrar as divergências entre a obra lukacsiana e o stalinismo, cf. sobretudo Nicolas Tertulian, “G. Lukács e o stalinismo”, in Praxis, Belo Horizonte, n° 2, setembro de 1994, p. 71-108.

17Não é aqui o local para tratar do assunto, mas me parece indiscutível que Gramsci foi além de Lukács na compreensão das novas tarefas teórico-políticas que se colocavam ao marxismo em conseqüência deste refluxo da onda revolucionária no Ocidente e da involução “estatolátrica” que o pensador italiano apontou na URSS staliniana. É nesse contexto que se inscreve a renovaçâo gramsciana da teoria marxista de Estado e revolução, uma renovação que inutilmente procuraríamos na obra de Lukács. Sobre isso, cf., entre outros, C. N. Coutinho, Gramsci. Um estudo sobre seu pensamento político, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, 2003, sobretudo p. 119-164.

18Cf. G. Lukács, in O espírito europeu, Encontros Internacionais de Genebra [1946], Lisboa, Europa-América, 1962, p. 178. O texto desta conferência foi depois publicado com o título “A visão do mundo aristocrática e democrática” (cf., por exemplo, Lukács Gyòrgy, “Arisztrokratikus es Demokratikus Világnezet”, in Id., A polgári filozófia válsága, Budapeste, Hungária, s.d. [mas 1947], p. 107-128). Nesse Encontró, Lukács discute, entre outros, com Julien Benda, Georges Bernanos, Stephen Spender, Karl Jaspers e Maurice Merleau-Ponty.

19Também aqui Gramsci viu mais longe do que Lukács: em seus apontamentos carcerários, o revolucionario italiano previu — já no inicio dos anos 1930 — que o “americanismo” seria um novo modo de ser do capitalismo, dotado de uma expansividade e de uma capacidade de universalização bem maiores do que aquelas do fascismo (cf. A. Gramsci, Cadernos do carcere, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, vol. 4, 2001, p. 217-321). Trata-se de uma previsão que o mundo resultante da Segunda Guerra só fez confirmar.

20G. Lukács, L’uomo e la democrazia, Roma, Lucarini, 1987. Embora escrito em 1968, este pequeño livro — por imposição do PC húngaro, ao qual Lukács (depois de ter sido dele expulso logo após os eventos húngaros de 1956) retornara um ano antes — só foi publicado cerca de quinze anos depois da morte do filósofo, com o título Demokratisierung heute und morgen [Democratização hoje e amanhã], Budapeste, 1985.

21Cf., por exemplo, “En casa con György Lukács” [1968], in Id., Testamento político y otros escritos sobre politica y filosofia, Buenos Aires, Herramienta, 2003, p. 121. Os impasses e aporias que esta identificação entre socialismo e “socialismo realmente existente” (ainda que considerado “o pior socialismo”) provocou no pensamento político e mesmo teórico de Lukács, inclusive em seus escritos posteriores a 1956, foram quase sempre convincentemente analisados pelo seu ex-discípulo István Mészáros, Para além do capital, São Paulo-Campinas, Boitempo-Editora da Unicamp, 2002, sobretudo p. 469-514.

22G. Lukács, Realismo crítico hoje, cit., p. 97.

23Ibid., p. 102-103.

24Ainda que com unilateralismo oposto, este caráter relativamente justificado do pessimismo foi visto e analisado pelos integrantes da Escola de Frankfurt em sua fase “clássica” (Horkheimer, Adorno, Benjamin, Marcuse, etc.). O problema é que alguns deles, sobretudo os dois primeiros, terminaram por transformar este pessimismo relativamente justificado num imobilismo resignado diante do que chamavam de “mundo administrado”. Em outras palavras: não souberam seguir a recomendação de Gramsci no sentido de articular “pessimismo da inteligência” com “otimismo da vontade”.

25Cf. G. Lukács, La distruzione della ragione, cit., mas também Id., Existencialismo ou marxismo? [1948], São Paulo, Ciências Humanas, 1979.

26É esta, precisamente, a lição lukacsiana. Cf., por exemplo, G. Lukács, Introdução a uma estética marxista. Sobre a categoria da particularidade, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, 1970 [ed. italiana original, 1957]; e Id., Estetica, cit., vol. 2, sobretudo p. 984-1052.

27Embora criticasse duramente o esquematismo vigente em boa parte da literatura soviética, Lukács continuou a crer até o fim na possibilidade de um “realismo socialista”, cujas maiores expressões seriam, segundo ele, Gorki, Cholokhov e Makarenko (cf. Realismo critíco hoje, cit., p. 135-200).

28Sobre a importância atribuida pelo filósofo húngaro ao “Movimento dos Partidarios da Paz”, cf. G. Lukács, La distruzione della ragione, cit., p. 772 e ss.; e Id., Realismo crítico hoje, cit., p. 27-31. Para a permanência de ilusões sobre uma aliança entre “democracias” ocidentais e socialismo soviético, cf. — entre muitos outros textos e entrevistas do inicio dos anos 1960 — G. Lukács, “Problemi della coesistenza culturale” [1964], in Id., Marxismo e politica culturale, Turim, Einaudi, 1968, p. 163-186.

29Não se deve esquecer, por exemplo, a clara adesão dos principais futuristas italianos ao fascismo, as simpatias de alguns expressionistas alemães e de Ezra Pound pelo nazismo ou os vínculos entre o surrealista Salvador Dalí e o franquismo. No Brasil, os modernistas Menotti del Picchia e Plinio Salgado estiveram entre os criadores do integralismo, a versão tupiniquim do fascismo. Mas são pelo menos tão expressivos quanto estes os casos em que vanguardistas no terreno da arte aderiram a posições progressistas e mesmo revolucionárias no terreno da política: basta evocar aqui os casos de Maiakovski, dos surrealistas franceses, do primeiro Brecht ou de Pablo Picasso. E, também neste caso, cabe lembrar os brasileiros Mário e Oswald de Andrade.

30G. Lukács, Realismo crítico hoje, cit., p. 30.

31Cf. G. Lukács, Solschenitzyn, Neuwied e Berlim, Luchterhand, 1970, p. 27. Este pequeño livro conheceu uma imediata edição francesa (Soljénitsine, París, Gallimard, 1970).

32Cf. “Lukács a Coutinho”, 26 de fevereiro de 1968, infra, p. 211.

33G. Lukács, Le román historique, cit., p. 106.

34Ibid., p. 96-189.

35“Quanto mais as opiniões do autor permanecerem ocultas, tanto melhor para a obra de arte. O realismo a que me refiro deve se manifestar a despeito das opiniões dos autores. Permita-me dar um exemplo, o de Balzac, que eu considero um grande mestre do realismo, maior do que todos os Zolas passados, presentes e futuros […]. Balzac era politicamente legitimista; suas simpatias estão com a classe [a aristocracia] destinada à extinção […]. Que Balzac tenha sido obrigado a ir de encontró às suas próprias simpatias de classe e a seus preconceitos políticos; que ele tenha visto e necessidade do colapso dos aristocratas com os quais simpatizava e os tenha descrito como gente que não merecia um destino melhor; que ele tenha visto os verdadeiros homens do futuro no único lugar em que, naquela época, eles podiam ser vistos — eis o que considero uma das maiores vitórias do realismo e uma das maiores realizações do velho Balzac” (Engels a M. Harkness, abril de 1888, in K. Marx e F. Engels, Sobre el arte, Buenos Aires, Estudio, 1967, p. 41-42).

36G. Lukács, Realismo crítico hoje, cit., p. 33-75.

37Uma análise desse tipo, a meu ver, poderia confirmar a natureza alegórica e, como tal, anti-realista de alguns significativos autores de vanguarda, como, por exemplo, Beckett, Camus e o Joyce do Ulisses e do Finnegans Wake. No caso de Joyce, valeria um outro discurso para seu primeiro período, em particular para Dublinenses e O retrato do artista quando jovem.

38Lukács, Realismo crítico hoje, cit., p. 36. É certo que Lukács insiste em que seu interesse volta-se para a visão imanente à obra; mas o desdobramento da sua argumentação, como se pode facilmente comprovar (cf. p. 37, 44, 45, etc.), não confirma essa cautela metodológica.

39Lukács parece ter percebido isso em 1963, quando faz um paralelo entre Kafka e Swift. Cf. “Kafka na obra do último Lukács”, infra, Apêndices, 2, p. 218.

40Cf., em particular, L. Goldmann, Sociologia do romance, Rio de Janeiro, Paz e Terra, 1967, p. 7-28.

41Lukács, Estetica, cit., vol. 1, p. 579. O grifo é meu.

42G. Lukács, Marxismo e teoria da literatura, Rio de Janeiro, Civilizacao Brasileira, 1968, p. 5.

43Cf. G. Lukács, Realism in Our Time, Nova York, Harper Torshbook, 1971, p. 83-89, que reproduz Id., The Meaning of Contemporary Realism, Londres, Merlin, 1963. Estas páginas estão ausentes ñas edições italiana (Il significato attuale del realismo critico, Turim, Einaudi, 1957) e alemã (Wider den missverstandenen Realismuis [Contra o realismo mal compreendido], Hamburgo, Claassen, 1958), bem como na edição francesa (La signification présente du réalisme critique, Paris, Gallimard, 1960) que serviu de base para a edição brasileira que venho citando.

44Cf., respectivamente, G. Lukács, Breve storia della letteratura tedesca, cit., p. 212; e Id., Realism in Our Time, cit., p. 89.

45Cf. G. Lukács, “Solshenitzyns Romane”, in Id., Solschenitzyn, cit., p. 31-85.

46Alguns desses problemas — que levaram Lukács, em 1969, a abandonar o manuscrito já concluido e a empreender a redação de um novo texto — são historiados por Alberto Scarponi e Nicolas Tertulian em seus prefácios às edições italianas do primeiro e do segundo manuscritos (cf., respectivamente, G. Lukács, Per l’ontologia dell’essere sociale, Roma, Riuniti, 1976, vol. 1, p. VII-XV; e Id., Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, Milão, Guerrini, 1990, p. IX-XXVII). É particularmente interessante o fato de que Lukács tenha chegado a pensar em escrever “O Capital do presente”, projeto que abandonou por causa da idade. Mas foi precisamente a descoberta, ainda que parcial e fragmentaria, das formas tardías do capitalismo monopolista (que, a partir da segunda metade dos anos 1960, ele designa repetidas vezes com o termo “capitalismo manipulatório”) que permitiu a Lukács empreender as “revisões” de sua concepção geral do marxismo (com a compreensão da necessidade de fundá-lo numa ontologia do ser social, em contraste com o irracionalismo e o epistemologismo neopositivista) e — o que aqui nos interessa mais de perto — de sua visão da literatura do século XX. Contudo, mesmo neste periodo derradeiro, permanecem limites na concepção lukacsiana do marxismo, como tentei mostrar sumariamente em C. N. Coutinho, “Lukács, a ontologia e a política”, in Id., Marxismo e política, São Paulo, Cortez, 1996, p. 143-160; e em L. Konder e C. N. Coutinho, “Presença de Lukács no Brasil”, in M. O. Pinassi e S. Lessa (orgs.), Lukács e a atualidade do marxismo, São Paulo, Boitempo, 2002, p. 157-183.

47G. W. F. Hegel, Estética, Lisboa, Guimarães, vol. VII: Poesia, 1964, p. 182 e ss. Quanto à apropriação crítica deste conceito hegeliano por parte de Lukács, cf. não só a segunda parte de Le roman historique, cit., mas também os ensaios “Rapport sur le roman” e “Le roman”, escritos também nos anos 1930, recolhidos em G. Lukács, Écrits de Moscou, Paris, Editions Sociales, 1974, p. 63-78 e 79-140.

48 G. Lukács, Solschenitzyn, cit., p. 34-35.

49Ibid.

50G. Lukács, “Makarenko, Il poema pedagogico” [1951], in Id., La letteratura sovietica, Roma, Riuniti, 1955, p. 169-233.

51G. Lukács, Solschenitzyn, cit., p. 36.

52Lukács, por exemplo, ainda que concorde com a importância do elemento novelístico na obra de Kafka, mencionando explícitamente A metamorfose, é contrário à avaliação positiva de O processo, que ele não considera uma novela. Cf. “Lukács a Coutinho”, 26 de fevereiro de 1968, infra, p. 211-212.

53G. Lukács, História e consciência de classe, cit., p. 64.

Il retaggio di questa epoca

di György Lukács

da Problemi teorici del marxismo, «Critica marxista», 1976.

Il saggio di cui diamo qui la traduzione italiana non risulta sia stato mai pubblicato altrove. L’originale tedesco (20 cartelle dattiloscritte con correzioni di pugno dell’autore) è stato rintracciato fra le carte di Lukács dopo la sua morte e si trova ora registrato sotto la sigla LAK 11/94, nell’Archivio e Biblioteca Lukács dello Istituto di filosofia dell’Accademia ungherese delle scienze. La stesura del saggio viene fatta risalire ad un periodo che intercorre fra il 1935 ed il 1938. È da supporre, comunque, che sia stato scritto dopo il VII Congresso dell’Internazionale comunista, in un’atmosfera politico-culturale che sollevava, fra l’altro, il problema del rapporto fra il movimento operaio e la cultura borghese. Il significato di questo scritto va dunque oltre la semplice presa di posizione critica verso un libro e un autore, pur importante come Ernst Bloch. Per una breve presentazione critica del testo vedi F. Görgényi, «E. Bloch e i limiti del concetto di utopia», in Világosság, 1975, n. 8-9, pp. 524-525. Ringraziamo András Knopp e i dirigenti dell’Archivio Lukács per averci permesso di pubblicare questo saggio, (n.d.r.).

***

Ernst Bloch, l’autore del libro Erbschaft dieser Zeit (Il retaggio di questa epoca) (Oprecht e Helbing, Zurigo, 1935) che ci accingiamo a recensire, è una delle personalità più interessanti della letteratura teorica tedesca contemporanea. Il suo periodo giovanile cade nell’ultimo decennio antecedente la guerra mondiale, quando nella filosofia tedesca era generale l’aspirazione alla «Weltanschauung», quando procedeva vigorosamente il superamento del neokantismo. (Il primo scritto di Bloch, la sua tesi di laurea, è una critica a Rickert).

La tendenza di fondo di quel processo fu imperialistico-reazionaria. Spengler e Klages, Leopold Ziegler e il conte Keyserling sono i personaggi filosofici, ora celebri, che questo movimento ha prodotto. Bloch, il quale condivideva con i suoi contemporanei molte premesse gnoseologiche, se ne distinse fin dal principio su un punto estremamente importante. Il suo tendere all’idealismo oggettivo, quantunque assai di frequente si convertisse anche in lui in aperto misticismo, non aveva mai un intendimento apologetico. Nei confronti della propria epoca aveva un atteggiamento di opposizione, pur se ancora abbastanza confuso. La guerra imperialistica, poi, e il processo che porta alla guerra sono andati sempre più rafforzando questo atteggiamento di opposizione, hanno spinto Bloch sempre più a sinistra.

Già i saggi da cui nasce il suo primo libro, Geist der Utopie (Spirito di utopia), sono diretti contro la Germania della guerra mondiale. Vero è che Bloch allora criticava la guerra imperialistica della Germania dal punto di vista di un pacifismo largamente mistico, orientato in senso democratico-occidentale. Il secondo libro, Thomas Münzer als Theologe der Revolution (Thomas Münzer teologo della rivoluzione), contiene però ormai un’adesione alla rivoluzione, alla «figura liebknechtiana» di Münzer. Anche questo libro opera con un concetto idealistico-mistico della rivoluzione. Bloch crede che la dottrina economica del marxismo debba essere «approfondita» enucleando gli «eterni» momenti della ribellione umana contro lo sfruttamento e l’oppressione. Il suo Thomas Münzer, perciò, non è un personaggio storico, quale fu descritto da Engels. Al contrario, proprio per la sua «teologia» egli dev’essere indicato a modello delle lotte odierne: l’attuale lotta di liberazione del proletariato, secondo Bloch, dovrebbe pervenire all’altezza e profondità münzeriane del «pensiero utopico», per conseguire un potere realmente vittorioso.

In tal modo Bloch assume nella letteratura teorica tedesca una originale posizione di outsider. Egli combatte da anni lo svolgimento filosofico reazionario della Germania, ma lo combatte a partire da premesse filosofiche che hanno moltissimo in comune con gli orientamenti contro cui muove. Cosicché è finito in una posizione intermedia, abbastanza isolata, fra i due campi avversi.

Ma proprio questa discordia del suo atteggiamento di fondo, non superata dalla sua evoluzione verso sinistra, gli garantisce un’influenza ideologica nell’emigrazione antifascista. Infatti la discordia di fondo della posizione di Bloch è tipica di tutta una corrente nel campo dell’antifascismo borghese di sinistra. Il processo di fascistizzazione della Germania e in particolare la presa del potere da parte di Hitler hanno fatto non solo di Bloch, ma anche di molti altri scrittori borghesi di sinistra degli accaniti nemici del fascismo. Tuttavia questa evoluzione politica verso sinistra in molti di essi non è andata di pari passo con una revisione della base filosofica su cui poggia la loro attuale concezione del mondo, con una critica dell’idealismo e specialmente delle sue specifiche forme di manifestazione imperialistiche. Anche l’avvicinamento al marxismo da parte di Bloch, che ha proceduto molto più avanti rispetto alla gran maggioranza degli antifascisti borghesi di sinistra, non contiene nessuna critica dell’idealismo. Ma appunto per questo egli diviene una presenza affascinante per una grande parte di questa emigrazione. Per costoro Bloch diviene un’incarnazione del «marxismo» ad essi più agevolmente accessibile, più congeniale alla fase di sviluppo ideologico in cui si trovano. Come tale, come marxista e rivoluzionario che, però, possiede la giusta sensibilità per tutte le finezze della coltura, lo celebra Klaus Mann sulla rivista di Amsterdam Die Sammlung, parlando del suo nuovo libro come di «un ardito inventario del nostro patrimonio spirituale»; e altrettanto fa F. Burschell sulla Neue Weltbühne.

Bloch è sul piano politico notevolmente più a sinistra di quegli intellettuali che egli influenza sul piano spirituale. Egli non soltanto è un risoluto antifascista, ma è in più un avversario convinto del sistema capitalistico. Per lui non vi sono dubbi che solamente il proletariato rivoluzionario è la potenza in grado di abbattere Hitler e che il socialismo subentrerà al fascismo.

Quando, dunque, Bloch pone al centro del suo libro la questione del retaggio, egli lo fa a partire da tali convinzioni storico-politiche. Il problema centrale di questo libro, da cui scaturisce poi quello del retaggio, concerne gli alleati della rivoluzione proletaria, la conquista dei piccoli borghesi urbani e dei contadini alla rivoluzione socialista. Già l’aver posto energicamente tale questione onora il pensatore e combattente Bloch. Già questo atto mostra che egli, dopo i suoi primi libri, si è decisamente mosso verso sinistra.

Per rispondere a tale questione Bloch intende scegliere come filo conduttore il marxismo. Il lettore marxista, tuttavia, è subito colpito dal fatto che egli non collega la conquista degli alleati con quella della maggioranza della classe operaia alla rivoluzione proletaria sotto la guida del partito comunista, ma pone invece la prima del tutto indipendentemente dalla seconda. Questa debolezza di metodo, che qui appare in piena luce, nasce da una concezione volgarizzata e stravolta dell’economia marxista, che ha legami assai profondi con l’atteggiamento fondamentale, filosofico-idealistico, di Bloch. La conseguenza è che, laddove il marxismo vede problemi dell’essere materiale, Bloch è capace di osservare soltanto problemi meramente ideologici. A dispetto di questa debolezza fondamentale della sua posizione, su cui torneremo diffusamente, Bloch pone il problema del retaggio con chiarezza e nei suoi termini di principio. Egli guarda al tramonto del capitalismo e insieme a quello della cultura del capitalismo, quindi domanda: che cosa prenderà il proletariato, il costruttore del nuovo mondo, del socialismo, da questo mondo tramontante? Che cosa vi è che valga la pena di prendere? Che cosa diverrà parte integrante della nuova cultura? E considera l’entrare in possesso di questa eredità come una lotta ideologica. Solo più avanti ci fermeremo a criticare il metodo e il contenuto della sua teoria del retaggio. Qui dobbiamo anzitutto sottolineare il merito di Bloch per aver comunque posto la questione nei suoi termini di principio.

«La sassaia aurifera» – Anche nella concretizzazione dei suoi problemi Bloch parte da una piattaforma nettamente antifascista. Per lui, correttamente, il carattere del Terzo Reich è di essere una dittatura aperta e infame del capitale monopolistico. E da questa visione corretta sorgono per lui gli ulteriori problemi. Dopo aver riscontrato una «spinta» anticapitalistica anche fuori del proletariato, il suo sforzo onestamente rivoluzionario e antifascista è diretto a incanalare questa «spinta» anticapitalistica nella corrente della rivoluzione proletaria. Si tratta dunque di lottare per le vittime della propaganda demagogica del fascismo.

Si comprende allora come Bloch parta dalla ideologia di queste vittime traviate. Rincresce però che rimanga fermo all’ideologia. Tanto più rincresce, in quanto non si tratta di uno sbaglio casuale, ma invece della conseguenza necessaria dell’attuale metodo di Bloch. Abbiamo già indicato quale sia il suo rapporto con l’economia politica marxista. La concezione ristretta ed errata dell’economia politica marxista è tanto più pericolosa per Bloch in quanto vi è in essa qualcosa che si avvicina molto alla ideologia dell’anticapitalismo romantico, nella forma oggi assai diffusa. I piccoli borghesi, tormentati dai colpi di una terribile crisi economica, nella loro disperata impotenza vanno sognando di un assetto «senza economia»; molti credono che l’«economia» da cui vengono torturati sia una maligna invenzione di ebrei, liberali e marxisti, ma che per l’appunto debba essere, allora, qualcosa che è possibile abolire. Ora, tentando di dare chiarezza rivoluzionaria alla nostalgia anticapitalistica presente in tali torbide ideologie, Bloch finisce in un vicolo cieco ideologico, giacché egli stesso subisce l’influsso di questa ideologia. Bloch disconosce il nesso fra l’esistenza dell’uomo e la produzione materiale. Perciò non sottolinea nel socialismo il superamento dell’«asservente subordinazione» dell’uomo alla divisione del lavoro, il superamento della divisione sociale del lavoro fra città e campagna, fra lavoro fisico e intellettuale, ma opera invece con un concetto astratto, borghese, dell’«economia», la quale nel socialismo dovrebbe degradare a un’importanza periferica.

In tal modo Bloch non coglie a fondo il complicato nesso dialettico fra la situazione sociale dei «ceti medi» e la loro ideologia romantico-anticapitalistica. In tal modo egli finisce invece per riallacciarsi a questa ultima acriticamente. È vero che tenta, e persino con passione, di darne una critica, ma questa critica, priva di base materiale, non ha alcuna possibilità di essere realmente dialettica. Il suo metodo si riduce, alla fin fine, a una contrapposizione fra i lati «buoni» e quelli «cattivi» di questa ideologia.

È, questo, in generale un tratto caratteristico della mera critica ideologica al fascismo, che non parte dall’analisi realmente concreta della base materiale. E.H. Gast, ad esempio, nella sua recensione del romanzo di Thomas Mann su Giacobbe contrappone il «giusto» e «superiore» mito di Thomas Mann al «falso» e «inferiore» mito dei fascisti, l’irrazionalismo «autentico» di Mann all’«inautentico» e «barbaro» irrazionalismo dei fascisti. (Die Sammlung, 1934, gennaio). Altrettanto fa il filosofo socialdemocratico Herbert Marcuse, il quale mette a contrasto l’«autentica filosofia della vita» di Dilthey e Nietzsche con la falsa filosofia della vita dei fascisti (Zeitschrift für Sozialforschung, III, 2). I punti di vista di Bloch sono molto più profondi che non quelli di Gast o di Marcuse. Costoro vogliono separare completamente il fascismo dal «normale» sviluppo ideologico della borghesia, mentre Bloch intende mettere in luce tanto le connessioni quanto le differenze. Cosicché egli vede quanto c’è di reazionario e controrivoluzionario anche nella fase prefascista dell’imperialismo e al fascismo contrappone non un capitalismo «normale», ma la rivoluzione proletaria. Tuttavia l’erroneità del metodo spinge Bloch molto lontano dall’obiettivo cui mira, la dialettica rivoluzionaria, e conduce anche lui a un eclettico da-un-lato/dall’altro.

Questo restare impaniato di Bloch nell’ideologia dell’anticapitalismo romantico produce in lui una concezione fondamentalmente falsa del marxismo e del retaggio marxista. Dice: «Quando il socialismo scientifico si trasferì in Francia e Inghilterra, nell’illuminismo francese e nell’economia politica inglese, quando il marxismo volgare ebbe dimenticato, qui le guerre dei contadini tedeschi, là il retaggio della filosofia tedesca: i nazisti dilagarono nelle regioni originariamente münzeriane, ora vuote…» (p. 96). È molto probabile che Bloch intenda qui polemizzare contro il revisionismo, contro la liquidazione della dialettica rivoluzionaria, contro il completo abbandono dei contadini, ecc. Nel suo discorso, tuttavia, questo rimprovero rivolto al marxismo volgare trapassa in un rimprovero al marxismo stesso per aver raccolto l’eredità di Smith e Ricardo e dello sviluppo materialistico da Bacone a Feuerbach. A causa di questa falsa concezione Bloch perde ogni possibilità di condurre un’analisi reale delle correnti ideologiche da lui indagate. Può analizzarle soltanto come ideologie e, come tali, può «approfondirle» filosoficamente. Così resta, però, sempre sul terreno delle ideologie che va criticando.

Questo metodo falso non può che produrre nel concreto contenuti falsi. Bloch vede chiaramente come l’ideologia dei piccoli borghesi e dei contadini stia in contraddizione con i loro interessi reali, che dovrebbero renderli alleati della rivoluzione proletaria. Egli vede che queste ideologie sono fuorvianti, che portano i piccoli borghesi e i contadini in un vicolo cieco, e cerca di mettere allo scoperto tali contraddizioni in modo tale da aiutare i traviati a trovare la retta via. A questo scopo costruisce una sua teoria delle «contraddizioni inattuali». Contraddizione «attuale» è per Bloch l’antagonismo fra borghesia e proletariato; e perciò è possibile esprimerlo adeguatamente nel linguaggio del marxismo. L’esistenza dei contadini è invece una contraddizione «inattuale»: questi vivono «fuori» dal mondo del capitalismo e delle sue odierne contraddizioni «attuali». Da questa situazione sorge da un lato la possibilità per i fascisti di conquistare i contadini e i piccoli borghesi con la loro scadente demagogia, dall’altro il compito per il marxismo di assumere nella propria dialettica i problemi specifici che ne risultano, di farsi realmente «totale», di elaborare dialetticamente la contraddizione «inattuale».

Riscontriamo qui tutto un groviglio di false affermazioni. Anzitutto la piccola borghesia urbana e particolarmente il ceto impiegatizio è, anche secondo quanto dice lo stesso Bloch, un prodotto del capitalismo, e perciò dovrebbe, anche secondo la sua teoria, per ragioni di coerenza, essere oggetto della contraddizione «attuale». Ma Bloch, che ha letto sia Marx sia Lenin, dovrebbe sapere e, se non fosse impegolato nei pregiudizi idealistici dell’anticapitalismo romantico, saprebbe che nonostante tutti i residui precapitalistici la specifica situazione odierna delle campagne è prodotto e risultato dello sviluppo capitalistico. Se avesse inteso l’economia marxista in tutta la sua reale estensione e profondità, avrebbe visto che dovunque egli pensa di dover applicare la sua nuova teoria della «contraddizione inattuale», la teoria di Marx e Lenin ha già messo in luce i problemi concreti dello sviluppo capitalistico e della strategia rivoluzionaria del proletariato.

Bloch non vede come ciò che egli definisce «passato inelaborato» sia di continuo riprodotto dal capitalismo. Proprio il fatto che il fascismo sugli istinti ribellistici dei piccoli borghesi e dei contadini innesti una ideologia che è il rinascimento di ogni arretratezza e barbarie dovrebbe ammonire un onesto e convinto antifascista come Bloch alla massima cautela proprio su questo punto. In quanto nemico della bugiarda ebrezza dei fascisti, dovrebbe contrapporre a questa il sobrio pathos della reale conoscenza rivoluzionaria.

Purtroppo, fa il contrario. Nel torbido miscuglio di queste ideologie egli pensa di trovare, con i mezzi della critica ideologica, un contenuto autentico, rivoluzionario, non ancora scoperto dal marxismo. Questo contenuto rivoluzionario sarebbe il fondamento della «contraddizione inattuale», sarebbe quella «irratio autentica» che Bloch contrappone all’irrazionalismo bugiardo delle ideologie imperialistiche e fasciste. Tale concezione è un’eredità del suo periodo precedente. Egli prende le mosse dalla giusta idea secondo cui la rivoluzione proletaria si fa erede di tutte le lotte di classe contro lo sfruttamento e l’oppressione. Tuttavia proprio nella mistica confusione dei vecchi moti insurrezionali egli vede un retaggio attuale ancora non utilizzato dal marxismo, un elemento di sviluppo del marxismo.

Sfugge a Bloch quale sia il modo in cui procede l’elaborazione critica del retaggio, il suo superamento, nel materialismo dialettico. Il problema del superamento è inteso da lui in maniera puramente idealistico-ideologica. Gli sfugge il processo reale della storia nel quale vengono superate realmente contraddizioni reali. Certo, né nella storia reale, nel suo adeguato rispecchiamento nel pensiero, il marxismo-leninismo, questo superamento si verifica in modo lineare e meccanico. Tutto il problema marx-leniniano della liquidazione ad opera della rivoluzione proletaria dei problemi della rivoluzione borghese rimasti insoluti (questione agraria, questione nazionale, ecc.) è un esempio di questa concreta ineguaglianza dello sviluppo. Mentre però i problemi reali della rivoluzione borghese rimasti insoluti vengono realmente superati (superati anche nel senso di conservati) nella strategia della rivoluzione proletaria, questa conservazione superante non riguarda invece le ideologie che li accompagnano. Infatti queste ultime sono inseparabilmente connesse con la situazione economica dei contadini e dei piccoli borghesi, che presenta elementi ambigui e perciò necessariamente reazionari. Tale connessione non può non farsi sentire anche nelle ideologie dei loro più significativi rappresentanti rivoluzionari del passato. Il marxismo-leninismo eredita le reali tradizioni rivoluzionarie di questi vecchi movimenti popolari, le porta a un livello superiore (ed è, questo, un altro importante momento del superamento che Bloch trascura del tutto), ma va totalmente oltre le vecchie forme delle loro ideologie. Bloch, per contro, vede proprio in tali ideologie il momento da conservare. «Mancando però alla propaganda marxista ogni contraltare al mito, ogni trasformazione degli inizi mitici in sogni reali, dionisiaci, in sogni rivoluzionari: per effetto del nazionalsocialismo diviene visibile anche un pezzo di colpa, quella cioè del troppo corrente marxismo volgare» (p. 55). Fin quando egli critica il «settarismo compiaciuto di sé» di molti marxisti prima dell’avvento al potere di Hitler, ha ragione. E tanto maggiore è il suo merito, in quanto egli si è pronunciato con il suo libro prima del VII Congresso internazionale. Fin quando polemizza contro il fatto che molti comunisti hanno misconosciuto che «il fascismo specula anche sui migliori sentimenti delle masse, sul loro senso di giustizia e talvolta persino sulle loro tradizioni rivoluzionarie» (Dimitrov), egli si trova ancora sulla strada giusta. Ma in Bloch, nel corso della battaglia in difesa della propria linea, vanno confondendosi i confini tra il marxismo volgare e il marxismo reale. L’avversario primo di questa sua teoria del retaggio rivoluzionario è infatti Friedrich Engels, il quale in una lettera definisce quella ideologia, di cui Bloch vuol sapere quale sia il contenuto aureo, semplicemente e ruvidamente come «stupidità». Engels così prosegue: «Il basso
livello dello sviluppo economico nel periodo preistorico ha come complemento, ma anche in parte come condizione, e persino come causa, le false rappresentazioni della natura» (Lettera a C. Schmidt del 27 ottobre 1890), e Bloch polemizza assai aspramente contro questa proposizione «troppo illuministica». Egli dice sintetizzando: «Inverosimile che la qualità di tutte le mitologie e occultismi – nel loro lato esorcizzante e dissolvente – sia stata esclusivamente di essere ipostatizzazioni di un’economia indecifrata e non anche un concorrere di una natura indecifrata, ancora indecifrata in se stessa» (p. 137). È chiara, qui, la concezione ristretta che Bloch ha della economia marxista, un aspetto per lui fatale. Giacché misconosce il nesso dialetticamente enunciato da Engels fra lo sviluppo storico dell’economia e quello della conoscenza della natura, le rappresentazioni che gli uomini si fanno della natura acquistano per lui una mistica oggettività apparente. Nella sua visione la natura, che esiste indipendentemente dalla coscienza umana, non viene conosciuta sempre più adeguatamente in concomitanza con il processo di produzione materiale, ma invece proprio le rappresentazioni dei primi e primissimi gradi della conoscenza umana della natura rimanderebbero a connessioni ormai divenute di nuovo irraggiungibili per i gradi superiori (capitalismo). L’idealismo di Bloch qui si tramuta direttamente in fatto reazionario; perfino nell’occultismo egli rintraccia elementi da ereditare, «un segmento di contenuti designati (solo designati) mitologicamente che sono, a dir poco, estranei al segmento meccanico, anzi in parte forse giacciono al di sotto di ogni orizzonte monoblocco» (p. 130).

Tali brani mostrano a sufficienza a quali pericolose conseguenze pervenga Bloch andando fino in fondo con il suo metodo errato. Il che tanto più rincresce in quanto nella sua analisi della cultura contemporanea è rilevabile non soltanto una tendenza antifascista, ma anche un sano istinto plebeo. Proprio a causa della sua ampia e profonda cultura Bloch è lontanissimo da una cieca sopravvalutazione della cultura e civiltà del periodo odierno. Egli si distingue notevolmente, a suo vantaggio, da quegli antifascisti borghesi che, pur combattendo l’ideologia del fascismo, cercano di salvare l’ideologia imperialistica. La condanna blochiana della cultura borghese risale molto addietro rispetto al periodo imperialistico e intende costituirsi come critica dell’ideologia dell’intera epoca della decadenza. Quantunque anche qui si introduca a disturbare il discorso l’anticapitalismo romantico, facendogli dirigere il fuoco principale dell’attacco contro il periodo liberale dello sviluppo borghese, senza una critica abbastanza netta delle controtendenze reazionarie. Il tentativo blochiano di scoprire un nuovo metodo di lotta contro la ideologia del fascismo deve quindi considerarsi fallito. È fatica vana cercare l’«oro» nella ideologia di contadini e piccoli borghesi arretrati. L’«oro» è contenuto per questi ceti negli istinti anticapitalistici che scaturiscono dalla loro condizione sociale scissa, dall’oppressione e lo sfruttamento che esercita su di loro il capitalismo monopolistico. Questo «oro» non è però rintracciabile per la via di Bloch, – tale via conduce soltanto a eternare la loro confusione ideologica, – ma invece su quella della teoria e prassi marxiste-leniniste (come assai persuasivamente mostrano l’andamento delle cose in Urss e gli effetti della tattica del Fronte popolare). Esse, chiarendo le loro esperienze, li aiutano a superare nella pratica, nella lotta per i loro interessi reali, la confusione ideologica.

Montaggio dialettico – Il secondo importante problema posto dal libro di Bloch è quello del retaggio dell’attuale cultura capitalistica. Tale questione è per noi assai interessante perché Bloch fornisce molto materiale concreto sul formalismo nell’arte e tratta di numerosissimi problemi che nell’odierna discussione contro il formalismo sono di grande peso.

Egli vede chiarissimamente lo stato di catastrofico dissolvimento in cui si trova l’attuale cultura capitalistica. «Insegnanti, artisti, scrittori non trovano più nessuna cultura sul terreno del capitale, ad eccezione di quella ironica o stravagante, una cultura che è mancanza di patria, che s’identifica con la mancanza d’oggetto stessa» (p. 305). E ancora più decisamente sulla collocazione dei poeti nell’epoca attuale: «Così, importanti poeti non trovano più nei materiali da impiegarsi subito, ma solo dopo averli spezzati. Il mondo imperante non diffonde più per loro uno splendore rappresentabile, che sia da affabulare, ma solo vuotezza, e dentro scarti mescolabili». Aggiunge poi, alludendo in specie a Joyce, che questa situazione si verifica «perché all’uomo manca qualcosa, la cosa più importante…» (pp. 189-190).

Tale corretto giudizio, confermato da un’ampia analisi dei più significativi scrittori, musicisti e filosofi contemporanei, induce Bloch a considerare il problema stilistico del montaggio come il punto centrale delle attività artistiche e filosofiche attuali. E ovviamente egli pone il problema del retaggio a partire di qui. La questione in sé è certamente legittima. Molto meno lo è la risposta di Bloch. Il quale infatti afferma: «Pure alcunché, come anzitutto il singolare “montaggio” tardoborghese, comporta senza dubbio più che il tramonto» (p. 13). Dobbiamo perciò anzitutto conoscere la concezione blochiana del montaggio. Il concetto di montaggio – e ciò è assai interessante – per Bloch ha una estensione enorme: «Esso va dai collages a Joyce, fino a Brecht e oltre»; persino la filosofia ha attualmente il montaggio come suo principio metodologico fondamentale.

La sua teoria del montaggio prende le mosse dalla concezione, cui abbiamo fatto cenno, del rapporto degli artisti e del loro pubblico con la realtà contemporanea. Il punto basilare è la perdita di connessione. Secondo Bloch il montaggio ha di positivo che non tenta di mascherare la perdita della connessione, come fa ancora la Nuova oggettività, ma invece parte apertamente e consapevolmente dalla sconnessione della realtà per gli intellettuali borghesi dei nostri giorni. «Le parti non concordano più luna con l’altra, sono divenute distaccabili, rimontabili… Nel montaggio tecnico e culturale tuttavia viene disvelata la connessione della superficie vecchia… il montaggio appare sul piano culturale come la forma più alta di intermittenza spettrale sopra la dispersione, anzi in dati casi come forma attuale di inebriamento e irrazionalità… esso non simula una qualche stabilità, con cui s’intenda rendere solido il davanti… Da ruderi che non trovano il coraggio di fosforeggiare, da parte del vecchio mondo che vengono di continuo mutate di funzione solo per usarle nel vecchio mondo» (pp. 162-164).

Il montaggio in tal modo viene fissato concettualmente come tipico prodotto decompositivo dell’ultimo sviluppo ideologico della borghesia. Anzi per Bloch proprio la coerenza con cui tiene fermo alla sconnessione della realtà apparente dà al montaggio preminenza e superiorità rispetto alla Nuova oggettività. «C’è qui un’interruzione e una nuova connessura in un senso che va molto oltre lo scambio di parti tecniche o addirittura il fotomontaggio, eppure questa forma obbedisce ancora come a una vera “opera frammentaria”… esso improvvisa con la connessione scoppiata, trasforma gli elementi divenuti puri, con cui la Oggettività forma rigide facciate, in tentazioni e tentativi entro uno spazio vuoto. Questo spazio vuoto è sorto appunto perché è franata la cultura borghese; e in esso gioca non solo la razionalizzazione di un’altra società, ma più visibilmente una nuova figurazione nascente dalle particole del retaggio culturale divenuto caotico» (p. 156).

Tuttavia, quanto è corretta la messa a nudo che Bloch fa dei fondamenti ideologici del montaggio, tanto sono errate le conseguenze che tira dalle proprie costatazioni. Ma queste conclusioni sbagliate non tolgono valore alla sua analisi. Proprio il nostro dibattito sul formalismo ha mostrato quanto siano pochi gli artisti e i critici in possesso di una certa chiarezza sui presupposti ideologici del formalismo. Ecco perché ha valore durevole la sottolineatura blochiana dell’importanza ideologica che spetta al riflesso del mondo lacerato nella sua connessione e, di conseguenza, alla fine dello «splendore estetico». Coloro i quali, criticando apparentemente il contenuto del formalismo, glorificano però la «maestria» dei suoi rappresentanti, potrebbero imparare dall’analisi di Bloch che il formalismo deve necessariamente distruggere tutti i presupposti di una reale maestria (senza virgolette). Vale a dire la raffigurazione del tipico, il suo sviluppo artistico-organico dalla raffigurazione dell’individuale. Purtroppo l’analisi di Bloch anche in questo ambito resta ferma al piano idealistico. Egli anche qui distingue semplicemente in maniera eclettica il «lato buono» del montaggio dal «lato cattivo» e non si accorge che, laddove l’assenza di connessione viene sostituita da una connessione astratta, questa può essere appunto solo una «sostituzione» e non un reale superamento. E proprio per questo non vede la profonda affinità artistica che intercorre fra il montaggio «marxista» e quello borghese. Il primo argomento apparentemente di gran peso addotto da Bloch a favore della sviluppabilità del montaggio per la cultura socialista è il suo criterio generale dell’eredità. Egli trae questo criterio dal proprio orientamento di opposizione al capitalismo imperialistico, ma lo trae ancora una volta in modo astratto e formale. «Questo è anche qui il criterio delle parti di eredità utilizzabili: esse nel tardocapitalismo, che le forma, non possono non essere tanto imperfette e impedite quanto sospette» (p. 167). Il montaggio è quindi sospetto per l’odierno capitalismo, il quale ne impedisce lo sviluppo. Questo argomento, però, cade quando si approfondisce l’analisi. È tipico, cioè, della cultura borghese nel suo periodo tardo il fatto che nuovi fenomeni artistici o filosofici vengano dapprima sbeffeggiati e derisi, per essere poi considerati, in base a una fortissima sopravvalutazione, parti integranti della cultura capitalistica. Abbiamo qui un caso – interessantissimo e nelle sue cause concrete certamente meritevole di studio – di sviluppo ineguale. Tuttavia da questo fatto in sé non consegue per nulla che tali fenomeni artistici «sospetti» o «impediti» abbiano un significato che realmente indichi il futuro. A nessun marxista verrà in mente di considerare come retaggio in tale senso il poeta Maeterlinck o il filosofo Nietzsche, quantunque essi al loro apparire siano stati respinti dalla borghesia come molto «sospetti». Né Bloch ha argomenti per dimostrare che la borghesia del capitalismo monopolistico abbia combattuto il montaggio nell’arte con maggior energia rispetto a un qualsiasi indirizzo borghese precedente. Al contrario, il corteo trionfale del montaggio è stato assai più rapido e meno impedito che non quello dei precedenti indirizzi artistici. Se poi Bloch vuol discutere il problema del «sospetto» come criterio di ereditabilità, dovrebbe fare attenzione a quanto chiaramente sospetto e odioso sia per la borghesia fascista e in via di fascistizzazione il vero realismo. Naturalmente la borghesia reazionaria protesterà sempre quando un artista userà il metodo del montaggio per esprimere con esso contenuti scomodi o pericolosi. In tal caso, però, è «sospetto» il contenuto e non il metodo. Cosicché Bloch dovrebbe indagare nel concreto rispettivamente che cosa tale contenuto significhi sul piano di classe e artistico, e che cosa la forma espressiva del montaggio abbia da dire a questo contenuto. Ma per Bloch la questione sembra risolta a priori. E in un senso positivo per il montaggio. La sua prova a favore è null’altro che la prassi letteraria di Bert Brecht e quella «filosofica», fondata sul montaggio, di Walter Benjamin. Il secondo esempio è impossibile prenderlo sul serio. Il caso Brecht richiederebbe un’indagine molto accurata. Bloch invece non comincia neppure l’indagine: è tanto profondamente persuaso del puro carattere socialista dei contenuti di Brecht che ne difende persino gli «spregiudicati usi di modelli neomachisti». E quanto al carattere socialrealistico del montaggio brechtiano, non va più in là di una nuda asserzione.

Dietro tali argomenti formalistici e dogmatici c’è ancora una volta la blochiana teoria generale del salvataggio della «irratio autentica». Questa teoria è però ancora più storta e fragile qui, se possibile, di quanto non fosse quand’era applicata alle tradizioni ribellistiche dei piccoli borghesi e dei contadini. Bloch parla del montaggio come della forma «dell’inebriamento e della irrazionalità attuali». Ora, noi abbiamo già discusso la teoria blochiana delle contraddizioni «attuali» e «inattuali», concludendo che è insostenibile. Ma anche secondo l’ottica di questa teoria risulta incoerente attribuire un valore alla «irrazionalità attuale» (grande-borghese). Bloch stesso, infatti, nella prima parte della sua critica ha propugnato la teoria secondo cui questo residuo irrazionale, non-superato e valido, si riferisce soltanto a classi la cui esistenza, a suo giudizio, non è legata al capitalismo, alla lotta di classe fra borghesia e proletariato. Se dunque, come dice la teoria blochiana, la «irratio autentica» discende dalla «inattualità», con quale legittimità egli d’un tratto considera la «irrazionalità attuale» come valore e non come prodotto di decadenza all’interno della assai «attuale» grande borghesia? Quantunque, perciò, la sua teoria debba essere rifiutata come teoria anche in questa sua applicazione, nondimeno tale rifiuto non ci impedisce di riconoscere il valore del molto e ricchissimo lavoro compiuto da Bloch. Egli critica la letteratura, la musica e la filosofia moderne sulla base di una loro conoscenza intima e profonda, e spesso le critica con acutezza distruttiva e spirito abbagliante.

Bloch mostra come, nell’espressionismo, sia nata la forma del montaggio. Un ulteriore sviluppo verso la disintegrazione della forma si ha nel surrealismo. Quindi abbiamo la descrizione estremamente efficace del modo in cui il montaggio surrealistico si presenta in Joyce, che egli giustamente considera, accanto a Green e Proust, come punto culminante di queste tendenze. Sul linguaggio di Joyce dice: «Una bocca senza io è qui all’interno del meccanismo in scorrimento, li in mezzo lo beve, lo balbetta, lo fa sfogare. Il linguaggio si adegua pienamente a questa disintegrazione, è non finito e già formato, perfettamente regolare, ma aperto e confuso. Ciò che vedi nei periodi di stanchezza, nelle pause fra i discorsi o quando uno è sognante o anche distratto, parla, s’ingarbuglia, fa giochi di parole: qui tutto è fuor di misura. Le parole sono divenute disoccupate, licenziate dal loro rapporto di senso, ora il linguaggio va come un verme tagliuzzato, ora si condensa come in un cartone animato, ora sta sospeso e si ficca nell’azione come un soffitto teatrale» (p. 184). Ecco un’eccellente descrizione del linguaggio joyceano, forse la migliore dataci finora. Ma al contempo essa è, proprio per la sua penetranza descrittiva, la critica più distruttiva che sia finora stata scritta sul linguaggio di Joyce. Tale giudizio annientante, infatti, questa volta non è «montato» in un’analisi, ma è contenuto organicamente nella descrizione stessa. Altrettanto interessante, ma anche molto più consapevolmente critica, è l’analisi che Bloch conduce del musicista Stravinskij. Bloch inizia questa analisi con immagini del tutto caratteristiche: «Su una cosa cava si può fischiare bene. Così appunto fa Stravinskij con se stesso e le sue cose. Ha già sperimentato molto. Il vuoto rimbomba su se stesso seducente, si veste anche, indossa roba vecchia, diviene come una maschera e risuona in quella guisa». E dopo questa introduzione ci dà un contributo assai interessante sul nesso fra l’Edipo di Stravinskij e la stabilizzazione relativa. «La musica qui approva… il nastro scorrevole della necessità, nobilita il lavoro a catena senza pause, il destino senza luce… Questa rigidità è il tributo del successivo Stravinskij alla reazione parigina, anzi, alla stabilizzazione capitalistica del mondo, da cui discende anche quel che viene definito l’“oggettivismo” di questa musica». È ancora una volta una strana ironia che proprio qui, dopo questa analisi distruttiva dell’apologetica capitalistica nella musica di Stravinskij, proprio su costui egli applichi il suo criterio del retaggio autentico. Quanto nel caso concreto sia privo di valore il suo criterio, è dimostrato appunto dalla descrizione riassuntiva dell’effetto provocato da Stravinskij: «Sebbene alla Nuova oggettività abbia aggiunto la musica-macchina, insomma l’inumanità musicale, Stravinskij appare alla borghesia non meno sospetto che up to date; il “fascista” fa l’effetto di un “bolscevico della cultura”» (pp. 173-177).

Le medesime contraddizioni fra splendide descrizioni e analisi, da un lato, e false conclusioni, dall’altro, le ritroviamo quando Bloch si occupa della filosofia contemporanea. Vero è che di fronte a determinati fenomeni assume un atteggiamento inequivoco di rifiuto e che spesso conforta tale rifiuto con azzeccatissime irrisioni. Così definisce Klages un «deciso filosofo da fine-settimana»; sulla filosofia di questi dice in modo liquidatorio: «Un fiume cosmico deposita sulle rive frutti di letture» (p. 243). Con altrettanta pertinenza e arguzia a proposito di Spengler: «Lo storico Spengler è, non un profeta rivolto indietro, ma un antiquario rivolto in avanti» (p. 234). Tuttavia è nel medesimo tempo molto caratteristico che Bloch sia in Klages sia in Spengler critichi non le basi gnoseologiche, l’agnosticismo e la mistica, ma soltanto le conseguenze grottesche che, derivando da tali basi, vengono alla luce nella loro stravolta e apologetica «immagine del mondo». Questo non casuale difetto di critica nei confronti dell’idealismo indebolisce talvolta anche l’asprezza della sua critica verso l’essenza reazionaria di questi scrittori. In tali casi la critica si ferma alla battuta spiritosa e arguta, invece di svelare realmente l’elemento pericoloso delle tendenze reazionarie. Particolarmente chiara emerge tale debolezza quando la sua presa di posizione non è di netto rifiuto. In Nietzsche, per esempio, Bloch vuol salvare come retaggio il «lato buono» del principio dionisiaco. A tale scopo nel «dionisiaco» egli scopre un tratto plebeo: «…tuttavia “Dionisio” è appunto per la “morale da schiavi” un dio non ignoto, ma invece lieto, anzitutto un dio esplosivo. Saturnali si chiamavano le feste degli antichi schiavi, e la vite di Gesù, per quanto la Chiesa l’abbia completamente svigorita, nella cristianissima guerra dei contadini ha mostrato meno morale da schiavi di quel che piaccia ai signori» (p. 270). Bloch sa bene che tali vedute non hanno nulla a che vedere con Nietzsche. Il fine di Nietzsche è un fine «privato, camuffato in maniera aristocratico-reazionaria, un’utopia romantica, senza contatto con la storia, e per nulla con la classe oggi decisiva; ma la storia si prende da sé il suo contatto, l’astuzia della ragione è grande» (ibidem).

Qui la debolezza idealistica della concezione della storia in Bloch risulta straordinariamente chiara. In primo luogo, infatti, vuol dire sottovalutare fortemente il significato reazionario della filosofia di Nietzsche negarle il «contatto con la storia». Essa invece ha contatti addirittura saldissimi, ma per l’appunto puramente ed esplicitamente reazionari. In secondo luogo, non ci si può immaginare nulla di più antistorico di questa blochiana «astuzia della ragione» nella storia. Persino se Bloch avesse dimostrato un significato rivoluzionario dei Saturnali per le insurrezioni degli schiavi romani (cosa che egli non fa), dove sarebbe la loro relazione reale con il Dioniso «rivoluzionario»? E con le guerre dei contadini?! La prevenzione idealistica di Bloch, che nell’ideologia cristiana dei contadini insorti nel XVI secolo gli fa vedere, non un riflesso della debolezza e arretratezza del loro movimento, ma un valore attuale, da restaurare, per il moderno movimento operaio, lo conduce qui in una brutta confusione. Egli collega del tutto arbitrariamente l’un mito all’altro nell’intento di pervenire a una connessione storica generale. Cosicché perde ogni terreno reale, storico, sotto i piedi, soggiace in questo punto pienamente a quel «metodo» arbitrario, idealistico-mistico, divenuto predominante nella filosofia reazionaria in specie a partire da Nietzsche. Invece di aprire la strada a un nuovo retaggio per il marxismo, egli si pone nel quadro di quelle pseudofilosofie reazionarie la cui vuotezza e arbitrarietà in altri luoghi del suo libro combatte vivamente, la cui indole reazionaria egli, antifascista convinto, altrimenti respinge con passione. Tuttavia la contraddizione da noi individuata in Bloch opera anche in questi casi. Egli descrive, per esempio, con grande penetrazione, e non senza un certo rispetto e una certa simpatia, lo sviluppo della moderna Fenomenologia, la scuola di Husserl. Quando però analizza l’ultimo galoppino di questa scuola, Martin Heidegger, il suo istinto rivoluzionario lo costringe a descrivere in un modo distruttivamente ironico l’apologetismo formalmente complicato, ma assai scarso nel contenuto, di questa celebrità della Germania fascista. «La morte eterna rende alla fine il concreto assetto sociale “dell’uomo” così indifferente, che esso può anche restare capitalistico. L’affermazione della morte come destino assoluto e dell’unico “verso dove” è per la controrivoluzione di oggi quel che in passato era per essa la consolazione di un aldilà migliore» (pp. 220-221). Tale critica dei singoli rappresentanti della cultura borghese è l’aspetto più valido del libro di Bloch. Ed essa sta in stridente contrasto con la sua concezione generale del retaggio. A Bloch accade il contrario di ciò che accadde a quel mago del vecchio Testamento il quale era andato per maledire gli ebrei, ma le cui maledizioni furono mutate in benedizioni da Jahveh. Bloch vuol salvare il «contenuto in oro» della cultura borghese disintegrantesi. Siccome però in questa spedizione di salvataggio egli va con un reale dispendio di sapere e di intelligenza, distrugge strada facendo con critiche spietate tutto quel che vorrebbe salvare. Quando, dunque, dal mucchio di rovine, che egli stesso davanti agli occhi del lettore ha ulteriormente demolito, cerca di levar fuori un retaggio positivo, appare non organico, non convincente. Ed è appunto un suo merito che le sue stesse conclusioni appaiano tanto poco persuasive, che queste siano invalidate dalle sue stesse esposizioni. Tale contraddittorio autosopprimersi del suo metodo tramite l’applicazione al materiale concreto dà al lettore una speranza: che questo metodo idealistico-mistico non sia l’ultima fase dello sviluppo di Bloch, che la sua onesta e coraggiosa collaborazione alla lotta contro il fascismo lo aiuti a superare la odierna brusca contraddizione fra la sua chiara presa di posizione politica contro il fascismo e le sue concessioni filosofiche alle correnti idealistiche reazionarie.

(traduzione di Alberto Scarponi)