[Gramsci su Lukács]

di Antonio Gramsci

in Quaderni del Carcere, a cura di V. Gerratana Einaudi, Torino 1975 [ora in Lukács chi? a cura di L. La Porta, Bordeaux, Roma 2021].


Q 4, 43. L’«obbiettività del reale» e il Prof. Lukacz È da studiare la posizione del prof. Lukacz verso il materialismo storico. Il Lukacz (conosco le sue teorie molto vagamente) credo affermi che si può parlare di dialettica solo per la storia degli uomini e non per la natura. Può aver torto e può aver ragione. Se la sua affermazione presuppone un dualismo tra l’uomo e la natura egli ha torto perché cade in una concezione della natura propria della religione e anche propria dell’idealismo, che realmente non riesce a unificare e mettere in rapporto l’uomo e la natura altro che verbalmente. Ma se la storia umana è anche storia della natura, attraverso la storia della scienza, come la dialettica può essere staccata dalla natura? Penso che il Lukacz, scontento delle teorie del Saggio popolare, sia caduto nell’errore opposto: ogni conversione e identificazione del materialismo storico nel materialismo volgare non può che determinare l’errore opposto, la conversione del materialismo storico nell’idealismo o addirittura nella religione.

Continua a leggere

Lukács, György

di Carlos Nelson Coutinho

in G. Liguori, P. Voza (a cura di), Dizionario gramsciano. 1926-1937, Carocci, Roma 2009 [ora in Lukács chi? a cura di L. La Porta, Bordeaux, Roma 2021].


Gramsci parla di Lukács (che scrive «Lukacz») solo una volta nei Quaderni. Lo fa in un Testo A (Q 4, 43, 468) ripreso, senza modifiche essenziali nella parte che riguarda Lukács, nel rispettivo Testo C (Q11, 34, 1449). Gramsci si riferisce al famoso libro Storia e coscienza di classe, pubblicato nel 1923 e duramente condannato dall’ortodossia sia della Seconda che della Terza Internazionale. È quasi certo che Gramsci non conoscesse direttamente il libro. In effetti, nel menzionato Testo A, dice esplicitamente che conosce «le sue teorie molto vagamente» e in ambedue le stesure esprime i suoi commenti in un modo cautamente dubitativo: Lukács «può aver torto e può aver ragione». Gramsci probabilmente conosceva il libro solo attraverso la dura condanna che esso aveva subito da parte della Terza Internazionale, come sembra confermato dal fatto che si riferisce al «Prof. Lukacz», esattamente il modo ironico con il quale quest’ultimo veniva nominato dai suoi accusatori (Q 4, 43, 469). La menzione di Lukács è fatta nel contesto di una discussione sulla nozione di “oggettività” e in polemica con il Saggio popolare di Bucharin. Gramsci afferma nel menzionato Testo C: «Pare che il Lukacz affermi che si può parlare di dialettica solo per la storia degli uomini e non per la natura. Può aver torto e può aver ragione. Se la sua affermazione presuppone un dualismo tra la natura e l’uomo egli ha torto. Ma se la storia umana deve concepirsi anche come storia della natura (anche attraverso la storia della scienza) come la dialettica può essere staccata dalla natura? Forse il Lukacz, per reazione alle teorie barocche del Saggio popolare, è caduto nell’errore opposto, in una forma di idealismo» (Q11,34, 1449). Quando ammette dunque che Lukács da un certo punto di vista possa aver ragione, Gramsci lo fa per prendere le distanze dalle posizioni di Bucharin.

István Mészáros racconta Lukács

di István Mészáros

Questa intervista è stata pubblicata nel 1983 nella rivista brasiliana Ensaio; è stata ripubblicata nella rivista on-line Verinotio, n. 10, a. V, ottobre 2009. Traduzione dal portoghese e note di Antonino Infranca.


A diciotto anni entrai all’università. In quell’epoca la vita divenne più facile: non dovevo lavorare, mentre studiavo. Potevo così dedicarmi interamente agli studi. Allora conobbi Lukács in circostanze molto interessanti. Egli era stato attaccato da Révai1 e da altri elementi del Partito.

In che anno?

Nel 1949, io avevo diciotto anni e mezzo.

Lukács fu attaccato per il suo libro “La responsabilità degli intellettuali”?2

Sì, sulla democrazia popolare e altre cose di questo tipo. Due o tre mesi dopo che ero entrato all’università, tentarono di espellermi a causa del mio legame con Lukács. Tuttavia ciò non accadde, studiai con lui e due anni dopo divenni suo assistente. Lavorammo sempre in mutua collaborazione e divenimmo grandi amici, anche con sua moglie, Gertrud, che era una persona meravigliosa.

Continua a leggere

Dialettica, prassi, rivoluzione. Figure del marxismo critico nei primi anni Venti

di Alberto Burgio

«Filosofia politica» fascicolo 3, dicembre 2016


Dialectics, praxis, revolution. Images of critical Marxism in the early Twenties. The essay compares three main figures of the theoretical Marxism of the early two decades of the 20th century (Lukács, Korsch and Gramsci) stressing the analogies between their reflections under the light of the critique of vulgar Marxism, the revaluation of Hegelian dialectic as a source of historical materialism, the reformulation of the relationship between theory and praxis and the consequent importance acknowledged to the political and historical role of the revolutionary subjectivity.

Keywords: Lukács, Korsch, Gramsci, critical Marxism

* * *

1. Filosofia e rivoluzione

Critica del discorso (dell’«ideologia») e critica della realtà sociale (del capitalismo storico): la traiettoria dell’analisi marxiana investe nel proprio sviluppo questi due ambiti. Nel Marx giovane si tratta essenzialmente della critica della «falsa coscienza» filosofica, diretta in particolare contro Hegel e contro la sinistra hegeliana, ricaduta nelle trappole della speculazione. Nel Marx maturo la critica colpisce senza diaframmi la realtà: la formazione economico-sociale e, nelle cosiddette «opere storiche», le logiche del dominio politico. Contro la semplificazione «materialistica», va tuttavia immediatamente chiarito che permane anche nel Marx maggiore la centralità del tema ideologico. Il capitale è, in ogni suo snodo, al tempo stesso critica del processo di produzione e della sua rappresentazione, nella teoria (l’economia politica classica) e nel senso comune (dove il rapporto sociale si riverbera in forme simboliche). Continua a leggere

Su Lenin e il contenuto attuale del concetto di rivoluzione (Intervista)

György Lukács

L’intervista televisiva su Lenin fu concessa al regista András Kovács nell’ottobre 1969. Nata da una precedente idea di «girare» un reportage sulla vita di Lukács, a cui quest’ultimo si era rifiutato per non dover apparire sugli schermi televisivi «come una star», l’intervista venne accettata da Lukács quando assunse la forma di un intervento sulla figura di Lenin e sul contenuto attuale del concetto di rivoluzione. La registrazione venne eseguita il 2 ottobre 1969 nella casa di riposo di Jávorkurt e durò due ore e mezzo. Il testo qui tradotto è quello pubblicato sulle riviste ungheresi Uj Iras, 1971, n. 8 (prima parte) e Kritika, 1972, n. 5 (seconda parte).
Originariamente apparso in italiano in L’uomo e la rivoluzione, Editori Riuniti, Roma 1973, ora Edizioni Punto Rosso, Milano 2013.


Ha avuto un contatto personale con Lenin?

Ebbi con lui un solo contatto personale, in occasione del III Congresso dell’Internazionale, in cui ero delegato del partito ungherese e come tale fui presentato a Lenin. Non bisogna dimenticare che il 1921 fu un anno di aspra lotta da parte di Lenin contro le correnti settarie che stavano sviluppandosi nel Comintern. E poiché io appartenevo allora alla frazione settaria – non la si può chiamare frazione, chiamiamola «gruppo» – Lenin aveva verso di me un atteggiamento di ripulsa, come l’aveva in genere verso la massa dei settari. Non mi viene infatti nemmeno in mente di paragonare la mia persona a quella di un Bordiga, che rappresentava il settarismo nel grande partito italiano, oppure al gruppo Ruth Fischer-Maslow, che rappresentavano il partito tedesco. Lenin, naturalmente, non attribuiva altrettanta importanza a un funzionario del partito illegale ungherese. Continua a leggere

La responsabilità sociale del filosofo

di György Lukács

[Die soziale Verantwortung des Philosophen, 1960 ca., inedito, trad. it. Vittoria Franco, in G. L., La responsabilità sociale del filosofo, Pacini Fazzi, Lucca 989]

Si ringrazia Toni Infranca per aver messo a disposizione questo testo.


Devo scusarmi subito in apertura se arriverò a rispondere alla questione solo dopo lunghi giri. Primo, [perché] mi sembra che la questione in sé non sia stata finora sufficientemente chiarita. Secondo, e più importante, perché scorgo nella situazione attuale problemi del tutto particolari, che rinviano oltre una specificazione normale della questione generale e la cui analisi soltanto consente teoricamente una risposta concreta.

I nostri ragionamenti devono dunque culminare nelle due questioni seguenti, fra di loro strettamente connesse: esiste una responsabilità specifica del filosofo, che va oltre la responsabilità normale di ogni uomo per la propria vita, per quella dei suoi simili, per la società in cui vive e il suo futuro? E inoltre: tale responsabilità nella nostra epoca ha acquistato una forma particolare? Per la teoria dell’etica, entrambe le questioni implicano il problema se la responsabilità contenga un momento storico-sociale costitutivo. È un interrogativo che va posto subito all’inizio, giacché proprio l’etica moderna, specialmente quella che si è sviluppata sotto l’influenza di Schopenhauer prima e di Kierkegaard poi, pone l’accento sul fatto che il comportamento etico dell’individuo «gettato» nella vita mira proprio a tenersi lontano da tutto ciò che è storico-sociale per pervenire all’essere ontologico, in contrapposizione netta a tutto l’essente. È ovviamente impossibile trattare qui, sia pure per grandi linee, tutto questo complesso di problemi. Possiamo occuparci solo di quegli aspetti che riguardano oggettivamente il nostro problema.

1. Nell’etica, così come si è configurata sinora, possiamo osservare – grosso modo* – due correnti decisive. La prima considera rilevante esclusivamente l’atto in sé della decisione etica, del comportamento. Questa concezione ha assunto nel corso dello sviluppo della nostra moralità incarnazioni così diverse che troviamo un tale atteggiamento fondamentale nella Stoa come in Epicuro, in Kant come nell’esistenzialismo, ecc. In base alla nostra impostazione del problema, concentreremo l’attenzione soprattutto sul tratto comune che abbiamo rilevato e tralasceremo di proposito le differenze, il cui significato non deve essere ovviamente sottovalutato; esse non sono tuttavia decisive per le questioni da chiarire in questa sede. Il momento decisivo ci sembra consistere nel fatto che l’atto della decisione etica, dell’assunzione di un comportamento eticamente rilevante viene posto come indipendente dal corso causale della realtà storico-sociale, viene cioè considerato come fondamento dell’etica la completa indipendenza reciproca dei due «mondi» dell’essere e del dover essere. Dei grandi filosofi, Kant è colui che ha compiuto nella maniera più decisa, fino al paradosso, questo sdoppiamento della realtà. La frattura attraversa la personalità che agisce e il suo atto. I presupposti e le conseguenze, anche quelle puramente spirituali, appartengono tutti al mondo fenomenico e sono perciò sottoposti incondizionatamente alla connessione inesorabile della causalità. L’actus purus della decisione etica è invece un noumenon, un momento dell’esistenza intellegibile dell’uomo, completamente indipendente dal fenomeno e dalla sua causalità.

Sembra spezzarsi così ogni collegamento fra l’esistenza interna (etica) dell’uomo e quella esterna (naturale, sociale), per cui, secondo una tale concezione, il nostro problema perderebbe ogni senso persino come questione. Non è assolutamente questo il caso in Kant. La riduzione di ciò che è eticamente rilevante alla personalità puramente intellegibile ha piuttosto, come vedremo subito, lo scopo di subordinare la totalità della vita umana al dover essere etico, di conferire ad essa una razionalità morale più elevata di quanto sia possibile – secondo Kant – sul terreno fenomenico. Solo se, come in Kierkegaard, l’abisso fra interno ed esterno acquista l’ampiezza metafisica di un assoluto, solo se, di conseguenza, l’incognito impenetrabile diviene la forma originaria dell’esistenza umana, la sua essenza ontologica, il sacrificio di Isacco da parte di Abramo, con l’impossibilità di separare dall’esterno il delitto dalla santità devota a Dio, può divenire il paradigma più elevato della prassi, l’espressione della sua irrazionalità ontologica e quindi della sua – altrettanto ontologica – essenza asociale, astorica. Non è così in Kant. Già l’analisi dell’imperativo categorico dimostra che la separazione rigida del fenomeno dal noumeno è rivolta proprio a fornire all’uomo sociale della realtà criteri saldi per la prassi della vita quotidiana. Questa intenzione è ciò che per noi è importante. Se dunque contraddizioni insuperabili vengono in essere, allora vuol dire che la problematica che qui emerge è una dimostrazione indiretta delle nostre tesi. Si tratta del contenuto dell’imperativo, che deve scaturire proprio dalla sua essenza puramente formale. Tutti conoscono il famoso esempio della – presunta – contraddizione logica che sorge necessariamente quando si voglia sottrarre un deposito. Nella sua critica, divenuta altrettanto famosa, Hegel rileva che, in questo modo, Kant abbandona il campo dell’etica, che egli stesso aveva rigidamente delimitato, e vuole determinare la questione se il deposito debba essere e che cosa debba essere con categorie che sono inadatte a questo scopo secondo i suoi stessi principi. (Del tutto diversamente per l’etica e per lo stesso Hegel).

Questo rinviare oltre l’actus purus dell’io noumenico in Kant non è però un caso o una inconseguenza. Proprio i postulati della ragione pratica mostrano che una tale trascendenza è per lui necessaria, se non vuole far sfociare la sua etica nel vicolo cieco dell’individuo ontologicamente isolato. Possiamo richiamarci di nuovo a connessioni universalmente note. Primo, al postulato di una coincidenza, in ultima istanza, fra l’applicazione delle norme etiche purificate da ogni ammiccamento alla fortuna e la felicità come stato permanente; secondo, a quello di un progresso infinito della perfettibilità: ai postulati dell’esserci di Dio e dell’immortalità dell’anima. Si tratta perciò di una trascendenza. Non soltanto si va oltre il mondo terreno, per poter porre la realizzazione di colui che si perfeziona eticamente come parte costitutiva del sistema, ma – in contrapposizione con molte religioni che prevedono la realizzazione dell’essere terreno in un al di là – si deve anche abbandonare l’intero ambito dell’essere, ritornare al dover essere del postulato. Non ci interessa qui la problematicità di una tale posizione. Ciò che abbiamo cercato di dimostrare si limita alla costatazione, che resta molto astratta, che perfino l’etica più decisamente formale e più ostinatamente orientata sull’atto puramente individuale della decisione è costretta a trascendere questo suo punto di partenza e ad elevare le categorie decisive della vita storico-sociale degli uomini (gli oggetti del loro agire, la fortuna, il loro perfezionamento) a momenti integranti del suo sistema. È chiaro che, in questo modo, l’uomo stesso in quanto essenza sociale, la sua relazione con i suoi simili e quindi, in maniera mediata o immediata, la stessa socialità, devono stare – indipendentemente se nell’al di qua o nell’al di là – al centro della sistematica anche in un’etica costruita in maniera soggettivo-formale.

Tale connessione risulta ancora più chiara, quasi fino alla trivialità, in quel gruppo di teorie etiche, che si è soliti etichettare sinteticamente (e in maniera non molto convincente), come utilitarismo. Anch’esse hanno come punto di partenza le intenzioni degli individui. Solo che qui l’altro è posto sin dall’inizio ineliminabilmente come partner. La dialettica fra egoismo e altruismo (non importa come queste espressioni appaiono dal punto di vista terminologico) costituisce necessariamente il tema centrale dell’etica, e pertanto il carattere sociale è metodologicamente assicurato. Da un lato, il motivo egoistico può venire assolutamente in primo piano, specialmente finché la regolazione automatica dell’agire individuale, egoistico, mediante l’economia complessiva vale come dogma incrollabile; dall’altro, proprio per questo, una tale struttura della società può essere astratta dal divenire storico e idealizzata a condizione «eterna» della relazione fra uomo e società. In casi estremi di tal genere, questa considerazione etica si trasforma a tal punto che appaiono rilevanti solo le conseguenze delle azioni umane. Ma ritorneremo fra breve su questa possibilità.

In generale, si tratta tuttavia di una relazione reciproca reale fra egoismo e altruismo; per meglio dire, si tratta del tentativo di far derivare da motivi egoistici le intenzioni e le azioni disinteressate e cariche di abnegazione fino all’eroismo. Ragionamenti siffatti potrebbero apparire spesso estremamente artefatti, sofisticati. Questo non può tuttavia offuscare la grande idea che vi è insita. Cioè che un’etica, che ha come punto di partenza uomini «naturalmente» egoisti, fa scendere tutto ciò che vi è di grande e progressivo nello sviluppo dell’attività umana dal cielo della trascendenza su questa terra della socialità reale, dei doveri e della responsabilità puramente sociali. Se tale concezione ha avuto talvolta, finché si è combattuto in suo nome per il «regno della ragione», un accento sovrastorico, con la vittoria della borghesia si è trasformata in una superficiale apologetica, mentre già con la teoria dell’«egoismo razionale» dei democratici rivoluzionari russi è emerso chiaramente il suo carattere progressivo. Il pensatore guida di questa tendenza, Cernicewskji, nel suo romanzo Che fare? ha indicato vari tipi che, in quanto rappresentanti dell’«egoismo razionale», [che va] da un’attività riformatrice nella vita quotidiana propria e altrui fino all’eroismo rivoluzionario ascetico e pieno di abnegazione, rendono chiare quelle conseguenze della responsabilità individuale e storico-sociale, che derivano con necessità logica dai principi di questa dottrina correttamente intesi.

Sebbene la trattazione adeguata dell’etica marxista sia possibile solo più oltre e anche se essa, per sua essenza, non parte assolutamente dall’intenzione, dall’atto etico, dobbiamo accennare brevemente già a questo punto alla sua relazione con la dottrina dell’«egoismo razionale». Già il giovane Engels, in una lettera a Marx, criticava il rifiuto astratto di ogni egoismo da parte degli idealisti «veri socialisti» e rilevava che anch’essi «sono comunisti anche per egoismo». Non è questa la sede per soffermarsi sul come tale dottrina si sia formata innanzitutto attraverso lo sviluppo della lotta di classe, degli interessi di classe, ecc. È importante solo che, in questo modo, si è sostanzialmente concretizzata la corrente storico-sociale in cui è inserita ogni vita individuale, che la vita etico-individuale deve farsi carico inevitabilmente di una responsabilità storico-sociale verso le decisioni, i comportamenti, ecc. e – ciò che è più decisivo – che perfino le virtù più elevate, le più socialmente determinanti, non sono contrapposte in maniera ascetico-dualistica all’uomo «naturale», ma in circostanze favorevoli possono essere sviluppate organicamente dalle sue proprietà «naturali». Questo è il fondamento etico-sociale del fatto che, per Lenin, anche nel socialismo gli uomini devono diventare uomini nuovi attraverso la realizzazione dei loro interessi individuali all’interno della nuova società; tutte le misure economiche di una corretta via al socialismo hanno una tale intenzione pedagogico-sociale: incanalare l’egoismo giustificato su base naturale in una socialità socialista. Potremo tornare solo più oltre sul come queste tendenze, qui rapidamente sfiorate, diventino le determinazioni più prossime della responsabilità sociale.

2. L’unità dell’etica si manifesta ancora più chiaramente là dove essa ha come punto di partenza l’estremo opposto, l’accentuazione solo o prevalentemente delle conseguenze. Una tale concezione, considerata in senso stretto nella sua applicazione coerente, dovrebbe negare ogni etica, considerarla irrilevante per l’essere e il divenire della società, in quanto la dottrina del diritto e dello Stato (o magari l’economia) farebbero le sue funzioni. Questa dottrina non è mai stata applicata in maniera conseguente. Essa emerge nel paradosso di Machiavelli, secondo cui il legislatore deve partire dal fatto che tutti gli uomini sono cattivi (amorali); sta, cioè, alla base della concezione machiavellica secondo cui azioni individuali cattive possono avere conseguenze socialmente utili. Ma una dottrina orientata semplicemente sulle conseguenze, che esclude completamente l’intenzione soggettiva, non può essere applicata nemmeno a livello giuridico. Anche un’imputazione puramente giuridica è costretta a prendere in considerazione momenti soggettivi come l’intenzione, la convinzione, il quadro reale o possibile delle circostanze, ecc. La questione del perché un uomo possa essere considerato responsabile delle conseguenze del suo agire non può essere dedotta dalla semplice catena delle cause e degli effetti, nemmeno da un punto di vista giuridico. Ha, dunque, ragione Hegel quando rifiuta tanto la priorità dell’intenzione quanto quella delle conseguenze.

Il necessario inserimento dell’intenzione nell’elaborazione etica delle conseguenze mostra però già al primo sguardo una dialettica alquanto complicata. Sarebbe ovvio e semplice affermare che nessuno è eticamente responsabile per le conseguenze imprevedibili delle sue azioni. Sarebbe comunque sostenibile una tale affermazione? Supponiamo che un uomo voglia sparare a Pietro, la sua pallottola manca l’obiettivo e colpisce a morte Paolo. Non vi è nessuna intenzione, e però non può nemmeno essere negata la responsabilità morale appellandosi al caso. Infatti, ogni azione si stacca – più o meno – da colui che la compie, acquista un suo proprio sviluppo immanente nel mezzo delle relazioni reciproche degli uomini. «Un proposito è condiviso, non è più tuo», dice il Wallenstein di Schiller. Il problema della responsabilità consiste in questo, che la dialettica propria dell’azione non [ne] elimina la paternità nel soggetto, nella sua intenzione e convinzione. Diventa un problema solo questo: fino a che punto, sotto quale aspetto, fino a quali conseguenze, diramazioni e implicazioni esiste una responsabilità? Non vi sono dubbi sul collegamento in genere fra azione e agente anche nelle mediazioni più complesse. Ciò che andrebbe concretamente elaborato in una casistica etica sono la misura e la proporzione.

Ma naturalmente ciò è impossibile in questa sede. È tuttavia necessario fornire almeno alcuni accenni metodologici sulle linee di soluzione. Sotto questo aspetto, Hegel ha intravisto l’essenza della questione quando ha detto: «devo conoscere la natura generale della singola azione». Entrambe queste determinazioni, la natura generale e la conoscenza, sono ugualmente importanti e problematiche.

Infatti, una semplice generalizzazione unilineare dell’azione non fa fare un solo passo avanti dal punto di vista etico. Il paragrafo del codice sotto cui deve essere giuridicamente sussunta un’azione singola esprime nella maniera più chiara questa generalità astratta e dimostra, nel contempo, che esso non può dare il minimo suggerimento per la soluzione etica. (E d’altra parte, si può viceversa dire: le grandi difficoltà, che emergono talvolta in tali sussunzioni giuridiche, derivano dal fatto che l’opinione pubblica, e anche la coscienza giuridica della problematica etica, si rendono conto della semplificazione). La generalità (die Allgemeinheit) eticamente proficua, che illumina la responsabilità, può essere trovata solo se noi consideriamo l’azione singola come momento mosso di un agire storico-sociale nella sua concreta e altrettanto mossa totalità e continuità. Infatti, solo sotto tale aspetto, la generalizzazione non è un’astrazione formale e priva di contenuto, ma è un tipo di astrazione che viene compiuto dallo stesso processo e riprodotto più o meno correttamente dalla coscienza esterna (anche da quella dell’agente). La generalità ha cioè, in una decisione etica, il suo passato storico-sociale e un futuro che sorge dallo stesso processo. È dunque importante il posto che occupa nel processo storico-sociale, in virtù della dialettica interna del suo nucleo essenziale, l’intenzione «di per se stessa» – quella che è, in maniera oggettivamente immanente, alla base della singola azione e che non è affatto necessariamente identica all’intenzione consapevole dell’azione in questione –, in quale connessione essa si inserisce, quali tendenze favorisce o ostacola. Solo così può venire in essere con chiarezza crescente una generalità concreta, eticamente vincolante. Prendiamo la relazione del poeta Stefan George con Hitler. L’esteta aristocratico ha comprensibilmente rifiutato con asprezza la grettezza plebea di Hitler ed è morto in esilio volontario piuttosto che divenire il poeta laureatus dell’hitlerismo. E tuttavia, nella sua poesia più tarda si esprime un’idea, un atteggiamento, la cui intenzione intima è orientata verso l’essenza storico-sociale dell’hitlerismo incombente ed è oggettivamente parte della preparazione di quest’ultimo. Il fatto che George abbia forse salutato un fascismo aristocratico alla Mosley e rifiutato solo l’aspetto ordinario delle forme fenomeniche tedesche non può diminuire la sua responsabilità, in quanto il generale, nel senso in cui lo intendiamo noi, dell’hitlerismo è, in tutti i fenomeni piccolo-borghesi, un aristocraticismo irrazionalistico, una generalizzazione dell’intenzione più profonda di George.

Non è naturalmente necessario che questa generalità acquisti una forma così chiara solo nel corso della storia. Può essersi già delineata nel corso dello sviluppo sociale fino a questo momento. Si pensi ancora una volta all’esempio del deposito di Kant. Simmel l’ha criticato in questi termini: se l’individuo che lo sottrae nega in generale la proprietà privata, l’argomentazione di Kant perde il suo fondamento. Io credo che qui Simmel non colga il reale senso profondo di Kant. Egli è rispetto a Hegel nel torto quando chiarisce che la sua sottrazione contraddice logicamente il concetto oggettivo di deposito; ma l’intenzione – nel senso stabilito sopra – di colui che se ne appropria contiene un’affermazione della proprietà privata e, insieme, del deposito e fa emergere quindi una contraddizione etica.

Proprio queste analisi delle conseguenze dimostrano che Hegel ha rigettato con buone ragioni entrambe le concezioni etiche, unilaterali ed estreme. Infatti, la responsabilità etica deriva da una particolare sintesi che unifica in sé tanto l’intenzione quanto la conseguenza, ma in un modo che le supera e le modifica entrambe. L’idea che così ne deriva si rafforza ancora se riflettiamo sul momento soggettivo della determinazione hegeliana trattata sopra: sulla conoscenza (della generalità). Che cosa conosciamo e come? Non si tratta nemmeno, in questo caso, di un concetto di imputazione astrattamente giuridico, come forse nella cura previdente del diligens pater familias. La conoscenza appartiene da un lato alla vita storico-sociale, è dunque momento di un processo; dall’altro non è identica alla previsione delle conseguenze attese nel momento dell’azione. Ciò è impossibile già per il fatto che l’oggetto di questa conoscenza è il generale già trattato. Se però, d’altro canto, vogliamo prendere in considerazione la dialettica soggettiva strettamente collegata con questa dialettica oggettiva, dalla quale deriva, dobbiamo tener conto del fatto che è possibile prevedere il corso della storia – e anche questo soltanto col marxismo – solo in modo molto generale. Dietro l’espressione hegeliana, che suona forse mitologica, dell’«astuzia della ragione», vi è il fatto indiscutibile della vita storico-sociale: che, cioè, le conseguenze delle azioni umane – siano esse individuali o collettive – non corrispondono alle intenzioni, che esse vanno qualitativamente oltre queste ultime.

Se questo è giusto – e si tratta di un fatto fondamentale dell’essere umano – quale senso può ancora avere il «conoscere» hegeliano? Noi crediamo che proprio in questo si esprime il giusto significato etico del generale. Se le conseguenze fossero esattamente prevedibili – per un intelletto addestrato a tale scopo –, l’agire sociale diventerebbe qualcosa di meramente tecnico. La responsabilità per il sì o per il no riguarderebbe un semplice calcolo e non necessiterebbe di un’analisi etica, proprio come l’ingegnere è responsabile del fatto che il ponte non crolli. Ciò che viene affermato o negato è tuttavia un generale più o meno determinato, ma in ogni caso concreto; ad esempio, i seguaci o gli oppositori della Rivoluzione francese non sapevano, e non potevano sapere, che favorivano o ostacolavano oggettivamente il sorgere del capitalismo francese. Per la loro responsabilità etica, questa conoscenza a posteriori non entra nemmeno in discussione.

L’«astuzia della ragione» determina dunque un orizzonte – storicamente diversificato – ma sempre ampiamente definito, nel cui ambito si può parlare di responsabilità in senso etico. In questo ambito di vita essa tuttavia sussiste e l’individuo non vi si può sottrarre. Certo, possono sopravvenire circostanze che provocano un pentimento, un cambiamento, ma neanche ciò può cancellare completamente la responsabilità precedente. I girondini a partire da un dato momento hanno combattuto contro i giacobini, ma una tale svolta non poteva annullare la loro corresponsabilità per tutto ciò che era accaduto fino a quel momento. Proprio l’accanimento con cui gli apostati lottavano contro coloro che erano stati loro compagni di ideali dimostra come questa struttura sia profondamente ancorata all’essenza dell’uomo.

Il medesimo stato di cose emerge, in maniera forse ancora più chiara, se tentiamo di chiarire ulteriormente l’essenza etico-sociale dell’agire. Finora abbiamo parlato solo di quella responsabilità che si lega ai fatti concreti degli uomini. Il concetto sociale di agire ha però anche un’altra dimensione. Nessun atto umano si esaurisce, infatti, in un ambiente sociale esattamente determinabile, ma è nel contempo e inseparabilmente, nei limiti in cui si riconnette alla vita pubblica, un momento che favorisce e ostacola un processo sociale. Da ciò consegue che il concetto di neutralità, dell’astenersi dall’agire qui non ha senso; sotto questo aspetto, anche il non agire è un agire che – in relazione alla responsabilità – non si differenzia, in linea di principio, dall’agire attivo vero e proprio. Hegel ha formulato in maniera molto plastica questa costellazione nella Fenomenologia: «Innocente è quindi soltanto il non operare come l’essere, non di un fanciullo, ma addirittura di una pietra». Questo vuol dire che l’astenersi dall’agire implica sempre un’accettazione o una negazione di quella situazione, struttura, istituzione, ecc., ciò che di solito in un’azione attiva, orientata positivamente o negativamente, forma il nocciolo dell’intenzione.

Vi sono qui naturalmente differenziazioni, che possono perfino avvicinarsi a zero, se l’azione in questione ha un carattere prevalentemente privato. (Va qui notato di passaggio che una simile dialettica si ha anche nella vita privata, solo che oggetto dell’intenzione sono gli individui singoli). Naturalmente, le situazioni che la vita sociale produce sono, proprio sotto questo aspetto, enormemente diverse. E questo già in relazione alla semplice possibilità del non agire; se, ad esempio, scioperano le maestranze di una fabbrica, vi è oggettivamente solo un sì o un no; l’«astensione» è qui semplicemente identica al no. Ma anche là dove la situazione, considerata in astratto, consente molto bene una neutralità, questa ha comunque, a seconda dello stadio dello sviluppo storico, una convergenza sull’accettazione o sul rifiuto della generalità in questione e questa tendenza si fa strada o si blocca a seconda della situazione storica. Il giovane Hegel si richiama al fatto che ad Atene, all’epoca delle rivolte, era stata pronunciata la sentenza di morte contro gli «apragmosini politici» e prosegue, nella direzione delle nostre considerazioni iniziali: «l’apragmosina filosofica, per sé [non disposta] a scegliere un partito, è per se stessa carica di morte per la ragione speculativa». Per lo stadio attuale della nostra ricerca, da ciò consegue, in primo luogo, che per quel che riguarda la responsabilità, tutti questi modi di comportamento devono essere straordinariamente differenziati anche a seconda dell’individualità, della sua situazione sociale, ecc. Può variare profondamente non solo il reale giudizio degli individui, ma – ciò che è più importante – anche la possibilità oggettiva della conoscenza di quella generalità che è in ultima analisi alla base dell’intenzione espressa nell’azione. L’espressione di Cristo «non sanno ciò che fanno» indica qui un polo [della questione], mentre l’espressione hegeliana citata sopra sull’apragmosina politica e filosofica indica l’altro.

Tuttavia, la differenziazione storica procede ancora oltre. Si pensi alla nostra conoscenza attuale circa la mancanza di sbocchi economici dell’economia schiavistica antica. È chiaro che dobbiamo, di conseguenza, giudicare le utopie reazionarie dell’antichità in maniera storicamente diversa da quelle dell’epoca moderna, con le prospettive oggettive dell’economia capitalistica che si allargano; dunque Platone diversamente da De Maistre. Sebbene in nessuno dei due casi potesse essere presente questa idea né su un piano oggettivamente sociale, né su quello soggettivo personale, resta tuttavia aperta la questione se essa non sia stata attiva, e non in maniera latente-immanente, in ciò che sin qui abbiamo chiamato intenzione dell’azione. Perfino in un consenso condizionato la responsabilità dovrebbe essere formulata diversamente. Oppure, prendiamo l’esempio del don Chisciotte. La inevitabile comicità delle sue azioni, che scaturisce dalla sua convinzione più pura, rinvia a una tale ignoranza oggettiva della generalità che è impossibile trascurarla completamente nell’analisi della responsabilità.

Tutto questo deve circoscrivere semplicemente l’ambito della problematica che sorge a questo punto e non vuole affatto significare che si pretenda di elencare anche solo le possibilità tipiche più importanti e, ancora meno, di trattarle concretamente.

Ma già questo quadro astratto rinvia a tratti essenziali del modo etico di trattare la responsabilità. Vediamo che la storia crea per l’etica un Giano bifronte di continuità e cambiamento qualitativo della struttura. Prendere in considerazione soltanto il secondo momento potrebbe portare facilmente a un relativismo storico. Solo nella inseparabilità dialettica dal primo – e quindi dalla continuità dell’eredità etica, dei valori etici – può sorgere quell’assoluto etico, i cui tratti essenziali sono da un lato una contraddittorietà dialettica (quindi, all’opposto di Kant: il conflitto dei doveri, il conflitto all’interno della responsabilità come uno dei punti centrali dell’etica); e, dall’altro, un assoluto che contiene in sé sempre la relatività storico-sociale come momento superato e da superare. Una trattazione soddisfacente di un problema quale il conflitto Antigone-Creonte ci sembra altrimenti impossibile. E anche a un livello più generale della connessione e del conflitto nella trasformazione storica del bourgeois e del citoyen, incontriamo la stessa connessione, la quale può essere chiarita solo mediante il riferimento dialettico reciproco e il superamento reciproco di continuità e trasformazione qualitativa e strutturale.

3. Crediamo: con l’entrata in scena del marxismo tutte le questioni qui trattate, che riguardano la responsabilità, si pongono in una luce nuova. Sembra dunque opportuno discutere brevemente almeno i principi più generali della nuova impostazione. Cominciamo con una delimitazione negativa: la dissoluzione, divenuta necessaria e di cui abbiamo parlato finora, delle due polarizzazioni unilaterali dell’etica non è una proprietà distintiva del marxismo. La si trova – sia pure in termini contenutistici e metodologici diversi – in Aristotele, nella Scolastica, in Hegel; il marxismo dà a questa tendenza solo un accento nuovo. In quanto detto finora, abbiamo mostrato che qualunque sia il punto di partenza ideologico e metodologico dell’etica, le sue sintesi sfociano sempre necessariamente nello sviluppo storico-sociale dell’umanità. Fra atto etico, convinzione etica e responsabilità da un lato, e destino sociale dall’altro, vi è dunque una connessione che, sia pure complessa e mediata, è tuttavia ineliminabile. L’elemento comune a ogni etica premarxista è tuttavia che in questa relazione reciproca le tendenze etiche che privilegiano l’individuo detengono il primato su quelle sociali. Anche quando i singoli sistemi sono contrapposti sotto tutti gli altri aspetti – pensiamo semplicemente a Platone e a Epicuro –, su quest’unica questione regna tuttavia un accordo generale. E nemmeno eventi così violenti come la grande Rivoluzione francese sono riusciti a smuovere completamente tale convinzione. Si può tutt’al più notare in alcune rappresentazioni pessimistiche, come le lettere estetiche di Schiller, una ritirata appena accennata. Resta comunque predominante l’etica dell’individuo, sia pure in una relazione più o meno conseguente col suo destino sociale.

Si esprime qui una grande idea: l’uomo, in quanto creatore responsabile del suo proprio destino, determina così il destino dell’umanità, di quel tipo di uomo che diventa predominante. Molte tendenze significative dell’etica concentrano le forze essenziali nell’elaborazione dei tratti fondamentali di quei tipi che sono adatti a condurre l’umanità sulla strada giusta. È sufficiente richiamare qui: l’antico saggio, il suo ritorno sotto diversa forma nel sage dell’Illuminismo, la dottrina dei discepoli di Cristo. (Anticipando ciò che sarà detto più oltre, emerge già qui almeno un lato del nostro problema specifico. La questione non è, infatti, che il filosofo in certi casi si assuma una particolare responsabilità per la dimostrazione sociale del tipo da lui indicato come modello). Solo per accennare alla ricchezza dei problemi che qui sorgono, si pensi al dramma di Tolstoj La luce nelle tenebre.

Ritorniamo al tema specifico: il marxismo ha una posizione radicalmente nuova proprio sulla questione del primato: in breve, è lo sviluppo sociale, più precisamente lo sviluppo delle forze produttive, che crea gli uomini ad esso necessari. Poiché, sin da quando il marxismo è sorto, si è sentito ripetere l’obiezione che non ha un’etica e che sostituisce questa con l’economia o la sociologia, vogliamo inserire qui alcune note chiarificatrici. Prima di tutto: non si può scambiare il principio sociale del marxismo con nessuna delle teorie del milieu sociale, ecc. Queste rispecchiano la cosificazione delle relazioni umane nel capitalismo e le fanno irrigidire concettualmente molto oltre il modello; contrappongono perciò l’individuo (l’uomo) a un ambiente codificato soggetto a una legalità propria, estranea all’uomo, inumana. Le leggi dell’economia e quelle della società sono certo anche per il marxismo leggi oggettive, cioè tali che funzionano indipendentemente dalla coscienza conoscente. Però non è un’oggettività estranea all’uomo a costituire l’oggetto e il sostrato dell’economia, bensì solo e soltanto il sistema (e il mutamento) delle relazioni fra gli uomini, le cui leggi essi – considerati individualmente – non hanno creato, ma che possono essere poste esclusivamente mediante il loro agire, le loro influenze reciproche, il loro influsso individuale e comune sulla natura in movimento. Nel marxismo viene dunque elaborata per la prima volta in maniera coerente l’idea che economia, società, storia non sono altro che lo sviluppo del sistema delle relazioni umane, che le leggi oggettive specifiche che in esse sorgono – d’altronde complicate e largamente mediate – sono sintesi delle azioni umane. Ciò che in Hegel appare ancora in forme mitologiche, acquista qui un’oggettività scientifica.

Questa presentazione sommaria, piuttosto unilaterale, deve semplicemente servire a dare una prospettiva ai problemi dell’etica e prima di tutto, naturalmente, a quelli che riguardano la responsabilità. Se dianzi abbiamo definito una grande idea la considerazione che l’uomo è il creatore del suo proprio destino, il marxismo diventa sotto questo rispetto la concretizzazione e il coronamento dello sviluppo dell’etica fino a questo momento. Infatti, la tesi secondo cui l’uomo crea se stesso viene condotta fuori dalla concezione idealistica hegeliana solo dal materialismo dialettico: il lavoro, in cui l’uomo diventa uomo, fa di se stesso un uomo, può acquistare un significato universale solo quando venga considerato alla lettera come lavoro fisico (che è nello stesso tempo anche spirituale, il demiurgo della spiritualità), se dunque dall’ontologia dell’uomo sparisce ogni trascendenza sovrumana.

Non è oggetto della nostra ricerca approfondire una concezione immanente del mondo. Sia consentita solo un’osservazione: che in questo modo anche dal concetto etico di responsabilità viene eliminato altrettanto radicalmente ogni rinvio a elementi trascendenti – abbiano questi il carattere di un essere trascendente, come in molte religioni, o quello di un postulato trascendente come in Kant. Questa negazione si trasforma però qui in un’affermazione concreta: il rifiuto di ogni al di là non fa ricadere su un’individualità isolata né conoscenza, né coscienza, come nel vecchio materialismo, ma, all’opposto, stabilisce un’unione intima, anche se certamente contraddittoria e alquanto mediata, fra l’uomo in quanto personalità e in quanto ente generico; e qui è da notare che per il marxismo il genere è un concetto non soltanto biologico-antropologico, ma anche, e soprattutto, storico-sociale. Non si deve dunque costruire un ponte complicato – come in ogni etica idealistica – su un dualismo autocreato; l’unità dialettica delle tensioni è, piuttosto, data naturalmente e socialmente. «L’individuo è – dice Marx – l’essenza sociale (…) La vita individuale e quella generica dell’uomo non sono distinte». Solo la loro forma relativa di realizzazione, la dialettica dell’unità delle contraddizioni si trasforma costantemente nel corso dello sviluppo storico-sociale. Il fondamento di questa unità, che si ottiene e si riproduce continuamente nel mutamento, è il lavoro. Dice Marx: «L’oggetto del lavoro è (…) l’oggettivazione della vita generica dell’uomo».

Questa immanenza in tutto ciò che riguarda l’uomo, la stringente necessità oggettiva in tutto ciò che segue dalle leggi di movimento delle relazioni umane, sono state molto spesso equivocate come fatalismo e, perciò, come esclusione dell’etica dal sistema del marxismo. Le due cose sono connesse e sono facilmente confutabili. Anche chi conosce Marx solo superficialmente deve sapere che nella sua economia le leggi si trasformano continuamente in tendenze, che esse in casi decisivi delimitano solo uno spazio oggettivo all’interno del quale l’azione umana prende la decisione. Si pensi alla definizione della giornata lavorativa. Marx mostra le tendenze capitalistiche che spingono verso il massimo e quelle proletarie che aspirano al minimo, un’antinomia i cui due termini «vengono entrambi stabiliti allo stesso modo dalla legge dello scambio delle merci». È dunque la lotta fra capitalista complessivo e operaio complessivo che decide sulla giornata lavorativa.

Non si dica che qui si tratta solo di categorie «sociologiche»; una tale affermazione non tiene, infatti, in nessun conto l’essenza della cosa: che, secondo la concezione di Marx, il sociale non è altro che una determinazione precisa dell’uomo stesso, della sua relazione con gli altri uomini. Capitalista complessivo e operaio complessivo sono dunque qui solo sintesi sociale; in realtà, si tratta del fare e del tralasciare degli uomini, i quali, nella grandezza come nella miseria, fanno la propria storia, però «non in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinata dai fatti e dalla tradizione». Per quanto le leggi dell’economia, le mediazioni fra individuo e ente generico possano essere così molteplici e mediate, la struttura indicata sopra di uno spazio concreto – entro il cui ambito concreto vengono prese dall’uomo decisioni concrete – di un’antinomia concreta che lo induce a una scelta responsabile, continua a sussistere per la totalità della vita umana.

Non possiamo qui naturalmente nemmeno accennare a tutta la ricchezza delle determinazioni che così sorgono. Basti solo ricordare il fatto che Marx, per l’individuo, concepisce perfino l’appartenenza di classe, che l’idea fondamentale di Lenin, per quel che riguarda la concezione del partito e di altre organizzazioni sociali, negli aspetti decisivi, prende questa direzione. Se noi dunque concludiamo la nostra breve panoramica con l’accenno alla relazione del marxismo con l’utopia, lo facciamo prima di tutto per mettere in luce in maniera ancora più chiara di quanto sia stato fatto finora la sua essenza determinante per l’etica. Il rifiuto dell’utopismo ha qui due momenti importanti. Il primo contesta al marxismo la possibilità di una predeterminazione utopica di quelle concrete forme di società che sono chiamate a sciogliere le contraddizioni di una formazione sociale. Proprio perché qui, per la prima volta, sta al centro la conoscibilità scientifica delle leggi e della tendenza di sviluppo della vita sociale, viene sottolineato con forza il suo carattere di approssimazione, la sua riduzione ai principi della linea evolutiva. Lenin rifiutò, perché metodologicamente impossibile, l’ideale conoscitivo di Bucharin, di una sociologia capace di fare previsioni «astronomicamente esatte». In secondo luogo, questo rifiuto teoretico-conoscitivo dell’utopismo è collegato con i processi di pensiero che, attraverso la mediazione della concezione generale della storia, sfociano nei problemi dell’etica. L’utopia come forma pone uno stadio già pronto, i cui contenuti e le cui forme devono garantire la convivenza armonica degli uomini, la quale – in qualche modo sempre – agli uomini, in quanto singoli e in quanto genere umano totale, piove dal cielo. Al contrario, il marxismo sottolinea, anche per il futuro, che gli uomini fanno da sé la loro storia, che essi e il sistema di riferimento ai loro simili sono il risultato della loro propria attività, che tutti i contenuti e le forme del futuro si sono sviluppate e si svilupperanno dal concreto fieri dell’umanità, indipendentemente dal fatto che questo avvenga con falsa o giusta coscienza. La giusta coscienza del socialismo fondato da Marx è dunque, prima di tutto, quella della giusta strada: dello scopo nei suoi principi generali, dei rispettivi mezzi nella loro particolare, spesso mutevole specificità, dei passi successivi nella loro particolarità. Che da qui seguano differenziazioni specifiche della responsabilità lo si può vedere – crediamo – già da questo brevissimo schizzo. La teoria della conoscenza del marxismo, secondo cui la prassi fornisce il criterio della teoria, ha conseguenze profonde anche per l’etica (supera, in un certo senso, il dualismo di ragion «pura» e ragion «pratica»).

Non è questo il luogo per trattare dell’influsso del marxismo sul pensiero filosofico. Esso è molto più forte di quanto di solito si supponga ufficialmente; se, infatti, la polemica impone a una filosofia una determinata struttura nell’impostazione dei problemi, uno spettro di posizioni, uno svuotamento della concezione dell’uomo che non porta a nulla, allora è presente un influsso, proprio come nel caso di filiazioni che tendono a sminuirlo. Inoltre, determinate analogie sorgono anche dal fatto che il marxismo, come molte altre correnti, è una reazione alla crisi dell’umanità iniziatasi nella metà del XIX secolo. In tali casi, possono sorgere parallelismi metodologici nella domanda e nella risposta, anche nella totale contrapposizione delle direzioni. Quanto più acuta diventa questa crisi, quanto più chiaramente si delineano le divergenze, tanto più fortemente tali tendenze possono giungere a espressione.

4. Tralasciamo la storia dello sviluppo del marxismo con i suoi molteplici punti di svolta, per riuscire a concretizzare il problema che ci siamo posti partendo dalla situazione del presente, dalle decisioni di cui essa ci fa carico, dalla responsabilità che queste ultime comportano.

Considerato dal punto di vista della nostra questione, neanche il marxismo è lo stesso di un secolo fa. Proprio a partire da questa distanza, non è la stessa cosa se si tratta di un piccolo gruppo, spesso illegale, di un partito di massa nel capitalismo, di un partito dominante della lotta per il socialismo in un paese minacciato da un intervento armato, ecc. Il presente è certamente il risultato di tutta questa storia. Esso contiene però – crediamo – anche qualcosa di qualitativamente nuovo. Bisogna perciò prima di tutto domandarsi: l’attuale situazione dell’umanità contiene effettivamente momenti che si possono con ragione considerare realmente nuovi nella storia? Giacché, altrimenti, il problema dovrebbe essere riferito primariamente alla generalità della storia e solo determinate applicazioni contenutistiche designerebbero l’esigenza del giorno. Mentre, a nostro avviso, si tratta di molto di più: che il problema dell’oggi si fonda naturalmente sui risultati della storia, è accresciuto da questi.

In che cosa consiste il nuovo per un agire responsabile ai nostri giorni? Cominciamo con lo sviluppo della tecnica: durante le due guerre mondiali essa ha imposto una crescente totalizzazione della strategia di guerra. È superfluo parlare del suo ulteriore sviluppo dopo il 1945. È noto che, con l’entrata nell’epoca atomica, si è affermata sempre più a livello di massa la sensazione della decadenza della cultura umana. Non senza fondamento oggettivo. Certo, a livello politico è spesso al servizio di un dominio imperialistico del mondo, a livello ideologico si mescola altrettanto spesso con gli accenti fatalistici secondo cui la tecnicizzazione è già andata molto in là nel controllo dell’umanità e la «massificazione», altrettanto fatale, costituisce il tratto fondamentale della vita sociale della nostra epoca. Questa tendenza è stata ancora più rafforzata da un’altra caratteristica essenziale della guerra divenuta totale. Mentre ancora la prima guerra mondiale scoppiò cogliendo di sorpresa l’opinione pubblica, ora la guerra ha bisogno di un’ampia preparazione ideologica di tutte le masse. È allora un contrassegno importante del nostro tempo che la propaganda ideologica dell’annientamento fatale inevitabile si sia trasformata in una rivolta senza precedenti contro tale fatalità. Centinaia di milioni credono ormai fermamente che lo scoppio della guerra si possa evitare, che il raggiungimento di tale obiettivo dipenda dall’attività delle masse – e quindi degli individui che le compongono. E queste non sono cieche speranze, illusioni infondate. Si tratta piuttosto di un prodotto di importanti eventi storico-mondiali. Sarà sufficiente elencare semplicemente i più rilevanti: il superamento del socialismo in un solo paese, costantemente minacciato, e la formazione di Stati socialisti con una popolazione di 800 milioni di persone; la lotta di liberazione dei popoli coloniali che trasforma una riserva materiale e umana esclusiva dell’imperialismo aggressivo in una zona potenzialmente neutra. La volontà sempre più determinata e consapevole delle masse a conquistare la pace poteva crescere solo su questo terreno; il suo rafforzamento retroagisce, tuttavia, sul solidificarsi di tali condizioni.

Viene così disegnato – crediamo – lo spazio storico e delineato l’ambito reale per esprimere chiaramente il problema della specifica responsabilità sociale oggi. Il contenuto centrale ci è già divenuto chiaro: è la responsabilità della guerra o della pace. Ciò che prima era la responsabilità di una cerchia relativamente ristretta, ora è diventata una questione dell’umanità. Soprattutto nell’epoca moderna, le masse sono diventate sempre più semplici oggetti della guerra. A partire dal contromovimento, il pacifismo ha annunciato una pura etica dell’intenzione: il rifiuto individuale di ogni partecipazione ad esso ha l’accento di un modello, di un comportamento intenzionalmente imitativo. Poiché, tuttavia, la struttura ideologica scaturisce da azioni individuali – e passive – ed è esclusivamente da ciò spinta a scatenare una reazione a catena, e poiché il rifiuto generalmente astratto della guerra elimina ogni concretezza sociale, dall’etica dell’intenzione sorge necessariamente un utopismo. Il tipo di comportamento socialista rivoluzionario (trasformazione della guerra imperialistica in una guerra borghese) pone certamente il problema storico-sociale in termini affatto concreti; contiene la negazione della guerra concepita in termini determinati e concreti e carica l’individuo che agisce di una grande responsabilità: egli non deve fermarsi alla semplice negazione e alle conseguenze che ne derivano per il suo proprio destino, ma porta una responsabilità anche per il mezzo a cui ricorre nella sua mediazione e per il risultato degli atti compiuti. Già queste linee molto generali mostrano la complicata dialettica nell’agire sociale concreto. La responsabilità primaria decisiva è per la deliberazione stessa: nella decisione qui presa viene infatti negato un determinato fenomeno storico-sociale, la guerra imperialistica. La responsabilità della deliberazione contiene dunque già la responsabilità per la giustezza del giudizio che vi è sotteso. Inoltre, il no qui espresso non è più una negatività astratta come nel pacifismo; esso contiene in maniera inseparabile un controstrumento sociale, il dovere di suscitare un contropotere sociale di opposizione alla guerra. La responsabilità si allarga e si concretizza dunque anche qui a partire dal contenuto sociale del movimento di opposizione da porre in moto. Infine, poiché suscitare un agire sociale concreto di quanti più uomini possibile è lo scopo posto, i mezzi impiegati, il destino degli uomini che vi prendono parte sono allo stesso modo oggetto di responsabilità.

*Così nel testo. (N.d.T.)

Lettera al signor Carocci

di György Lukács

«Nuovi Argomenti», n. 57-58, 1962 [in G.L., Marxismo e politica culturale, trad. di Anna Solmi Marietti, Einaudi, Torino 1968].


Caro signor Carocci,

sarei molto tentato di rispondere diffusamente ai problemi che lei pone nelle sue otto domande: poiché vi si trova concentrato praticamente tutto ciò che da anni occupa e interessa molti di noi. Purtroppo le circostanze in cui mi trovo mi obbligano a rinunciare a questa intenzione. Ma poiché non le voglio tacere del tutto le mie idee in proposito, mi limito ad una semplice lettera privata, che naturalmente non ha affatto la pretesa di trattare sistematicamente tutte le questioni essenziali.

Comincio con l’espressione «culto della personalità». Va da sé che ritengo assurdo ricondurre la sostanza e la problematica di un periodo così importante della storia del mondo al carattere particolare di un individuo. È vero che, quand’ero studente, si insegnava nelle università tedesche: «Männer machen die Geschichte» [«Le forti personalità fanno la storia»]. Ma già il mio sociologismo simmeliano o maxweberiano di allora bastava a farmi sorridere di queste dichiarazioni retoriche. E che dire ora, dopo decenni di educazione marxista?

Già la mia prima reazione al XX Congresso, quasi ancora puramente immediata, si rivolgeva, oltre la persona, all’organizzazione: all’apparato che aveva prodotto il «culto della personalità», e che lo aveva poi fissato in una sorta d’incessante riproduzione allargata. Mi raffiguravo allora Stalin come il vertice di una piramide che, allargandosi sempre più verso il basso, era composta di tanti «piccoli Stalin»: i quali – visti dall’alto – erano gli oggetti, e – visti dal basso – i produttori e garanti del «culto della personalità». Senza il funzionamento regolare e incontrastato di questo meccanismo, il «culto della personalità» sarebbe rimasto un sogno soggettivo, un fatto patologico, e non avrebbe mai potuto raggiungere quell’efficacia sociale che esercitò per decenni.

Non occorreva riflettere molto per capire che quell’immagine immediata, senza essere falsa, poteva dare solo un’idea frammentaria e superficiale delle origini, del carattere e degli effetti di un periodo importante. Per gli uomini pensanti, e veramente dediti alla causa del progresso, sorgeva necessariamente il problema della genesi sociale di questa fase evolutiva, problema che Togliatti formulò esattamente per primo, dicendo che bisognava mettere in luce le condizioni sociali della nascita e del consolidamento del «culto della personalità», naturalmente in base alla dinamica interna della rivoluzione russa; Togliatti aggiungeva, altrettanto esattamente, che a questo lavoro erano chiamati in primo luogo i sovietici. Naturalmente non si tratta solo di un problema storiografico. La ricerca storica trapassa necessariamente in una critica della teoria e della prassi che si sono così determinate. E una siffatta indagine approfondita – ne fui convinto fin dall’inizio – doveva mettere in luce tutto ciò che vi era di falso nell’ideologia connessa al «culto della personalità» e da esso prodotta. Dovrebbe succedere, a questi studiosi, come alla signora Alving negli Spettri di Ibsen, che ne descrive così la «svolta ideologica»: «Volevo toccare solo un nodo, ma quando lo ebbi tirato, tutta la storia mi si sciolse tra le mani. E allora mi accorsi che era solo cucita a macchina». Questo risultato non dipende, in primo luogo, dall’atteggiamento di coloro che affrontano il problema; è la conseguenza organica del materiale trattato.

Questa ricerca è rimasta, a tutt’oggi, solo un postulato per il vero marxismo, e lei non si può attendere da me, che non sono uno specialista in questo campo, nemmeno un semplice tentativo di soluzione; tantomeno in una lettera, che ha necessariamente un carattere ancora più soggettivo e frammentario di quello che avrebbe un saggio sull’argomento. In ogni caso deve essere chiaro, per ogni uomo pensante, che il punto di partenza può essere solo la situazione interna e internazionale della rivoluzione proletaria russa del 1917. Da un punto di vista oggettivo, bisogna pensare alle devastazioni della guerra, al ritardo industriale, alla relativa arretratezza culturale della Russia (analfabetismo, ecc.), alla serie di guerre civili, di interventi, da Brest-Litovsk a Vrangel’, eccetera. Come elemento soggettivo (spesso trascurato), bisogna aggiungere la posizione di Lenin nella possibilità di tradurre in pratica le sue giuste teorie. Oggi – poiché in quegli anni le sue decisioni finirono sempre per imporsi – si tende spesso a dimenticare quali resistenze egli dovette superare all’interno del proprio partito. Chi conosce anche solo in parte gli antefatti del 7 novembre, della pace di Brest-Litovsk, della NEP, capirà che cosa intendo dire. (Circolava più tardi un aneddoto su Stalin, che avrebbe detto, ai tempi, delle discussioni interne sulla pace di Brest: «Il compito più importante è quello di assicurare a Lenin una maggioranza sicura nel Comitato centrale»).

Dopo la morte di Lenin era bensì terminato il periodo delle guerre civili e degli interventi stranieri, ma, specialmente per quanto riguarda questi ultimi, senza la minima garanzia che non potessero rinnovarsi da un giorno all’altro. E l’arretratezza economica e culturale appariva come un ostacolo difficilmente superabile ad una ricostruzione del paese, che doveva essere insieme, edificazione del socialismo e garanzia della sua difesa contro ogni tentativo di restaurazione capitalistica. Con la morte di Lenin, naturalmente, le difficoltà all’interno del partito non fecero che aumentare. Poiché l’ondata rivoluzionaria che era stata scatenata dal 1917 era passata senza instaurare una stabile dittatura del proletariato anche in altri paesi, occorreva affrontare risolutamente il problema della costruzione del socialismo in un solo paese (arretrato). È in questo periodo che Stalin si rivelò uno statista notevole e lungimirante. L’energica difesa della nuova teoria leniniana della possibilità di una società socialista in un solo paese contro gli attacchi soprattutto di Trotskij, rappresentò, come non si può fare a meno di riconoscere oggi, la salvezza dell’evoluzione sovietica. È impossibile giudicare in modo storicamente giusto il problema Stalin, se non si considerano da questo punto di vista le lotte di tendenza del Partito comunista; Chruščëv ha già trattato come si deve questo problema in occasione del XX Congresso.

Mi permetta ora una breve digressione sul significato delle riabilitazioni. Va da sé che tutti coloro che negli anni trenta e più tardi furono ingiustamente perseguitati, condannati, assassinati da Stalin, devono essere riabilitati da tutte le «accuse» inventate contro di loro (spionaggio, sabotaggio, ecc.). Ma ciò non implica affatto che debbano andare soggetti a «riabilitazione» anche i loro errori politici, le loro false prospettive. Questo vale soprattutto per Trotskij, che fu il principale esponente teorico della tesi che la costruzione del socialismo in un paese solo è impossibile. La storia ha confutato da tempo la sua teoria. Ma se ci trasportiamo nell’epoca immediatamente successiva alla morte di Lenin, questo punto di vista genera necessariamente l’alternativa: allargare la base del socialismo con «guerre rivoluzionarie», o ritornare alla situazione sociale anteriore al 7 novembre; e cioè il dilemma di avventurismo o capitolazione. Qui la storia non consente in alcun modo una riabilitazione di Trotskij; sui problemi strategici allora decisivi, Stalin ebbe pienamente ragione contro di lui.

Altrettanto ingiustificata mi pare la leggenda diffusa in Occidente, che se Trotskij fosse giunto al potere, avrebbe avviato uno sviluppo più democratico di Stalin. Basta pensare alla discussione sui sindacati del 1921, per capire come si tratti di una pura leggenda. Trotskij sostenne allora, contro Lenin, la tesi che bisognava statalizzare i sindacati per incrementare più efficacemente la produzione, che significa poi, obiettivamente, che essi dovevano cessare di essere organizzazioni di massa con una vita propria. Lenin, che partiva dalla situazione concreta, dalla posizione dei sindacati fra il partito e il potere centrale, nel senso della democrazia proletaria, assegna loro persino il compito di difendere gli interessi materiali e spirituali dei lavoratori, ove occorra, anche contro uno stato burocratizzato. Non voglio e non posso, qui, affrontare diffusamente questo problema. Ma è certo che Stalin, negli anni seguenti, ha proseguito de facto (anche se non nell’argomentazione) la linea di Trotskij, e non quella di Lenin. Se quindi Trotskij, più tardi, rimproverò a Stalin di essersi appropriato del suo programma, si può ben dire che, in questo, egli aveva per molti aspetti ragione. Ne consegue, per il mio giudizio sulle due personalità, che ciò che oggi consideriamo come dispotico e antidemocratico nell’epoca staliniana, ha rapporti strategici assai stretti con le idee fondamentali di Trotskij. Una società socialista guidata da Trotskij sarebbe stata almeno altrettanto poco democratica di quella staliniana, solo che si sarebbe orientata strategicamente sul dilemma: politica catastrofica o capitolazione, anziché sulla tesi sostanzialmente esatta di Stalin, della possibilità del socialismo in un solo paese (le impressioni personali che ho tratto dai miei incontri con Trotskij nel 1921, hanno suscitato in me la convinzione che egli, come individuo, era portato al «culto della personalità» ancor più di Stalin). Quanto a Bucharin, ritengo inutile scriverne diffusamente. Verso la metà degli anni venti, quando la sua posizione non era attaccata da nessuno, ho già fatto notare quanto fosse discutibile il suo marxismo, proprio in rapporto ai suoi fondamenti teoretici.

Torniamo ora al tema principale. Le vittorie meritate nelle discussioni degli anni venti non hanno fatto sparire le difficoltà della posizione di Stalin. Quello che era obiettivamente il problema centrale, il ritmo fortemente accelerato dell’industrializzazione, era, con ogni probabilità, difficilmente risolubile nel quadro della normale democrazia proletaria. Sarebbe vano, oggi, domandarsi se e in che misura Lenin avrebbe saputo trovare una via d’uscita. Retrospettivamente vediamo, da un lato, le difficoltà della situazione oggettiva, e, dall’altro, che Stalin, per dominarle, superò vieppiù, col passare del tempo, i limiti dello strettamente necessario. Mettere in luce le proporzioni esatte sarebbe appunto il compito di quella ricerca che Togliatti ha detto di attendersi dalla scienza sovietica. Si ricollega strettamente a questo problema (senza perciò identificarsi con esso) quello della posizione di Stalin nel partito. È certo che egli ha costruito a poco a poco, durante e dopo il periodo delle discussioni, quella piramide di cui parlavo all’inizio. Ma non basta costruire un simile meccanismo, bisogna anche tenerlo continuamente in funzione; esso deve reagire sempre nel modo desiderato, e senza possibilità di sorprese, ai problemi quotidiani di ogni genere. Si dovette così elaborare, a poco a poco, quel principio che oggi si suole chiamare «culto della personalità». Anche qui la storia dovrebbe essere riesaminata a fondo da studiosi sovietici competenti di tutta la materia (compreso il materiale finora inedito). Quel che si poteva constatare anche dall’esterno, era anzitutto la liquidazione sistematica delle discussioni interne di partito, in secondo luogo l’accrescersi di misure organizzative contro gli oppositori, in terzo luogo il passaggio da queste misure a provvedimenti di carattere giudiziario e statale-amministrativo. Quest’ultimo crescendo fu accolto naturalmente con muto spavento. Durante la seconda fase agiva ancora il tradizionale umorismo dell’intelligentsia russa. «Qual è la differenza tra Hegel e Stalin?», era la domanda. E la risposta: «In Hegel ci sono tesi, antitesi e sintesi, in Stalin rapporto, controrapporto e misure organizzative». Per il giudizio storico su questo sviluppo Chruščëv ha già dato una giusta indicazione al XX Congresso, definendo i grandi processi degli anni trenta come politicamente superflui, poiché la forza effettiva di ogni opposizione era già stata allora pienamente stroncata.

Non mi ritengo affatto competente a descrivere questo sviluppo e le sue forze motrici. Anche dal punto di vista teoretico bisognerebbe mostrare come Stalin, che negli anni venti difese ancora con abilità e intelligenza l’eredità di Lenin, venne sempre più a trovarsi, in tutti i problemi importanti, in opposizione a lui: circostanza a cui non cambia nulla il suo attaccamento verbale alle dottrine di Lenin. Anzi: poiché Stalin seppe ottenere, sempre più efficacemente, di essere considerato come il legittimo erede di Lenin, come il suo unico autentico interprete, e che si riconoscesse in lui il quarto classico del marxismo, finì per consolidarsi sempre più il fatale pregiudizio dell’identità delle teorie staliniane coi principi fondamentali del marxismo. Ripeto che non può essere mio compito esporre scientificamente questa situazione e le sue origini. La prendo così com’è nella realtà, come un fatto, e cerco, nelle pagine che seguono, di metterne in rilievo le conseguenze teoriche e culturali, come il metodo ad essa immanente, sulla scorta di alcuni fatti importanti, di alcuni punti nodali. Dove premetterò subito che non m’interessa di sapere se e in che misura determinate teorie debbano ricondursi positivamente allo stesso Stalin. Nella centralizzazione spirituale da lui creata, era comunque impossibile che si affermassero stabilmente delle teorie che non fossero almeno da lui autorizzate; la sua responsabilità nei loro confronti è quindi in ogni caso evidente.

Comincio con una questione di metodo in apparenza estremamente astratta: la tendenza staliniana è sempre quella di abolire, ovunque possibile, tutte le mediazioni, e di istituire una connessione immediata fra i dati di fatto più crudi e le posizioni teoretiche più generali. Proprio qui appare chiaramente il contrasto fra Lenin e Stalin. Lenin distingueva molto esattamente fra teoria strategia e tattica, e ha sempre studiato accuratamente e tenuto conto di tutte le mediazioni che le collegano tra loro (spesso in modo estremamente contraddittorio). Mi è naturalmente impossibile, in una lettera (per quanto mi si venga allungando nello scriverla), anche solo toccare per accenni questa prassi teoretica di Lenin. Mi limito a prendere, da questo grande complesso, un solo esempio: il concetto così importante per Lenin del ripiegamento tattico. È una regola metodologica affatto ovvia che la necessità e utilità di una ritirata può essere intesa solo sulla base dei concreti rapporti di forza di volta in volta esistenti, e non dei principi teoretici più generali; questi determinano – più o meno mediatamente – gli obiettivi ecc. dell’azione attuale, e hanno una grande importanza per la ritirata stessa in quanto contribuiscono a determinarne il modo, la misura, ecc., facendo sì che non diventi un ostacolo a una nuova avanzata. Che per realizzare elasticamente la ritirata si richieda la conoscenza di tutto un sistema assai intricato e complesso di mediazioni, è chiaro senza bisogno di altre spiegazioni. Stalin, che non disponeva dell’autorità di Lenin, prodottasi in virtù di grandi azioni e importanti realizzazioni teoriche, e diventata ormai qualcosa di «naturale», trovò il modo di dare una giustificazione immediatamente evidente di tutte le sue misure, presentandole come la conseguenza diretta e necessaria delle dottrine marxiste-leniniste. A questo scopo bisognava sopprimere tutte le mediazioni, e la teoria e la prassi dovevano essere collegate immediatamente fra loro. È per questo che tante categorie di Lenin scompaiono dal suo orizzonte; anche il ripiegamento appare in lui come un’avanzata.

La mancanza di scrupoli di Stalin giunse qui fino al punto di alterare, se necessario, anche la teoria, per venire incontro alle sue pretese di autorità. Ciò appare, in modo particolarmente grottesco, nel problema cinese, dove il grottesco nasce dal fatto che Stalin, questa volta, da un punto di vista tattico aveva pienamente ragione. (Anche la critica più severa non deve mai farci dimenticare che Stalin fu una figura politica di prim’ordine). Trotskij e i suoi seguaci sostenevano la tesi che, poiché in Cina predominavano i rapporti asiatici di produzione studiati teoricamente da Marx, una rivoluzione democratico-borghese (corrispondente al passaggio del feudalesimo al capitalismo in Europa) era superflua, e bisognava attendersi lo scoppio immediato di una rivoluzione proletaria. Stalin comprese esattamente la falsità e pericolosità politica di questa posizione. Ma, anziché confutarla con un’analisi concreta della situazione cinese contemporanea e dei compiti tattici che ne scaturivano, espunse, sic et simpliciter, dalla scienza i rapporti asiatici di produzione, e stabilì l’esistenza di un feudalesimo cinese (e asiatico in genere). Tutta l’orientalistica, nell’Unione Sovietica, fu così costretta a porre alla «base» di tutte le sue ricerche una formazione inesistente.

La stessa metodologia appare in un altro caso, molto più noto. Mi riferisco al patto di Stalin con Hitler nel 1939. Anche qui, a mio avviso, Stalin prese una decisione – da un punto di vista tattico – sostanzialmente giusta, che ebbe però tragiche conseguenze perché anche qui, anziché trattare come tale il ripiegamento tattico imposto dalle circostanze concrete, egli fece delle sue misure dettate dalla necessità, senza nessuna mediazione teoretica, criteri di principio della strategia internazionale del proletariato. Non voglio affrontare qui l’arduo nodo problematico dei vantaggi e svantaggi (di carattere politico e morale) prodotti dal patto del 1939. Il suo senso immediato fu quello di rinviare la minaccia di un imminente attacco di Hitler, e di un attacco che, probabilmente, sarebbe stato appoggiato, apertamente o di nascosto, da Chamberlain e Daladier. L’ulteriore prospettiva tattica era che, se Hitler – come effettivamente accadde – avesse sfruttato il patto con l’Unione Sovietica come occasione favorevole per una offensiva contro l’Occidente, più tardi, nel caso di una guerra fra la Germania e l’Unione Sovietica, per quest’ultima l’alleanza con le democrazie occidentali (già tentata ai tempi di Monaco) avrebbe acquistato caratteri di estrema probabilità; anche qui i fatti hanno confermato la previsione tattica di Stalin.

Fatali per tutto il movimento operaio rivoluzionario furono le conseguenze di carattere teorico-strategico che ne trasse Stalin. Si dichiarò che la guerra fra la Germania di Hitler e le potenze europee era una guerra mondiale imperialistica come la prima. E cioè che le formule strategiche di Lenin, allora esatte («Il vero nemico è nel tuo paese», «Trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile», ecc.), dovevano valere immutate per i paesi che volevano e dovevano difendersi contro il fascismo hitleriano. Basta leggere il primo volume del ciclo «I comunisti» di uno scrittore ortodosso come Aragon, per vedere chiaramente le conseguenze internazionali disastrose di questa «generalizzazione staliniana» di una mossa tattica. Ma le conseguenze più nefaste trascendono i casi particolari, per quanto enormi. La grande autorità del marxismo ai tempi di Lenin si basava sul fatto che l’unità dialettica di fondatezza teoretica, stabilità di principi ed elasticità tattica era avvertita da tutti. Questa nuova «metodologia» di Stalin fece sì che ampi circoli, e non sempre a priori ostili al marxismo, d’ora in poi non videro altro, nelle affermazioni teoretiche di Stalin, che «giustificazioni» spesso sofistiche, in molti casi pseudoteoretiche, di misure puramente tattiche di validità spesso assai contingente. Stalin venne incontro così ai voti teorici di molti pensatori borghesi, per cui il marxismo sarebbe solo un’«ideologia» politica come tutte le altre. Se oggi formulazioni profonde ed esatte di Chruščëv (evitabilità della guerra imperialistica, coesistenza, ecc.) sono interpretate per molti aspetti in modo analogo, è anche questo un frutto dell’eredità staliniana. Una liquidazione radicale e di principio di tale metodologia (e non solo di errori singolarmente presi) è quindi un’«esigenza del giorno» anche nel senso pratico più urgente.

Gli errori qui elencati sono naturalmente casi estremi. I loro principi furono però universalmente applicati nella prassi quotidiana. Dove non bisogna dimenticare, accanto ai motivi finora menzionati, che una parte notevole della vecchia intelligentsia di partito era in opposizione a Stalin (che non significa, naturalmente, che tali opposizioni rappresentassero un punto di vista metodologicamente e oggettivamente giusto). Stalin aveva bisogno di una precisa esecuzione delle sue decisioni da parte dell’apparato, ed anche, se possibile, dell’approvazione delle grandi masse; anche per questo semplificò radicalmente le sue enunciazioni teoretiche. La soppressione delle mediazioni, il collegamento diretto dei principi più generali alle esigenze concrete della prassi quotidiana, appariva in questo senso un mezzo assai idoneo. Anche qui non si concretizzò la teoria applicandola alla prassi, ma, viceversa, si semplificarono e volgarizzarono i principi secondo le esigenze (spesso solo presunte) della prassi. Anche qui mi limito a fare un solo esempio particolarmente tipico (ma se ne potrebbero fare infiniti altri). Nella sua ultima opera economica Stalin «scoprì» ciò che era «sfuggito» a Marx, Engels e Lenin, che ogni formazione economica ha una «legge fondamentale» che può essere sintetizzata in una breve proposizione. È così semplice che anche il funzionario più limitato e incolto la capisce subito; e, anzi, è messo in grado, col suo aiuto, di condannare senz’altro, nelle sue deviazioni «di destra» o «di sinistra», ogni lavoro di scienza economica di cui non capisce oggettivamente nulla. Marx, Engels e Lenin sapevano che le formazioni economiche costituiscono sistemi mobili e complicati la cui essenza è definibile solo mediante un rilievo esatto di tutte le loro determinazioni importanti, le loro interazioni reciproche, proporzioni, ecc. Le «leggi fondamentali» di Stalin enunciano pure banalità, non spiegano un bel nulla, ma danno ad alcuni circoli l’illusione di sapere tutto in anticipo. In questa direzione, della volgarizzazione mediante la soppressione dei termini medi, si situa l’enunciazione di Stalin nel suo saggio sulla linguistica, per cui la scomparsa di una formazione economica determina anche quella della sua ideologia, ecc. ecc.

I diversi momenti del metodo staliniano formano un’unità sistematica all’interno della quale trapassano l’uno nell’altro. Avrà già fatto certamente caso al soggettivismo nella posizione di Stalin. Esso costituisce, effettivamente, un momento fondamentale in questo sistema: ma assume la sua forma pura nella concezione staliniana della partitarietà. Anche qui si tratta di un importante elemento della concezione teoretica di Lenin. Già nelle sue opere giovanili egli si occupò di questo problema, e ne elaborò i momenti soggettivi e oggettivi. Il momento soggettivo è chiaro e semplice: una presa di posizione risoluta nella lotta di classe. Ma quando Lenin critica l’oggettivismo degli studiosi borghesi, si riferisce ad un certo tipo di determinismo, che può rovesciarsi facilmente in un’apologetica dei fatti intesi come necessari. Poiché la partitarietà materialistica indaga gli avvenimenti in modo più profondo e concreto, a partire dalle loro forze motrici reali, è più rigorosamente oggettiva dell’«oggettivista», valorizza l’oggettività in forma più profonda e completa. Con Stalin viene completamente a cadere questo secondo momento, e ne risulta una condanna radicale di ogni impulso all’oggettività: che è bollato col marchio dell’«oggettivismo» e dichiarato spregevole. Poiché Stalin era un uomo intelligente, si spaventò, a volte, delle conseguenze del soggettivismo da lui scatenato, per esempio nell’economia. Ma non poté né volle mai eliminarlo stabilmente, poiché questo atteggiamento era troppo profondamente radicato nel metodo da lui introdotto.

Poiché Stalin vuol mantenere ad ogni costo la continuità «citazionale» con l’opera di Lenin, ne conseguono deformazioni non solo dei fatti, ma anche dei testi leniniani. L’esempio più evidente è quell’articolo di Lenin del 1905, dove egli si proponeva di far ordine – nelle nuove condizioni della legalità – nella stampa e nelle edizioni di partito. Ma sotto Stalin quell’articolo divenne a poco a poco la Bibbia della «partitarietà» in tutto il campo della cultura e anzitutto della letteratura, allo scopo di trasformare lo scrittore in una semplice rotella del grande meccanismo. E sebbene N. Krupskaja, moglie e collaboratrice strettissima di Lenin, abbia richiamato l’attenzione, in una sua lettera, sul fatto che quell’articolo di Lenin non si riferisce minimamente alla letteratura, non mancano ancora oggi le tendenze a lasciare che la Bibbia… resti la Bibbia. Qualcosa di simile accadde per Hegel al tempo della seconda guerra mondiale, quando, per esigenze propagandistiche della lotta contro la Germania hitleriana, lo si fece passare per ideologo dell’opposizione reazionaria alla rivoluzione francese. A prescindere affatto dal contrasto in cui questa tesi si trova con quelle di Marx, Engels e Lenin, è abbastanza comico ricordare che nello stesso periodo, per analoghe esigenze propagandistiche, il generale zarista Suvorov divenne un rivoluzionario. Che Suvorov abbia condotto campagne militari contro la rivoluzione francese, mentre Hegel, fino alla fine della sua vita, prese entusiasticamente le sue difese, non disturbava minimamente la «partitarietà» staliniana; il riconoscimento dei fatti sarebbe stato un «oggettivismo».

Il punto culminante di questa tendenza è rappresentato dalla Storia del partito, diffusa in molti milioni di copie. Qui la «partitarietà» del funzionario supremo è il demiurgo che crea o fa sparire i fatti, e, secondo le esigenze, conferisce essere e valore a uomini ed eventi, oppure li annulla. È una storia di lotte di correnti, che non sono, però, rappresentate o sostenute da uomini, di opposizioni anonime, ecc., una storia dove, a parte beninteso Lenin, solo Stalin possiede un’esistenza. (Nella prima edizione c’era bensì un’eccezione: vi compariva anche Ežov, «il nostro Marat», il primo organizzatore dei grandi processi; dopo la sua caduta anche il suo nome venne cancellato).

In tutto ciò si rivela un altro aspetto metodologico. Per i classici del marxismo era ovvio che la scienza fornisse il materiale e i punti di vista in base ai quali vengono prese le decisioni politiche. Propaganda e agitazione ricevono il loro materiale della scienza, dalla prassi scientificamente elaborata. Stalin rovesciò questo rapporto. Per lui, in nome della «partitarietà», l’agitazione è il momento primario. Le sue esigenze determinano (come ho già mostrato sulla base di alcuni esempi) ciò che la scienza deve dire e il modo in cui deve dirlo. Anche qui un esempio può chiarire questo stato di fatto. Nel celebre capitolo quarto della Storia del partito Stalin definisce l’essenza del materialismo dialettico e di quello storico. Trattandosi di un libro popolare per un pubblico di massa, nessuno potrebbe rimproverare a Stalin di aver ridotto le considerazioni assai sottili e complesse dei classici su questo tema ad alcune definizioni elencate una dopo l’altra in forma schematica e manualistica. Ma il destino delle scienze filosofiche dopo la pubblicazione di quest’opera mostra che si tratta di una metodologia cosciente e di una politica culturale deliberata, e proprio nel senso che ho indicato prima. E cioè le semplificazioni (spesso volgarizzazioni) propagandistiche di Stalin divennero subito la norma unica, imperativa e il limite invalicabile dell’indagine filosofica. Chi osava, richiamandosi, per esempio, ad annotazioni filosofiche di Lenin, andare oltre le definizioni del quarto capitolo, o semplicemente integrarle, andava incontro alla condanna ideologica e non poteva pubblicare le sue ricerche. Non per nulla, al XX Congresso Il’ičëv ha constatato che, negli ultimi decenni, filosofia, economia e storiografia sono rimaste stagnanti.

Queste forme di subordinazione non si limitarono al capitolo quarto e alla filosofia. Tutta la scienza e tutta la letteratura dovevano servire esclusivamente alle esigenze propagandistiche formulate dall’alto, dallo stesso Stalin. La comprensione ed elaborazione autonoma della realtà attraverso la letteratura era bandita sempre di più. La letteratura «partitaria» non deve già rispecchiare creativamente la realtà oggettiva, ma illustrare in forma letteraria le decisioni del partito. Torna ad onore del critico letterario Elena Usevič aver preso posizione, già negli anni trenta, contro l’obbligo della letteratura illustrativa. Nel suo discorso al XXII Congresso il poeta Tvardovskij ha proseguito questa lotta anche oggi necessaria. Si tratta di un problema cruciale della letteratura. Essa può pervenire ad una rappresentazione autentica solo se prende le mosse da problemi reali di uomini reali, e se rispetta la dialettica interna dell’evoluzione che scaturisce da quelle premesse. L’obbligo dell’illustrazione pone a base dell’opera una verità generale astratta (ammesso che si tratti di una verità), e gli uomini ed i loro destini devono adeguarsi ad ogni costo a questa tesi.

Tutto ciò non era naturalmente fine a se stesso. Nasceva dalla posizione di Stalin, dal suo bisogno di un’autorità indiscussa. Devo ripetere anche qui, come prima, che solo indagini approfondite di studiosi competenti potranno stabilire quale parte vi ebbero le difficoltà oggettive e quale le reazioni inadeguate di Stalin. Vi fu senza dubbio, negli anni trenta, un inasprimento oggettivo della situazione: all’interno, oltre che all’industrializzazione accelerata, anche in seguito alla collettivizzazione dell’agricoltura, in politica estera in seguito all’ascesa al potere di Hitler e alla minaccia di un attacco portato all’Urss dalla Germania fascista. Se la lotta di classe nel paese, nonostante tutte le difficoltà economiche, si sia realmente inasprita in modo decisivo, è un problema su cui potranno dare un giudizio competente solo indagini precise di studiosi della materia. Stalin, comunque, trovò presto la parola d’ordine della semplificazione-generalizzazione propagandistica: l’incessante inasprimento della lotta di classe è necessario nella dittatura del proletariato, stavo per dire: è la sua «legge fondamentale».

Questa tesi, di cui già il XX Congresso ha smascherato la falsità, mette in luce le conseguenze più nefaste del metodo staliniano. Essa intende suscitare un’atmosfera di continua diffidenza reciproca, di vigilanza di tutti contro tutti, un clima da stato d’assedio in permanenza. Posso accennare qui solo in breve e frammentariamente alle conseguenze secondarie: la paura, spinta oltre ogni limite, di nemici, spie e sabotatori, e un sistema di segretezza ossessiva per tutto ciò che abbia qualcosa a che fare con la politica. Così, per esempio, la statistica divenne una scienza «strettamente segreta», i cui risultati erano accessibili solo alle persone assolutamente fidate; i lavoratori scientifici dell’economia appartenevano solo in casi eccezionali – e mai per ragioni scientifiche – a questa ristretta cerchia di eletti.

Il quadro del metodo staliniano acquista così un tratto complementare che ancora gli mancava: tutto ciò che in una situazione rivoluzionaria acuta, dove è effettivamente in gioco l’essere o il non essere di una società, è obiettivamente inevitabile, fu arbitrariamente eretto da Stalin a fondamento della prassi quotidiana sovietica. Non voglio soffermarmi qui a parlare dei grandi processi. È questo il tema che è stato trattato finora più diffusamente, e nel suo discorso al XXII Congresso Šelepin ne ha analizzato assai esattamente le conseguenze per il diritto sovietico e la giurisprudenza socialista. Vorrei solo attirare brevemente l’attenzione su alcune conseguenze di ordine culturale. Già la soppressione delle mediazioni contiene in sé la tendenza a trattare come blocchi monolitici tutti i fenomeni della vita. La permanenza della situazione rivoluzionaria acuta intensifica ulteriormente questa tendenza. Ciascuno si risolve senza residui – nella totalità della sua esistenza, in tutte le determinazioni della sua personalità e della sua opera – nella funzione che svolge (o si pretende che svolga) momentaneamente in una vita così concepita. Così, per prendere un esempio dalla logica dei processi: poiché Bucharin, nel 1928, si oppose al piano staliniano della collettivizzazione, è certo che nel 1918 egli partecipò ad una congiura per uccidere Lenin. Questo è il metodo di Vyšinskij nei grandi processi. Ma questa metodologia si estende anche a metodo di giudizio della storia, della scienza e dell’arte. Anche qui è istruttivo contrapporre il metodo di Lenin a quello di Stalin. Lenin, per esempio, ha criticato duramente e aspramente la politica di Plechanov nel 1905 e nel 1917. Ma insieme – e questo «insieme» non implica alcuna contraddizione per Lenin – egli insiste sul fatto che bisogna utilizzare l’opera teoretica di Plechanov per la diffusione e l’approfondimento della cultura marxista nel socialismo, e ciò benché, anche sul piano puramente teoretico, egli sollevasse contro Plechanov varie e importanti obiezioni.

Eccetera eccetera, devo scrivere a questo punto, perché non ho affatto esaurito l’argomento. Ma anche queste note brevi e frammentarie le mostreranno che nel caso Stalin non si tratta affatto (come per molto tempo si volle far credere da parte di alcuni) di errori particolari e occasionali, ma di un falso sistema di idee che si costituì a poco a poco, di un sistema i cui effetti nocivi si fanno sentire tanto più dolorosamente, quanto meno le condizioni sociali attuali sono paragonabili a quelle di cui il sistema staliniano appare il rispecchiamento deformato e deformante. Anche qui i fatti decisivi sono noti a tutti. Mi limito quindi a elencarli brevemente: gli eventi successivi alla seconda guerra mondiale hanno trasformato il socialismo in un solo paese, come l’arretratezza economica e culturale dell’Urss, in una reminiscenza storica; come appartiene al passato anche la possibilità di un accerchiamento capitalistico. A questi fatti si aggiunge la vittoriosa emancipazione dei popoli coloniali e la radicale trasformazione della tecnica bellica con l’introduzione di razzi e bombe nucleari. Per tutti questi motivi anche l’inevitabilità delle guerre imperialistiche ha cessato di essere una necessità. È gran merito del XX e del XXII Congresso aver preso atto di questa nuova situazione e averne tratto le principali conseguenze teoriche e pratiche. Naturalmente gli animi si dividono anzitutto secondo il loro atteggiamento verso la guerra e verso la pace. È intorno a questo problema che si acuiscono al massimo anche i problemi ideologici. Senza poter qui nemmeno sfiorare i problemi politici fondamentali, devo sottolineare che, in campo culturale, l’accentuazione del pericolo di guerra, la sottovalutazione del peso delle forze che operano a favore della coesistenza pacifica, sono rivolte, nella maggior parte dei casi, piuttosto verso l’interno che verso l’esterno; e cioè mirano assai più a conservare o a far sorgere un’atmosfera di guerra, che a preparare o scatenare effettivamente una guerra. Dove è evidente la sopravvivenza di tendenze staliniane negli ambienti del settarismo aperto o mascherato. Pochi manterranno oggi, con le stesse parole, la tesi staliniana del fatale inasprimento della lotta di classe. Per conservare lo status quo staliniano all’interno, basta constatare ogni volta, per il momento presente, l’esistenza di questo inasprimento, e conservare così, in uno stato di acuta tensione, anche il controllo centralizzato di tutte le manifestazioni culturali; il «momento» può essere naturalmente prolungato a piacere. È questa la base dell’alleanza presente de facto fra le tendenze estremistiche nel capitalismo e nel socialismo. Entrambe mirano, in ultima analisi, a conservare inalterati i metodi staliniani. Gli ideologi borghesi, perché un marxismo ridotto a Stalin possiede una forza d’attrazione assai minore di quello genuino, e quelli che si pretendono socialisti, perché è molto più comodo governare coi metodi staliniani che coi metodi di Marx e di Lenin. Perciò Enver Hodja e Salvador de Madariaga agiscono oggi (paradossalmente, a prima vista) nello stesso senso: si battono entrambi, in fin dei conti, per l’integrità del sistema staliniano.

D’altra parte la coesistenza implica necessariamente un’intensificazione anche dei rapporti culturali reciproci fra capitalismo e socialismo, e quindi una sfida, per la cultura socialista, a uscire vittoriosa da una competizione viva con quella capitalistica. Il settarismo fa di tutto, non solo per indebolire le condizioni di una concorrenza vittoriosa, ma anche per mascherare la situazione reale. Che è in realtà molto più favorevole che negli anni venti, quando i metodi staliniani non erano ancora perfezionati né applicati sistematicamente a tutti i prodotti culturali. Il critico della Germania occidentale Walter Jens descrive così la letteratura tedesca di quel periodo: «Nessuno dubiterà, alla fine, che non sia stato proprio e in ultima analisi l’interesse per l’Unione Sovietica a improntare di sé l’arte degli anni venti». E così si esprime sugli effetti del metodo staliniano trionfante: «Gli intellettuali divennero, e per sempre, senza patria». Il grande compito della cultura socialista, è quello di additare agli intellettuali, e oltre di essi alle masse, una patria spirituale. Negli anni venti, politicamente ed economicamente così difficili, essa vi riuscì in larga misura. Che in seguito queste tendenze si siano nettamente indebolite nell’arena internazionale della cultura, è una conseguenza del periodo staliniano. Ma queste forze possono ridestarsi, se si eliminano le condizioni sfavorevoli al loro dispiegamento. Un film come La ballata di un soldato di Cuchraj mostra chiaramente che il regime staliniano ha potuto solo conculcare, ma non già spegnere, le energie creative. Con questa constatazione non voglio certo sottovalutare le difficoltà del periodo di transizione. Poiché gli apparati culturali dei paesi socialisti sono ancora in larga misura detenuti dai seguaci dogmatici di Stalin (che, nel migliore dei casi, si adeguano esteriormente alle novità), poiché parti notevoli dei nuovi quadri sono state educate e formate nello spirito staliniano, poiché il sistema è un paradiso per tutti quelli che mancano di talento e si adattano senza sforzo, e poiché anche molti degli elementi più dotati non hanno potuto resistere alla lunga pressione senza risentirne gravemente nella capacità e nel carattere, e via dicendo: il passaggio ad una situazione culturale che promuova realmente la scienza e l’arte sarà con ogni probabilità contraddittorio, difficile, pieno di ricadute.

Il XX Congresso ha fornito, fra l’altro, una serie di importanti relazioni sulla situazione attuale. Ho già citato alcune di queste voci. Ma la cosa più interessante, oggi, non è ciò che avviene direttamente nel campo della cultura, ma sono quelle misure economiche e politiche che introducono nella realtà sociale una generale democratizzazione in senso comunista. Qui la necessità di riforme è assai più immediata e imperiosa che in campo culturale. Con tutti i suoi errori, l’industrializzazione staliniana ha saputo creare le condizioni e i requisiti tecnici della guerra vittoriosa contro la Germania di Hitler. Ma la nuova situazione mondiale pone l’Unione Sovietica, in campo economico, di fronte a compiti del tutto nuovi: essa deve creare un’economia che superi, in tutti i settori della vita, il capitalismo più sviluppato, quello degli Stati Uniti, che elevi il tenore di vita della popolazione sovietica a un livello superiore a quello americano, e che sia insieme in grado di prestare un aiuto economico di ogni genere, sistematico e permanente, sia agli altri stati socialisti che ai popoli economicamente arretrati in via di emancipazione. A tale scopo sono necessari metodi nuovi, più democratici, meno burocraticamente centralizzati, di quelli che poterono svilupparsi fino ad oggi. Il XXII Congresso ha avviato qui un insieme grandioso e molteplice di riforme. Mi limito a ricordare il deliberato, di estremo interesse e importanza, che nelle elezioni alle cariche di partito il 25 per cento dei vecchi dirigenti non possano essere rieletti. Solo un rinnovamento democratico sistematico di tutta la vita può fornire una base sana alla rinascita culturale nel socialismo.

La resistenza ad una critica radicale e di principio del periodo staliniano è tuttora molto forte. In essa si raccolgono i motivi più disparati. Ci sono, per esempio, gli ingenui e i benintenzionati che temono che dalla denuncia spietata degli errori del sistema staliniano deriverebbe una perdita di prestigio per il comunismo. Essi dimenticano che proprio in ciò si afferma la forza irresistibile del comunismo: i movimenti storici maturi non possono essere ritardati indefinitamente da misure per quanto sfavorevoli. La loro espansione, il loro raggio d’azione possono essere ridotti, ma non già il loro sviluppo e il loro consolidarsi definitivo. E c’è ancora questo da osservare: una riflessione imparziale non potrà mai trascurare quanto vi fu di positivo nell’attività di Stalin; io stesso ho accennato qui alla sua meritata vittoria nei dibattiti degli anni venti, e si potrebbero fare senza dubbio molti altri esempi. Ma l’«esigenza del giorno» è la liberazione del socialismo dalle catene dei metodi staliniani. Quando Stalin farà parte della storia, del passato, e non sarà più – come oggi – il principale ostacolo all’evoluzione futura, sarà possibile, senza troppe difficoltà, formulare su di lui un giudizio storico esatto. Io stesso ho fornito vari spunti di una valutazione storica equanime; ma essa non deve intralciare il lavoro di riforma, oggi così importante.

Si tratta di liberare quelle forze che sono contenute nel giusto metodo di Marx, Engels e Lenin. Nel suo discorso di Bucarest, Chruščëv ha chiarito l’opposizione fra metodo leniniano autentico e affermazioni dogmatiche e contingenti nel senso di Stalin, con la felice immagine che oggi Lenin tirerebbe le orecchie a chi volesse servirsi di citazioni dai suoi scritti e discorsi per proclamare l’inevitabilità delle guerre ai nostri giorni. Ma il ritorno al metodo autentico dei classici del marxismo è anzitutto un fare i conti col presente e col futuro. L’ultima ricerca marxista originale in campo economico, l’Imperialismo di Lenin, è apparsa nel 1917; l’ultima in campo filosofico, l’analisi leniniana di Hegel, è stata scritta negli anni 1914-15 e pubblicata negli anni trenta. Ma se la nostra teoria si è irrigidita, il mondo non si è fermato. Il ritorno ai metodi dei classici del marxismo serve appunto a cogliere marxisticamente il presente, qual esso è in realtà, per desumere così il criterio della condotta e dell’azione, della creazione e della ricerca, dalla realtà esattamente conosciuta, e non da una schematica «citatologia». Naturalmente questo processo è tutt’altro che semplice (anche a prescindere dagli ostacoli posti dalle istanze burocratiche). Fa parte dell’essenza dell’indagine scientifica – e della creazione artistica – che esse non possano raggiungere, per lo più, un’approssimazione massima alla realtà senza passare attraverso errori e peripezie molteplici. Poiché nel periodo staliniano l’istanza centrale doveva essere infallibile, dovevano essere ugualmente «perfette» anche le applicazioni effettuate dai piccoli Stalin. (Che questa «perfezione» e «definitività» fosse quanto mai effimera, che non di rado, dopo breve tempo, fosse condannata come deviazione, è un’altra caratteristica di questo periodo. Anche qui c’è una battuta umoristica che documenta lo stato d’animo dell’intelligentsia russa all’inizio degli, anni trenta. Usciva allora, ogni anno, un volume dell’Enciclopedia letteraria, sempre redatto nel senso della più rigorosa «perfezione». Ma prima che il testo fosse finito di stampare, quasi tutte le verità dogmaticamente fissate diventavano errori altrettanto dogmaticamente stabiliti. Così quell’opera era chiamata da tutti «Enciclopedia delle deviazioni»). Rinunciare a questa «definitività» burocraticamente decretata, discutere apertamente e pubblicamente le divergenze effettive nella scienza e nell’arte, imprimerebbe al marxismo, all’interno, uno slancio superiore ad ogni previsione, e (a differenza di quanto pensa la burocrazia culturale staliniana) non farebbe che accrescere, all’esterno, l’autorità degli studiosi e degli artisti marxisti veramente capaci.

Nel 1789, in una discussione sui cambiamenti costituzionali nel Württemberg, il giovane Hegel scriveva: «Se ha da esserci un mutamento, qualcosa ha da essere mutato». Queste parole si attagliano benissimo alla situazione attuale, e permettono di distinguere con sicurezza i due schieramenti. Poiché, dopo il XXII Congresso, è ormai impossibile evitare del tutto la critica al periodo staliniano. Questa critica è ormai generale. Ma c’è chi dice: «Sì, questo e quest’altro era sbagliato, ma la scienza e l’arte sono già in piena ripresa». E chi dice invece: «Abbiamo cominciato con la critica del passato; ora si tratta, sulla base di questa critica tuttora in corso, di creare le basi ideali e organizzative di una ripresa futura». È chiaro che i primi vogliono «cambiare» in modo che tutto resti com’era: si tratta solo di dare un’etichetta nuova a cose vecchie. Naturalmente, nel secondo caso, non si vuol dire che si debba condurre a termine un’opera di riforma i cui risultati saranno visibili solo in seguito, ad opera finita. No. Un’opera sincera di riforma può produrre nuovi risultati nella scienza e nell’arte già nel corso della lotta per gettare le fondamenta. Ma si tratta di un processo lungo, complicato e contraddittorio.

Caro signor Carocci, mi accorgo che la mia lettera è diventata spaventosamente lunga, anche se ho detto solo una piccola parte di ciò che le sue domande hanno suscitato dentro di me. La prego quindi di scusare, sia la lunghezza, che il carattere frammentario di questa lettera.

Coi miei cordiali saluti                                                                                Georg Lukács

Perry Anderson intervista Lukács (NLR)

di György Lukács

a cura di Perry Anderson

Lukács on his life and work, «New Left Review» n. 68 luglio-agosto 1971.

trad. it. di gyorgylukacs.wodpress.com

 

I recenti eventi in Europa hanno posto ancora una volta il problema del rapporto tra socialismo e democrazia. Quali sono, secondo lei, le differenze fondamentali tra democrazia borghese e democrazia rivoluzionaria socialista?

La democrazia borghese nasce con la Costituzione francese del 1793, la sua più alta e radicale espressione. Il suo principio costituente è la divisone dell’uomo nel citoyen della vita pubblica e nel bourgeois della vita privata, il primo dotato di diritti politici universali, il secondo espressione di particolari e differenti interessi economici. Questa divisione è fondamentale per la democrazia borghese quale fenomeno storicamente determinato. Il suo riflesso filosofico si riscontra in de Sade. È interessante che scrittori come Adorno si siano occupati di de Sade in quanto riflesso della Costituzione del 1793. L’idea cardine, nell’un caso come nell’altro, è che l’uomo sia un oggetto per l’uomo e l’egoismo razionale sia l’essenza della società umana. Ora, è ovvio che qualunque tentativo di ricreare nel socialismo questa forma storicamente superata di democrazia sia una regressione e un anacronismo. Ciò non significa però che le aspirazioni alla democrazia socialista debbano essere affrontate in ottica amministrativa. Il problema della democrazia socialista è un problema reale che non è stato ancora risolto, poiché essa deve essere materialista e non idealista. Mi permetta di fare un esempio. Un uomo come Guevara fu un rappresentante eroico degli ideali giacobini, le sue idee impregnarono la sua vita e la modellarono completamente. Egli non fu il primo caso nel movimento rivoluzionario. Leviné in Germania o Ottó Korvin qui in Ungheria vissero e agirono alla stessa maniera. Bisogna nutrire un profondo rispetto verso una nobiltà umana di questo tipo. Ma il loro idealismo non è quello del socialismo della vita quotidiana, che deve avere una base materiale e fondarsi sulla costruzione di una nuova economia. Tuttavia devo subito precisare che lo sviluppo economico in sé non produrrà mai il socialismo. La dottrina di Chruščëv, secondo la quale il socialismo avrebbe trionfato su scala mondiale quando gli standard di vita dell’URSS avessero superato quelli degli USA, era completamente sbagliata. Il problema deve essere posto in un modo radicalmente opposto. Si può formularlo così: il socialismo è la prima formazione economica nella storia che non produce spontaneamente il suo corrispondente “uomo economico”. Questo perché è una formazione di transizione, un interludio nel passaggio dal capitalismo al comunismo. Ora, poiché l’economia socialista non produce e riproduce spontaneamente l’uomo ad essa corrispondente, come la società capitalista generò il suo homo oeconomicus, cioè la divisione citoyen/bourgeois del 1793 e di de Sade, la funzione principale della democrazia socialista è l’educazione dei suoi membri al socialismo. Questa funzione non ha precedenti né analoghi nella democrazia borghese. È evidente che ciò che oggi sarebbe necessario è la rinascita dei soviet, il sistema di democrazia socialista che sorge ogni volta che si ha una rivoluzione proletaria: la Comune di Parigi nel 1871, la Rivoluzione russa del 1905 e la stessa Rivoluzione di Ottobre. Ma ciò non si realizza nottetempo. Il problema è che gli operai qui sono indifferenti: inizialmente essi non credono in nulla. Continua a leggere

Lukács e Gramsci: un’analisi comparativa

di Carlos Nelson Coutinho

«Critica marxista», n.1, 2012

Convergenze e differenze tra i due grandi marxisti del Novecento. Il giovanile idealismo e la critica al determinismo marxista e a Bucharin. La divergenza sul terreno della teoria della conoscenza. Ideologia come conoscenza cha ha luogo nella prassi interattiva. Non si tratta di scegliere tra Gramsci e Lukács, ma di integrarli dialetticamente per superare i limiti di entrambi.


Mi sembra indiscutibile che György Lukács e Antonio Gramsci siano, per lo meno dalla morte di Lenin, i due maggiori pensatori marxisti del XX secolo. Seppure la bibliografia sui due sia immensa (in particolare quella su Gramsci, che ha resistito meglio di Lukács all’onda antimarxista che ha accompagnato l’egemonia del neoliberalismo e del cosiddetto pensiero postmoderno), sono pochissimi i saggi dedicati esclusivamente a una comparazione tra i due autori, nella quale si discuta dei loro possibili punti di convergenza e di divergenza1.

Questa analisi comparativa tra i due giganti del marxismo è certamente necessaria per stimolare ciò che il filosofo ungherese chiamava «rinascita del marxismo», condizione necessaria per preparare la «filosofia della prassi» (come Gramsci, anche per evitare la censura, denominò il «materialismo storico») ad affrontare le sfide del XXI secolo. Tale analisi richiede un sforzo ciclopico, che non mi propongo di sviluppare qui, neanche in modo sommario. Ciò che il lettore leggerà di seguito sono soltanto appunti preliminari, che – oltre a ricordare i pochi momenti in cui i due autori si riferiscono l’uno all’altro – indicano alcuni argomenti che, secondo la mia opinione, meritano di essere oggetto di attenzione in un’analisi comparativa di maggior respiro.

Gramsci su Lukács, Lukács su Gramsci

La prima cosa da osservare è che, nonostante Lukács e Gramsci militassero nel movimento comunista legato alla Terza Internazionale, non ci fu alcun contatto personale e diretto tra di loro. Oltre a questo, essi parlano molto poco l’uno dell’altro. Questo mi sembra giustificabile nel caso di Gramsci, il quale – arrestato nel 1926 e morto nel 1937 – non poteva conoscere l’opera della maturità di Lukács, neanche dei primi saggi pubblicati all’inizio del suo esilio moscovita. È meno giustificabile nel caso di Lukács, che è vissuto fino al 1971 e, di conseguenza, avrebbe potuto leggere e studiare la prima edizione tematica dei Quaderni del carcere, pubblicata in Italia tra il 1948 e il 1951 e tradotta in differenti lingue (più accessibili a Lukács, che non leggeva bene l’italiano) negli anni seguenti.

Gramsci parla di Lukács (il cui nome è scritto erroneamente come Lukácz) una sola volta nei Quaderni, in un paragrafo scritto probabilmente nell’ottobre-novembre 1930 (un Testo A, di prima stesura) e riscritto, senza modificazioni essenziali nella parte che si riferisce a Lukács, tra l’agosto e la fine del 1932 (un Testo C, di seconda stesura). In esso sembra ovvio che Gramsci si riferisca al famoso libro lukacsiano Storia e coscienza di classe, pubblicato nel 1923, che fu duramente criticato dalle ortodossie sia della Seconda Internazionale che dalla Terza Internazionale. È certo che Gramsci non conosceva direttamente il libro di Lukács2. In effetti, nel menzionato Testo A, egli dice esplicitamente che «conosce molto vagamente le sue [di Lukács] teorie»; e, tanto qui che nel Testo C, esprime i suoi commenti in un modo cautelatamele dubitativo: «[Lukács] può aver errato e può aver ragione». Con ogni probabilità, egli ebbe conoscenza dell’opera solamente attraverso la dura condanna subita a opera della Terza Internazionale e di alcuni filosofi sovietici. Questo sembra confermato dal fatto che Gramsci si riferisce al «Prof. Lukácz», che era precisamente il modo ironico con cui egli era nominato dai suoi accusatori. Ma va osservato che – quando Gramsci ammette la possibilità che Lukács «abbia ragione» – egli prende le distanze dalla condanna del filosofo ungherese fatta in nome di una concezione del marxismo che egli respingerà fortemente nei paragrafi dei Quaderni dedicati al Saggio popolare di Bucharin.

La menzione a Lukács è fatta nel contesto di una discussione sulla nozione di «oggettività» e coinvolge la questione della dialettica della natura.

Gramsci dice:

È da studiare la posizione del prof. Lukacz verso la filosofia della praxis. Pare che il Lukacz affermi che si può parlare di dialettica solo per la storia degli uomini e non per la natura. Può aver torto e può aver ragione. Se la sua affermazione presuppone un dualismo tra la natura e l’uomo egli ha torto perché cade in una concezione della natura propria della religione e della filosofia greco-cristiana e anche propria dell’idealismo, che realmente non riesce a unificare e mettere in rapporto l’uomo e la natura altro che verbalmente. Ma se la storia umana deve concepirsi anche come storia della natura (anche attraverso la storia della scienza) come la dialettica può essere staccata dalla natura? Forse il Lukacz, per reazione alle teorie barocche del Saggio popolare, è caduto nell’errore opposto, in una forma di idealismo3.

Nella sua Prefazione autorizzata della sua opera giovanile, scritta nel 19674, Lukács sembra concordare implicitamente con la parte negativa di questo giudizio gramsciano.

È interessante osservare che questo paragrafo di Gramsci prosegue – in un passo che non appare nella prima edizione tematica dei Quaderni – con la seguente affermazione:

È certo che in Engels (Antidühring) si trovano molti spunti che possono portare alle deviazioni del Saggio. Si dimentica che Engels, nonostante che vi abbia lavorato a lungo, ha lasciato scarsi materiali sull’opera promessa per dimostrare la dialettica legge cosmica e si esagera nell’affermare l’identità di pensiero tra i due fondatori della filosofia della praxis (Q 1449).

Non sono pochi i passaggi in cui Lukács – non soltanto in Storia e coscienza di classe, ma anche nelle sue ultime opere ontologiche5 – prende le distanze dalla concezione della dialettica di Engels, a differenza di quanto faccia rispetto a quella di Marx. Abbiamo qui un punto di convergenza tra Gramsci e Lukács che merita di essere analizzato.

Anche la conoscenza testuale dell’opera di Gramsci da parte di Lukács è sommaria. Il nome del pensatore italiano apparirà nelle opere e interviste del filosofo ungherese soltanto negli ultimi anni della sua lunga vita. In effetti, solo in vecchiaia egli ebbe conoscenza diretta dei testi gramsciani. Interrogato da Leandro Konder sulla sua opinione riguardo a Gramsci, Lukács – in una lettera datata 9 agosto 1963 – afferma esplicitamente: «Su Gramsci non mi sono occupato direttamente dei suoi scritti»6. Lukács continuò a non manifestare interesse sull’autore dei Quaderni nel corso di questa corrispondenza, benché fosse nuovamente stimolato farlo da me, in una lettera del 23 ottobre 19637.

Più tardi, tuttavia, Gramsci è menzionato direttamente nell’opera lukacsiana, con simpatia, ma anche con restrizioni. Nel capitolo della cosiddetta grande Ontologia (un’opera conclusa nel 1969), dedicato al problema dell’ideologia, Lukács inizia dicendo: «Gramsci parla di un doppio significato del termine ideologia. Nel suo interessante discorso non possiamo però non rilevare una carenza, e cioè che egli contrappone la sovrastruttura necessaria soltanto alle idee arbitrarie di singole persone. Ciò nondimeno ha il merito di aver messo in evidenza il doppio significato che sta sempre nello sfondo di questo importantissimo termine. Ma purtroppo cade subito vittima di una astrazione convenzionale»8. L’osservazione di Lukács è abbastanza imprecisa e, oltre tutto, non spiega bene quale sarebbe questa supposta “astrazione convenzionale”. Tuttavia, malgrado questa relativa incomprensione, Lukács e Gramsci – come vedremo in seguito – posseggono teorie dell’ideologia essenzialmente convergenti.

In interviste concesse poco prima di morire, Lukács tornò a parlare di Gramsci. In una di esse, pubblicata soltanto postuma, Lukács afferma: «Negli anni Venti, Korsch, Gramsci e io tentammo, ciascuno a modo suo, di affrontare il problema della necessità sociale e della sua interpretazione meccanicista, che era eredità della Seconda Internazionale. Ereditammo questo problema, ma nessuno di noi – neanche Gramsci, che era forse il migliore di tutti noi – poté risolverlo. Tutti noi ci sbagliammo»9. Qui si può vedere che, a fianco dell’elogio («era forse il migliore di tutti noi»), c’è anche la condanna sommaria («tutti noi ci sbagliammo»). Però, l’aspetto più curioso è che Lukács includeva Gramsci «negli anni Venti», sembrando così ignorare che l’essenziale dell’opera teorica di Gramsci fu scritto nella prima metà degli anni ‘30. Non mi sembra difficile concludere che, se Lukács ebbe, alla fine della sua vita, un contatto diretto con i testi di Gramsci, questo contatto fu sommario e superficiale.

L’idealismo giovanile

Tuttavia, malgrado questa conoscenza reciproca così parziale e problematica, non è difficile constatare la presenza tra i nostri due autori di importanti convergenze, prima di tutto sul piano delle scelte politiche: entrambi divennero comunisti sotto l’impatto della Rivoluzione d’Ottobre e continuarono a essere comunisti fino alla fine delle loro vite. Tali convergenze si manifestano anche, seppure in modo più problematico, sul piano della teoria.

Convergenze teoriche si manifestano inizialmente in modo negativo, ossia nel fatto che sia negli scritti giovanili di Gramsci, sia nei testi politici e filosofici di Lukács subito dopo la sua adesione al comunismo è presente una concezione idealistica del marxismo. Il superamento di questa concezione idealista appare soltanto, nel caso di Gramsci, nei suoi Quaderni del carcere, la cui redazione inizia nel 1929, e nel caso di Lukács, nei saggi che il pensatore ungherese, dopo aver conosciuto i Manoscritti economico-filolofici di Marx e i Quaderni filosofici di Lenin, nell’esilio moscovita, comincia a scrivere a partire dal 193010.

Un esempio emblematico dell’idealismo giovanile di Gramsci è il suo famoso articolo La rivoluzione contro il «Capitale» del 1917, nel quale il rivoluzionario sardo saluta con entusiasmo la rivoluzione bolscevica, con lo stesso entusiasmo manifestato da Lukács appena convertitosi al marxismo. Dopo aver affermato correttamente che «[il] massimo fattore di storia non [sono] i fatti economici, bruti, ma l’uomo, ma le società degli uomini, degli uomini che si accostano fra di loro», Gramsci conclude dicendo che questi uomini «sviluppano […] una volontà sociale, collettiva, e comprendono i fatti economici, e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive, e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebullizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla volontà piace»11. Affermazioni di questo tipo si trovano in molti altri articoli gramsciani del periodo.

Lukács della stessa epoca rivela una non inferiore tendenza all’idealismo volontarista. Nella prima versione del suo famoso saggio Che cos’è il marxismo ortodosso?, pubblicata nel 1919 in un piccolo volume suggestivamente intitolato Tattica ed etica, Lukács non esita ad affermare, «La decisione precede i fatti […]. Ed ogni marxista ortodosso […] risponderà con le parole di Fichte[…] ai marxisti volgari che volessero elencargli dei “dati di fatto” […]. “E tanto peggio per i fatti”»12. La migliore caratterizzazione di questo periodo della sua produzione teorica, che si estende dal 1919 al 1926 (per lo meno) è data dallo stesso Lukács, nella prefazione autocritica che scrisse per una riedizione delle sue prime opere marxiste13. Nonostante riconosca elementi positivi a Storia e coscienza di classe, in particolare l’insistenza sul punto di vista della totalità come principio metodologico del marxismo, Lukács – sulla base della sua concezione matura dell’ontologia dell’essere sociale – afferma, riferendosi alla sua opera giovanile: «L’ambito dell’economia viene tuttavia ridotto, essendo ad esso sottratta la sua categoria marxista fondamentale: il lavoro come mediatore dal ricambio della società con la natura […] Così la concezione della prassi rivoluzionaria in questo libro [Storia e coscienza di classe] ha appunto qualcosa di eccessivo, e ciò corrispondeva bensì all’utopismo messianico del comunismo di sinistra di allora, ma non all’autentica teoria marxiana»14.

La critica a Bucharin

Ma, se il marxismo giovanile di Gramsci e di Lukács è marcato da forti tratti idealistici, non è difficile percepire che questo idealismo ha una giustificazione, sia pur relativa: esso fu il modo trovato dai due autori per contrapporsi con enfasi al marxismo positivista che predominò all’epoca della Seconda Internazionale. Le critiche all’interpretazione positivista di Marx sono esplicite nella fase giovanile dei due autori e rimarranno nel corso delle loro produzioni teoriche della maturità15. Oltre a ciò, entrambi erano convinti che la lettura “idealista” dell’eredità marxiana da loro proposta è quella adeguata al movimento comunista che inizia con la Rivoluzione bolscevica del 1917 e alla quale entrambi aderirono con entusiasmo. Per ricordare una metafora di Lenin: tentando di raddrizzare il bastone che era storto verso destra (a opera del positivismo), essi finirono con il piegarlo eccessivamente verso sinistra (cadendo nell’idealismo). Come si sa, questa versione positivista del marxismo sarebbe stata rapidamente adottata anche dalla Terza internazionale. La prima manifestazione significativa di ciò che poi sarebbe stato chiamato “marxismo sovietico”, ampiamente dominante nall’éra stalinista, appare nel 1922 con La teoria del materialismo storico di Nikolai Bucharin, allora uno dei più importanti dirigenti dell’Internazionale Comunista e dell’Unione Sovietica. È importante registrare che sia Gramsci che Lukács criticano duramente questo libro. Il pensatore italiano lo fa nei Quaderni, in note redatte all’inizio degli anni ‘30. La critica di Lukács, sotto forma di recensione, appare già nel 1925, tre anni dopo la pubblicazione del libro di Bucharin, in un momento in cui questo libro era presentato dagli ambienti legati alla Terza Internazionale come una bibbia del materialismo storico16.

La forte critica di entrambi è convergente in punti essenziali17. Per i due pensatori, Bucharin non supera il materialismo borghese («volgare») e confonde tecnica e relazioni sociali. Lukács scrive:

La teoria di Bucharin, che s’approssima in misura considerevole al materialismo borghese delle scienze naturali […] nella sua concreta applicazione alla società e alla storia fiisce non di rado col cancellare l’elemento decisivo del metodo marxista: quello di ricondurre tutti i fenomeni dell’economia e della “sociologia” alle relazioni sociali tra gli uomini. La teoria acquista l’accento di una falsa “oggettività”: diventa feticista18.

Va nello stesso senso la formulazione di Gramsci quando osserva che, nel Saggio popolare (come lo chiama Gramsci), «la funzione storica dello “strumento di produzione e di lavoro” […] viene sostituito all’insieme dei rapporti sociali di produzione» (Q 1420). E l’autore dei Quaderni prosegue:

Nel Saggio, manca una trattazione qualsiasi della dialettica. […] L’assenza […] può avere due origini; la prima può essere costituita dal fatto che si suppone la filosofia della praxis scissa in due elementi: una teoria della storia e della politica concepita come sociologia, cioè da costruirsi secondo il metodo delle scienze naturali (sperimentale nel senso grettamente positivistico) e una filosofia propriamente detta, che poi sarebbe il materialismo filosofico o metafisico o meccanico (volgare)» (Q 1424-1445)19.

In questa comune critica al “marxismo” di Bucharin sono presenti alcuni tratti fondamentali delle concezioni teoriche mature di Gramsci e di Lukács. Al contrario di quanto affermano molti studiosi (soprattutto dell’opera lukacsiana), la grandezza e l’attualità dei due pensatori non risulta comunque dai loro esercizi giovanili, ma dalle riflessioni contenute nelle opere della loro maturità20.

Divergenze

La maturità dei nostri due autori si consolida, nel caso di Gramsci, nei Quaderni del carcere, scritti tra il 1929 e il 1935; e, nel caso di Lukács, nelle sue opere posteriori al 1926, ma soprattutto al 1930. Indipendentemente dalle loro divergenze, alcune delle quali indicheremo in seguito, sia Gramsci che Lukács si impegnano a imperare le loro posizioni idealistiche della gioventù e nel trovare una corretta fondazione materialistica e dialettica per le loro riflessioni. In altre parole: cercano di raddrizzare il bastone della metafora leniniana, elaborando un corretto tertium datur tra il materialismo volgare e l’idealismo. Questa ricerca, soprattutto nel caso di Gramsci, non ebbe sempre successo. Nell’opera matura del pensatore italiano, sebbene marginalmente (e nello specifico terreno della teoria della conoscenza), continuano a essere presenti alcuni elementi del suo giovanile idealismo. Ma limitazioni in senso inverso possono essere indicate anche nella produzione teorica matura di Lukács.

Certamente, questi tratti idealistici sono essenzialmente superati nelle riflessioni ontologiche di Gramsci sull’essere sociale: in effetti, nei suoi principali concetti, soprattutto in quelli che riguardano la sfera della politica, Gramsci articola adeguatamente le categorie di teleologia e causalità, di universale e particolare, di libertà e determinismo, in un senso molto vicino a quello che Lukács formulerà nelle sue opere ontologiche della vecchiaia21. Oltre a questo, entrambi attribuiscono al concetto di prassi (Gramsci arriva anche a definire il marxismo come una «filosofia della prassi») una posizione centrale nelle loro riflessioni22. In questo terreno ontologico, pertanto, non è difficile constatare la presenza delle molte e fondamentali convergenze tra i nostri due autori.

Al contrario, sono forti le divergenze tra entrambi sul terreno della teoria della conoscenza. In un senso molto vicino a quello che Lukács difendeva all’epoca di Storia e coscienza di classe, Gramsci continua a manifestarsi, anche nei Quaderni, contrario alla teoria del rispecchiamento, ossia all’affermazione che la conoscenza umana è un rispecchiamento della realtà oggettiva che esiste indipendentemente dalla nostra coscienza. Questo rifiuto della realtà oggettiva ha una giustificazione relativa quando si pensa alle concezioni meccanico-fotografiche del rispecchiamento, delle quali non sfugge neanche il Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo (al quale Gramsci non si riferisce mai). L’autore dei Quaderni insiste correttamente, avvalendosi in molti casi delle Tesi su Feuerbach di Marx, sul ruolo attivo della soggettività nella costruzione della conoscenza, anche della conoscenza della natura. Ma, certamente, manifesta una posizione idealistica in alcuni passi dei Quaderni come, per esempio, nello scrivere che «quando si afferma che una realtà esisterebbe anche se non esistesse l’uomo o si fa una metafora o si cade in una forma di misticismo. Noi conosciamo la realtà solo in rapporto all’uomo e siccome l’uomo è divenire storico anche la conoscenza e la realtà sono un divenire, anche l’oggettività è un divenire ecc.» (Q 1418; la sottolineatura è mia). Per la concezione materialista di Lukács, al contrario, l’uomo e la conoscenza hanno un divenire proprio perché la realtà (naturale e sociale) è un divenire.

Una posizione idealistica appare anche, per lo meno in ciò che si riferisce alla conoscenza della natura, quando Gramsci definisce il suo concetto di oggettività: «Oggettivo significa sempre “umanamente oggettivo”, ciò che può corrispondere esattamente a “storicamente soggettivo”, cioè oggettivo significherebbe “universale soggettivo” (Q 1415-1416). È evidente che la legge della gravità esisteva oggettivamente prima che divenisse un “soggettivo universale”, o anche prima che Newton l’avesse formulata. Non sono pochi i passi dei Quaderni nei quali Gramsci, reagendo al materialismo volgare di Bucharin, afferma posizioni tendenzialmente idealistiche sul terreno della teoria della conoscenza23. Questa sua concezione dell’oggettività – intesa come l’“universale soggettivo” – è certamente inadeguata quanto tentiamo di concettualizzare il modo peculiare con il quale si dà la percezione dell’oggettività nelle scienze della natura.

Al contrario, una delle caratteristiche fondamentali dell’opera matura di Lukács, che mostra il suo superamento delle posizioni difese in Storia e coscienza di classe è precisamente l’adozione esplicita e reiterata della teoria del rispecchiamento. In effetti, dall’inizio degli anni ’30, Lukács insiste con enfasi che tutte le forme di conoscenza – e, pertanto, sia la scienza che l’arte – sono riflessi della realtà oggettiva, di una realtà che esiste indipendentemente dalla coscienza. Già in un saggio del 1934, egli affermava enfaticamente qualcosa che ripeterà esaustivamente nei suoi testi della maturità: «La teoria del rispecchiamento è la base comune di tutte le forme di padroneggiamento teoretico e pratico della realtà da parte della coscienza umana, ed è quindi la base anche della teoria del rispecchiamento artistico della realtà»24. Lukács ha sempre insistito che questo rispecchiamento non è meccanico-fotografico, ma implica un ruolo attivo del soggetto, in particolare del soggetto pratico. È precisamente in base a questa definizione non meccanica del rispecchiamento che Lukács, per esempio, distingue il realismo dal naturalismo, una distinzione essenziale nella sua teoria estetica della maturità. Tuttavia, la difesa di questa corretta posizione epistemologica non ha sempre evitato – in particolare nei saggi situati tra gli anni ’30 e ’50 – alcune concessioni a una concezione materialistico-volgare della teoria dei rispecchiamento, che risultano in gran parte dall’accettazione acritica delle posizioni del Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo, in un saggio della seconda metà degli anni ‘40, Lukács scrive ad esempio:

In Empiriocriticismo e materialismo – (sic!), la sua principale opera filosofica, Lenin dà una chiara definizione della differenza, creata dall’evoluzione storica, che separa la sua epoca da quella di Marx e di Engels. L’ideologia degli autori del Manifesto Comunista è un materialismo dialettico e storico, mentre all’epoca in cui si situa l’attività di Lenin, il centro di gravità del problema si sposta: l’evoluzione del pensiero è ormai imperniata su un materialismo dialettico e storico25.

Benché introduca in questo saggio varie qualificazioni dialettiche nella sua peculiare teoria dei rispecchiamento (che non si trovano nel libro citato di Lenin), l’adozione di una falsa alternativa tra materialismo e dialettica, per lo meno in ciò che si riferisce all’enfasi, rivela una fedeltà maggiore a Materialismo ed empiriocriticismo che al metodo materialistica e dialettico di Marx ed Engels. È curioso osservare che Gramsci difende una posizione simmetricamente inversa: «Si è dimenticato in una espressione molto comune che occorreva posare l’accento sul secondo termine “storico” e non sul primo di origine metafisica. La filosofia della praxis è lo “storicismo” assoluto» (Q 1437). Mi sembra evidente che Lukács e Gramsci si pongono qui in estremi egualmente unilaterali. Secondo me, la soluzione corretta del problema evocato deve essere trovata in un tertium datur che articoli, senza privilegio di una o dell’altra, le determinazioni materialista e storico-dialettica del metodo marxista, come del resto fanno i due pensatori quasi sempre nelle loro concrete riflessioni filosofiche.

Solo nelle sue opere dell’ultima fase, in particolare nell’Estetica e nell’Ontologia, Lukács propone importanti innovazioni alla sua teoria del rispecchiamento, andando al di là delle schematiche formulazioni del Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo. Non mi riferisco soltanto all’uso del concetto di mimesis (che rende più raffinata la teoria del rispecchiamento, in particolare del rispecchiamento estetico), ma soprattutto la distinzione tra rispecchiamento disantropomorfizzante e rispecchiamento antropomorfizzante26. Per il filosofo ungherese, questa sarebbe la principale differenza tra il rispecchiamento scientifico e il rispecchiamento artistico della realtà. Distinguendosi dal pensiero quotidiano, ingenuamente antropomorfico, la scienza si costituirebbe nel tentare di percepire la realtà in modo più oggettivo possibile, ossia senza alcun accrescimento o proiezione estranea all’oggetto da parte del soggetto che conosce. Lukács non esita affatto a dire che la matematizzazione è l’ideale (sebbene irrangiungibiìe) di ogni scienza, anche della filosofia e delle scienze sociali27. Nell’arte, al contrario, Lukács afferma che la percezione della realtà è sempre legata al soggetto: riprendendo un’espressione di Hegel (che aveva adottato in Storia e coscienza di classe come caratteristica della coscienza vera del proletariato), il pensatore ungherese scrive che, anche nelle oggettivazioni estetiche, abbiamo un soggetto-oggetto identico, poiché in esse si manifesta una sintesi dell’in-sé e del per-noi, il che rende l’opera d’arte un ente per-sé28.

Senza negare la giustezza essenziale della distinzione lukacsiana tra i due tipi di rispecchiamento, potremmo chiederci: le caratteristiche antropomorfizzanti che Lukács indica nelle oggettivazioni estetiche non si manifestano anche, sebbene con modalità diverse, nella filosofia e nelle scienze sociali? Non occorrerebbe anche in queste due modalità del rispecchiamento della realtà una integrazione organica di soggetto e oggetto, in modo che anche in esse si dia una relativa unità di soggetto e oggetto? Ora, l’affermazione di questa unità è tanto più plausibile quando ricordiamo, con lo stesso Lukács delle opere ontologiche, che l’attività umana – e, pertanto, l’oggetto delle scienze sociali e della filosofia – presenta due modalità di essere, o, più precisamente, di prassi, che potremmo definire come lavoro e interazione.

È certo che Lukács eviti ogni dualismo di matrice kantiana (riprodotto nella formulazione del problema in Habermas, ad esempio nella sua Teoria dell’agire comunicativo), quando mostra che entrambe le modalità dell’essere sociale hanno la loro origine ontologico-genetica nel lavoro, nel metabolismo tra l’uomo e la natura, che egli considera «il modello di ogni forma di prassi sociale»29. Ma questa posizione unitaria non porta Lukács a dimenticare che abbiamo qui un’unità nella diversità. In effetti egli dice:

[Il lavoro si caratterizza per essere] un processo fra attività umana e natura: i suoi atti tendono a trasformare alcuni oggetti naturali in valori d’uso […] Nelle forme successive e più evolute di prassi sociale accanto a questo viene maggiormente in primo piano l’azione su altri uomini, che mira in ultima istanza – ma solo in ultima istanza – a mediare la produzione di valori d’uso. Anche in questo caso il fondamento ontologico-strutturale è costituito dalle posizioni teleologiche e dalle serie causali che esse mettono in moto. Il contenuto essenziale della posizione teleologica, però, a questo punto […] è il tentativo di indurre un altra persona (o un gruppo di persone) a espletare da parte sua alcune concrete posizioni teleologiche. […] [In questo caso] il fine posto è nell’immediato finalità di altre persone30.

Abbiamo qui pertanto una decisiva distinzione tra due modalità di azione umana, entrambe costitutive, di lavoro e prassi. Proprio in base alla teoria del rispecchiamento c’è da supporre che questi due tipi di azione umana – l’azione sulla natura e l’azione sugli altri uomini – mobilitano differenti modalità di conoscenza, diverse in entrambi i casi di conoscenza dell’essere naturale (organico e inorganico). Il lavoro – il metabolismo tra l’uomo e la natura – richiede senza dubbio un rispecchiamento disantropomorfizzante della realtà; deve anche essere disantropomorfizzante la conoscenza preliminare dei motivi dell’azione di altri uomini o gruppi, sui quali voglio esercitare la mia azione teleologica – come, fra l’altro, ben sapeva Machiavelli. In entrambi i casi, l’oggettività è ciò che si pone fuori e indipendentemente dal soggetto epistemologico, del soggetto che conosce, il quale ha come meta il rispecchiaineiito di una realtà esteriore alla sua coscienza.

Un’altra situazione si dà quando cerco di determinare, con la mia azione, l’azione di altri uomini. In questo caso, devo ricorrere al mio potere di persuasione o convincimento, anche quando ricorro alla coercizione (devo convincere l’altro che è meglio sottomettersi al mio desiderio che soffrire la coercizione). Dato che in questo caso la mia azione si esercita sull’azione di altri uomini – o l’azione del mio gruppo si esercita sull’azione di altri grappi –, abbiamo il tipo di prassi che potremmo chiamare interattiva. Non è difficile, per i lettori dei Quaderni percepire che è questo tipo di prassi al quale Gramsci si dedica esclusivamente nella sua opera della maturità. I concetti di catarsi, di relazioni di forza, di volontà collettiva, di egemonia, di Stato integrale e tanti altri si riferiscono a fenomeni dell’essere sociale che si pongono nella sfera dell’interazione (o della prassi) e non in quella del lavoro.

Dopo di questa digressione, possiamo ritornare al concetto gramsciano di «oggettività», al quale mi sono già riferito. Se, come vediamo, egli ha evidentemente sbagliato nel riferirsi alle scienze della natura e anche ad alcuni aspetti delle scienze sociali, tale concetto assume un significato euristico quando ci confrontiamo con forme di interazione sociale, in particolare quelle che hanno luogo sul terreno della politica, che fu quello al quale Gramsci si dedicò più da vicino. In altre parole: se questo concetto di oggettività è sbagliato sul terreno della pura teoria della conoscenza, ha un inestimabile valore sul terreno dell’ontologia dell’essere sociale. Come già sapevano Hegel e Marx (e come riafferma il vecchio Lukács), l’essere sociale è formato dall’intima articolazione dialettica tra oggettività e soggettività, tra causalità e teleologia. Prendiamo l’esempio del concetto di egemonia, un concetto centrale nel pensiero di Gramsci. Esiste «egemonia» quando un gruppo sociale ottiene il consenso di altri gruppi per le sue proposte e, pertanto, quando l’azione teleologica del primo gruppo incide con successo in quella del secondo. Affinché ciò accada, è necessario che entrambi i gruppi condividano concetti e valori comuni – ossia, in questo caso diventa oggettivo proprio quello che è «universalmente soggettivo». Senza la condivisione di questi concetti e valori, senza la creazione di questa intersoggettività, proposte come quelle della democrazia o del socialismo, per esempio, si conservano a un livello soggettivo di intenzioni, senza acquisire condizioni di diventare una effettiva oggettività sociale. È vero – e Gramsci è cosciente di ciò – che, per aver luogo la formazione di questa «universalità soggettiva», è necessario che siano date nella realtà, indipendentemente dalla coscienza e dalla volontà degli uomini, le condizioni che permettano la loro conversione in oggettività. Ma questa conversione della potenza in atto non accade senza la costruzione di una intersoggettività fondata nella convergenza di differenti azioni teleologiche. Così con realismo Gramsci completa la sua specifica definizione di oggettività, ponendosi in relazione strettamente con la storia e con il superamento della società di classe (che è all’origine delle ideologie nel senso peggiorativo dell’espressione):

L’uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società umana, contraddizioni che sono la condizione della formazione dei gruppi e della nascita delle ideologie non universali concrete ma rese caduche immediatamente dall’origine pratica della loro sostanza. C’è quindi una lotta per l’oggettività (per liberarsi dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l’unificazione culturale del genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano “spirito” non è un punto di partenza, ma di arrivo, l’insieme delle soprastrutture in divenire verso l’unificazione concreta e oggettivamente universale e non già un presupposto unitario ecc. (Q 1418).

Ideologia

Questa divergenza epistemologica tra Gramsci e Lukács si trasforma in convergenza quando entrambi espongono i loro rispettivi concetti di ideologia. Per entrambi, senza che ciò sia formulato in modo esplicito, l’ideologia è precisamente il tipo di conoscenza che ha luogo nella prassi interattiva. In altre parole, l’ideologia non è per essi soltanto “falsa coscienza”, ma anche qualcosa che interferisce nella costruzione della vita sociale e diventa cosi una realtà socio-ontologica. Potremmo anche dire che, nella concezione dell’ideologia, Lukács mostra di aver visto – seppure senza riconoscerlo esplicitamente – la distinzione tra la conoscenza che ha luogo nel lavoro e quella che ha luogo nell’interazione sociale.

Nella tradizione marxista, possiamo constatare la presenza di due concetti di ideologia, non contraddittori, ma certamente diversi, uno di natura epistemologica, l’altro di natura ontologica. Questa dualità si trova anche nello stesso Marx. Nell’Ideologia tedesca, il concetto ha un’accezione di “falsa coscienza”, ossia, appare come la quasi sempre involontaria deformazione nella percezione della realtà, che risulta da un limitato punto di vista di classe. Una chiara esplicitazione di questa prima azione dell’ideologia appare ne Il diciotto brumaio, quando Marx afferma:

Non ci si deve rappresentare le cose in modo ristretto, come se la piccola borghesia intendesse difendere per principio un interesse di classe egoistico. Essa crede, al contrario, che le condizioni particolari della sua liberazione siano le condizioni generali, entro alle quali soltanto la società moderna può essere salvata e la lotta di classe evitata. Tanto meno si deve credere che i rappresentanti democratici siano tutti bottegai o che nutrano per questi un eccessiva tenerezza. Possono essere lontani dai bottegai, per cultura e situazione personale, tanto quanto il cielo è lontano dalla terra. Ciò che fa di essi dei rappresentanti del piccolo borghese è il fatto che la loro intelligenza non va al di là dei limiti che il piccolo borghese stesso non oltrepassa nella sua vita, e perciò essi tendono, nel campo della teoria, agli stessi compiti e alle stesse soluzioni a cui l’interesse materiale e la situazione sociale spingono il piccolo borghese nella pratica. Tale è, in generale, il rapporto che passa tra i rappresentanti politici e letterari di una classe e la classe che essi rappresentano31.

In questo passo, è fondamentale l’indicazione che l’ideologia discende non soltanto dalla capitolazione alla spontaneità immediata della vita, all’apparire fenomenico dell’economia, ma anche dalla confusione – legata a quella capitolazione – tra lo speciale e il generale, il particolare e l’universale.

Un’altra concezione appare, però, tra altri testi, nella famosa Prefazione del 1859, tanto spesso citata da Gramsci. Ricordiamo che in essa Marx scrive:

È indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo32.

L’ideologia qui diventa, indipendentemente dalla sua veridicità o falsità epistemologiche, il medium conoscitivo attraverso il quale gli uomini interferiscono nella e modificano la realtà. Malgrado siano condizionate dai «mutamenti materiali occorsi nelle modificazioni economiche della produzione», le «forme ideologiche» non sono un mero epifenomeno, ma un elemento determinante della stessa realtà sociale e della soluzione delle sue contraddizioni. Se la fede in Dio diventa un “universale soggettivo”, nelle parole di Gramsci, Dio si converte in una realtà ontologico-sociale, che mobilita l’azione pratica degli uomini, indipendentemente dal fatto che siamo davanti a una “falsa coscienza” sul piano epistemologico e dell’ontologia della natura. Allo stesso modo, indipendentemente dal fatto di esprimere sul piano gnoseologico una coscienza vera della realtà storico-sociale, il marxismo diventa soltanto una realtà socio-ontologica, con effettiva incidenza nella vita reale degli uomini, quando – nelle parole del giovane Marx – «si impadronisce delle masse», ossia quando diventa un “universale soggettivo”.

In questo modo, sia Gramsci che Lukács, rispettivamente nei Quaderni e nelle due versioni dell’Ontologia, insistono su questo carattere ontologico-sociale dell’ideologia e lo vincolano in modo esplicito alla prassi politica in quanto azione interattiva33. In effetti, mostrando che la filosofia è anche un’ideologia, Gramsci definisce quest’ultima come «unità della fede tra una concezione del mondo e una norma di condotta conforme […]. Ecco quindi che non si può staccare la filosofia dalla politica e si può mostrare anzi che la scelta e la critica di una concezione del mondo è fatto politico anch’essa» (Q 1378-1379), Nello stesso senso, Lukács definisce l’ideologia come qualcosa che trascende il livello epistemologico e si lega direttamente all’azione pratica. Egli scrive:

L’ideologia per l’appunto, pur essendo una forma della coscienza, non è affatto in tutto e per tutto identica alla coscienza della realtà, essa in quanto mezzo per combattere i conflitti sociali è qualcosa di eminentemente diretto alla prassi e quindi – naturalmente nel quadro della sua specificità – partecipa anche del carattere peculiare di ogni prassi, e cioè quello di essere orientata su una realtà da trasformare (dove, come abbiamo visto, la difesa della realtà data contro i tentativi di cambiamento ha la medesima struttura pratica34.

Pertanto, nei due pensatori, l’ideologia appare come qualcosa che trascende il livello epistemologico e guadagna una esplicita dimensione pratica, ossia ontologico-sociale35.

Infine, è opportuno notare un’importante differenza tra Gramsci e Lukács, che non è in questo caso una divergenza – ma, innanzitutto, una differente scelta del punto focale dei loro interessi teorici, differenza certamente condizionata dalle condizioni concrete in cui entrambi agirono. Come marxisti che adottano il punto di vista della totalità, entrambi trattano delle varie sfere dell’essere sociale, tra le quali la filosofia, la politica e l’arte. Abbiamo già visto le convergenze e le divergenze che accadono tra le loro rispettive concezioni filosofiche. Ma al di là delle riflessioni strettamente “filosofiche”, è facile osservare che, mentre Gramsci elabora concetti fondamentali sul terreno di ciò che egli chiama «scienza politica della filosofia della prassi», Lukács sviluppa e sistematizza preferenzialmente le categorie estetiche del marxismo. Non c’è, in tutta l’opera marxista di Lukács una trattazione teorica soddisfacente delia specificità della politica in quanto sfera relativamente autonoma dell’essere sociale. La preoccupazione del filosofo ungherese verso la politica, seppure sempre decisiva nella sua azione pratica, oscillò sul piano teorico tra due posizioni egualmente problematiche: 1) o la politica è trattata a un livello di astrazione che la svuotava della sua specificità concreta (come è chiaramente il caso di Storia e coscienza di classe e soprattutto dei suoi scritti politici immediatamente successivi alla sua adesione al comunismo): 2) o egli si limita a proclamare una ammirazione acritica per la personalità e l’opera di Lenin, dagli ultimi saggi di Storia e coscienza oli classe (superato il lussemburghismo residuale ancora presente nei primi) fino al suo libro postumo sulla necessaria democratizzazione del socialismo, dove tutti i problemi di una complessa formazione sociale in crisi sembrano poter essere risolti mediante un “ritorno a Lenin”36. Nella sua ciclopica Ontologia, Lukács non dedica più di 40 pagine all’analisi teorica della politica37 – e lo fa nel quadro di una discussione sull’ideologia, quando, anche d’accordo con la sua metodologia, avrebbe dovuto essere il contrario: non a caso, la «priorità ontologica» (per usare un suo importante concetto) riguarda la politica in quanto realtà interattiva, e non l’ideologia, che è la forma di coscienza mobilitata dalla prassi politica38.

Gramsci, al contrario, elaborò un’autentica ontologia materialistica e dialettica della prassi politica: nei Quaderni abbiamo una critica ontologica della politica che, nei suoi risultati teorici, realizza le indicazioni metodologiche della “critica dell’economia politica” marxiana, le stesse che inspirano, sul piano metodologico generale, l’Ontologia di Lukács, ossia, la trattazione dei fenomeni particolari a partire dal punto di vista della totalità e della storicità. Da questi risulta in Gramsci un ricchissimo apparato categoriale, che parte da Lenin ma va al di là di lui, apparato indispensabile per la comprensione marxista della politica; basta ricordare che Gramsci elabora una nuova teoria dello Stato e della rivoluzione, i concetti di egemonia e di società civile, di guerra di movimento e guerra di posizione, di volontà collettiva, di rivoluzione passiva, ecc.39. Cercheremmo invano simili innovazioni nell’opera di Lukács.

All’inverso, le interessanti osservazioni di Gramsci su arte e letteratura neanche lontanamente si avvicinano alla ricchezza categoriale con cui Lukács tratta le questioni dell’estetica. Di certo Gramsci, ebbe lucidità nel rifiutare il sociologismo volgare – tanto spesso confuso con il marxismo – nell’analisi dell’arte. In effetti, egli afferma:

Due scrittori possono rappresentare (esprimere) lo stesso momento storico-sociale, ma uno può essere artista e l’altro un semplice untorello. Esaurire la quistione limitandosi a descrivere ciò che i due rappresentano o esprimono socialmente, cioè riassumendo, più o meno bene, le caratteristiche di un determinato momento storico-sociale, significa non sfiorare neppure il problema artistico (Q 2187).

Non si possono neanche porre da parte le sue suggestive analisi della letteratura popolare, come le molte osservazioni sui romanzi da felleuiton. Ma Gramsci non ci fornisce le categorie che permettono di distinguere tra il vero artista e il «semplice untorello». Al contrario, esse sono ampiamente presenti in Lukács, quando tratta delle caratteristiche del realismo (in quanto diverso dal naturalismo e dal formalismo) della natura del tipico nell’arte, della differenza tra narrare e descrivere, del ruolo centrale della particolarità nel rispecchiamento estetico, della distinzione tra rispecchiamento antropomorfizzante e disantropomorfizzante, ecc.

Molte cose ancora potrebbero e dovrebbero essere dette sulla relazione tra Lukács e Gramsci. Un’analisi esaustiva comparativa tra di essi sarebbe assolutamente necessaria se volessimo superare l’impasse in cui si trova oggi il marxismo e predisporlo ad affrontare le sfide dell’attualità. Lukács e Gramsci sono indiscutibilmente parte essenziale di quel patrimonio che forma il punto di partenza per una rinascita del marxismo. Queste annotazioni avranno raggiunto il loro obiettivo se avranno convinto il lettore che non si tratta di scegliere tra Gramsci o Lukács, ma – senza dimenticare le loro divergenze – di provare a trovare i punti di convergenza che ci permettano di superare i limiti di entrambi per mezzo di una integrazione dialettica tra i loro punti forti, che sono molti.

(traduzione di Antonino Infranca)

1 Non sono pochi i libri e i saggi che parlano di Gramsci e di Lukács, ma senza che ciò implichi una comparazione sistematica tra di loro. Sul tema, ricordo due piccoli saggi: M. Löwy, Gramsci e Lukács: em direção a um marxismo antipositivista, in Id., Romantismo e messianismo, São Paulo, Edusp-Perspectiva, 1990, pp. 97-110; e G. Oldrini, Gramsci e Lukács avversari del marxismo della Seconda Internazionale, in Id., I compiti della intellettualità marxista, Napoli, La Città del Sole, 2000, pp. 89-89. C’è in ungherese una collettanea di saggi, organizzata da T. Szabó, intitolata Ellenszélben. Gramsci és Lukács – ma, Szeged, s. e., 1993, che non ho potuto consultare. Recentemente è stato pubblicato un libro di E. Alessandroni (La rivoluzione estetica di Antonio Gramsci e György Lukács, Saponara, Il prato, 2011), dedicato a una comparazione tra i nostri due autori nello specifico terreno dell’estetica: libro interessante, ma che non approfondire sufficientemente i problemi che affronta.

2 Il giovane Gramsci conobbe probabilmente alcuni brevi testi politici e un piccolo frammento di uno di essi – La questione del parlamentarismo – fu pubblicato su L’Ordine Nuovo il 12 giugno 1920, attribuito a G. Lukácz . Per una documentata ricognizione sulla conoscenza gramsciana di Lukács in quest’epoca, cfr. L’apparato critico di J. A. Buttigieg in A. Gramsci, Prison Notebooks, ed. by J. A. Buttigieg, New York, Columbia University Press, v. 2, 1996, pp. 565-567.

3 A. Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, p. 1449 (a seguire citato nel corpo del testo come Q, seguito dal numero della pagina)

4 G. Lukács, Prefazione [1967] a Id., Storia e coscienza di classe, Milano, Sugar, 1978, pp. I-LII.

5 Cfr., per esempio, G. Lukács, Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, Milano, Guerini, 1990.

6 Cfr. L. Konder, C. N. Coutinho, [Lukács] Un carteggio inedito degli ultimi anni con due intellettuali brasiliani, a cura di T. Tonezzer, in «Marx 101», 1992, n. 8, pp. 128-143.

7 Ibidem.

8 G. Lukács, Per una ontologia dell’essere sociale, Roma. Editori Riuniti, 1981, p. 445.

9 Apêndice à entrevista de G. Lukács, in E. Sader (org.), Vozes do século. Entrevistas da New Left Review, São Paulo, Paz e Terra, 1997, p. 99 (la sottolineatura è mia).

10 Dato che le rotture non sono mai drastiche, possiamo già notare tendenze al superamento dell’idealismo sia nei testi gramsciani precedenti al suo arresto (avvenuto nel 1926), sia in quelli che Lukács scrisse a partire dal suo saggio Moses Hess e la dialettica idealistica (pubblicato anch’esso nel 1926; cfr. G. Lukács, Scritti politici giovanili 1919-1928, Bari, Laterza, 1972, pp. 246-310). C’è un abbozzo di autocritica nel Gramsci della maturità quando, riferendosi ai suoi scritti giovanili, egli afferma: «io scrissi che […] la filosofia crociana poteva essere la premessa di una ripresa della filosofia dalla praxis nei giorni nostri, per le nostre generazioni. La questione era appena accennata, in una forma certo primitiva e certissimamente inadeguata, poiché in quel tempo il concetto di unità di teoria a pratica, di filosofia e politica non era chiaro in me ed io ero tendenzialmente piuttosto crociano» (Q 1233). Le autocritiche di Lukács furono molto più esplicite e reiterate: oltre alla Prefazione citata (cfr. supra n. 5), cfr., tra vari altri testi, G. Lukács, La mia via al marxismo, in Id., Marxismo e politica culturale, Torino, Einaudi, 1977.

11 A. Gramsci, La rivoluzione contro il «Capitale» [24 dicembre 1917], in Id., La città futura, Torino, Einaudi, 1982, p. 514 (la sottolineatura è mia).

12 G. Lukács, Che cos’è il marxismo ortodosso, in Id., Scritti giovanili, cit., p. 37. Nella versione rivista di questo saggio presente in Storia e coscienza di classe, cit., pp. 63-104, questo passo “fichtiano” fu cancellato, il che indica una relativa tendenza di Lukács al superamento dell’idealismo, per lo meno nella sua forma estremamente soggettivista.

13 G. Lukács, Frühschriften II. Geschichte und Klassenbewusstsein, Neuwied-Berlin, Luchterhand, 1968. Oltre a Storia e coscienza di classe, questo volume delle Werke contiene un grande numero di scritti della prima fase marxista di Lukács.

14 G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Milano, Sugar, 1978, pp. XVII-XVIII. Non è necessario ricordare che, malgrado i loro punti di contatto, le opere giovanili di Gramsci e di Lukács si pongono a un livello qualitativo abbastanza diverso. Mentre Gramsci scriveva articoli e saggi certamente interessanti (tanto più interessanti quando conosciamo la sua produzione della maturità, i Quaderni del carcere), Lukács produsse – con Storia e coscienza di classe – una delle opere filosofiche più importanti del XX secolo.

15 I saggi di Löwy e Oldrini citati supra, n. 1, richiamano l’attenzione su questo tratto comune.

16 G. Lukács, N. Bucharin: Teoria del materialismo storico, in Id., Scritti politici giovanili, cit., pp. 187-202.

17 Per un interessante parallelo cfr. A. Zanardo, Il manuale di Bucharin visto dai comunisti tedeschi e da Gramsci, in Studi gramsciani, Roma, Editori Riuniti, 1958, pp. 337-368.

18 G. Lukács, N. Bucharin…, cit., p. 191. La sottolineatura è di Lukács.

19 Nel suo famoso “testamento”, dettato nel dicembre del 1922, (quando La teoria del materialismo storico era già stato pubblicato), Lenin analizza criticamente i vari dirigenti del Partito bolscevico, candidati alla sua successione, affermando che «Bucharin [è] un validissimo e importantissimo teorico del partito […] ma le sue concezioni teoriche solo con grandissima perplessità possono essere considerate pienamente marxiste, poiché in lui vi è qualcosa di scolastico (egli non ha mai appreso e, penso, mai compreso pienamente la dialettica)». (V.I. Lenin, Le tesi di aprile e il testamento, Roma, Edizioni Alegre, 2006, pp. 34-35). Dato che il “testamento” di Lenin fu pubblicato soltanto nel 1956, né Lukács né Gramsci lo conoscevano quando formularono le loro critiche a Bucharin, sostanzialmente dirette nello stesso senso dell’osservazione fatta dal rivoluzionario russo.

20 Nel suo bel libro su Lukács Guido Oldrini osserva: «Le tesi gramsciane e lukacsiane che più contano sono il frutto non della loro gioventù, ma della loro maturità di pensiero […] questa maturità sopravviene e si consolida in entrambi, mediata da circostanze diverse, solo nel corso degli anni ‘30, dopo cioè che entrambi si sono lasciati indietro, con espressa o latente autocritica, la zavorra del loro idealismo giovanile». (G. Oldrini, György Lukács e i problemi del marxismo del Novecento, Napoli, La Città del Sole, 2009, p. 149).

21 Sulla presenza di queste categorie nelle riflessioni di Gramsci, cfr. C. N. Coutinho, Il pensiero politico di Gramsci, Milano, Unicopli, 2006, pp. 69-93.

22 Certamente, l’affermazione che il lavoro – base del metabolismo tra l’uomo e la natura – è «il modello di ogni forma di prassi sociale» è molto più presente in Lukács che in Gramsci, il quale si concentra nelle forme più sviluppate di prassi – in particolare nella prassi interattiva che caratterizza la sfera della politica –, senza vincolarle direttamente al lavoro.

23 Per una valutazione meno sommaria delle concezioni filosofiche di Gramsci, cfr. C.N. Coutinho, Il pensiero politico…, cit, pp. 69-94.

24 G. Lukács, Arte e società, Roma, Editori Riuniti, vol. 1,1977, p. 143.

25 G. Lukács, Esistenzialismo o marxismo?, s.l., Acquaviva, 1995, p. 247. [L’inversione scorretta del titolo del libro di Lenin è del traduttore italiano. N.d.T.].

26 G. Lukács, Estetica, Torino, Einaudi, 1970, pp. 105-168 e passim.

27 Ivi, p. 144.

28 Ivi, pp. 1053-1111.

29 G. Lukács, Per l’ontologia…, cit, p. 55-99.

30 Ivi, p. 55-56 (i corsivi sono miei).

31 K. Marx, O 18 brumário de Luis Bonaparte, in K. Marx e F. Engels, Obras escolhidas, Rio de Janeiro, Vitória, 1956, v. 1, p. 250 [tr. it. P. Togliatti, in K. Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 51].

32 K. Marx, Prefazione a Critica dell’economia politica, in Id., Il capitale, Torino. Einaudi, 1975, p. 957 (corsivo mio).

33 Commentando le riserve di Lukács sul concetto gramsciano di ideologia, Oldrini scrive: «Conta la concordanza [tra Gramsci e Lukács] sul punto essenziale: che, accanto al suo significato originario […] di “illusione”, di “falsa coscienza”, ideologia ne ha nel marxismo anche un altro, e decisivo: quello di “strumento della lotta sociale”» (G. Oldrini, György Lukács…, cit, p. 319). Senza negare questa convergenza non essenziale, mi sembra che Lukács sia ingiusto, quando afferma che Gramsci manifesta «una carenza» nel contrapporre «la sovrastruttura necessaria soltanto alle idee arbitrarie di singole persone». Al contrario, ciò che vediamo nel pensatore italiano è una ricca fenomenologia delle forme ideologiche, forse la più ricca che troviamo nella tradizione marxista. Basti pensare al movimento che va, all’interno di queste forme ideologiche, dal senso comune alla «filosofia dei filosofi», passando per il folclore, per il buon senso, per l’arte, per la religione ecc.

34 G. Lukács, Per l’ontologia…, cit., p. 500.

35 Un altro punto in cui Gramsci e Lukács convergono – e che meriterebbe un’analisi più attenta – è nel concetto di «catarsi». Questa convergenza risulta dal fatto che in entrambi il concetto di «catarsi» implica il passaggio dal particolare all’universale, che è per essi un tratto determinante dell’ontologia dell’essere sociale. Il concetto assume in Gramsci una dimensione essenzialmente politico-interattiva (mi si consenta il rinvio a C. N. Coutinho, Catarsi, in G. Liguori, P. Voza (a cura di), Dizionario Gramsciano 1926-1937, Roma. Carocci, 2009), mentre in Lukács è usato per definire le sfere dell’etica e, soprattutto, dell’estetica (cfr. G. Lukács, Estetica, cit., pp. 732-794).

36 Cfr. G. Lukács, L’uomo e la democrazia, Roma, Lucarini,1987. Questa “fissazione” sull’eredità di Lenin non annulla l’indiscutibile valore teorico-politico di quest’opera della vecchiaia di Lukács.

37 G. Lukács, Per l’ontologia…, cit., pp. 482 e sgg.

38 Questa inversione della «priorità ontologica» appare chiaramente quando Lukács scrive di voler «determinare teoricamente […] il posto della politica nel campo dell’ideologia» (ivi., p. 482).

39 Sulla “critica della politica”‘ in Gramsci e sui suoi concetti fondamentali, cfr. C. N. Coutinho, Gramsci, ed. cit., passim.