Film, ideologia e culto della personalità

di György Lukács

[Intervista realizzata da Guido Aristarco a Lukács pubblicata su “Cinema nuovo”, n. 188, luglio-agosto 1967].


Abbiamo rivolto a György Lukács le seguenti domande:

1. In varie circostanze, e anche di recente, lei si è riferito con insistenza ai problemi talora angosciosi che il culto della personalità ha proposto al mondo socialista. Non ritiene che nella critica a tale culto ci sia stata e ci sia tuttora una deformazione strumentale e che questa accezione abbia servito da copertura a forme revisionistiche e di sostanziale sfiducia nella metodologia marxiana?

2. Anche noi, con lei, riteniamo che la situazione culturale così come si presenta oggi, esiga una coerente, integrale, razionalmente fiduciosa ricerca marxiana. A cosa attribuire il diffondersi, fra strati intellettuali della “sinistra” di questa sorta di sfiducia nel marxismo?

3. Ci sembra che il cinema rifletta e registri abbastanza esplicitamente (in ispecie attraverso opere di giovani e delle cosiddette “nuove ondate”) tale crisi. Non crede che questa teorizzazione del disimpegno costituisca un appoggio – non sempre disinteressato – offerto alla cultura reazionaria dall’interno dello schieramento di sinistra?

4. Dei film che ella ha avuto occasione di vedere di recente, quali le sembrano più significativi nell’ambito di una indicazione rinunciataria e quali di una indicazione di prospettiva?

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Lukács sulla futurologia

di György Lukács

da Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2019.

Pubblicata in lingua originale, cioè tedesco, in Futurum, n° 4, 1970, pp. 495-506. Gli intervistatori sono Ferenc Jánossy, Mária Holló Jánossy, Jutta Matzner. L’intervista è stata concessa nel settembre 1969.

Venne pubblicata una versione in inglese in The New Hungarian Quarterly, no. 47 (vol. 13, Autumn 1972), pp. 101-107.

L’intervista è stata pubblicata in Italia per la prima volta in «Carte segrete», n. 21, 1973, col titolo Utopia e logica – Critica del futuro.

La versione che qui si presenta è tratta da Lukács parla, in cui però non si specifica se la traduzione sia nuova o se sia ripresa dalla rivista «Carte segrete». Crediamo tuttavia che la traduzione sia fatta (purtroppo malamente) dalla versione inglese. In parentesi quadre i nostri suggerimenti per la comprensione. Continua a leggere

Il sistema dei Soviet è inevitabile

di György Lukács

da Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2019.

DAS RÄTESYSTEM IST UNVERMEIDLICH“, intervista a Der Spiegel, 20 aprile 1970, n. 17, pp. 153-166. L’intervistatore è Dieter Brumm,


Spiegel – Professore Lukács, una volta Lei ha affermato che il parlamentarismo era “invecchiato in termini storico mondiali”. Successivamente Lenin corresse la sua affermazione, sostenendo che questa questione non era di natura ideologica, bensì tattica. Come valuterebbe il parlamentarismo oggi, specialmente in relazione ai paesi socialisti?

Lukács – La questione del parlamentarismo ha straordinariamente assunto le sembianze di un essere androgino, da quando Stalin iniziò la trasformazione dei resti, già corrotti, dei Consigli Centrali dei lavoratori (Soviet) in un parlamento. Secondo la mia opinione, ciò rappresentò un passo indietro, poiché il parlamentarismo è un sistema di manipolazione dall’alto. Continua a leggere

Alla ricerca della «totalità»

di Vitilio Masiello

«Il Contemporaneo-Rinascita», 30 luglio 1971.


Il marxismo di Lukács come umanesimo e ideologia della letteratura

«Abbiamo scoperto la produttività dello spirito: ecco perché gli archetipi ai nostri occhi hanno perduto, una volta per tutte, la loro oggettiva evidenza, e il nostro pensiero batte la strada senza fine di un’approssimazione mai compiuta (…). Abbiamo trovato in noi stessi l’unica, vera sostanza: ragion per cui abbiamo dovuto scavare incolmabili abissi tra conoscere e fare, tra io e mondo e spazzare via riflessivamente ogni sostanzialità posta al di là dell’abisso; ragion per cui, ancora, la nostra essenza ha dovuto per noi assurgere a postulato, scavando tra noi e noi stessi un ancor più profondo e minaccioso abisso» (Teoria del romanzo, p. 61).

Così il giovane Lukács, sotto l’influenza concomitante della contemporanea «filosofia della vita», del neokantismo e dell’idealismo «soggettivo» tedesco del primo Novecento, definiva gli estremi «esistenziali» della tragedia della moderna condition humaine, caratterizzata da profonde lacerazioni della coscienza, dalla scissione tra io e mondo, tra conoscere e fare: in definitiva da una irrisarcibile perdita della «totalità» che era stata privilegio della civiltà classica. Di qui, l’estraneità alla «vita» dell’«essenza», la nullificazione del senso dell’esistere, la rarefazione e degradazione del reale, la solitudine metafisica delle coscienze che precorrono smarrite «le loro strade abbandonate», perché «mai come oggi la natura e il destino furono così terribilmente senz’anima».

Di questa lacerata condizione esistenziale, che nello smarrimento dell’unità della coscienza, aspira tuttavia con inesausta tensione all’«unità» e alla «totalità», una condizione essenzialmente «tragica», è espressione emblematica e «forma» tipica il romanzo (per l’appunto «forma dell’epoca della assoluta peccaminosità»): «storia di una ricerca degradata (“demoniaca”)», per dirla con Goldmann, ossia di «una ricerca di valori autentici in un mondo anch’esso degradato», ruotante intorno a un eroe «problematico», la cui spasmodica aspirazione all’unità e alla totalizzazione di sé e del mondo è irrimediabilmente destinata ad infrangersi contro i limiti o – al polo opposto – contro l’incommensurabile complessità del reale.

Si tratta, com’è evidente, di una interpretazione della crisi della coscienza borghese (e della grande letteratura che la esprime), la cui efficacia suggestiva e a suo modo persuasiva è garantita, come ha mostrato Asor Rosa, proprio dal suo esercitarsi dall’interno della fenomenologia della crisi, cioè dalla radicale compromissione dell’interprete e dell’esegeta nella realtà rappresentata, da una «sintonia» di fondo tra il soggetto e l’oggetto dell’operazione critica, che innalza il soggetto più che a critico, a testimone di una lacerante vicenda storica.

Il lamento e l’amara denunzia della perdita di «ogni sostanzialità», della perdita di quell’«unità» senza la quale «non si dà più alcuna spontanea totalità dell’essere», la desolata constatazione che «gli alvei (entro cui scorrevano le acque che “hanno dissolto l’antica unità”), senza speranza asciutti hanno per sempre inciso e deturpato il volto del mondo» (Teoria del romanzo, p. 67), testimoniano apertamente la profondità della personale, autobiografica compromissione lukacsiana nella crisi culturale del primo Novecento, la sua diretta e consustanziale partecipazione ai modi e ai termini di quella crisi (dunque la matrice «decadentistica» dell’esperienza lukacsiana) e per questa via l’insorgere dialettico di una tensione di superamento che da quella matrice finisce per restare condizionata in profondità: nel senso che gli strumenti che Lukács individuerà per il superamento della crisi attraverso una «scelta di campo» alternativa, una globale alternativa «ideologica», finiranno per essere finalizzati all’obiettivo di dare una risposta alle domande e alle esigenze che proprio l’esperienza della crisi aveva al suo interno sollevato (l’«unità» e la «totalità» «ontologiche» dell’uomo e del mondo).

Voglio insomma dire (e schematizzo per necessità di rilievo e di chiarezza) che, al limite, l’esperienza lukacsiana si qualifica come l’esperienza di un intellettuale borghese che cerca nel marxismo la risposta a problemi «tipici» della cultura borghese in crisi, l’adempimento e la realizzazione di «valori» insieme promossi e delusi dalla civiltà borghese. Il modo in cui Lukács imposta il problema dell’«eredità» (soprattutto a livello di problematica letteraria, ma con inferenze e generalizzazioni assai più ampie), la massiccia e condizionante presenza dell’hegelismo (soprattutto nel Giovane Hegel) all’interno del suo marxismo maturo, la concezione stessa di un marxismo come «umanesimo», la qualità del suo storicismo «evoluzionistico», in una parola, gli aspetti più scopertamente «ideologici» della sua teoresi marxista (che certo, occorre dirlo con forza, non si esaurisce in aspetti cosiffatti, pur se essi giocano un ruolo «prospettico» non secondario e costituiscono spesso la ragione degli attriti con l’organizzazione del movimento operaio), trovano la loro ragion d’essere in un atteggiamento e in una tale prospettiva: nella tendenza, cioè, a considerare «la prospettiva culturale rivoluzionaria come inveramento del massimo umanesimo borghese» (Fortini).

Resta il fatto che l’Anima e le forme e la Teoria del romanzo elaborano compiutamente dall’interno una diagnosi della crisi come perdita dell’«unità» e della «totalità» dell’essere e del mondo, ed altresì come inesausta ed irrisolta tensione ad una totalizzazione, che è ad un tempo al di qua e al di là della crisi, retaggio «classico» da riattingere oltre le lacerazioni della civiltà borghese, in un futuro «improbabile» nella situazione data, ma probabile e «reale» una volta che si trovi la maniera di modificare alla radice l’epoca «della assoluta peccaminosità», di trasformare l’assetto stesso della società borghese.

Il problema, allora, si pone a questo più alto livello e condiziona lo sviluppo della ricerca in una duplice ma convergente direzione.

Già la Teoria del romanzo aveva istituito una omologia tra forma del romanzo e «condizione del mondo» («le categorie costitutive del romanzo… costitutivamente si fondano sulla condizione del mondo»), ossia tra ricerca «degradata» dell’eroe «problematico» e degradazione della realtà, aprendo il varco ad un’indagine di tipo sociologico che spostasse il livello dell’analisi dall’interno delle forme narrative all’esterno, alle condizioni «strutturali» che le sottendono. Il che postulava la necessità di un’analisi approfondita della società borghese in quanto incubatrice di quella crisi esistenziale che il romanzo testimoniava: un’analisi capace di individuare senza residui le ragioni oggettive delle sue disfunzioni e lacerazioni istituzionali e altresì capace di prospettare un’alternativa.

L’incontro col marxismo fornisce la risposta a tali problemi e consente di guadagnare l’altra riva, il punto di vista alternativo da cui sia possibile e la diagnosi del male e l’apprestamento della terapia. Lo strumento di una simile operazione, al duplice livello a cui essa si esercita (di analisi critica della società capitalistica e di elaborazione di un’alternativa) è costituito da Storia e coscienza di classe, che, non per nulla, orienta l’analisi critica marxistica del modo di produzione capitalistico nel solco problematico aperto dall’esperienza della crisi. Non è certo senza significato che l’asse dell’indagine sia rappresentato, in negativo e in positivo, dal problema della «totalità», che la filosofia borghese ha smarrito in conseguenza dei riflessi sovrastrutturali del modo di produzione capitalistico (pp. 35-36) e che viceversa il marxismo recupera per intero fondandone la legittimità non solo sul terreno della riconquista della dialettica hegeliana, ma sul terreno di classe, giacché «la totalità dell’oggetto può essere posta soltanto se il soggetto che la pone è esso stesso una totalità; se dunque, per pensare se stesso, il soggetto è costretto a pensare l’oggetto come una totalità. Nella società moderna soltanto le classi rappresentano questo punto dì vista della totalità come soggetto» (p. 37); e fra le classi, è il proletariato in particolare che si istituisce come soggetto-oggetto di una conoscenza totalizzante, come «totalità concreta» in quanto sintesi di soggetto e oggetto, di teoria e prassi. In questo slittamento ontologico-gnoseologico della problematica marxiana, il proletariato si istituisce come «classe rivoluzionaria non tanto per i contenuti delle lotte ch’esso può muovere all’assetto della società capitalistica, quanto per il fatto che esso solo può essere il veicolo empirico della “totalità”» (Vacca).

Al polo opposto, la reificazione, che, in quanto istituzionalmente legata alla struttura del rapporto di merce ed ai conseguenti processi di feticizzazione, è insieme portato e funzione del modo di produzione capitalistico e della società borghese, si istituisce come perdita della «totalità», come estraniazione di sé a sé e di sé agli oggetti. La separazione tra produttore e mezzi di produzione, la parcellizzazione e specializzazione del lavoro, la razionalizzazione come «precalcolabilità» del lavoro stesso, inducono deformazioni profonde all’interno della coscienza (in quanto implicano, con lo «scindersi dell’oggetto della produzione… anche la scissione del suo soggetto») e conseguentemente modificazioni delle «categorie fondamentali del rapporto immediato dell’uomo col mondo» (pp. 115-116). Insomma, «la separazione del produttore dai suoi mezzi di produzione, la dissoluzione e frantumazione delle unità produttive originarie, ecc. – tutte le premesse economico-sociali della formazione del capitalismo moderno, operano nel senso di sostituire le relazioni razionalmente reificate a quelle originarie, nelle quali si possono ancora vedere senza veli i rapporti umani» (p. 118).

Per questa via la problematica marxiana della reificazione finisce per approdare sul terreno, oggettivamente eterogeneo, di una problematica coscienziale, o, com’è stato detto «spirituale», i cui parametri son forniti dal modello di un’«umanità totale», ossia di «un’antropologia idealistica» di chiara ascendenza hegeliana (Vacca).

Al fondo di Storia e coscienza di classe, dunque, il problema dell’estraniazione come «problema fondamentale della posizione dell’uomo nel mondo e rispetto al mondo», come «categoria sociale», «l’insuperabilità della cui esistenza nelle società classiste» e la cui «fondazione filosofica», rendevano tuttavia «vicina alla condition humaine» (Prefazione all’ed. it., p. XXV). In definitiva, una risposta, o un tentativo di risposta, sul fondamento di diversi strumenti di analisi e di una diversa piattaforma «politica», ai problemi aperti dalla giovanile riflessione «esistenzialistica», dall’esperienza della crisi, dalla dialettica di «valori» (degradazione del mondo, frattura della coscienza e aspirazione verso la «totalità») di cui quell’esperienza s’era nutrita.

2 Ora, è da una simile situazione, da un cosiffatto «campo» problematico che occorre partire per intendere così nella sua pregnanza, come nella sua «ambiguità» di fondo e nei suoi vistosi slittamenti «ideologici» la teoria lukacsiana della letteratura: la quale non per caso finisce per istituirsi come «forma» di una totalizzazione positiva, come il maggior veicolo di una «rivolta umanistica» contro i processi di reificazione della società borghese. I limiti di fondo di Storia e coscienza di classe lo stesso Lukács li aveva individuati in un errore teorico (l’hegeliana identificazione di reificazione e oggettivazione) e in un vizio di prospettiva politica (un «ultrasinistrismo» settario che portava ad identificare in toto la società borghese come società «unidimensionale», irrisarcibilmente «bloccata» in uno stadio di reificazione). Una correzione della prospettiva passava dunque necessariamente attraverso la revisione dei suoi supporti teorici e politici.

Al primo livello l’«errore» veniva emendato attraverso il recupero di un punto di vista materialistico (dunque di una rivalutazione del mondo dell’oggettività) che trovava nella teoria dei «rispecchiamento» il suo punto archimedico di appoggio e nel materialismo dialettico (contraddittorietà del reale oggettivo, immanenza della dialettica ai processi reali e al mondo storico-sociale) il suo punto di approdo.

È qui che si innesta il senso e la funzione del rispecchiamento estetico come forma di rispecchiamento totalizzante, come sintesi organica e «reale» di essenza e fenomeno, come riflesso, cioè, di una «totalità concreta» (rappresentazione di una «determinata tappa concreta di sviluppo di una determinata formazione concreta», Prolegomeni, p. 249), localizzata nella categoria della «particolarità», la quale fa sì che «le determinazioni essenziali della vita intera, per quel tanto che possono trovarsi in genere in una tale cornice determinata, si esprimono nella loro giusta proporzionalità, nella loro contraddittorietà, nel loro movimento e nella loro prospettiva reali» (Prolegomeni, p. 234).

«In questo modo trova espressione l’umanesimo della rappresentazione artistica. Il particolare come categoria estetica abbraccia l’intero mondo, esterno ed interno, e proprio come mondo dell’uomo, dell’umanità: le forme fenomeniche sensibili del mondo esterno sono allora… sempre segni della vita degli uomini, delle loro relazioni reciproche, degli oggetti che mediano queste relazioni, della natura del ricambio materiale con la società umana» (Prolegomeni, p. 246).

Già dunque a livello di teoria della conoscenza o di modello «metodico» il rispecchiamento estetico comporta un superamento della reificazione, restaurando l’unità di soggetto e oggetto e ripristinando il valore del reale oggettivo come «mondo dell’uomo» e delle relazioni interumane. Non solo, ma nella misura in cui la dialettica si materializza e immanentizza nel processo storico reale, l’arte si pone come forma di rispecchiamento di una «totalità concreta» non nella sua naturalistica immobilità, bensì nel suo divenire, nella, dialettica delle sue contraddizioni, nella logica del suo sviluppo. L’arte dunque è sempre intelligenza del moto storico nelle sue autentiche linee di tendenza ed implica perciò una scelta di fronte, una presa di posizione «oggettiva» nei confronti dei «grandi problemi della vita» e delle forze reali che si contendono il campo dello sviluppo storico nella lotta permanente tra progresso e reazione («partiticità» oggettiva). È qui il fondamento del realismo come metodo ed è qui la grandezza della vera arte: «nell’afferrare i tratti decisivi nella lotta tra il vecchio e il nuovo, nel rilevare artisticamente i momenti specifici del nuovo attraverso una forma intesa a riprodurre e ad esprimere appunto questo particolare nuovo. Ciò significa che il contenuto ideale essenziale di ogni opera d’arte è una lotta di tale genere» (Prolegomeni, p. 187).

Senonché, questa irruzione del problema dei contenuti nel modello teorico del rispecchiamento estetico (sotto forma di problema della «partiticità» e della «tendenza»), mentre fornisce la chiave di volta per una lettura «a tesi» della grande letteratura realistica europea, porta come conseguenza una revisione del «settarismo» politico di Storia e coscienza di classe (cioè un intervento correttivo sul secondo «errore» che Lukács denunciava nel suo problematico libro giovanile), sul fondamento di una più storicamente articolata valutazione della dialettica di progresso e reazione all’interno di specifiche situazioni storico-sociali (delle «totalità concrete» oggetto del rispecchiamento artistico), all’interno, cioè, delle fasi di sviluppo della società borghese-capitalistica (non più riassunta univocamente sotto il segno della «peccaminosità», bensì considerata nel vivo delle sue contraddizioni), ed altresì sul fondamento della tesi della «oggettiva» qualità progressiva della vera arte (dunque del grande realismo borghese).

Al fondo, come elemento catalitico di una cosiffatta correzione di prospettiva politica, che porta alla riqualificazione della grande letteratura realistica borghese non più come coinvolta nella reificazione capitalistica, bensì come depositaria di una «rivolta umanistica» contro la reificazione, la generale situazione europea entre deux guerres, l’avvento e l’espandersi della minaccia fascista, la strategia politico-culturale determinata, sul versante marxista, dall’isolamento politico dell’Unione Sovietica e dalla necessità della edificazione del comunismo in un paese solo. Non si insisterà mai abbastanza sul condizionamento massiccio e radicale che un simile quadro politico esercita sulle scelte di politica culturale di Lukács, sullo stesso slittamento «ideologico» della sua teoresi marxista a livello specifico di problematica letteraria e più generalmente culturale, sulla sua collocazione di intellettuale marxista legato però «visceralmente» alla tradizione culturale europea, ad un codice di valori «etici» ed «umani» elaborato dalla grande cultura borghese (il suo resistente «eurocentrismo»).

È l’avvento del fascismo infatti (sintomaticamente interpretato in chiave etico-culturale come punto d’approdo dell’irrazionalismo europeo, come «distacco pseudo-rivoluzionario dal passato… dalla civiltà e dall’umanesimo», Saggi sul realismo, p. 15), che impone una nuova strategia in termini di scontro storico non più tra capitalismo e socialismo, ma tra fascismo e antifascismo, che pone all’ordine del giorno la necessità della lotta e dell’unità antifascista (cfr. il postscriptum del ’57 alla Mia via al marxismo, in Marxismo e politica culturale), che dunque impone una nuova politica delle alleanze con l’intellighentsia progressista e democratica borghese, come corrispettivo culturale della politica dei fronti popolari.

Già nel ’28, con le Tesi di Blum, Lukács aveva proposto un aggiornamento della rivoluzione proletaria e sostenuto la priorità di una «rivoluzione democratica» come più idonea all’attuale fase dello scontro politico-sociale; ed una cosiffatta prospettiva «strategica» si andrà sempre più articolando e approfondendo, intrecciandosi alla lotta contro il dommatismo e settarismo stalinista, fino a giungere, nel ’56-’57, all’affermazione della necessità di un’alleanza duratura fra forze socialiste, democratiche e borghesi contro la reazione, sul fondamento del rifiuto della tesi lassalliana secondo cui «le altre classi rappresentano di fronte al proletariato una massa reazionaria unitaria» (La lotta tra progresso e reazione nella cultura d’oggi).

La rivalutazione e il recupero dell’eredità culturale classica borghese, di una linea realistica, progressista, democratica della cultura e letteratura borghesi, prende corpo ed acquista significato organico in questa prospettiva: che rischia, occorre dirlo chiaramente, di risultare subalterna e mistificante, nella misura in cui è quella cultura che poi fornisce la direzione e le parole d’ordine della lotta antifascista, all’insegna dell’ideale «umanistico» della generica difesa dei valori umani, cioè degli ideali dell’umanesimo democratico.

Non per nulla al congresso parigino degli scrittori antifascisti del 1935 Brecht dichiarava la sua tenace diffidenza nei confronti delle «grandi parole» e dei «concetti intramontabili», che era poi diffidenza circa la possibilità di saldare la cultura borghese ad una lotta contro il fascismo, che poteva aver senso solo a patto di trasformarsi direttamente e immediatamente in lotta anticapitalistica, e cioè solo a patto di riuscire a dislocare l’intellettuale integralmente su un terreno politico e di classe (per cui concludeva il suo intervento con le parole: «compagni, parliamo dei rapporti di proprietà»).

Certo nello scontro tra Brecht e Lukács si misurava la differenza di due «mentalità, di due concezioni della letteratura e della sua funzione politica (Chiarini), ma anche la differenza di due strategie per ciò che concerne il modello di rapporto da istituire tra marxismo ed «eredità» borghese.

Qui non si vuol mettere in discussione, sia ben chiaro, la legittimità e correttezza politica della strategia dell’alleanza e dell’unità antifascista; ciò che si mette in discussione è la piattaforma su cui quell’alleanza (e il suo corrispettivo in termini di politica culturale) si realizza per Lukács, il «segno» politico-ideologico sotto cui nasce.

Giacché è indubbio che nell’opera lukacsiana successiva al ‘33 quella piattaforma va sempre più decisamente definendosi in termini di storicismo «evoluzionistico» hegeliano, di «continuità» tra marxismo e umanesimo borghese (al di qua, dunque, di ogni frattura rivoluzionaria e di ogni salto qualitativo), di blocco «democratico». E che una simile prospettiva, che offre poi la chiave di lettura e il generale parametro d’interpretazione della grande letteratura del realismo ottocentesco europeo ed altresì della letteratura del decadentismo, rappresenti un elemento di fondo, un criterio canonico e categoriale e non una scelta tattica storicamente delimitata, è testimoniato dal fatto che proprio per questa via, Lukács trova una risposta ed una soluzione definitiva al problema ontologico ed «esistenziale» che dall’Anima e le forme a Storia e coscienza di classe lo aveva travagliato: il problema della posizione dell’uomo nel mondo, dei rapporto tra soggetto e oggetto, dell’unità e totalità della persona umana. Il cerchio così si salda all’insegna dell’inveramento di un’istanza «umanistica», che ora esce dalle nebbie mitiche della «grecità» per localizzarsi nella grande letteratura del realismo europeo, e che il marxismo deve recuperare e realizzare al di là delle contraddizioni dell’universo borghese-capitalistico e della stessa crisi della coscienza borghese. Fra il sistema di valori «umani» creato dalla grande cultura borghese dell’Ottocento nel suo attrito dialettico con lo sviluppo del capitalismo, e il marxismo, si crea così un «ponte» che passa al di sopra dell’età della crisi e che salda il passato all’avvenire, nel rifiuto di ogni forma di pessimismo, di angoscia, di disperazione e nella razionale fiducia nella positività e linearità dell’evoluzione umana, nel moto costantemente ascendente della civiltà e della storia (cfr. Saggi sul realismo, pp. 12-15).

«L’humanitas, cioè l’appassionato studio della sostanza umana dell’uomo, rientra nell’essenza di ogni letteratura e di ogni arte vera; né basta, perché siano chiamate umanistiche, che esse studino con passione l’uomo… ma esse debbono contemporaneamente difendere l’integrità dell’uomo contro tutte le tendenze che la intaccano, la umiliano e la deformano» (Il marxismo e la critica letteraria, p. 33). Perciò «grandezza artistica, realismo autentico e umanesimo sono indissolubilmente uniti» ed è per l’appunto questo umanesimo «tra i principi fondamentali più portanti dell’estetica marxista», come insegnano Marx ed Engels, che per questa parte «continuarono l’opera dei massimi rappresentanti del pensiero filosofico ed estetico» (ivi, p. 53).

Si capisce in questa prospettiva come i grandi classici, Shakespeare, Goethe, Balzac, Tolstoj, finiscano per istituirsi come «guide e modelli nella lotta ideologica per la formazione dell’uomo “totale”» (Saggi sul realismo, p. 16), come alla letteratura incomba un compito di guida e d’illuminazione fondamentale, quello di realizzare il «comando d’Amleto: tenere davanti al mondo uno specchio, e, con l’aiuto dell’immagine rispecchiata, promuovere l’evoluzione dell’umanità e il successo del principio umanistico in una società di carattere così contraddittorio, che mentre da un lato crea l’ideale della totalità dell’uomo, dall’altro lato lo distrugge nella pratica» (ivi, p. 26); si capisce come la vera e grande letteratura sia sempre oggettivamente progressista. Ma si capisce anche come, in questa spirale ideologica che, di gradino in gradino, si allontana sempre più da un autentico fondamento materialistico della fenomenologia culturale, delegando ai fattori sovrastrutturali mandati prammatici e funzioni politiche in dissociazione dai fattori reali, dalle matrici strutturali dei processi storici e ideali, finisca per perdere senso e valore la grande letteratura del decadentismo, sul presupposto scopertamente ideologico di una schematica equazione realismo = socialismo, avanguardia = capitalismo. Che mentre il realismo sarebbe portatore di una «rivolta umanistica» contro la reificazione capitalistica e l’imperialismo, l’avanguardia (Kafka, Joyce, Proust, Musil), in quanto «fedele espressione di un processo di decomposizione, di un disfacimento della realtà», resterebbe paralizzata in una passiva registrazione dell’angoscia, dell’alienazione e mutilazione dell’uomo prodotte dalla società capitalistica, una registrazione del tutto priva d’alternative perché priva della «convinzione che il mondo abbia, in ultima istanza, una razionalità e un significato immanente, e che sia aperto e comprensibile all’uomo» (Il significato attuale del realismo critico, p. 47; ma cfr. p. 87 per un giudizio complessivo sui «limiti» dell’avanguardia).

Non è questione d’incomprensione, di ritardi del gusto, di educazione «romantica» e ottocentesca, che l’esperienza lukacsiana prende l’avvio dal cuore stesso della cultura della crisi, come abbiamo visto; è invece il coerente punto d’approdo di una globale collocazione ideologico-politica, che nel consapevole recupero del grande razionalismo borghese e nello innesto a questo del marxismo ha cercato l’alternativa alle lacerazioni della coscienza borghese in crisi.

Le citazioni lukacsiane e i correlativi rinvii alle pp. si riferiscono alle ed. italiane correnti. Gli autori e le opere critiche cui si fa riferimento nel testo sono: A. Asor Rosa, «Il giovane Lukács teorico dell’arte borghese», in Contropiano, I, (1968); G. Bedeschi, «Critica della società o critica della scienza in “Storia e coscienza di classe”, in Angelus Novus, 1968, nn. 12-13; P. Chiarini, Brecht, Lukács e il realismo, Bari, 1970; P. Fortini, Verifica dei poteri, Milano, 1965; L. Goldmann, Per una sociologia del romanzo, Milano, 1967; G. Vacca, Lukács o Korsch?, Bari, 1969.

Weber e Lukács

defeoicoIl saggio propone una analisi storica e teorica di alcuni temi fondamentali dell’opera di Max Weber e di György Lukács, tematizzando in termini politicamente ed ideologicamente pregnanti il rapporto oggi critico più che mai fra «scienza» e «ideologia». Sono così ricostruite e rimesse in discussione le più importanti analisi economico-sociali di Weber sul capitalismo, sullo stato, sulla razionalizzazione, sulla società industriale, sul calcolo del capitale, sul nesso capitale-monopolio, sulla burocratizzazione, sulla pianificazione, sul socialismo, ecc., nello sfondo storico concreto della crisi irrazionalistica della società borghese. La conquista di una nuova prospettiva teorica e metodologica della scienza sociale è segnata dall’analisi del marxismo di Lukács, che s’innesta direttamente, in contrasto col razionalismo maxweberiano, nell’attuale sviluppo delle scienze sociali.
Il confronto tra liberalismo e marxismo nell’epoca dell’imperialismo è analizzato e discusso ripercorrendo l’itinerario intellettuale e politico di Max Weber e György Lukács, ricostruendo le svolte teoriche e ideologiche di un confronto sempre vivo tra razionalità capitalista e rivoluzione comunista. Si esaminano quindi entrambe le prospettive per rapporto a tutte le implicazioni politiche, ideologiche e sociali della problematica dell’alienazione, della razionalità, dello sviluppo tecnico e scientifico, della lotta di classe, che in Weber e in Lukács appaiono per la prima volta nella loro specifica forma moderna

L’uomo e la democrazia

icoUn’analisi dello stalinismo (scritta nel 1968 e rimasta inedita) che è la proposta di una teoria socialista non atrofizzata dal dilemma drogato: o Bernstein o Stalin. Il presente per Lukács  ha ormai due poli: l’uomo come specie (materialmente costituita sulla terra dal mercato mondiale e dalla potenza della tecnica) e l’uomo come persona (che esiste se e quando il singolo uomo vede nell’altro la specie). Questi due poli compongono un campo di realtà sociale la cui forma adeguata è la democrazia della vita quotidiana. Si configura così un orizzonte teorico-politico che pone l’autore oltre la cultura della Terza Internazionale.

Lukács interprete di Hegel

di Nicolas Tertulian

da Percorsi della dialettica nel Novecento. Da Lukács alla cibernetica, a c. di M.L. Lanzillo e S. Rodeschini, Carocci, Roma 2011.

La filosofia di Hegel è stata un luogo centrale dell’attività di György Lukács per oltre sessant’anni, dalle prime riflessioni a margine della Fenomenologia dello spirito, conservate nei Taccuini di Heidelberg del 1910-13, fino al grande confronto con la Logica hegeliana, avviato nella Ontologia dell’essere sociale e continuato nei Prolegomeni all’Ontologia, cui Lukács lavorò fino a qualche mese prima della morte, nel 1971. In tutto il XX secolo Lukács è forse il solo filosofo ad aver interrogato con tanta insistenza l’opera di Hegel, traendone la sua fonte prima d’ispirazione in un dialogo ininterrotto che tuttavia prese talvolta la forma di una critica severa. (Qui s’impone una certa qual similitudine con il percorso intellettuale di Benedetto Croce.) La Teoria del romanzo, uno dei primi lavori importanti di Lukács, scritto nel 1914-15 e pubblicato nel 1916, si rifaceva già alla storicizzazione delle categorie estetiche posta in atto da Hegel nelle Lezioni sull’Estetica e, innanzitutto, alla distinzione hegeliana tra epopea e romanzo. Quanto poi al famoso libro del 1923, Storia e coscienza di classe, scritto negli anni di apprendistato marxista di Lukács, tutta l’argomentazione ruota intorno a categorie centrali del pensiero di Hegel (la totalità, la dialettica di immediatezza e mediazione ecc.) e culmina in una sorta di trasposizione marxista dell’ontologia hegeliana dell’identità soggetto-oggetto. È riconosciuto da tempo che, insieme al Marxismo e filosofia di Karl Korsch, Storia e coscienza di classe segnò la ripresa dello hegelismo nel pensiero ispirato a Marx. Purtroppo questo ritorno all’eredità hegeliana ebbe vita breve e fu cancellato dal marxismo staliniano1.

Ma anche il ritorno di Lukács all’attività filosofica durante l’esilio in Unione Sovietica fu segnato dal dialogo con Hegel. La prima versione del Giovane Hegel è del 1937-38; la maggior parte dell’opera polemica sulla Distruzione della ragione, pubblicata nel 1954, fu redatta negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale. Le due opere, del resto, sono complementari. Comune a entrambe è la volontà di restituire l’immagine di Hegel liberandola dai travestimenti impostile dal neohegelismo tedesco. Infatti, come è noto, Lukács scrisse Il giovane Hegel anche come contraltare alla Jugendgeschichte Hegels di Dilthey e opponendosi ai diversi tentativi di integrare Hegel nella corrente romantica tedesca. Così gli appariva inaccettabile parlare, come faceva Dilthey, di un «panteismo» e di un «misticismo» di Hegel. Da parte sua Lukács ricostruiva i nessi tra il pensiero di Hegel e la temperie filosofica uscita dalla Rivoluzione francese e dall’esperienza postrivoluzionaria. Nella Distruzione della ragione la polemica contro la tradizione della filosofia romantica tedesca riprende e si allarga, a partire dalla «intuizione intellettuale» schellingiana. Quest’opera tanto vilipesa2 contrappone all’irrazionalismo una nozione di ragione, che è strutturata essenzialmente sulla base della scuola della dialettica hegeliana. Lo si dimentica troppo spesso, ragione è per Lukács sinonimo di ragione dialettica e l’irrazionalismo è definito, nelle sue diverse varianti, come serie di reazioni all’autoaffermazione successiva della ragione dialettica.

2.1 La biografia intellettuale di Lukács è caratterizzata dallo sforzo pertinace di recuperare la ricchezza categoriale del pensiero di Hegel e di integrare le sue numerose conquiste (le «scoperte che han fatto epoca», di Hegel) nell’orizzonte di un’ontologia materialistica. Si tratti del concetto di «lavoro» – «nocciolo arborescente» della dialettica hegeliana a partire dal periodo jenese, secondo Lukács (il «fare», o l’«agire», das Tun, svolge effettivamente un ruolo centrale nella Fenomenologia dello spirito); si tratti delle «figure della coscienza» descritte da Hegel in quella prima grande opera (tra cui naturalmente l’attenzione va alla figura del padrone e del servo, ma anche in generale al processo di alienazione e recupero del soggetto, die Entäusserung und ihre Rücknahme); si tratti infine della ripresa delle «determinazioni riflessive [Reflexionsbestimmungen]» nel capitolo sulla Vera e falsa ontologia di Hegel dell’Ontologia dell’essere sociale – in ogni tappa del suo cammino intellettuale Lukács non cessa di confrontarsi con Hegel, nel costante tentativo di assimilarne l’eredità filosofica.

Naturalmente la riflessione di Lukács su Hegel è collegata al rapporto che egli ha con Marx. Anche l’assimilazione del pensiero marxiano e della sua sostanza filosofica si estende su un periodo non breve. Tra Storia e coscienza di classe (che riunisce saggi dei primi anni Venti) e la scoperta dei Manoscritti economico-filosofici nel 1930-31, questa assimilazione doveva passare per una resa dei conti con la «superhegelianizzazione di Hegel [das Überhegeln Hegels]», secondo le parole di Lukács stesso, nell’opera del 1923. Ma ci furono dei passaggi intermedi. Pensiamo ai testi importanti consacrati a Lassalle (1925), e soprattutto a Hess (1926), dove Lukács difende vigorosamente il retaggio hegeliano nel marxismo, da una parte, e mette in risalto per la prima volta il «realismo» di Hegel, dall’altra – il profondo ancorarsi delle categorie della dialettica nel divenire del reale. La lotta condotta allora, verso il 1925, contro la «fichteizzazione» di Hegel, o meglio contro un certo ritorno da Hegel verso Fichte, quale appariva negli scritti di giovani hegeliani come Moses Hess, Bruno Bauer e soprattutto Ferdinand Lassalle, anticipa per taluni aspetti il discrimen decisivo tra «vera» e «falsa» ontologia di Hegel operato dal filosofo al termine del suo percorso intellettuale: «vera» essendo l’ontologia propriamente dialettica, «falsa» quella che assoggetta lo svolgimento dell’essere ad una sistematizzazione categoriale logicistica e gerarchica. Il problema del rapporto tra l’ordine delle categorie logiche e il divenire reale della storia (tra «logica» e «storia») era già, di fatto, al centro della critica di Lukács nei confronti della «fichteizzazione» della storia negli scritti dei giovani hegeliani in deriva verso l’idealismo, tra cui Hess e Lassarle.

La celebre Versöhnung mit der Wirklichkeit, la «conciliazione con la realtà», affermata da Hegel in opposizione esplicita all’apologia del Sollen kantiano e fichtiano, importa secondo Lukács una benefica e feconda tendenza ad ancorare il pensiero filosofico nel reale e ad avvicinare logica e storia effettiva, sbarazzando l’elemento logico da fantasie e speculazioni utopiche: e ciò, nonostante gli aspetti discutibili della «conciliazione» sotto il profilo sociale e politico. Con l’accento posto sul «realismo» hegeliano contro il soggettivismo e l’utopismo fichtiano, Lukács si apre la via per mostrare un nesso organico tra il pensiero di Hegel e quello di Marx e può prendere, tacitamente, le distanze dal messianismo utopico caratteristico dei saggi raccolti in Storia e coscienza di classe.

La filosofia della storia di Fichte, quale è esposta nei Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters [I tratti fondamentali dell’epoca presente], con la caratterizzazione del presente, appunto, come «epoca della compiuta colpevolezza» e la proiezione dell’armonia in un futuro utopico, appare a Lukács come una teoria molto più astratta della concezione hegeliana della storia, in cui la filosofia deve immergersi nell’immanenza del presente e respingere ogni speculazione utopica sull’avvenire. Anche nell’opera del giovane hegeliano August von Cieszkowski, che volle opporre al pensiero contemplativo del maestro una «filosofia dell’azione», Lukács individua il tentativo di contrapporre allo storicismo di Hegel una proliferazione di categorie astratte – sinonimo, per lui, di un ritorno al moralismo e soggettivismo di Fichte. Anche Benedetto Croce rimproverava del resto a von Cieszkowski e ai giovani hegeliani la sostituzione della storia reale con una successione di categorie arbitrarie3. L’elogio lukacsiano dello storicismo di Hegel – accompagnato da una messa in guardia contro il «logicismo», o meglio contro l’assoggettamento della storia a una successione di categorie puramente logiche – non andava esente, già nel 1926, da una certa preferenza per la Fenomenologia rispetto alla Scienza della logica. La Fenomenologia, leggiamo in una nota dello studio su Moses Hess, è «essenzialmente più storica»; mentre viene respinta la riduzione della storia a logica, che avrebbe operato Lassalle.

Molto più tardi, nel capitolo su Hegel della Ontologia dell’essere sociale, ritroviamo una posizione simile. Elogio in alti toni della Fenomenologia dello spirito, nella cui concezione della storia risuona il senso di conquista del periodo napoleonico: mentre nella Scienza della logica il corso del pensiero assume un tono assai più prosaico4.

Lukács ha risentito dell’azione catalizzatrice della filosofia di Hegel nella sua propria evoluzione intellettuale – e ciò percorrendo lui stesso il cammino che va da Kant e Fichte all’autore della Fenomenologia dello spirito. L’estetica giovanile di Lukács aveva forti caratteri kantiani e neokantiani; nella Teoria del romanzo il presente era ancora detto, fichtianamente, «epoca della compiuta colpevolezza». L’influenza di Kant e di Fichte è palese anche nell’idealismo morale del saggio del 1918, pubblicato col titolo Contributo al dibattito su idealismo progressista e idealismo conservatore. E, tuttavia, già nel periodo di Heidelberg vi è una innegabile presenza del pensiero hegeliano nel lavoro filosofico di Lukács. La sua presa di posizione contro lo «spirito jahveico» (ossia il regno delle istituzioni, dello Stato, del diritto), in nome di una «seconda etica» (quella in cui esprimerebbero le esigenze pure dell’anima), è nutrita, entro certi limiti, della distinzione hegeliana tra spirito oggettivo e spirito assoluto. In uno scritto pubblicato verso la fine della sua vita Lukács afferma, d’altra parte, che quel periodo della sua evoluzione era stato sotto il segno della triade Hegel, Ady, Dostoevskij. In Storia e coscienza di classe alla dialettica hegeliana veniva tributato un trionfo filosofico, come alla potenza liberatrice dalle antinomie del kantismo e del fichtismo. A un certo punto, il nostro filosofo arriverà perfino a vedere nella polemica del bolscevico Trockij contro il riformista Kautsky un analogon politico della lotta filosofica di Hegel contro Kant.

Ma Hegel è innanzitutto, per Lukács, la grande leva del suo passaggio a Marx. Un esegeta americano, Tom Rockmore, ha voluto trovare in Fichte, invece, la chiave di volta del passaggio di Lukács al marxismo (mettendo un accento eccessivo, poi, sull’influenza esercitata dal neokantiano Emil Lask). Questo tentativo non pare convincente. Lukács abbracciò con entusiasmo, in quegli anni, la concezione della dialettica hegeliana perché essa gli appariva come il superamento della dualità tra fenomeno e cosa in sé, e offriva la possibilità di pensare le categorie come determinazioni del reale e non come «determinazioni dell’intelletto», nel senso di Kant, eliminando così lo hiatus irrationalis tra categorie del pensiero e «fatticità» delle cose, ovvero ancora il dualismo di «razionalità» delle categorie e «irrazionalità» del dato, presente tanto in Fichte quanto in Lask. Il tentativo di «fichtianizzare» Lukács spinge Rockmore a mettere in ombra il peso decisivo dell’influenza di Hegel, che precisamente permise a Lukács di liberarsi dei pregiudizi kantiani e fichtiani e di iscrivere le categorie, e il loro concatenamento, nel divenire reale5.

Hegel, e il suo rapporto con Marx, sono di nuovo al centro dell’attività filosofica di Lukács a partire dai primi anni Trenta. Questa volta, però, con premesse nuove, in seguito alla conoscenza, che Lukács guadagna a Mosca, dei Manoscritti economico-filosofici del 1844. La critica marxiana dell’identificazione, in Hegel, di alienazione (Entfremdung) e oggettualizzazione (Vergegenständlichung) è, per Lukács, una rivelazione. La distinzione tra le due resterà d’ora in poi un punto fermo. Nella «oggettualizzazione» Lukács comincia a vedere un elemento costitutivo dell’antropogenesi, del farsi-uomo dell’uomo («un ente non-oggettuale è un non-ente», aveva scritto Marx) – mentre l’«alienazione» è solo una forma particolare della oggettualizzazione, lo straniamento delle forze essenziali umane. Nella coscienza filosofica di Lukács un’ontologia materialista prende ora il posto dello hegelismo trionfale di Storia e coscienza di classe. In quest’opera, secondo l’autore, operava ancora l’identificazione non lecita di oggettualizzazione e alienazione e l’ontologia idealistica dell’identità del soggetto-oggetto.

D’ora in poi, la battaglia per il recupero dell’eredità valida di Hegel e per mettere in luce i collegamenti profondi che sussistono tra dialettica hegeliana e dialettica di Marx, al di là del «rovesciamento» che Marx avrebbe operato, dominerà l’attività del nostro filosofo, sino alla fine della sua vita. Si tratta di una battaglia condotta su più fronti. Ve ne è una pars construens, che si concretizzerà nel grande tentativo (del Giovane Hegel, 1948) di portare alla luce la genesi della dialettica hegeliana, esaminando partitamente la profonda influenza esercitata su Hegel dalla Rivoluzione francese, dall’esperienza postrivoluzionaria (il Termidoro), dal contatto con l’economia politica inglese (Steuart e Smith). Nessun altro interprete ha proceduto, prima di Lukács, a uno studio così ampio e di larga portata per contestualizzare la genesi sociale e storica della dialettica hegeliana, rivelando per esempio nessi fino allora insospettati tra le vedute economiche di Hegel (la sua presa di conoscenza della bürgerliche Gesellschaft attraverso le categorie economiche di Steuart e Smith) e le categorie centrali del pensiero dialettico. Sarebbe riduttivo, senza dubbio, dire che Lukács ha voluto spiegare la genesi della dialettica hegeliana esclusivamente con questo rapporto con l’economia politica inglese. Il sottotitolo della prima edizione del Giovane Hegel, apparsa a Zurigo nel 1948, suonava effettivamente così – Über die Beziehungen von Dialektik und Oekonomie [Sui rapporti di dialettica ed economia] ma, come risulta da una lettera dell’autore a Wolfgang Harich, del 4 maggio 1953, quando Harich preparava l’edizione pubblicata nella DDR nel 1954, quel sottotitolo era stato imposto dall’editore svizzero, Hans Oprecht. Lukács suggeriva ad Harich di tornare al titolo originale e meglio corrispondente all’intento dell’opera, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, come poi fu fatto nell’edizione della Aufbau-Verlag.

Le resistenze opposte alla ricezione del Giovane Hegel di Lukács fin dalla sua pubblicazione, e che si manifestano tuttora, come si vedrà, non possono diminuire la portata innovatrice dell’opera. In essa, per la prima volta, fu messo in chiaro il repubblicanismo profondo che ispira gli scritti di Hegel nel periodo di Berna e il potenziale emancipatorio della critica della «positività» (compresa quella della religione cristiana). In seguito, nei capitoli dedicati ai periodi di Francoforte e di Jena, un’analisi minuziosa ricostruisce la progrediente riconciliazione del giovane Hegel con la società borghese, e la fase di esitazione e transizione in cui egli venne delineando le categorie costitutive del suo pensiero (servendosi delle ricerche di Steuart e Smith). Lukács delinea un quadro amplissimo delle vedute sociali e politiche del giovane Hegel, mette in risalto la sua critica dell’ancien régime, il suo pathos antifeudale, spiega l’adesione entusiastica all’opera di Napoleone. In questo modo si rinnovava l’immagine del grande filosofo, dissipando pregiudizi invalsi e inaugurando una linea di ricerca che si sarebbe dimostrata feconda. È nel contesto di questa storicizzazione della filosofia hegeliana che vanno viste le ricerche di Lukács sugli economisti inglesi e le concezioni economiche di Hegel – di cui Lukács per primo ha mostrato il ruolo nella genesi della dialettica hegeliana6.

Le tesi sostenute da Lukács nel suo Il giovane Hegel sconvolgevano a tal punto le rappresentazioni correnti che un interprete eminente di Hegel, Benedetto Croce, presa visione del titolo dell’opera dovuto all’editore svizzero, si rifiutò di andare oltre. Indignato per delle «elucubrazioni che pretendono di mettere in rapporto la dialettica hegeliana con l’economia», il cui autore è «il noto marxista ungaro-russo Lukács », Croce si impose di non recensire l’opera (e di non leggerla). Paradosso vuole che proprio nel momento in cui scriveva queste righe, Croce si mostrasse sempre più preoccupato proprio dalla questione delle «origini della dialettica», come mostrano il suo scritto del 1949 su L’odierno rinascimento esistenzialisticodi Hegel e le successive riflessioni pubblicate col titolo Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, che giungono fino all’anno della morte, il 1952. E il paradosso consiste in questo: dopo mezzo secolo di meditazione a un dipresso ininterrotta sull’opera del filosofo che fu, come egli scrisse «mio amore e mio cruccio», sul finire della vita Benedetto Croce ricercava le origini della dialettica hegeliana non già in un processo puramente intralogico o intraconcettuale, ma in un’esperienza di carattere essenzialmente pratico. Sempre più attento al peso del «vitale» nella circolarità delle forme dello spirito (essendo il «vitale» la nuova denominazione di quello che Croce aveva in precedenza chiamato l’«utile» – il mondo dei bisogni, degli impulsi, dei desideri ecc.), l’ultimo Croce sente il bisogno di situare le origini della dialettica hegeliana nella «oscura vita pratica», e precisamente nella tensione tra le passioni e la moralità, tra la sfera dell’egoismo e quella della vita etica. In una annotazione postrema del novembre 1952 – Croce morirà qualche giorno dopo – leggiamo: «ma è certo che egli [Hegel] si rese conto dell’immenso lavoro che l’egoismo umano produce, e che non è da buttar via ma da redimere e conservare, mettendolo a servigio del bene». Il tollere contenuto nella Aufhebung hegeliana troverebbe dunque il suo principio ispiratore in un’esperienza di ordine etico. Il terreno su cui la moralità viene a crescere è la vitalità «cruda e verde, selvatica e intatta da ogni educazione ulteriore»; e la autentica scoperta di Hegel starebbe nella sfera di un’«alta Etica», là dove «la legge morale rifulge negli animi entrando in contrasto col libito individuale» – e la dialettica non altro sarebbe che l’espressione logico-concettuale di tale esperienza pratica (la «filosofia della pratica» comprende, per Croce, economica ed etica).

Forse, se Croce si fosse dato pena di leggere il libro in cui Lukács procedeva a una ricostruzione minuziosa dell’itinerario intellettuale dello Hegel giovane e della genesi tormentata della dialettica attraverso la resa dei conti con le realtà economico-sociali, avrebbe potuto riscontrarvi, in qualche misura, una conferma delle sue intuizioni. Anche per Lukács, quanto meno, le origini della dialettica non sono prioritariamente nella pura immanenza del pensiero a se stesso, ma nella sedimentazione concettuale di esperienze storico-sociali.

Nelle note autobiografiche redatte qualche mese prima della scomparsa e pubblicate col titolo Pensiero vissuto, Lukács torna a discorrere del suo Il giovane Hegel, mentre precisa quello che era stato il suo procedere nell’interpretazione dei sistemi filosofici del passato:

mostrare che le più sottili reazioni intellettuali della filosofia nei confronti del mondo scaturiscono – in ultima istanza – dalla adeguata generalizzazione delle reazioni di vita primarie (reazioni alla cerchia economica oggettiva). […] Perciò già in Hegel: in primo piano, come metodo generale, esigenza della genesi nella storia del pensiero. […] Genesi qui: più che mero sorgere, più che prima coscienza.

Il metodo con cui Lukács procede nel Giovane Hegel risulta chiaro anche dal modo in cui egli riesce a decifrare il senso di testi redatti da Hegel nel periodo di Francoforte (1797-1800), e a prima vista alquanto oscuri. Valga un esempio. Nel frammento intitolato Die Liebe [L’amore], pubblicato dal Nohl nella raccolta Hegels theologische Jugendschriften, si tratta della tensione tra un’esistenza mortificata dalla positività (l’alienazione) e un’esistenza animata dalla potenza che redime, l’amore. Ecco il passo:

Poiché questo amore rivolto all’elemento morto [um des Toten willen] è circondato solo da materia, e la materia stessa è indifferente a quell’amore […] i suoi oggetti variano, senza dubbio, ma non gli fanno mai difetto. […] Per questo l’amore non si cura di perderli, e trova la certezza di una consolazione considerando che la perdita, perché può essere risarcita, sarà risarcita. In questo modo, la materia è assoluta per l’uomo. Certo, se egli stesso non esistesse più affatto, nulla sarebbe per lui: ma perché dovrebbe egli esistere? Che egli desideri esistere, si comprende facilmente: infatti, al di fuori delle limitazioni che gli son proprie, al di fuori della sua coscienza […] è solo la sterilità del Nulla [das dürre Nichts]. Ma pensare se stesso nel nulla, è certo cosa che l’uomo non può sopportare7.

Analizzando questo frammento, Lukács vi trova la descrizione dello «stato d’animo dell’uomo medio della società borghese»: lo specchio di un esistere che si svolge entro un orizzonte privato di senso (da cui l’espressione hegeliana «das dürre Nichts» «la sterilità del Nulla»), in cui l’uomo non «intrattiene alcun rapporto effettivo e sostanziale né con le cose, né con i suoi simili, né con se stesso». Lo sforzo dell’interprete, anche qui, mira a portare alla luce lo sfondo socio-economico, i cui «morti limiti» Hegel si proponeva di spezzare, per rivivificare l’esistenza.

Il periodo di Francoforte è, secondo Lukács, un periodo di «crisi» del giovane filosofo, che posto di fronte agli aspetti contraddittori della società che lo circondava, e scontrandosi con essi, avrebbe poi cercato di darne espressione in termini filosofici. Qui il giovane Hegel si sarebbe «riconciliato» con la società borghese del tempo (quella cui opponeva invece, a Berna, l’ideale della polis antica), seguendo un cammino opposto a quello del giacobino tedesco Georg Forster, e anche a quello di Hölderlin. Sempre secondo Lukács, è in questa fase che la contraddizione comincia a delinearsi come tema fondamentale della filosofia hegeliana8.

Ma è con l’analisi del periodo di Jena e i capitoli sulla Fenomenologia, il luogo dove il leone filosofico alza ormai la sua voce, che Lukács dà la misura piena della novità del suo impianto interpretativo, che, possiamo dirlo, ha mutato il paesaggio degli studi su Hegel. Non solo le divergenze e poi la rottura con Schelling sono ricostruite a tutto tondo. Non solo Lukács ha esaminato a fondo, per primo, le concezioni economiche di Hegel espresse negli scritti e nei corsi universitari di Jena (da quello del 1803 alla Realphilosophie del 1805-06), rivelando la perspicacia straordinaria e la grande chiaroveggenza di Hegel nel formulare le categorie specifiche della società capitalistica e le sue contraddizioni (lavoro astratto, macchinismo, ruolo del denaro, effetti negativi della divisione del lavoro ecc.). Ma ancora: egli ha mostrato in concreto la genesi della categoria centrale del pensiero hegeliano in questa fase, l’alienazione [die Entäusserung], che si sostituisce ora alla vecchia Positivität, tema centrale del periodo di Berna e di Francoforte – e vi si sostituisce in base alla precisa esperienza storico-sociale del capitalismo. In modo convincente Lukács esponeva così l’interpretazione di Hegel come di un pensatore che entra nel «concime delle contraddizioni [mitten im Dünger der Widersprüche]», secondo un’espressione di Marx, per pensare la nuova società borghese nella molteplicità dei suoi elementi innovatori, ma anche delle sue disfunzioni, e senza nostalgia per il passato precapitalistico – in ciò precisamente distinguendosi dalla filosofia romantica. Hegel, è vero, non abdica all’ammirazione per la polis antica, e il liberale Rudolf Haym gli farà anzi rimprovero di spirito «antichizzante». A questa critica, Lukács risponde ironicamente: «Certo. Hegel non è Bentham». O in altre parole: Hegel teneva desto, di fronte alla nuova società borghese, lo spirito critico – era un «umanista critico», il che ispira a Lukács, suo interprete, un parallelo con le posizioni di Goethe. Il genio di Hegel si è manifestato nel dare un’espressione filosofica universale all’esperienza di una società nella quale gli individui si obiettivano in forme economiche e in istituzioni che acquistano una loro autonomia rispetto alle intenzioni dei soggetti individuali (qui origina anche la famosa «astuzia della storia») – ma che, nello stesso tempo, restano pur sempre il prodotto dell’azione di individui.

In tal modo, la Entäusserung – alienazione o esteriorizzazione – diventava, per Hegel, una categoria della storia universale. Ma va aggiunto: l’alienazione e la sua restituzione [die Entäusserung und ihre Rücknahme], perché Hegel prevede anche la soppressione dell’alienazione, identica per lui con l’oggettualizzazione, nell’identità Soggetto/Oggetto.

2.2. Jean Hyppolite, già autore di un altro lavoro standard su Hegel, Genesi e struttura della Fenomenologia dello spirito (1946), fu uno dei primi a sottolineare la novità e l’originalità dell’approccio lukacsiano, anche se il suo studio era ispirato a concezioni ben lontane da quelle di Lukács (Hyppolite era vicino alla filosofia dell’esistenza, alla famiglia spirituale cui appartennero Sartre e Merleau-Ponty). In un lungo articolo dal titolo Aliénation et objectivation: à propos du livre de Lukács sur la jeunesse de Hegel, pubblicato nel 1951 in “Études germaniques”, Hyppolite metteva in risalto il collegamento dimostrato da Lukács tra le vedute economiche e la speculazione filosofica di Hegel sul problema dell’alienazione, nonché il prolungamento delle tesi di Hegel nel pensiero di Marx.

Il capitolo lukacsiano sulle concezioni economiche di Hegel fece una forte impressione anche su Adorno, come risulta da un’annotazione scritta per il suo amico Max Horkheimer, col titolo Ad: Oekonomie und Gesellschaft heim Jungen Hegel, conservata nell’Archivio Horkheimer a Francoforte, e tuttora non pubblicata. Qui Adorno parla due volte di «grossartigem Zitat (citazione sensazionale)», riferendosi agli estratti dalle lezioni jenesi di Hegel sul carattere progressivamente meccanico dell’attività lavorativa e sul carattere reificante del denaro, ripresi e commentati da Lukács. Sembrerebbe che Adorno scoprisse qui, per la prima volta, il grande significato di questi testi hegeliani. Ma, al contrario di Jean Hyppolite, la sua reazione è fortemente negativa, come si vede dalle conclusioni della recensione privata per Horkheimer, e anche più da una lettera a Thomas Mann, del 3 giugno 1950. Secondo Adorno, Lukács studia Hegel in funzione di quello che Marx potè trarne in seguito: una prospettiva unilaterale, che impedirebbe di apprezzare il pensiero di Hegel nella sua autonomia. Hyppolite, invece, aveva scritto che «il libro di Lukács sulla giovinezza di Hegel offre al lettore tutt’altro che un’opera di partito preso, mirante a costringere in uno schema fisso una filosofia mal costituita per entrarvi». Anche Eric Weil, nella recensione del Giovane Hegel per la rivista parigina “Critique”, non priva di riserve e note critiche, sottolineava però in apertura che «ogni futura interpretazione dovrà tenere conto delle tesi che sono argomentate in quest’opera». È probabile che nelle espressioni acide di Adorno nella lettera a Thomas Mann9 si manifesti un certo risentimento del futuro autore della Dialettica negativa nei confronti del marxismo lukacsiano. Adorno era convinto che, diventando militante comunista, Lukács avesse abbandonato la sua libertà di pensiero, facendo il sacrificium intellectus per degli schematismi di parte. Obnubilato da risentimenti che si devono pur dire «ideologici» nel senso tutto negativo che Adorno dava a questo termine, egli giungeva, nella recensione privata per Horkheimer, a conclusioni grottesche: nel Giovane Hegel Lukács avrebbe evitato di cercare «i motivi materialistici nella Logica e Metafisica di Hegel […] per paura dei Bonzi», cioè dei funzionari di partito. Eppure, basta leggere le pagine relative alla teleologia nella Logica hegeliana, e al loro legame con l’analisi del lavoro presentata nelle lezioni jenesi, per rendersi conto di come, appunto, Lukács abbia largamente messo in risalto i «motivi materialistici», o meglio i germi di materialismo, contenuti nelle analisi di Hegel! Le avventure del libro di Lukács prima della pubblicazione non potevano, del resto, esser note ad Adorno. Il manoscritto, terminato nel 1938, era stato dapprima presentato come tesi di dottorato all’Istituto di Filosofia dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, nel 1942. La discussione accademica si fece a Taškent, dove i filosofi era stati evacuati durante la guerra. Ma nell’URSS il libro non venne pubblicato. Di fronte al verdetto di Stalin e Ždanov contro la filosofia hegeliana, secondo cui questa filosofia era espressione della reazione aristocratica contro la Rivoluzione francese (!), Lukács preferì tenere il manoscritto nel cassetto10. Così l’opera venne pubblicata solo dieci anni dopo la conclusione del manoscritto, nel 1948, e dapprima solo in Svizzera. Un articolo di Wolfgang Harich, che prese poi l’iniziativa della pubblicazione nella RDT (Aufbau-Verlag, 1954), riferisce le resistenze alla pubblicazione negli ambienti filosofici ufficiali del tempo. Una traduzione in Unione Sovietica si ebbe solo decenni dopo. Insomma: col mettere a valore l’eredità hegeliana presente nel marxismo, il Giovane Hegel dava duri colpi agli stereotipi del marxismo-leninismo ufficiale.

Jean Hyppolite non sbagliava, nella recensione del 1951: l’interpretazione lukacsiana di Hegel dava prova di grande indipendenza di spirito11. Ma, nella seconda parte del suo scritto, Hyppolite sollevava una questione cruciale dell’interpretazione del rapporto tra Hegel e Marx. È effettivamente fondata la critica marxiana secondo cui Hegel avrebbe identificato alienazione e oggettualizzazione? E quale fondamento aveva, a sua volta, l’adesione integrale di Lukács a questa lettura? Il capitolo conclusivo sulla Alienazione come categoria filosofica centrale della Fenomenologia dello Spirito riprende, infatti, e sviluppa la critica marxiana, nei Manoscritti del 1844, alla identità di «alienazione» e «oggettualizzazione» nella Fenomenologia. Queste riserve di Hyppolite si comprendono meglio se si tiene presente la sua tendenza a un’interpretazione della filosofia di Hegel come «pan-tragismo». Facendo dell’alienazione un elemento consustanziale all’esistere umano (e non, come in Marx e in Lukács, l’espressione di stadi storici transeunti), il pensiero di Hegel sarebbe giunto a cogliere in profondità i dilemmi e le antinomie essenziali della condizione umana. In questa lettura di Hegel, il filosofo francese non si separava soltanto dall’interpretazione di Lukács che, con Marx, relativizza l’alienazione in quanto figura di una fase storica, e dunque stadio particolare, distinguendola dall’oggettivazione, condizione strutturale dell’attività umana, e che – ancora con Marx – respinge per questa via l’idealismo di Hegel: di più, Hyppolite manifestava in questo modo le sue proprie affinità con la filosofia dell’esistenza. In effetti, il «peccato», per Kierkegaard, la Entfremdung (alienazione), per Heidegger, sono consustanziali all’esistenza umana. E Hyppolite parla, in questa stessa vena, di «alterità insormontabile» dell’esistenza, di una «tensione inseparabile dall’esistenza»; e difende dunque, contro Marx e Lukács, la nozione hegeliana di oggettualizzazione che implica sempre alienazione. Echeggiano qui grandi motivi della filosofia esistenzialista: l’uomo è «gettato [geworfen]» in un mondo che gli è ostile. La fiducia in un «progresso» che possa abolire l’alienazione è solo un miraggio. Jacques D’Hondt, che di Hyppolite fu discepolo e amico, ricordava le sue discussioni col maestro, in conclusione di una bella conferenza nel nostro seminario all’École des hautes études en sciences sociales: Hyppolite sosteneva con Hegel, lo Hegel di Lukács, ma contro Marx e contro Lukács in quanto marxista, che

ogni parola viva si cristallizza in formule raggelate, che ogni idea creativa degrada poco a poco nel dogma, che ogni attività spontanea finisce in cieco meccanismo, che ogni fermentazione soggiace alla stagnazione. […] C’è, nell’esistenza, una fatalità tragica12.

A quell’articolo di Hyppolite Lukács non rispose direttamente. Ma nell’introduzione del 1954 per la nuova edizione del Giovane Hegel si legge un giudizio aspro della tendenza a volgere il senso dell’opera di Hegel nella direzione di una filosofia dell’esistenza, tendenza che prevaleva in Francia nel dopoguerra. Qui, per esempio, veniva citato proprio il libro di Hyppolite sulla Fenomenologia dello spirito. La comprensione mostrata da Hyppolite per il lavoro di Lukács, nonostante ogni riserva, non è stata contraccambiata. Ma occorre comprendere, a nostra volta. Lukács si sentiva impegnato in una vera e propria battaglia, con una posta di grande peso: restituire il senso autentico dell’opera di Hegel che ai suoi occhi prefigurava quella di Marx e ne era perciò inseparabile. L’innesto di un pantragismo a toni esistenziali sul tronco del pensiero di Hegel gli appariva, in questo contesto, inammissibile. Inoltre la Hegel renaissance francese del dopoguerra richiamava a Lukács il cattivo ricordo di talune tendenze del neohegelismo tedesco nel periodo tra le due guerre, anche se sottolineava egli stesso le differenze. Nella Distruzione della ragione Lukács mette in risalto, nel pantragismo sostenuto da Hermann Glockner, una torsione e un travisamento dell’opera di Hegel nella direzione di Schopenhauer, Nietzsche e Heidegger, e tende a mostrare l’incompatibilità della nozione hegeliana di «tragico» tanto con il tragico «cosmico» in Schopenhauer che con lo amor fati nietzscheano e il pessimismo di Heidegger. È possibile, infine, che la presa di posizione del 1954 contro ogni lettura esistenzializzante dell’opera di Hegel tenesse presente anche il libro di Kojève, Introduction à la lecture de Hegel, il cui autore non faceva mistero del proprio debito verso Heidegger; ed è certo che Lukács pensava anche a Jean Wahl e al suo libro del 1929 Le malheur de la conscience dans la philosophie de Hegel, menzionato nel Giovane Hegel, ma proprio per criticare la tendenza ad assimilare Hegel a Kierkegaard.

La giusta comprensione della filosofia di Hegel era per Lukács una questione tanto più essenziale, in quanto la sua stessa biografia intellettuale vi era impegnata profondamente. Abbiamo già visto che la questione del rapporto tra oggettualizzazione e alienazione era stata decisiva quando si trattò, per Lukács, di prendere le distanze dalla sua celebre opera giovanile, Storia e coscienza di classe. La nuova lettura lukacsiana di Hegel, concretizzata dapprima nel libro sul Giovane Hegel, poi nell’Ontologia dell’essere sociale (per tacere della Estetica, dove i motivi hegeliani non si contano), veniva ad essere per il filosofo un punto di riferimento cruciale, da cui dipendeva l’elaborazione della sua propria filosofia.

Uno dei temi centrali della riflessione di Lukács è rimasto sempre quello della dialettica di soggetto e oggetto. Ripercorrendo punto per punto il cammino giovanile di Hegel, Lukács potè recuperare la straordinaria ricchezza delle analisi che Hegel dedicò all’alienazione del soggetto nel mondo: il superamento dell’immediatezza naturale, il ruolo delle mediazioni e della «riflessione», la scoperta del «concime delle contraddizioni», la superiorità nel tempo dei mezzi sullo scopo13, la teleologia che si fonda saldamente nella causalità, il ruolo della «astuzia della ragione». Esemplare è l’interpretazione, nel Giovane Hegel, delle pagine famose della Fenomenologia sulla dialettica di servo e padrone. Il padrone, che non ha contatto effettivo col mondo se non tramite il servo, svolge, secondo Lukács lettore di Hegel, un ruolo meramente episodico; è soltanto il servo, messo di fronte per definizione alla durezza del reale, sul quale agisce col lavoro, che ha un ruolo fecondo e duraturo. Questa interpretazione è stata contestata vivacemente, tra gli altri, da Guy Planty-Bonjour: alcuni vi hanno visto un semplice travestimento marxista delle riflessioni di Hegel. Per Lukács si trattava innanzitutto di far emergere la portata filosofica dell’analisi di Hegel. Andava messo in luce il senso acuto della densità del reale, della sostanzialità del mondo che Hegel ebbe; la sua grande apertura all’oggettività, l’accento da lui posto sull’alienazione e il suo ruolo; ciò fatto, si poteva mostrare conclusivamente quello che separava radicalmente Hegel dai suoi contemporanei, Kant e Fichte, e anche dal suo già alleato Schelling. Nella lettura lukacsiana il soggetto in Hegel è un soggetto saturo di determinazioni del mondo obiettivo, profondamente radicato nell’eteronomia del mondo: ed è solo l’idealismo consustanziale della sua filosofia che spinge Hegel a far riassorbire infine l’alienazione in una mistica identità di Soggetto e Oggetto. Da parte sua Lukács ha privilegiato l’idea di un’eterogeneità irriducibile di soggetto e oggetto. Tra l’uno e l’altro, nel suo pensiero, vi è una tensione dialettica perpetuamente rinnovata. L’alienazione non è perciò che una delle forme, storicamente circoscritte, dell’oggettualizzazione; e si lascia la porta aperta all’uscita da essa tramite il moto delle contraddizioni e delle mediazioni.

2.3. Il lungo periplo di Lukács attraverso la filosofia classica tedesca comprende una serie di scelte. A favore di Fichte nella sua disputa con Kant; a favore di Schelling nella discussione con Fichte; e, finalmente e soprattutto, a favore di Hegel e delle acerbe critiche da lui rivolte a quei suoi tre grandi predecessori. Ma non si tratta di una semplice linea di storiografia filosofica. Qui, Lukács gettava le basi di una concezione della filosofia, che si sarebbe prolungata e compiuta nell’idea di una ontologia dialettica. Nelle polemiche ora ricordate, che scandivano le tappe di sviluppo della filosofia classica tedesca, Lukács ritrovava le tappe in cui si preparava un pensiero ulteriore, che fu poi di Marx. Così le espressioni severe di Hegel contro l’idealismo soggettivo di Kant e di Fichte, la critica hegeliana dell’«intuizione intellettuale» di Schelling, la superiorità della nozione hegeliana di assoluto (fondata sul principio dell’«identità della identità e della non-identità», e sul divenire incessante del reale) su quella di Schelling (semplice unità delle contraddizioni, che porterebbe alla loro estinzione), in ognuno di questi punti si ritrovano, sotto la penna di Lukács, altrettanti argomenti a favore di una nuova concezione del rapporto soggetto-oggetto, capace finalmente di render ragione dell’oggettività e del suo ruolo. Nella conclusione del Giovane Hegel Lukács non esita ad affermare che il merito storico della lotta di Hegel contro il «trascendentalismo» kantiano e fichtiano, e contro la «intuizione intellettuale», consiste nell’aver limitato quanto possibile le prerogative della soggettività trascendentale e ampliato quanto possibile (entro i limiti dell’idealismo) l’apertura verso il divenire del mondo oggettivo.

In questa prospettiva diventa comprensibile la polemica senza quartiere di Lukács contro le tendenze invalse nel neohegelismo tedesco della prima metà del secolo: minimizzare la distanza tra Hegel e i filosofi suoi contemporanei, instaurare una continuità tra Kant e Hegel, mettere in ombra la divergenza delle loro filosofie e, al limite, integrare Hegel nel quadro delle filosofie romantiche. Marxista e filosofo, Lukács era convinto che tutto ciò costituisse una deformazione grave dell’opera di Hegel, con l’eliminazione, come sbocco, della sua novità filosofica essenziale – l’elaborazione di una logica dialettica. Assai critico fu però Lukács anche nei confronti di Julius Ebbinghaus, che si sforzava di ricondurre Hegel agli sviluppi del kantismo14. E da respingere era, per Lukács, la posizione non troppo dissimile di Dilthey, che peraltro ricusava in radice la dialettica e la «speculazione» hegeliane, rifacendosi alla critica di Trendelenburg. Ma le folgori della critica lukacsiana andavano soprattutto contro Richard Kroner ed Hermann Glockner: il primo per aver sostenuto l’equazione «dialettica = irrazionalismo»; il secondo per aver continuato lo stesso orientamento, ma in peggio: contaminatici di hegelismo e Lebensphilosophie tramite successori di Hegel come Friedrich Theodor Vischer, che ne banalizzavano e svigorivano il pensiero, fino a costruire, sull’asse del preteso «pantragismo» hegeliano, una tradizione «autenticamente tedesca»15.

Il capitolo sul neohegelismo nella Distruzione della ragione costituisce un parallelo e una prosecuzione della lotta condotta nel Giovane Hegel contro gli sforzi dei nazional-liberali e dei conservatori tedeschi che avevano voluto incorporare Hegel nella loro tradizione. C’era stata una volontà di «annessione» di Hegel da parte della destra tedesca, e Lukács ne era consapevole: lo mostrano le sue critiche contro la tesi della continuità tra spirito hegeliano e opera di Bismarck, variamente sostenuta da Friedrich Meinecke, Franz Rosenzweig o Hermann Heller. Contro l’amalgama di Hegel e Bismarck, Lukács fa valere instancabilmente i segni delle tracce profonde, nel pensiero di Hegel, della Rivoluzione francese e dell’azione di Napoleone; e mostra che ancora l’ultimo Hegel, lo Hegel «prussiano», non ha nulla in comune con la Realpolitik bismarckiana. Lo Hegel letto da Lukács è un filosofo profondamente anti-reazionario, un teorico per eccellenza dell’emancipazione. Le ricerche di Jacques D’Hondt in Francia e di Domenico Losurdo in Italia, per tacer d’altri, hanno portato avanti l’indagine nella direzione avviata da Lukács, e sono giunte a notevoli risultati.

Era inevitabile che l’interpretazione lukacsiana di Hegel, che veniva ad abbattere tutto un ammasso di pregiudizi accumulatisi nella tradizione liberale-conservatrice – senza parlare delle mistificazioni nazionalsocialiste: ma si vedano le pagine della Distruzione della ragione sul libro di Franz Böhm, Anti-cartesianismus –, era inevitabile che questa interpretazione suscitasse reazioni violente della parte contraria. Particolarmente interessante è la reazione di Carl Schmitt, anche se questo celebre giurista e teorico della politica, pur richiamando spesso Hegel nei suoi scritti, non ha mai pubblicato un lavoro d’insieme sull’autore della Filosofia del diritto. Sappiamo dalle note messe in carta da Schmitt nel suo Glossarium tra il 1947 e il 1951 (e pubblicate postume nel 1991), e che contengono varie osservazioni sul Giovane Hegel di Lukács, che Schmitt lesse attentamente il volume subito dopo la prima pubblicazione nel 1948. D’altra parte Schmitt cita varie volte Storia e coscienza di classe, che conosceva bene, e nella seconda edizione del suo libro Il concetto del politico (1932) si trova il passo famoso, di cui Karl Löwith fece poi esergo, sulla «migrazione» dell’opera di Hegel a Mosca attraverso Marx e Lenin, con riferimento specifico a Lukács, che incarnava, per Schmitt, la vivente attualità di Hegel attraverso il marxismo. Ora, Löwith ha scoperto che nella successiva edizione del 1933, con i nazisti al potere, Schmitt elimina il passo, e lo sostituisce con poche righe assai sgradevoli sulla sua «bestia nera», il giurista conservatore di origine ebrea Friedrich Julius Stahl, che aveva avuto la tracotanza di polemizzare con il «tedesco» Hegel. Tornando al Glossarium di Schmitt, è chiaro che il Giovane Hegel lukacsiano irritò profondamente questo suo lettore, che in una annotazione del 10 aprile 1949 si augura di poter sottrarre Hegel al «prete maligno [boshaften Priester]», Lukács, che l’aveva installato nel suo tempio marxista. E ancora, Schmitt fa rimprovero ai tedeschi di aver gettato il buio su Hegel nel XIX secolo, preferendogli Schopenhauer, e di aver poi lasciato che l’influenza di Hegel scorresse nei rivi del leninismo e del mussolinismo. Soprattutto, però, il disappunto che la lettura del Giovane Hegel provoca in Schmitt è dovuto alla dimostrazione di quanto essenzialmente la filosofia di Hegel fosse una filosofia dell’immanenza, la cui logica interna (il principio dell’identità dell’identità e della non-identità) toglieva ogni base al bisogno di salvazione [Erlösung] grazie al Trascendente16. Il cattolico Schmitt non fa mistero della sua irritazione per l’ateismo esoterico che si mostra in filigrana nelle pagine di Hegel, anzi, alludendo ad un personaggio di una novella di Gottfried Keller, parla dello «ingiusto Kammacher, Hegel», che «purtroppo» esiste davvero, e che è preso per testimonio da Lukács. Schmitt vorrebbe che all’«Epimeteo eraclitista», Hegel, si opponesse ora un «Epimeteo cristiano»: in altre parole, alla sfida presentata dal libro di Lukács bisognava rispondere con una ripulsa verso Hegel stesso. Poiché, ponendo il «nulla» all’inizio del «divenire», Hegel avrebbe agito come un «nichilista», e il suo pensiero era una caduta [ein Abfall] rispetto alla creazione divina affermata dal cristianesimo17.

Carl Schmitt, del resto, esponeva con grande lucidità il ruolo della controversia su Hegel nello scontro ideologico del tempo. Valga per tutti il suo scritto del 1952 per il settantesimo compleanno di Hans Freyer, pubblicato nella rivista “Christ und Welt” del 25 luglio di quell’anno, sotto il titolo Die andere Hegel-Linie. A quello che chiama il «monopolio» dell’eredità hegeliana rivendicato dal marxismo «fino a Lenin e Stalin» (Lukács non è citato, ma implicitamente presente), Schmitt vuole contrapporre un’altra tradizione interpretativa, una linea «Hegel-Dilthey-Freyer». Questa volta, però, si tratta di guadagnare Hegel a un’altra concezione schmittiana, quella del Kathekon nella storia, anche appoggiandosi a un’espressione attribuita a Nietzsche, che in un momento di collera avrebbe esclamato «Hegel è il grande ritardatore della Germania [der grosse Verzögerer] sulla via dell’ateismo». Così lo stesso Schmitt, che aveva sempre sostenuto che Hegel fosse un «Giano bifronte» al cui pensiero ambiguo avevano potuto rifarsi sia la destra sia la sinistra propose alla fine una linea Hegel-Dilthey-Freyer come alternativa all’interpretazione lukacsiana.

Ma forse, se cerchiamo un antipodo quasi perfetto di Lukács riguardo alla dialettica hegeliana, dobbiamo pensare ad Heidegger. Heidegger, è vero, non si è mai pronunciato sugli scritti del suo antagonista. L’unico testo noto è una lettera a Karl Jaspers del 12 agosto 1949, in cui Heidegger, a proposito del saggio polemico di Lukács Heidegger redivivus, pubblicato nella rivista “Sinn und Form”, dice che Lukács vorrebbe «liquidarlo», un’accusa con evidenti toni politici. Ma tutto questo non ci deve distrarre dalla differenza e anzi opposizione delle posizioni di Lukács e di Heidegger riguardo alla dialettica hegeliana. Ricordiamo brevemente.

Già nel semestre estivo 1923, cioè poco dopo la pubblicazione di Storia e coscienza di classe presso l’editore Malik, Heidegger tiene un corso intitolato Ontologie. Hermeneutik der Faktizität nel quale denuncia di fronte ai suoi uditori la «Hegelei», respingendo i «tentativi recenti» (non risulta chiaramente quali) di opporre al metodo fenomenologico, e in particolare alla Wesensschau, il metodo dialettico, con le sue coppie opposizionali di concetti (immediatezza/ mediazione, forma/contenuto ecc.)18. Nel corso dell’anno seguente, sui Concetti fondamentali della filosofia di Aristotele, troviamo a un certo punto l’idea che la Logica di Hegel non contiene alcuna innovazione radicale rispetto a quella di Kant – un’enormità che prova come Heidegger, all’epoca, avesse scarsa familiarità con la Scienza della Logica. Non è possibile entrare qui nel merito delle ulteriori prese di posizione di Heidegger, in particolare nel corso del semestre invernale 1931-32 sulla Fenomenologia dello spirito e in quello sulla Negatività del 1938-39. Possiamo ricordare, di passaggio, che nella Distruzione della ragione Lukács critica con forza la distinzione tra una temporalità «autentica» e un’altra «non autentica», o volgare, che Heidegger identifica poi con il tempo obiettivo di Hegel (per non parlare della ripulsa del tempo della «storia universale», la Weltgeschichte, altra allusione negativa alla filosofia di Hegel). Alla conclusione del corso sulla Fenomenologia dello spirito, del resto, Heidegger precisava esplicitamente che la sua concezione del tempo era opposta a quella di Hegel; e negava che esistesse un rapporto qualunque tra il suo Essere e tempo e il pensiero di Hegel, contentandosi di dire che se esistesse una fonte del suo pensiero filosofico, essa si troverebbe unicamente in Kant19.

Ma per mettere in luce l’aspetto che più interessa qui, cioè l’antinomia tra la concezione di Heidegger e quella di Lukács rispetto a Hegel, e in generale riguardo alla filosofia classica tedesca, basterà riferire il loro rispettivo pensiero sui rapporti tra Hegel e Schelling. Abbiamo visto come Lukács si sforzi sempre di nuovo di esporre la superiorità di Hegel su Schelling. Orbene, non solo Heidegger non nasconde la sua prossimità a Schelling: anzi, nel corso del 1936 su Schelling giunge a sostenere che il Trattato sulla libertà schellinghiano, del 1809, «fa cadere in anticipo tutta la Logica di Hegel». E in una lettera del 15 febbraio 1972, rispondendo a Hannah Arendt che lamentava l’oscurità di Schelling in confronto a Hegel, Heidegger scrive:

Hai ragione. Schelling è molto più difficile di Hegel; si mette più a rischio, e gli succede di abbandonare tutte le sponde, con quello che esse hanno di rassicurante. Mentre Hegel, con i binari della sua dialettica, se ne sta sempre al sicuro, e non gli può succeder nulla.

Così, con l’aria di dar ragione alla Arendt, Heidegger riformula il confronto, ma a favore di Schelling. È significativo che Heidegger assimili la dialettica hegeliana a un pensiero rassicurante, a una filosofia della sicurezza – una vera sfida, questa, a tutti coloro che vi hanno visto una filosofia della critica e della sovversione; e nello stesso tempo Heidegger mostra di sentire il pensiero schellinghiano dell’abisso come assai più vicino al suo pensiero della «celatezza» dell’Essere. Questa testimonianza di Heidegger trova conferma in una lettera posteriore, indirizzata due anni più tardi (22 febbraio 1974) a Roger Munier, nella quale il rifiuto della dialettica giunge forse al parossismo: Heidegger parla senz’altro di «devastazione del pensiero per opera della dialettica, della teoria delle scienze e della linguistica». Alla fine della sua vita Heidegger respinge la dialettica con una franchezza che non lascia adito a dubbio mentre Lukács si adopera, proprio negli ultimi scritti, a restituire la grande forza euristica del pensiero dialettico.

2.4. Arriviamo così al punto culminante del lungo dialogo di Lukács con il pensiero hegeliano – il capitolo della sua ultima opera, Contributo all’ontologia dell’essere sociale, intitolato appunto Hegels falsche und richtige Ontologie (L’ontologia falsa e l’ontologia vera di Hegel). In questo capitolo, cui bisogna aggiungere le considerazioni sullo stesso argomento nei Prolegomeni all’Ontologia lasciati manoscritti, Lukács affronta per la prima volta direttamente il «nocciolo duro» della filosofia hegeliana, la Logica20.

Ma ora Lukács interpreta la celebre Scienza della Logica come un grande trattato di ontologia. E a giusto titolo, se per ontologia si intende la «scienza delle categorie dell’essere» (Kategorienlehre, nella formulazione di Nicolai Hartmann). Questo approccio alla Logica hegeliana appare pienamente giustificato. L’influenza di Nicolai Hartmann non è contingente, del resto, ma riguarda l’essenza stessa della interpretazione lukacsiana: abbiamo mostrato in altra sede la funzione di catalizzatore che le ricerche ontologiche di Hartmann esercitarono nella riflessione marxista dell’ultimo Lukács. La distinzione fondamentale, che attraversa l’analisi lukacsiana della Scienza della Logica, è quella tra un’«ontologia vera», concretizzata essenzialmente nelle determinazioni riflessive della «logica dell’essenza [Wesenslogik]», e un’«ontologia falsa», che sacrifica l’autonomia ontologica dell’essere a uno schematismo logicistico e gerarchico. Questa distinzione riposa a sua volta sulla critica rivolta a Hegel per aver fondato l’ontologia sulla logica. Ora, il filosofo moderno che ha più vigorosamente affermato la priorità dell’ontologia sulla logica e la teoria della conoscenza, contestando in radice la «rivoluzione copernicana» di Kant e quello che egli chiama il Vernunftidealismus [idealismo della ragione] di Hegel, è precisamente Nicolai Hartmann.

L’argomentazione di Lukács si fonda sull’idea della funzione omogeneizzante della logica, che oblitera l’eterogeneità consustanziale all’essere. La logica, secondo Lukács, offre solo un condensato ideale delle determinazioni del reale, uno scheletro della sua apprensione cognitiva, obbediente a sue specifiche esigenze, che sono ben distinte dal concatenamento delle determinazioni del reale stesso (le categorie). Questo concatenamento è l’oggetto proprio dell’ontologia.

La Logica hegeliana soffrirebbe dunque di un’ambivalenza strutturale. Da una parte, essa riesce ad esporre la straordinaria ricchezza delle categorie del reale mediante le determinazioni riflessive (e Lukács insiste sulla fecondità del passaggio dall’intelletto alla ragione; sulle analisi hegeliane delle coppie categoriali immediatezza/mediazione, forma/contenuto, essenza/fenomeno ecc.; sulla serie identità-differenza-diversità-contraddizione). Dall’altra parte, essa sottopone il concatenamento delle categorie ad uno schematismo logico a carattere teleologico. Nel sistema della logica hegeliana viene praticata come un’incisione profonda, per inseguire le deformazioni e le artificiosità nelle deduzioni hegeliane delle categorie. Viene rifiutata la tesi secondo cui la categoria successiva e superiore è «la verità» della categoria inferiore (per esempio, la teleologia è la «verità» del meccanismo e del chimismo). Qui si manifesta secondo Lukács, sulle orme di Nicolai Hartmann, il logicismo teleologizzante di Hegel.

La critica della «falsa ontologia» di Hegel era, per Lukács, una questione decisiva. Ne andava, infatti, della sua propria concezione ontologico-genetica della storia. In questa l’emergere di un livello superiore dell’essere viene ricondotto a un costellazione di circostanze determinate, e non a una qualsiasi finalità, che verrebbe inevitabilmente ad avvicinarsi a una predeterminazione o all’idea di una storia circolare. Per Lukács, primaria è la considerazione genetica. Per questo non è lecito parlare, come Hegel, di teleologia come «verità» del meccanismo e del chimismo, di livelli più sviluppati come «verità» di quelli meno sviluppati. Ciò equivarrebbe a inchinarsi indebitamente al finalismo dell’Idea assoluta: e i livelli distinti dell’essere subirebbero così una contrazione logica, venendo concatenati in vista di una finalità predeterminata.

In un’ontologia dell’identità soggetto/oggetto diventa impossibile salvaguardare l’apertura della storia, l’imprevedibilità delle sue vie, la molteplicità delle sue alternative interne. Si comprende quindi il rifiuto senz’appello opposto, per esempio, alla tesi hegeliana secondo la quale, come leggiamo nell’Aggiunta al § 161 dell’Enciclopedia, «il movimento del Concetto è da considerare, per così dire, quasi come un gioco: l’Altro, che viene posto dal Concetto, non è in effetti un Altro». L’omogeneizzazione del tutto (il Concetto) e delle parti, che giunge fino a togliere a queste la loro autonomia, equivaleva a sacrificare l’eterogeneità del reale alla contrazione omogeneizzante propria del Concetto o del Logico.

Invece le determinazioni riflessive, con la loro polidimensionalità, esprimono secondo Lukács l’altra ontologia di Hegel, quella vera e feconda. In esse si apre la via a una concezione della realtà come molteplicità di complessi, il cui sviluppo non può venir rinchiuso in alcuno schematismo logicizzante.

Ci troviamo di fronte ad una situazione in qualche modo piccante. Il difensore senza compromessi del razionalismo, il critico implacabile dell’irrazionalismo, l’autore della Distruzione della ragione insomma, si trova a protestare, nell’Ontologia dell’essere sociale, contro la Überspannung der Ratio [esasperazione della ratio], contenuta nel logicismo hegeliano e nell’ontologia dell’identità soggetto/oggetto. Con questo Hegel non farebbe che continuare e portare a compimento una lunga tradizione del razionalismo classico, da Ramon Lull alla mathesis universalis di Leibniz, che aveva assoggettato il reale alla categoria della ragione. Fortunatamente, però, l’«eraclitismo» della ontologia «vera» di Hegel fa da contrappeso alla sistematica gerarchica e rigida della ontologia «falsa», e ciò in ogni pagina della Scienza della Logica.

1 Come è noto, lo scritto di Lukács sarà messo all’indice nel «campo socialista», e vi circolerà, tutt’al più, clandestinamente.

2 Nella biografia di Lukács pubblicata in USA e in Gran Bretagna da Arpad Kadarkay, e lodata – pour cause – da Leszek Kołakowski, la Distruzione della ragione è trattata come un «libello staliniano».

3 B. Croce, Saggio sullo Hegel, seguito da altri scritti di storia della filosofia, Laterza, Bari 1967, p. 146.

4 G. Lukács, Zur Ontologie des gesellschaftlichen Seins, i, Luchterhand, Neuwied-Berlin 1971, pp. 478 ss. (trad. it. Ontologia dell’essere sociale, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 176); se ne troverebbe una spiegazione nella tesi invero discutibile di Lukács, per cui il re Federico Guglielmo III avrebbe gradualmente preso il posto di Napoleone nell’equazione «Idea = presente».

5 In uno scritto polemico recente, anche Guido Oldrini ha mostrato il carattere aleatorio della tesi di Rockmore, e ricordato a ragione la portata antifichtiana degli scritti del 1925-26 su Lassalle e Moses Hess.

6 Diverse considerazioni economiche di Hegel erano state esposte da Franz Rosenzweig nel suo celebre Hegel e lo Stato (1920), ma senza vedere né cercare in esse una fonte della speculazione filosofica di Hegel.

7 G. W. F. Hegel, Theologische Jugendschriften, hrsg. von H. Nohl, Mohr, Tübingen 1907, p. 378.

8 A questa lettura (condivisa dal Rosenzweig) si è opposto H. S. Harris nel primo tomo della sua ampia ricostruzione dell’itinerario intellettuale di Hegel (Hegel’s development, vol. 1, Toward the sunlight, 1770-1801, Clarendon Press, Oxford 1972). Pur concedendo la «grande abilità» con cui Lukács argomenta la sua tesi, Harris nega che di «crisi» si possa parlare. Invece, un altro grande studioso, Bernard Bourgeois (Hegel à Francfort ou Judaïsme, Christianisme, Hegelianisme; Vrin, Paris 1970, pp. 22 ss.), ha ripreso e approfondito la nozione di un periodo di crisi attraversato da Hegel in quegli anni.

9 In questa lettera si parla di trostlosesten Eindrücken (impressioni desolanti), di una reificazione del pensiero in un autore che si era reso celebre con la critica della reificazione, e si afferma che lo studio di Heidegger su Hegel pubblicato negli Holzwege (Sentieri interrotti) è ancora più vicino alla «dialettica» che non il libro di Lukács.

10 Claudio Cesa cita, nella prefazione alla sua antologia Il pensiero politico di Hegel, la voce della Grande Enciclopedia Sovietica dedicata a Hegel, dove quella enormità veniva ripetuta ancora nel 1952.

11 L’autore avrebbe potuto astenersi dal citare Stalin, notava Hyppolite. Ma bisogna ricordare the il riferimento a Stalin era obbligatorio per ogni opera pubblicata nella Russia di quegli anni, come anche per le tesi di dottorato.

12 Il testo è ancora inedito.

13 Si veda l’elogio dello strumento – l’aratro che conserva il suo valore al di là della soddisfazione conseguita grazie al suo uso.

14 Si veda l’opuscolo Relativer und absoluter Idealismus, del 1910. La diagnosi di Lukács troverà conferma nell’ulteriore evoluzione di Ebbinghaus verso un kantismo ormai senza Hegel.

15 Glockner scrisse molto su Vischer. In seguito aderì al nazionalsocialismo, avvenimento curiosamente taciuto da Lukács.

16 C. Schmitt, Glossarium. Aufzeichnungen aus den Jahren 1947-1951, hrsg. von Eberhard Freiherr von Medem, Duncker & Humblot, Berlin 1991, pp. 210-1.

17 Ivi, p. 212.

18 Pubblicato in Ontologie: Hermeneutik der Faktizität, in Gesamtausgabe, vol. 63, Klostermann, Frankfurt a.M. 1988.

19 Cfr. G. Lukács, Die Zerstörung der Vernunft, Aufbau Verlag, Berlin 1955 (trad. it. La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959).

20 Per lungo tempo, infatti, era stata la Fenomenologia l’opera al centro del suo interesse. Ad essa Lukács dedicò dei corsi di lezioni, nonché una Conferenza del 1949 alla Société française de philosophie, a Parigi, che coronava e completava il libro sul Giovane Hegel. Nelle carte di Lukács si è reperito anche un manoscritto inedito, una specie di giornale di lettura, con una scelta di estratti significativi dalla Fenomenologia e osservazioni di Lukács, di alto interesse.

Carteggio Lukács-Cases

Balla Demeter (1931- ) Lukács György (1971)Il testo iniziale è di Cesare Cases. Il carteggio è stato pubblicato in C. Cases Su Lukács. Vicende di un’interpretazione, Einaudi, Torino 1985. A seguire sarà riportata una lettera casesinedita di L. a C., pubblicata in spagnolo in Testamento político y otros escritos sobre política y filosofia. Textos inéditos en castellano, a cura di A. Infranca e M. Vedda, Ediciones Herramienta, Buenos Aires, 2003. Continua a leggere