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György Lukács

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György Lukács

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Lukács e la cultura marxista in Italia

27 sabato Feb 2016

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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di Riccardo Merolla

«Angelus novus», 15-18, 1969

Senza dubbio ‘c’è luogo a procedere’ nell’attuale fioritura di studi lukacsiani e nella più generale operazione politico-culturale di vasto raggio che in questi ultimi tempi si va consumando – o, forse, sarebbe meglio dire che solo ora, come non mai, essa si va chiarendo e delineando in tutte le sue reali componenti, perché, in effetti, è in atto ‘da sempre’ – ed intesa appunto, fra l’altro, ad una riconsiderazione globale dell’attività del filosofo ungherese. Quasi nuova forma di ‘nemesi storica’, non sfugge più nulla a tale eccesso di lukacsiana ‘totalità’ e, resi oramai adulti e maturi dalle passate ‘battaglie delle idee’, si finisce per abbracciare in un unico sguardo tanto il giovane autore de L’anima e le forme o di Teoria del romanzo quanto le sue più recenti teorizzazioni di un ‘nuovo inizio’ nella storia del movimento operaio. Così le riflessioni sulla coesistenza, sui problemi del tempo libero, sui nuovi modelli socialisti e sulla questione cecoslovacca, come l’individuazione, dopo l’antifascismo e la lotta per la pace, di una diversa serie di mediazioni dello scontro tra capitalismo e socialismo, quali la lotta contro la manipolazione o tutte le altre variegate ma sempre ricorrenti riduzioni dei reali conflitti di classe a conflitti di idee e di culture. Ma a tale destino sembrerebbe non sfuggire neppure il più incriminato teorico del lontano 1933 o dell’immediato dopoguerra – che pur sembrava ormai allontanato sullo sfondo di aree culturali ‘depresse’ e ‘paleomarxiste’ – se si vanno rimeditando e ripubblicando taluni suoi scritti, che in parte a quell’epoca risalgono, con il titolo di per sé abbastanza significativo di Marxismo e politica culturale, come riprova e documento di un iter sostanzialmente unitario del teorico ungherese, quasi avessimo ancora bisogno di simili conferme.

Per questo ci è sembrata abbastanza significativa la breve e recente nota di Cesare Pianciola1, e non solo perché, sia pure con i suoi sottintesi umori polemici, richiama la nostra attenzione su taluni dei temi che abbiamo individuato, quanto piuttosto perché ci ripropone in una sintesi efficace alcuni nodi di problemi su cui bisognerà ritornare brevemente e che sono stati fatti propri da tutti coloro che, almeno a partire da una certa epoca (1958-59), hanno tentato dei rapidi consuntivi sulla ‘fortuna’ di Lukács in Italia. Sia pur partendo da diversi punti di vista, essi ne hanno per lo più derivato la conferma dell’inesistenza, nel nostro paese, di condizioni oggettive favorevoli per una rigorosa ed approfondita analisi, per una compiuta acquisizione del pensiero lukacsiano. Tutto ciò potrà anche essere vero, almeno in parte, e si potrà pur sottolineare che anche nei confronti di Lukács, come di altri più pressanti problemi di storia della cultura novecentesca, i nostri ambienti intellettuali nella maggior parte dei casi non hanno certo brillato al momento opportuno, in fatto di capacità effettive e reali di seria indagine scientifica, di aggiornamento culturale, di rinnovamento di taluni vieti e consunti atteggiamenti, del resto tipici in quella storia dell’intellettuale italiano che solo oggi si comincia a scrivere, preferendogli il retrivo trasformismo di sempre e l’eterno equivoco, ammantato di progressismo, della conciliazione degli opposti, fermi restando gli eterni valori della ‘tradizione’. Ma non è questo che oggi ‘può’ e ‘deve’ interessarci anche perché tali tentativi sono stati sempre equivocamente condotti, pur quando non ne erano dichiarati in maniera esplicita gli intenti, al fine di vedere quanto vi fosse di ancor vivo e fruibile nel pensiero di Lukács, la qualcosa non ‘può’ costituire più un problema reale ed attuale. Il vero problema dell’hic et nunc è semmai costituito dalle domande sul ‘perché’ del ‘caso’ Lukács in Italia e sulle ‘implicazioni’ che a tale perché si riconnettono. In altre parole, crediamo che l’unica ricerca che abbia ancora un senso sia soltanto quella tutta polemicamente tesa a chiarire non già i motivi della mancata o della parziale assimilazione del filosofo ungherese quanto piuttosto quelli della sua pur ‘massiccia presenza’ nella cultura italiana del secondo dopoguerra. Perché in fondo di lukacsiani in Italia ce ne sono sempre stati e, sotto mutate spoglie, ce ne sono tuttora; se, tranne pochi fedeli, non sono rimasti sempre gli stessi, non è certo colpa nostra, dal momento che l’eclettismo e le ‘follie amatorie’ con le posizioni più contrastanti sono stati spesso i segni distintivi di tanti intellettuali indigeni. Si potrebbe infatti ripetere con Scalia che la «contraddittorietà obiettiva in cui è vissuto il pensiero lukacsiano è una esemplare short story della cultura realistica e marxista ufficiale»2, a patto però di poter fare una piccola ma necessaria precisazione: che essa lo è, almeno nella stessa misura, anche della cultura marxista critica ed eterodossa. Parlare di Lukács oggi si può, a nostro avviso, solo se ciò possa permetterci di fornire un contributo alla storia della formazione dell’‘intellettuale borghese’ italiano dalla Resistenza ai nostri giorni3.

La riprova che Lukács ha costituito una costante nelle strutture portanti della cultura italiana del secondo dopoguerra, il suo più stimolante punto di riferimento e di raccordo, anche quando ne costituiva, evidente o tacito, il frequente bersaglio polemico, la componente tra le più essenziali e non a caso caratteristiche di molti intellettuali d’orientamento marxista, ce la fornisce, se non altro, il fatto che a partire dall’epoca delle prime e timide apparizioni il suo nome, quasi contrappunto o perenne glossa in margine, ha sempre accompagnato tutte le celate schermaglie o le aperte polemiche intrecciatesi all’interno del fronte marxista italiano. Se si eccettua infatti la comparsa, sulla «Rassegna comunista» del lontano 1921, del saggio Rosa Luxemburg marxista, le prime traduzioni di Lukács si ritrovano sul «Politecnico». E che fin dall’inizio il filosofo ungherese sia utilizzato a conferma di taluni spunti polemici di parte, siamo autorizzati a pensarlo da una premessa a quelle pagine de La distruzione della ragione sull’ultimo numero della rivista, in cui Franco Fortini ha voluto vedere la mano dello stesso Vittorini. In essa si rinvengono in embrione molti dei motivi destinati per lungo tempo a scandire i tempi e i ritmi dell’acquisizione lukacsiana: fra l’altro la definizione di ‘maggior teorico marxista vivente’, il polemico richiamo all’opera ‘maledetta’ del giovane pensatore e il primo accenno di una opposizione Gramsci-Lukács, in base alla notazione conclusiva che quella sua critica intransigente all’irrazionalismo viene ad essere piuttosto ‘quaderno dal fronte’ che non ‘quaderno dal carcere’. Ora non ci sembra questa la sede idonea a delineare gli intenti e i limiti dell’esperienza rappresentata dal «Politecnico», ma ci sembra necessario almeno sottolineare che certo esso non riuscì in quel suo tentato recupero della grande cultura borghese del Novecento che, se attuato, avrebbe forse cambiato di segno e comunque avrebbe in ogni caso impresso ben altri sviluppi alle nostre considerazioni sul fatto artistico ed intellettuale. Ma non fu neppure un caso che non vi riuscisse, proprio perché quel suo interessante ma confuso discorso era frammisto all’altro, contrastante e senza dubbio più equivoco, della riscoperta dei ‘valori’ dell’uomo, dell’affermazione di binomi del tipo la poesia è verità o ‘la poesia è libertà’, delle relazioni intercorrenti tra cultura e politica, della funzione storica dell’intellettuale e della sua richiesta di un nuovo e sempre antico ‘mandato sociale’, quando non sembrasse addirittura giunto il momento in cui «la cultura dovrebbe, finalmente, ‘prendere il potere’».

Senonché il ‘potere’ le fu brutalmente negato dalle strumentalizzazioni che ne proposero i ‘politici’. Fu la prima grande svolta quella del 1946-’47: la guerra fredda, l’intransigente affermazione del più rozzo ždanovismo, la schematica e semplicistica ripresa dei termini della polemica Aragon-Garaudy e delle note rampogne di ‘pericoloso liberismo’, e ci fu anche, più tardi, l’eco delle violente accuse levate in Ungheria all’indirizzo di György Lukács. Questo nome veniva così a sottolineare ancora una volta, quasi in risposta alle provocatorie affermazioni del «Politecnico», i gravi umori e le battaglie che furono di quell’epoca.

Ciò che caratterizzò, a detta di Massimo Caprara, le discussioni allora in atto in Ungheria, fu «un metodo nuovo, […] un tono di pacato e chiaro commercio di idee su argomenti bene individuati»4. E certo le deformazioni furono piuttosto grossolane; documento caratteristico dei tempi, non si risparmiava davvero nelle trite citazioni d’obbligo dai compagni Ždanov, Fadeev, Rudas, Revai e simili, ed accusava violentemente Lukács soprattutto per il suo mancato riconoscimento della superiorità della cultura socialista e sovietica sulla cultura imperialista e decadente. Ma, a parte lo schematismo di talune contrapposizioni e del più generale e ancor grezzo impianto teorico (relativamente, soprattutto, al problema dell’eredità), Caprara finisce per dire cose che il Lukács dell’epoca e quello ‘di poi’, e non solo quello de La letteratura sovietica, in linguaggio ‘esopiano e non’, avrebbe potuto sottoscrivere e di fatto avrebbe confermato più tardi, certo alla luce di argomentazioni ben diversamente fondate ed articolate. Per di più l’articolo terminava con un preciso invito che Lukács stesso e tanti in Italia, ‘lukacsiani o no’, avrebbero avvertito, allora come sempre, in tutta la sua necessità e in tutto il suo ‘valore’ etico-politico:

Quel che si chiede agli scrittori progressisti è l’interpretazione del senso nuovo nel quale la storia del mondo sta muovendosi, del ruolo e delle lotte dei nuovi creatori dell’avvenire.

Che era poi un modo come un altro, burocratico ed autoritario quando si vuole, di offrire il ‘mandato sociale’ richiesto5.

2. I dieci lunghi inverni che dall’esperienza del «Politecnico» giungono alle soglie dell’ottobre ungherese appaiono senza dubbio assai variegati e sfumati, a volte persino tutt’altro che rettilinei; tanto che ci sembra, una volta in più, impossibile condurre un corretto discorso su Lukács in Italia senza tener conto dei vari e complessi problemi – e talora non solo o non tanto di ordine strettamente culturale – che a questo fenomeno vanno frequentemente intrecciandosi. Solo così le apparenti aporie, le posizioni contraddittorie, le fratture o le polemiche in atto potranno in seguito ricomporsi in una sostanziale unità lungo taluni punti nodali e determinate prospettive di sviluppo. Che anzi, forse, quanto più sarà chiaro ed evidenziato il momento della distinzione, tanto più ciò tornerà utile anche al discorso unitario di fondo, all’analisi globale di ‘lungo periodo’.

Sono appunto di questi anni le traduzioni dei maggiori contributi di Lukács teorico e critico della letteratura, e il ritmo diverrà sempre più incalzante in ragione dell’approssimarsi o dell’evolversi dei fatti d’Ungheria. Già nel 1949 era apparso Goethe e il suo tempo, ma il silenzio era stato pressoché unanime, come ha già avvertito Fortini, non solo per la sprezzante quanto semplicistica liquidazione che ne aveva fatto Benedetto Croce6 poco prima che fosse pronta l’edizione italiana, ma anche per più precise diffidenze di natura politica: era quello l’anno della polemica ungherese e dell’autocritica lukacsiana, avvenimenti che fecero sì che il libro non venisse neppure menzionato nel citato articolo di Caprara (i ‘sacri testi’, come si è visto, erano allora ben altri!). Sorte abbastanza consimile toccò ai Saggi sul realismo, segnalato appena, fra l’altro, da una recensione di G. Carocci e da taluni contributi del gruppo gravitante intorno a «Il pensiero critico», sulle quali cose bisognerà però ritornare in un secondo momento.

Ma non si poté più tacere, e la situazione mutò radicalmente da questo punto di vista, quando nel 1953 apparvero i saggi riuniti ne Il marxismo e la critica letteraria. Fu dapprima Carlo Salinari che con una recensione fortemente polemica tentò di liquidare quello che pur gli era sembrato il libro di critica letteraria più vivo che fosse uscito in Italia in questo dopoguerra7. Dopo una breve presentazione del volume ed un avvio di chiara intonazione gramsciana (in cui si diceva, fra l’altro, che «l’introduzione della critica marxista in Italia potrebbe significare […] soprattutto una chiara indicazione sulla via del realismo, un punto fermo nella battaglia per superare i residui del tradizionale distacco fra la letteratura e la vita nazionale»), il critico passava immediatamente all’analisi dell’impianto teorico e metodologico dell’opera di Lukács, la quale finiva per apparirgli da questo angolo visuale «ancora schematica e sommaria, talvolta astratta ed imprecisa». In particolare sembrò che la formulazione del rapporto tra fenomeno ed essenza, il quale era poi fondamentale per definire esattamente il concetto di ‘tipicità’, fosse ancora enunciata «solo dal punto di vista del soggetto e non nella sua realtà oggettiva: vale a dire che quella dialettica è ancora idealistica e non materialistica». Di qui conseguiva l’impossibilità di fruire delle generali impostazioni lukacsiane al fine di un confronto e di una verifica da effettuarsi sui problemi impostati dalle estetiche più avanzate delle filosofie borghesi, i quali in questo modo venivano pericolosamente elusi «pena di vedersi tornar fuori quei problemi ad ogni momento della nostra indagine: pena soprattutto il pericolo di cadere in una esposizione astratta e dottrinaria. […] è per questo che – in quel campo – malgrado la loro frammentarietà [finiva col concludere Salinari] mi sembrano ancora più utili e validi per noi gli appunti di Antonio Gramsci». In questo modo veniva così riconfermata, sia pure in modo diametralmente opposto, l’alternativa Gramsci-Lukács già affiorata nel lontano 1947 e che ora era utilizzata per rivolgere contro il filosofo ungherese l’accusa di sostanziale antistoricismo, soprattutto per quanto concerneva l’analisi dell’involuzione delle ideologie borghesi nella seconda metà dell’800. Tanto che, dopo essere rimasto per lungo tempo sottinteso, si suggeriva alla fine dell’articolo l’accostamento, magari sfumato, di Lukács e Croce:

In modo assai diverso dalla crociana, è anch’essa una critica sempre un po’ frigida e distaccata.

E la triangolazione si attuava compiutamente quando veniva chiaramente alla luce l’altro costante punto di riferimento di queste pagine:

Esageriamo, se il nostro pensiero corre ancora una volta a De Sanctis e alla sua sorprendente capacità di aderire pienamente e senza residui alle singole situazioni poetiche?

oppure

E forse non è sbagliato pensare che – sia pure per un periodo di storia letteraria completamente diverso – lo schema desanctisiano di interpretazione del nostro ottocento (scuola democratica e scuola cattolico-liberale) finisca per essere uno strumento molto più efficace di comprensione storica e un modulo critico in fondo più vicino alle esigenze del marxismo di quanto non sia lo schema di Lukács di interpretazione della letteratura europea dell’ultimo secolo.

Ed è infine alla luce di tali considerazioni che Salinari si chiedeva quanto i modelli proposti da Lukács potessero poi tornare utili alla nuova letteratura realistica italiana: meglio certo attenersi al nazional-popolare che agli esempi del grande realismo borghese! Ma se per il momento era rimasto sullo sfondo il rifiuto della lukacsiana polemica antinaturalista, esso venne ripreso e sviluppato invece in un saggio più articolato e decisamente stroncatorio di Valentino Gerratana8. Da un lato vi si ribadiva il fondamentale antistoricismo lukacsiano e l’assenza di un’impostazione dialettica del rapporto tra fenomeno ed essenza; ma d’altro canto Gerratana sviluppava il discorso di Salinari con la nota proposta di distinzione fra ‘realismo come metodo’ e ‘realismo come tendenza’ e soprattutto impegnandosi in una difesa d’ufficio del naturalismo. La prima formula, che doveva poi godere di tanta fortuna nell’ambito della critica marxista ufficiale e già presente del resto nelle proposte di Anna Seghers9, serviva chiaramente a ricondurre le indicazioni lukacsiane sul terreno delle tendenze neorealistiche su cui erano in quel momento concentrati gli sforzi della politica culturale comunista; infatti «solo se ci si riferisce a questo secondo aspetto del realismo – sosteneva Gerratana – la lotta per il realismo nell’arte ha un contenuto concreto» e «per questo la lotta per il realismo è sempre lotta per una tendenza, e non per un metodo». Del resto «nei suoi termini generali il problema era stato già visto da Gramsci, quando notava che non è esatto parlare di lotta per una ‘nuova arte’, ma si deve parlare di lotta per una ‘nuova cultura’». Infatti anche in Gerratana la triangolazione suaccennata veniva a ricomporsi e in un modo ancor più preciso ed articolato. Giacché il nome di De Sanctis ritornava in un momento decisivo e cruciale del suo discorso, quello cioè del rifiuto della componente antinaturalista di Lukács.

Come ha mostrato il nostro De Sanctis […] nel momento in cui una nuova tendenza letteraria cerca di aprirsi la strada del realismo contro le vecchie tendenze del formalismo arcadico ed estetizzante, e il nuovo contenuto non sempre riesce a crearsi le sue forme, cioè ad esprimere se stesso in modo adeguato, concentrare il fuoco contro il naturalismo, e criticare la nuova tendenza come equivalente alla vecchia contro cui è sorta, significa inevitabilmente portare acqua al mulino del formalismo.

Poco prima v’era stata, ma molto più sfumata e forse anche scarsamente rilevante, l’allusione a Croce, sostenendosi in polemica con Lukács che il rapporto dialettico di forma e contenuto è sì il risultato di un processo storico, il quale però «può essere anche laborioso e complesso, e non è un miracolo che caschi dal cielo, come la crociana intuizione lirica».

Se ci siamo soffermati tanto a lungo sull’analisi di queste posizioni ciò è stato determinato anche dalla constatazione che sia Salinari che Gerratana venivano a delineare un particolare schema di rifiuto dei contributi lukacsiani che è abbastanza tipico e caratterizzante per molti degli interventi succedutisi tra il 1953 e il ’54. Come tratto più significativo di questo fenomeno è poi sembrato già a Franco Fortini10 che la sottile rete di mediazioni ed influenze si sia venuta a stabilire non solo all’interno del gruppo dei marxisti ufficiali o comunque gravitanti, quali compagni di strada, intorno alla linea culturale del P.C.I., ma abbia finito per interessare anche alcuni settori della critica borghese. Ed è forse il caso di approfondire e di documentare più di quanto non sia stato fatto tale sistema di corrispondenze. È vero ad esempio che insistono sul tema del ‘dialogo’ aperto da Lukács tra cultura occidentale ed orientale soprattutto Contessi, Banfi e Caretti11, ma è poi lo stesso Contessi a condividere con Gerratana, Della Volpe e Banfi le più vivaci riserve sull’ortodossia marxista del filosofo ungherese. Banfi inoltre riprendeva ormai note diffidenze tanto nei riguardi dello storicismo di tipo lukacsiano quanto nei confronti delle relazioni stabilite tra fenomeno ed essenza, fra forma e contenuto, avvertendo che in tutto ciò spirava «un tono evidente di idealismo deteriore […] e di astratte semplificazioni» e non evitando neppure di lamentare come, una volta definito il realismo come la teoria generale dell’arte, «venga a mancare il rilievo per il realismo a favore del quale noi lottiamo oggi». Contessi, concorde in ciò con Salinari, finiva per preferirgli Gramsci; così Luporini, pur non facendo menzione di Lukács, dimostrava di servirsi più volentieri di De Sanctis e Gramsci per definire la sua ‘nozione di realismo’. La nota di Pietro Citati, infine, oltre ad essere uno dei più interessanti e stimolanti consuntivi dell’opera di Lukács pubblicata fino a quel momento in Italia, rivela delle analogie fin troppo eloquenti con la recensione di Salinari, come là dove si afferma:

È allora soltanto la differenza delle due culture che può spiegare le difficoltà dell’assorbimento: l’appartenenza di Lukács ad un filone democratico-realistico post-hegeliano che è il più assente dal terreno della nostra storia, e, di converso, il nostro particolare abito storicistico, col suo amore per l’oggetto concreto, irripetibile, al posto dell’escussione di temi generali.

E, dopo aver constatato che quella lukacsiana non è in realtà una poetica bensì un’estetica, che il realismo non è uno stile, ma lo stile, la poesia, e che, «nata in difesa della dialettica, questa cultura si è capovolta per strada in una precettistica, in un classicismo immobile», anche Citati indulgeva all’accostamento con Croce:

Non ci sembra del tutto casuale che, più di una volta, qualche termine del linguaggio di Croce possa permetterci una ‘traduzione’ abbastanza calzante. Sotto l’enorme differenza di culture c’è, di fatto, più di una parentela di problemi reali. In ambedue i casi, l’identità, l’unicità dei valori poetici, e la robusta totalità della poesia […] si sono sviluppati e maturati nel corso di una strenua polemica antidecadente e antiromantica.

Eppure, nonostante tutto, si ha abbastanza chiara l’impressione che anche in tutti questi contributi ora citati12, in forme e ritmi diversi, taluni frammenti del discorso lukacsiano comincino ugualmente a passare, così come si può desumere ad esempio dalla parte conclusiva dell’articolo di Banfi – con la sua dialettica di progresso e decadenza, con la stabilita identità di realismo ed umanesimo a proposito della ‘grande arte’ – o dalla luporiniana ‘nozione di realismo’. Per di più ci sembra assai significativo che, nella maggior parte dei casi, tra le fitte maglie dell’ostracismo decretato a Lukács finirono per filtrare tanto la teoria della Wiederspiegelung con le note distinzioni tra conoscenza artistica e scientifica quanto la problematica del ‘tipico’. Del resto le difficoltà oggettive che travisarono e senza dubbio ritardarono, in questo primo momento, una più massiccia e qualificata diffusione dell’insegnamento lukacsiano sono ormai note e difficilmente confutabili da parte ufficiale. Tanto che a noi sarà sufficiente riprendere appena i termini del problema. Mentre infatti da un lato perdurano diffidenze di natura politica ed almeno formali ossequi ai diktat anche culturali emanati dall’Unione Sovietica, quelli che appaiono poi i motivi determinanti sono soprattutto la tematica del ‘nazional-popolare’ e, sua diretta filiazione nelle battaglie del presente, la difesa ad oltranza del neorealismo. Tra il 1948 e il ’51 appaiono infatti i Quaderni dal carcere e non bisogna dimenticare che, tramite il recupero di Gramsci, di De Sanctis e della linea dell’hegelismo napoletano, e in generale tramite l’affannosa ricerca di un filone democratico-progressista nelle nostre tradizioni culturali, si tentava di fornire una risposta autoctona allo ždanovismo, di articolare una sorta di ‘via italiana alla cultura socialista’. In tale momento è oggi abbastanza evidente che Lukács costituiva un elemento di disturbo e di confusione. Le evidenti origini tedesco-hegeliane del suo marxismo non potevano certo essere fruibili nella tardiva battaglia ‘culturale’ impegnata contro la cosiddetta ‘ideologia dei monopòli’, quando ormai si era permessa la generale ristrutturazione e riorganizzazione ‘politica’ ed ‘economica’ del capitale. Per di più la sua formazione chiaramente mitteleuropea e macrostoricistica, nonché la sua strenua polemica antinaturalista, contrastavano nettamente tanto con la nazional-provincial ricerca di una tradizione progressista italiana e con la lotta per il neorealismo quanto con la scarsa vocazione teorica dei critici ortodossi.

Ma il ritmo binario, e magari equivoco, che ha fin qui caratterizzato il ‘caso’ Lukács in Italia, prosegue e si accelera fino alle sue conseguenze ultime negli anni che vanno dal’54 al’5613. Pur permanendo talune opposizioni, si comincia ad avvertire che ‘anche’ il critico ungherese può essere utilizzato. Certo la perdurante difesa di moduli veristici e bozzettistici farà sì che il discorso antinaturalista non venga mai pienamente accettato, ma quella battaglia per una cultura realistica che si è portata innanzi in un primo momento su basi assolutamente provvisorie ed instabili, quasi sentimentali e fideistiche, va ora entrando in una fase caratterizzata da tentativi almeno minimi di precisazioni teoriche ed ideologiche. Da questo punto di vista l’attività svolta da Lukács, previ taluni ridimensionamenti e traduzioni in termini nazionali, può senz’altro offrire un valido ed ineccepibile sostegno, costituisce anzi la garanzia stessa dell’esistenza almeno nominale di una metodologia critica e di un’estetica di impianto marxista. Non solo i ritmi delle traduzioni risultano sempre più accelerati, ma è ad esempio innegabile che l’interesse per Lukács si faccia molto più vivo ed insistente perfino in riviste come «Il Contemporaneo» e «Società». Ma, quel che più conta, il nome di Lukács accompagna più o meno esplicitamente, anche quando la sua presenza è sottintesa e celata, quasi tutte le polemiche culturali tipiche di quegli anni: da quelle seguite all’introduzione nella nostra area culturale di Spitzer ed Auerbach fino a quelle, forse più determinanti ma anche più penose, sul Metello e su Senso, evidenti equivoci e grossolani abbagli questi ultimi, su cui oggi non è neppure il caso di insistere, ma che comunque attestano la sempre maggiore penetrazione di taluni spunti del discorso lukacsiano anche nella formazione e nelle teorizzazioni dei ‘renitenti’ di un tempo. E gli avvenimenti dell’ottobre ungherese agiranno da questo punto di vista soltanto come freni assolutamente temporanei e scarsamente decisivi, che anzi vedremo come essi contribuiranno semmai ad accelerare il ‘disgelo’ già in atto, mediante l’utilizzazione delle vicende biografiche e culturali di Lukács in senso antistalinista ed antidogmatico, nonché ‘coesistenziale’. Non è da sottovalutare, infatti, l’importanza che in questo senso venivano ad assumere testi come La lotta fra progresso e reazione nella cultura d’oggi e Il significato attuale del realismo critico ed il conseguente ripensamento di taluni punti nodali del discorso lukacsiano, già presenti, in fondo, nelle opere precedenti. Non sarà forse mai sufficientemente chiarito quale profonda incidenza ebbero ad esercitare sulle formulazioni del teorico ungherese la politica dei fronti popolari e la sostituzione, tutta democratico-borghese, del conflitto fascismo-antifascismo alla reale contraddizione tra capitalismo e socialismo. Questi riposti sensi ed implicazioni del discorso di Lukács, ora resi più espliciti, contribuirono ampiamente, a nostro avviso, alla revisione di talune posizioni di resistenza, che erano state pressoché generalizzate ed unanimi all’interno della critica militante e partitica. Si comprese che essi potevano avallare risultati, non solo culturali ma finanche politici, di equivoche linee frontiste, resistenziali ed antifasciste, destinate ancora per lungo tempo a gravare e condizionare pesantemente le prospettive e le lotte dei partiti del movimento operaio. Chi aveva a suo tempo teorizzato per gli intellettuali tedeschi una necessaria «unità di tradizioni democratiche nella vita sociale e tradizioni realistiche nell’arte, nonché, come effetto di tale unità, una costante aspirazione alla popolarità, un indissolubile collegamento coi grandi problemi della vita nazionale» o si era dichiarato «profondamente convinto del rapporto sussistente tra realismo, popolarità e antifascismo»14, poteva a buon diritto essere accolto nell’area del marxismo ufficiale italiano, per quante resistenze e critiche potessero rimanerne confermate e magari rafforzate, ora e in futuro.

Ma l’accenno a questi temi ci condurrebbe necessariamente al di là del decennio che per il momento ci siamo proposti di analizzare e ci porterebbe ad anticipare molti degli atteggiamenti che gli intellettuali comunisti assumeranno nei confronti di Lukács e che invece in questo preciso momento appaiono ancora sfumati ed incerti. Non così era invece avvenuto per taluni gruppi di opposizione – o ‘marxisti critici’, come spesso vollero definirsi – i quali si trovarono lukacsianamente impegnati in una difficile lotta su due fronti: arroccati per lo più intorno a ‘rivistine indipendenti’, operanti tra Milano, Bologna e Roma, da un lato tentarono di diradare l’atmosfera conformista e dogmatica della sinistra ufficiale, evitando dall’altro a tutti i costi, non escluse le intonazioni di tipo velleitaristico e moralistico, di coincidere con la stampa borghese15. Per molti di essi Lukács costituì fin dall’inizio un costante punto di riferimento, anche perché, formati su ben altre letture ed esperienze che non i critici ortodossi, seppero cogliere subito in lui quelle caratteristiche di grande ‘critico-saggista’ educato alle più alte tradizioni della cultura mitteleuropea, cui alcuni di essi polemicamente si richiamavano e da cui tentavano di mutare, talora perfino riuscendovi, moduli ed atteggiamenti. Il saggio lukacsiano Lo scrittore e il critico, con il suo richiamo ai modelli della grande tradizione dell’umanesimo romantico, la sua esplicita tendenza ad una lettura ‘totale’ dell’opera, frutto dell’incontro fecondo di filosofia, storia letteraria e critica, esercitò su non pochi di essi un’influenza destinata a protrarsi per lunghi anni ancora, quando non ne costituì la componente a tal punto essenziale e caratterizzante che non se ne dovevano più separare, anche quando si indirizzarono verso altri interessi e prospettive culturali. Qualità queste che dovevano essere riconosciute all’ungherese dalla stessa Armanda Guiducci, e non solo nei suoi primi interventi, ma anche quando aveva ormai avuto inizio il suo graduale procedimento di ‘decodificazione’ e di distacco16, ma che soprattutto per un saggista-poeta della tempra di Franco Fortini dovevano costituire tanto la ragione non ultima della sua adesione quanto la segreta matrice di tanto parte della sua stessa scrittura critica.

E già nel 1951 egli si trovò a confermarlo in modo abbastanza esplicito e diretto quando, parlando dei vari metodi di lettura di un testo letterario, così concludeva:

Mi basta aver accennato con quanto ho scritto […] ad una prospettiva di lavoro critico, che non ha nulla di nuovo, perché è stata sempre quella della critica maggiore, ma che frequentemente viene dimenticata; quella che ci ha riproposta, non piccolo merito, l’ultimo libro di Lukács: una critica del significato totale dell’opera, della sua facies complessiva. […] come lo scrittore deve volere una scrittura totale, nulla sacrificando ad un calcolo prudente e ingenuo di ‘artisticità’, così il critico deve volere una lettura, ed un lettore, totali17.

Ma a Lukács ci si richiamò anche, come già era avvenuto per Gramsci, per rinvenire in lui la «legittimazione di una critica allo stalinismo e allo ždanovismo», l’alternativa e la speranza di un discorso socialista sull’arte costruttivo e più originale, un «contributo teorico nel senso eversivo, antistaliniano», obiettivi in cui si logorarono per anni le forze di questi intellettuali marxisti che, come è stato detto, si lasciarono massacrare, andando all’assalto impugnando gli ‘eterni valori’, preferendo ‘cadere correttamente’ piuttosto che comprendere che «solo un discorso politico batte un discorso politico».

Resta comunque il fatto che fu in nome e con la scorta dei più alti risultati raggiunti dalla ‘grande’ tradizione borghese e progressista, che appunto Lukács aveva contribuito a riscoprire e a riqualificare, che si combatterono da parte ‘critica’ le battaglie di quegli anni. Abbastanza indicativa da questo punto di vista è, fra le altre, la posizione di Renato Solmi e il suo rifiuto della problematica di Adorno e di Benjamin, di cui egli pur contribuisce a diffondere le opere più significative con rara conoscenza specialistica dei testi e con osservazioni che rimangono a tutt’oggi tra le più attente e penetranti, rifiuto che, non a caso, sarà motivato dal richiamo all’impostazione umanistica ed antidecadente del teorico ungherese18. E fu forse dovuto proprio all’influenza lukacsiana – la quale agì evidentemente come elemento catalizzatore e di coagulo – che poté sembrare per alcuni anni comune e, tutto sommato, abbastanza unitario il discorso condotto da intellettuali che le vicende culturali e politiche future dovevano poi nettamente differenziare e polemicamente contrapporre. Il massimo sforzo in questa direzione fu senza dubbio condotto dal gruppo che si raccolse tra il 1955 e il ’57 intorno alla rivista «Ragionamenti», la quale, non a caso, tornò con particolare insistenza su Lukács; i suoi interventi furono poi tanto più qualificati ed interessanti in quanto spesso si riferirono ad opere e scritti fino a quel momento non ancora comparsi in Italia. Sull’ultimo numero appariva la traduzione di Che cos’è il marxismo ortodosso, del resto anticipata e in un certo senso preparata dal bel saggio di Thomas Müntzer, Il giovane Lukács (n. 9, febbraio-aprile 1957), che, a parte i suoi pregi intrinseci, è rimasto per lungo tempo l’unico contributo cui si sia potuto far riferimento per la conoscenza della prima attività lukacsiana. Intanto si intrecciavano sulla rivista i due piani di rendiconti relativi all’opera di Lukács, ma non soltanto ad essa, intesi da un lato (A. Guiducci e L. Amodio19) ad un ridimensionamento dei risultati estetici proposti dal filosofo ungherese alla luce di recenti acquisizioni semantiche e neopositivistiche e, dall’altro (Fortini), alla salvaguardia, variegata e sfumata quanto si vuole, ma pur sempre risentita ed evidente, dei valori e delle indicazioni umanistiche lukacsiane nella loro ‘integrità’ e ‘totalità’. Non a caso si vennero a stabilire in questo periodo singolari concordanze tra le osservazioni fortiniane su Spitzer ed Auerbach e quelle condotte pressoché contemporaneamente da Cesare Cases20, anche se Fortini assume nello stesso tempo un atteggiamento già più problematico, di minore e meno intransigente fiducia nel ‘Maestro’, tanto da giungere perfino a chiedersi se l’antidoto alla Stilcritica possa essere a tutti gli effetti rappresentato dall’oggettivismo lukacsiano…

Ma si rischierebbe a questo punto di non chiarire compiutamente e quindi comprendere l’influenza decisiva che il teorico ungherese venne ad esercitare su questo gruppo di intellettuali marxisti, se noi continuassimo a procedere nell’analisi delle sole testimonianze e conferme dirette, costituite cioè dagli interventi su Lukács in cui essi si produssero in questi anni. A nostro avviso andarono oltre e dimostrarono di aver assimilato il nucleo centrale ed effettivo del suo discorso politico culturale, fino al punto di materiare ed improntare di esso le loro stesse proposte sull’‘autonoma iniziativa intellettuale’ e sull’esigenza della costituzione di ‘autonomi istituti di ricerca’, che largamente caratterizzarono i loro ‘contributi ad un discorso socialista’ appunto in quel periodo. Sarà quindi necessario ripercorrere rapidamente le tappe di quella lotta ambigua che sul ‘fronte della cultura’ si era venuta conducendo dopo il fallimento dell’esperienza del «Politecnico» e le cui componenti avevamo tentato di individuare già nelle prime battute di questa nostra ricostruzione.

Il ‘potere’, come si è detto, fu dunque negato alla cultura. Ma ciò non significò d’altro canto la fine del progressismo italiano. Non significò che, dopo la delusione di vedersi privati della possibilità immediata di fungere da guide ‘illuminate’ del processo storico, si avesse la forza e il coraggio di ritenere che era ‘alfine’ giunto il momento di liberarsi di ogni ‘discorso intellettuale’, tanto più se si voleva ricostituire un più corretto rapporto con una prassi che fosse ‘effettivamente rivoluzionaria’. Che anzi la situazione del tutto particolare fece sì che, al massimo, l’unità ‘ciellennista’ della cultura resistenziale si frantumasse in una serie di proposte, di diverso livello e serietà certo, ma pur sempre affini e strettamente convergenti per la comune mancata comprensione del fatto che la lotta impegnata contro la ‘cultura borghese’ doveva necessariamente condurre ad una sconfitta, e sul piano culturale e, quel che più conta, sul piano delle sue implicazioni pratiche e politiche. Giacché la ‘pura lotta culturale’ poteva al massimo dar vita ad una nuova e diversa forma di ‘cultura borghese’. Tanto è vero che quella stessa ‘eredità’, coltivata con equivoco atteggiamento di odio-amore, doveva inevitabilmente risorgere nelle loro stesse operazioni intellettuali e, come prima cosa, «per scrivere poesia antiborghese, fu necessario resuscitare il moribondo concetto borghese della funzione storica dell’intellettuale e restituirlo a nuova vita».

Fu così che nella mutata situazione si giunse alla nota formula della ‘politicità e autonomia della cultura’21. Impegnandosi nella lukacsiana battaglia su due fronti cui si è già accennato, si tentò di reagire tanto ai ritorni neocrociani e neoermetici all’‘intuizione lirica’ e al disimpegno quanto ai condizionamenti burocratici dei ‘politici’: contro il revisionismo quindi, ma, al contempo, contro ogni forma di dogmatismo e di ‘naturalismo erariale’. In quel Il senno di poi che è, nello stesso tempo, una ripresa della tematica dei ‘dieci inverni’ trascorsi, quanto un ambiguo e contraddittorio tentativo di superarla, Franco Fortini così ebbe ad esprimersi:

La Resistenza e il dopoguerra ci avevano fin troppo persuasi della interdipendenza fra attività ‘culturale’ e ‘attività politica’. Ci avevano avvezzi a tradurre continuamente un comportamento politico in termini di storia, di filosofia, di sociologia, di metodologia letteraria, e viceversa; la guerra fredda invece voleva pretendere che no, che quel ‘viceversa’ non era lecito22.

Accanita fu appunto in questi anni la lotta per quel ‘viceversa’, per sostanziare cioè il mondo della cultura di una consistenza almeno altrettanto evidente di quella caratterizzante il mondo della prassi, giacché

l’azione per una società di liberi ed eguali o, come si suol dire, per l’unificazione del genere umano, non è affatto diversa, anzi coincide, con quella vòlta ad istituire una più alta, ricca e complessa comunicazione fra gli uomini, a sostituirne una vera, o più vera, all’intreccio ridicolo di pseudo-comunicazioni in mezzo alle quali viviamo: quindi anche una lettura più autentica, una lettura capace di sostenere lo sguardo delle grandi opere, per realizzarle23.

La cultura si configura cioè, in ultima istanza, sempre più come valore universale e non già come ‘espressione ideale dei rapporti materiali dominanti’. Anzi ora, sussunta da un movimento progressivo di liberazione dell’individuo, essa torna ad essere umanistica riscoperta, dopo la parentesi della ‘decadenza’, dei ‘valori dell’uomo’, dei suoi sentimenti, delle sue aspirazioni più sante e più giuste. Ecco perché per l’‘intellettuale’ Fortini

il tener viva la coscienza della negazione, della contestazione, della insoddisfazione e della rivolta nelle classi oppresse dalla economia e dalla cultura del privilegio seguita a parerci compito altrettanto prezioso quanto quello di predisporre le tecniche della loro liberazione; queste possono fallire, mentre quella coscienza è il solo bene che non può esser loro tolto e il pegno di ogni bene futuro24.

Sembrano ormai irrimediabilmente rimossi in lontananze remote ed arcane i tempi di chi pur aveva detto:

Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza25.

Risposte più generiche e marxianamente meno qualificate non potevano essere fornite da intellettuali che si vedevano e si sentivano estromessi dal reale processo storico. Eppure, anziché condurre fino alle estreme conseguenze quel loro discorso, trasformandolo da smisurato atto d’orgoglio in una reale consapevolezza della loro tragica e mistificata situazione di ‘intellettuali’, e ritenere irrimediabilmente tramontata ogni possibilità di ‘autonoma e specifica’ proposta politica che venisse dal ‘fronte della cultura’, finirono per consumare i loro sforzi nella tentata costituzione di un ‘blocco storico’, di un ‘fronte’, appunto, dei ricercatori. L’alleanza e l’organizzazione avrebbero, da un lato, costretto i ‘politici’ al pieno riconoscimento dei loro diritti di autonoma gestione degli strumenti teorici della lotta di classe, alla loro qualificazione di elaboratori e custodi di una corretta strategia rivoluzionaria, di specialisti e competenti in fatto di analisi di lungo periodo. Ma tale alleanza avrebbe al contempo permesso – sempre nelle loro intenzioni – di controbattere la dirompente marea della restaurazione capitalistica, creando all’interno del sistema dei frammenti di società nuova e anticipando così nella barbarie della divisione del lavoro i presupposti stessi dell’alba radiosa dell’umanesimo socialista.

E non fu un caso che discorsi consimili trovassero largo spazio e costituissero, anzi, la tensione effettiva ed ultima di quella stessa rivista che, alleanza di fatto di ricercatori ed ‘osservatori marxisti’ di diversa provenienza, si era mostrata così ampiamente e con tanta competenza interessata alle teorizzazioni di György Lukács26. In «Ragionamenti» erano confluite tutte le forze intellettuali che negli anni precedenti avevano dato vita a quelle piccole riviste ‘indipendenti’ che, per l’esplicita testimonianza di uno dei protagonisti, oggi costituiscono una rarità bibliografica ma che allora erano state una ‘rarità ideologica’. Ma altri periodici si allinearono, ‘compagni di strada’, all’indirizzo dei marxisti critici e ne fiancheggiarono l’azione dall’esterno, in una complessa e talora ambigua trama di rapporti e di mediazioni; fu il caso ad esempio di «Questioni» e, soprattutto, di «Nuovi Argomenti», sul quale apparvero tra gli altri taluni interventi di Roberto Guiducci, uno dei più attivi collaboratori di «Ragionamenti». Questi interventi, unitamente ad altri, tutti risalenti al’54-’56, furono più tardi pubblicati nel volume Socialismo e libertà, che può ben essere preso a modello della tipica situazione in cui allora versavano taluni settori della cultura italiana di sinistra, tanto in esso vi appaiono articolate e come compendiate quelle proposte e quella tematica di cui ci stiamo interessando. Guiducci non solo vi ribadiva lo stretto legame intercorrente tra cultura e politica, ma, compiendo un ulteriore mistificato e mistificante processo, vi riaffermava «la necessità di una rinascita culturale ad ampio raggio che nutra la condotta politica»27: ecco cosa significava in realtà porre con nuova urgenza il decisivo problema dell’organizzazione della cultura. Poiché è vero che la cultura ha una sua ragion d’essere soltanto se essa riesce ad esprimere e a rispecchiare con i suoi strumenti specifici la ‘totalità’ delle reali linee del processo storico, ma è poi anche vero che allora come non mai si poneva – così continuava Guiducci – la necessità che alla libertà della politica corrispondesse un’eguale libertà della cultura: solo così «la cultura, muovendosi, allargandosi, sviluppandosi, può nutrire la politica di contenuti e di tecniche operative»28. Oggi è oramai chiaro che soltanto su tali basi assolutamente ‘ideologiche’, nel senso più deteriore e marxiano di ‘falsa coscienza’, potevano nascere proposte, e così postulate, come quelle di una organizzazione culturale di sinistra,

una fondazione chiaramente transitoria, anche se non meno impegnata: il compito è limitato infatti ad indurre gli organi politici a tener conto della componente culturale per il loro stesso funzionamento ad alto livello. Ciò avvenuto, lo scopo sarebbe di fatto raggiunto. Ma, e questo è l’altro lato, la stessa possibilità di funzionamento e di successo dello strumento provvisorio implica un suo graduale consolidarsi anche se in forme diverse ed organiche. L’accettazione, da parte degli organi di partito, comporterebbe infatti l’innesto e l’unione delle forze intellettuali fuori e dentro il partito in un corpus unitario di lavoro e comporterebbe anche il collegamento diretto con la classe operaia in una interrelazione stretta di reciproci scambi29.

Solo su tali basi, si diceva, distorcenti nel modo più assoluto i reali rapporti di forze, si potevano concepire, nelle prime esperienze del ‘disgelo’ e del ‘dialogo’, speranze folli come questa:

C’è forse dunque ancora una risorsa in Europa, coltivata e preparata in questi ultimi dieci anni nella sua parte più sensibile: che la cultura di sinistra, fattasi forza ideologica di fondo come nuova organizzazione della cultura, possa essere il punto in cui si riesca a dissolvere la rigida contrapposizione cui i tempi moderni paiono averci condannato e che la nuova ideologia riesca a dare un contributo decisivo ad una ricostruzione della politica su nuove basi, così che quest’ultima possa farsi strumento adatto ad una realizzazione originale del socialismo con metodi e in forme diverse, adeguate ai tempi mutati30.

È abbastanza evidente l’influenza che su tali discorsi venivano ad esercitare taluni spunti e proposte gramsciane, ma al contempo non ci sembra sia da sottovalutare neppure il contributo essenziale che al fine di certe precisazioni e prospettive di sviluppo si dovette, a nostro avviso, al rapido diffondersi dell’opera di Lukács, del resto attentamente letta e commentata, come si è visto, da questi marxisti critici. Certo la sua stessa concezione dell’arte come forma di conoscenza, fornita di una sua intrinseca capacità di incidenza e di trasformazione progressiva nel mondo delle cose e dei fatti, di anticipazione di taluni modelli di vita più ‘umana’ e più ‘libera’, anche se in seguito potrà essere contestata da taluni furori neopositivistici, per il momento costituisce una suggestione innegabile e profondamente radicata. Ed era stato proprio Lukács in fondo, al di là di certe sue ‘esopiane’ chiusure contenutistiche e sociologiche, che si era battuto per una nozione di cultura tutta umanisticamente tesa a recuperare, oltre la barbarie capitalistica, la ‘totalità degli eterni valori’, a sanare nella ristabilita ‘comunione’ dell’intellettuale con il ‘corpo mistico del proletariato’ le gravi aporie di quell’‘individuo problematico’, che egli aveva pur si magistralmente denunciate e drammaticamente impostate in un lontano passato. Mentre in più recenti analisi, e non più ‘esopiane’ queste, egli aveva ancora una volta parlato del nuovo slancio fornito alla letteratura realista dalla rivolta umanistica contro l’imperialismo ed aveva pur detto che

il centro, il nocciolo di questo contenuto determinante per la forma è sempre, in ultima istanza, l’uomo. Quale che possa essere il punto di partenza diretto, il tema concreto, lo scopo immediato ecc. di una creazione letteraria, la sua essenza più profonda si esprime nella domanda: che cos’è l’uomo?31.

Il sostenitore della dialettica di ‘progresso e reazione’, assurta talora alla più astratta e generica, ma umanisticamente più suggestiva, contrapposizione di categorie come ‘vita’ e ‘morte’ o ‘decomposizione’, il sottile teorizzatore delle più svariate mediazioni del conflitto capitalismo-socialismo e, più in generale, della complessiva riduzione della reale lotta di classe a fittizie lotte di modelli ideologici e culturali, poteva ben essere all’origine di molte delle pagine da noi riportate. Così che si poté paradossalmente scrivere:

Levare nell’Europa degli Anni Venti l’immagine dell’umanesimo socialista; parlare di Goethe, per così dire, al soldato dell’Armata Rossa […]: questo l’onore di Lukács32.

Mentre da altra parte gli veniva un riconoscimento ben più significativo:

L’unità organica e l’equilibrio dell’opera del Lukács poggiano su una tensione fra la disciplina normativa di tutta la concezione del materialismo dialettico e l’aspirazione alla realizzazione compiuta di una grande arte realistica, pegno di un rinnovamento morale e sociale dell’uomo, di una riaffermazione dell’antica universalità della sua vita personale e di un rapporto riconquistato fra artista e mondo sociale. Tale tensione costituiva l’orizzonte ideale di un nuovo umanesimo socialista […]. In vista di questo futuro si spiega esemplare quel passato largo e ricco della cultura borghese classica33.

Siamo così alfine giunti ai temi di fondo che finora erano rimasti sottesi ed appena percettibili in queste formulazioni ‘critiche’: il ruolo, cioè, che in esse venivano a giocare il ‘recupero di parte operaia’ della tradizione culturale borghese e la nuova e messianica prospettiva aperta sulle ‘sponde’ del socialismo; due motivi che, come è noto, costituirono i preminenti punti nodali, i cardini stessi delle indagini lukacsiane, e quanto al contempo realmente le distinse per acume e serietà di preparazione nell’ignobile vuoto della contemporanea ricerca marxista. Alla luce di tali nuovi elementi sarà possibile infatti ricondurre ad unità le osservazioni finora condotte sulla linea culturale e politica perseguita dai marxisti ‘critici’ e superare quell’impressione di frammentarietà e dispersione che può averle finora caratterizzate. Poiché in fondo quei discorsi chiaramente, o perlomeno immediatamente non-operativi e quel pensare di poter ‘lavorare sui giunti culturali della nazione’ potevano avere un senso solo se ad essi si sottendeva la duplice e lukacsiana tensione, sospesa tra il ‘donde’ e il ‘dove’ della ricerca intellettuale. Infatti così era già stato detto:

D’accordo: la vera storia dell’umanità comincerà col socialismo. Ma quella preistoria che conduce al socialismo è un elemento integrante della formazione del socialismo stesso. E le tappe di questo cammino non possono essere indifferenti per i seguaci dell’umanesimo marxista34.

E altrove si era ribadito che

la questione dell’eredità è […] strettamente connessa alla missione storica universale del proletariato: la missione di distruggere il triste mondo capitalistico per creare una nuova società, pegno di un grandioso sviluppo culturale. […] Proprio perché la borghesia si allontana sempre più, nell’ideologia, dalle grandi tradizioni dell’umanità, e perché il proletariato non può tirar fuori dal nulla, per magia, né la sua pugnace ideologia, né, più tardi, il suo nuovo ordine sociale e l’ideologia corrispondente, è compito indispensabile del movimento operaio rivoluzionario riallacciarsi ai punti culminanti dell’evoluzione umana35.

Se a tutto ciò si aggiunge il fatto che ormai, con l’avvento del socialismo, «la letteratura profetica è divenuta […] una possibilità effettiva»36, si può comprendere come non vi potesse essere ambiente culturale più adatto e pronto a recepire tali indicazioni se non quello, tutto democratico-borghese, degli intellettuali italiani formatisi nel clima e nella temperie della Resistenza. Solo tenendo ben presente questa particolare situazione si può almeno spiegare, se non certo comprendere e giustificare, come dei marxisti siano potuti giungere ad affermare che «l’ideologia di sinistra si può porre come ideologia dominante e pretendersi erede della totalità del pensiero umano passato e presente»37, oppure nutrire, ancora alla fine dei lunghi ‘dieci inverni’ trascorsi, speranze come queste: «Oggi il comunismo è tornato ad essere, a poter essere, quello che abbiamo sempre creduto dovesse essere, e cioè l’‘erede della filosofia classica tedesca’»38, tanto più che il proletariato non è soltanto l’arma della filosofia «perché esso è anche l’arma della poesia e dell’arte»39.

Nessuno seppe più allora sottrarsi al fascino della lukacsiana concezione del ‘grande realismo’ o della violenza di quella sua contrapposizione «dei giganti del passato ai nani dell’attuale periodo di sviluppo della borghesia»40; nessuno, neanche quella stessa Armanda Guiducci che pur, già allora, mostrava talune riserve nei riguardi della teoria estetica dell’ungherese, basata com’era sull’apparato gnoseologico del materialismo dialettico. Ella finiva così per accogliere quel ‘ritmo ternario’ di cui aveva parlato Cases41 e che aveva costituito la struttura portante dell’analisi lukacsiana sui fatti letterari degli ultimi due secoli: l’ascesa della borghesia, la fine della funzione progressiva della stessa e l’avvento della decadenza nell’ideologia e nella letteratura, che il socialismo, con il suo ritorno al realismo, era destinato a superare e ricomporre.

È questo un momento decisivo nel Lukács, [ebbe a dire la Guiducci] determinante la qualità stessa della sua critica; criteri in cui la passione si mescola all’intelletto e l’analisi letteraria, lontanissima dall’essere un ‘commentario’ o un ‘esercizio’, impegna tutto l’uomo György Lukács. Criticate il Lukács teorico, non abolirete perciò la vitalità eccezionale della sua opera, la forte tensione che la tiene in equilibrio fra una nostalgia quasi titanica della grande arte realistica del passato – l’età degli eroi nell’arte – e l’aspirazione autentica – perciò, al fondo, inappagata e problematica – verso un migliore futuro dell’uomo, dell’artista, meglio, dell’uomo-artista42.

Questo senso tutto lukacsiano del ‘donde’ e del ‘dove’ penetrò dunque assai profondamente in questo gruppo di intellettuali fino al punto di motivare non solo tentati ‘recuperi’ culturali, come quello di Thomas Mann43, ma di sostanziare persino più precise proposte ‘scientifiche’ ed ‘organizzative’:

noi, che auspicando una politica rigorosamente scientifica ed un progresso finalmente umano e umanamente controllato, pensiamo che la cultura debba rimanere, oltre che elaborazione scientifica, anche antenna sensibile dello svilupparsi delle potenzialità: ricerca e insieme sempre speranza. […] Più di quanto può sembrare, e soprattutto nel socialismo, il futuro è, dopotutto, uno strumento per l’oggi e lo determina e lo obbliga44.

Giacché, e qui il cerchio da noi tracciato ormai si conchiude, non era soltanto la richiesta di un’orgogliosa autonomia dal blocco dei ‘politici’ e la conseguente auto-limitazione di ogni ‘effettivo’ potere o l’auto-condanna nel chiuso di una rinnovellata turris eburnea, non era soltanto questo che doveva rendere inconsistente, inoperante e destinata al fallimento quella loro proposta di opporre ‘piano a piano’, ‘organizzazione ad organizzazione’ tramite la costituzione di ‘autonomi istituti di ricerca socialista’. Ciò che contribuiva a rendere ancora più astratti e mistificati, e perciò assorbibili, quei loro sforzi e li condannava ad una grave e reale, questa sì, impotenza, era poi quella loro appassionata ma illusoria tensione verso il futuro, verso il ‘dove’ dell’uomo, dato che quell’iniziativa ‘pratica’ doveva poi giungere a «prefigurare nei propri quelli che saranno gli strumenti di lavoro culturale della società socialista»45 o ad «operare perché si formasse un inizio, un frammento di società nuova, un modo di ‘essere insieme’»46. La richiesta di una distinzione di poteri sfociava dunque ancora una volta in una assurda riaffermazione dell’orgoglio e dell’‘onore’ dei vati della cultura, e ancora una volta ‘mediando’ i reali conflitti di classe tramite le istituzioni culturali si giungeva a collocarsi, seconda e nuova avanguardia storica del proletariato, accanto a quei partiti che in effetti non sembravano più essere in grado di incarnare la ‘coscienza’ di classe, né tantomeno di guidare alla rivoluzione o di anticipare neanche il minimo frammento del mondo a venire. Giacché

il tentativo di costituire organismi culturali autonomi di sinistra, se nella forma non può avere che un senso provvisorio, nelle sue linee tendenziali contiene un modello significativo di anticipazione. La fondazione di organi culturali non può essere infatti che una conclusione originale in una società socialista, maturata attraverso un lungo travaglio preparatorio, e nei partiti di sinistra occidentali la più profonda preparazione al potere, tenendo conto dei dati più avanzati dell’esperienza rivoluzionaria47.

Se confrontiamo, infine, tali utopie con quelle espresse più volte da Lukács, vi notiamo un di più di presunzione e di impazienza48. Ci troviamo cioè di fronte ad evidenti pretese di far passare per ‘immediate proposte politiche’ dei ‘discorsi culturali’, pur e proprio conservando questa loro equivoca formulazione. La lotta, anche se condotta con tenacia, doveva necessariamente risultare impari e risolversi in un drammatico fallimento su entrambi i fronti. Su quello ‘esterno’ perché non c’è niente che meglio comporti l’integrazione che l’accettare l’idea che il proletariato ‘erediti’ la cultura borghese o perché non c’è niente che più facilmente si presti ad essere schiacciato nella società del capitale che le velleità rivoluzionarie degli intellettuali e l’illusorio progetto di costruirvi gradualmente dei modelli di società futuribile. E sul fronte ‘interno’ perché, ignorando gli sconfinamenti, i ‘politici’ di prima come quelli di dopo il ‘disgelo’ non potevano volere di meglio che confinare in un limbo ‘specifico’ ed ‘autonomo’ i ricercatori, purché accettassero appunto di rimanervi come tali e per sempre.

Certo nessuno vorrà qui confondere i diversi piani e livelli e valori dei due discorsi culturali che contemporaneamente si venivano in questo periodo conducendo da parte marxista: e senza ombra di dubbio ci appare oggi maggior titolo di merito l’aver proposto i modelli del grande realismo borghese – soprattutto se nello stesso tempo, oltre a Mann, si era in grado di salvare dalla lukacsiana nozione di ‘distruzione della ragione’ anche un Kafka o un Proust – che non l’essersi impegnati nella difesa di retrivi moduli naturalistici di tipo schiettamente populistico, nell’attenzione troppo insistentemente rivolta a stantie ricostruzioni di arcane e metastoriche plebi rurali o di informi larve del sottoproletariato urbano, e, infine, nel continuare a ritenere «la fedeltà di classe un analogon della fedeltà al pandiramerino»49. Meglio di tutti Franco Fortini nel più volte citato Lukács in Italia seppe esprimere quel senso di apertura intellettuale e di grandiose prospettive culturali europee che sembrò schiudersi con la penetrazione delle opere del critico ungherese nel provinciale, arcadico e micro-storicistico orizzonte della cultura nazionale50. E da questo punto di vista, ma soltanto da questo, aveva ancora una volta ragione lo stesso Fortini quando individuava l’elemento più integro e prezioso dell’insegnamento fornito da Lukács in quella sua «proposta imperterrita di misurarci con le massime dimensioni della storia umana e con le massime possibilità dell’uomo»51. L’aver colto questo fu motivo non ultimo dell’essere riusciti a perseguire un ben diverso aggiornamento europeo o a formulare ben più ampie, articolate e suggestive proposte ideologiche e culturali che non gli intellettuali comunisti, i quali, sempre in ritardo sui tempi reali, soltanto in seguito tenteranno di comprendere che la cultura nel frattempo era andata oltre Manzoni o Verga o De Sanctis, oltre Croce o Gramsci, oltre Levi o Jovine o Pratolini, e nel far ciò dovranno pagare lo scotto della tardiva consapevolezza con l’ecclettismo, gli improvvisi ed acritici abbracci, i drastici e semplicistici rifiuti che furono loro propri. Il ‘realismo borghese’, si ripete, era certo preferibile al ‘nazional-popolare’, ma sul piano appunto della cultura borghese e del suo rinnovamento; esso invece non doveva avere efficacia alcuna sul piano delle indicazioni per una reale lotta rivoluzionaria di parte operaia, la quale è condotta per trasformare radicalmente ‘tutte’ le strutture di un sistema dato e non già per ereditarne la ‘cultura’ come proprio patrimonio ideale e tanto meno per fare di quei ‘valori’ la propria arma, i propri strumenti specifici ai fini della rivoluzione. L’aver tenuti irrimediabilmente distinti, nonostante gli sforzi contrari, i due piani della teoresi e della prassi, l’aver preferito alle ‘opere’ i ‘discorsi’ sull’ideologia e sulla cultura, l’aver ritenuto che la verità fosse di per se stessa rivoluzionaria o che la poesia fosse libertà, tutto ciò fece sì che taluni almeno di questi marxisti critici potessero essere annoverati tra i pochi intellettuali italiani di formazione grande-borghese e mitteleuropea, ma fece sì, anche e soprattutto, che essi rimanessero appunto ‘intellettuali’ e ‘borghesi’.

3. Seguirono di poi altri dieci lunghi anni; e furono su tutta la linea anni di frequenti ripensamenti ed autocritiche, ma spesso troppo e solamente parziali. Essi si aprono infatti sotto gli auspici del XX Congresso da un lato e degli avvenimenti ungheresi dall’altro: vicende tutte che, in modo più o meno diretto, finirono con l’interessare, quando non addirittura col travolgere, la persona stessa di György Lukács. È noto a tutti oramai come l’eco ne giungesse amplificata anche nel nostro paese; e fu ragione non ultima questa che contribuì a determinare la fortuna di opere come La lotta fra progresso e reazione nella cultura d’oggi e Il significato attuale del realismo critico, cui abbiamo già fatto riferimento nelle pagine precedenti. Certo la seconda soprattutto rivelava innegabili pregi intrinseci, dovuti alla maggiore organicità e varietà di articolazioni con cui venivano ora affrontati da Lukács ad esempio i problemi posti dalla letteratura d’avanguardia e in genere dalla cultura del Novecento. Ma furono principalmente motivi esterni, a nostro avviso, quelli che determinarono la particolare atmosfera con la quale venne accolto questo nuovo contributo lukacsiano: il suo sapore di documento dal fronte, la sua maggiore spregiudicatezza nei giudizi espressi sulla letteratura sovietica, l’indubbia scomparsa delle sue punte più ‘esopiane’. Ma non fu assente anche un’altra e più importante ragione, la quale ritorna del resto a conferma di una delle ipotesi di lavoro da noi più costantemente perseguita; ancora una volta fu un’opera di Lukács ad aprire in Italia un nuovo dibattito culturale: nel caso specifico quello sull’avanguardia, che in seguito si nutrì anche di altre linfe, ma pur sempre dal Realismo critico prese il suo primo avvio.

I contemporanei ‘contributi’ e ‘prolegomeni’ estetici venivano frattanto utilizzati come puntelli teorici e metodologici per caparbie quanto attardate battaglie realistiche. Mentre le schermaglie avanguardiste e le più tarde traduzioni delle opere filosofiche di maggior impegno (La distruzione della ragione, 1959; Il giovane Hegel, 1960) finivano per approfondire e rendere insanabili fratture già in atto da tempo sul fronte ‘critico’ fra neopositivisti e lukacsiani ortodossi: protesi gli uni verso il ‘grande mare’ dell’integrazione neocapitalista quanto ostinatamente ancorati gli altri ai lacci del paleo o hegelo-marxismo. Ed ultima trama di una tela che non si era voluta tessere cominciando ab initio, fu infine la volta del Lukács ‘maledetto’: il teorico borghese della decadenza e il geniale deviazionista di sinistra dell’epoca del suo ‘tirocinio marxista’. Soltanto allora si poté toccare con mano la differenza di toni e l’‘abisso’ intellettuale che intercorrono dall’Anima e le forme al Marxismo e la critica letteraria o alla Distruzione della ragione. Soltanto allora prese forma definitiva la consapevolezza dello ‘iato’ originatosi un tempo tra le potenti sintesi saggistiche e le lucide diagnosi di quel primo sistematore della tragica problematica dell’artista moderno e il più maturo, ma anche più opaco ed equivoco, assertore di una necessaria Weltanschauung progressista e democratica dell’arte. Il circolo si è così finalmente chiuso, smentendo di stretta misura le più cupe previsioni di chi nel 1965 aveva detto:

Alla sensibilità intellettuale e culturale italiana vent’anni non saranno sufficienti a far conoscere l’opera di Lukács52.

Il decennio trascorso presenta quindi ancora punte polemiche e linee di sviluppo non proprio uniformi, ma al contempo risulta anche più distaccato e disincantato di quello precedente, almeno in taluni settori avanzati. Gli equivoci più grossolani degli ‘inverni progressisti’ vengono consumati nella maggior parte dei casi, magari per generarne di nuovi, più sottili e diversi; ma nel complesso il discorso sull’arte, sulla cultura, e quindi anche quello su Lukács, poté liberarsi alla distanza delle sue scorie più impure ed allotrie, tanto da poterne individuare con maggiore approssimazione ‘splendori e miserie’. Rispetto agli anni passati notiamo senz’altro un ‘di più’ di rigore e di lucidità, un ‘di meno’ di passione e di fervori eteronomi. Anche nei confronti di Lukács è questa ormai l’epoca dei consuntivi, che, per quanto non escludano ancora equivoci e polemiche, non ricordano più i tempi cruenti delle ‘zuffe’; al contrario potranno invece verificarsi quegli acritici ed onnicomprensivi abbracci da cui aveva preso le mosse la nostra ricerca. Ma tutto ciò costituisce piuttosto il punto d’arrivo dell’oggi e si perde nel vivo della cronaca; ancora esso non è neppure estensibile a tutti e se saranno molti o pochi quelli che vi approderanno non è problema che possa interessarci. Il punto di partenza è stato invece diverso e taluni che lo hanno abbandonato o comunque allontanato, lo hanno fatto pagando con la rinuncia alle proprie stesse idee di ieri, secondo un processo difficile e spesso perfino drammatico. Se noi l’abbiamo voluto distendere tutto su un piano orizzontale e ridurre per ora in così breve spazio, ciò è avvenuto per almeno due motivi. Da un lato – ed è l’aspetto più importante – la rapidità di una sintesi introduttiva avrebbe permesso di cogliere con maggiore efficacia quale e quanta influenza abbia ancora continuato ad esercitare sugli intellettuali italiani una personalità come quella di Lukács; in una situazione mutata, certo, sia negli schieramenti che nelle prospettive, ma essa si sarebbe pur sempre fatta sentire nei momenti e nei dibattiti decisivi, negli stessi sviluppi peculiari della nostra cultura, anche se ormai doveva accondiscendere a risultare frammista a quella di altre fonti e suggestioni. D’altro canto l’aver una volta per tutte anticipato le sequenze principali di questo ultimo atto del ‘caso’ Lukács ci consentirà in seguito di allontanarci con maggiore facilità da rigidi piani cronologici e da fastidiosi criteri annalistici, del resto assolutamente incompatibili con la complessità dei problemi in questione e l’intrico della sottile rete di mediazioni che sarà necessario stabilire.

Frattanto, a partire appunto dal 1956, anche la politica culturale perseguita dal P.C.I. aveva subito parziali modifiche e riassetti. Innegabili erano state le scosse e gli squilibri che la crisi ungherese aveva determinato, e soprattutto al livello di intellettuali e compagni di strada; ma altrettanto innegabili erano risultate le capacità di assorbimento e di assestamento che al contempo distinsero gli organi direttivi del partito, e politici e culturali. Si finì per potenziare sempre più, soprattutto per linee esterne, le direttive del ‘disgelo’ e del ‘dialogo’, si consumarono i più grossolani equivoci che avevano contraddistinto l’antico ždanovismo e il più recente nazional-populismo e si inaugurò, quasi pendant culturale alle indicazioni strategiche a livello politico, una sorta di ‘via italiana all’eclettismo culturale socialista’. Si verificarono, e si verificano tuttora del resto, notevoli quanto acritici, adialettici ed astorici tentativi di riguadagnare il tempo perduto e di rimettersi alla pari con le situazioni mutate: e nell’ambito di cui ci stiamo interessando non scomparvero né Gramsci né De Sanctis, ma essi si fusero con Lukács e Della Volpe, con Spitzer ed Auerbach, col realismo e con l’avanguardia. Si pensò di poter scegliere ‘fior da fiore’, appropriandosi dei tratti più generali di ogni contributo che sembrassero passibili di conciliazioni e mediazioni, senza molto preoccuparsi, in realtà, di dar vita ad una ricerca che fosse originale almeno al livello di sistemazione storica e teorica e che quindi potesse condurre ad una reale assimilazione e comprensione dei materiali e dei dati raccolti prima di passare troppo celermente alla fase dell’appropriazione. Restando del tutto inoperanti, nella sostanza almeno, perché nell’apparenza furono ripetute a piena voce, le lukacsiane indicazioni sul tertium datur e sulla duplice lotta contro il dogmatismo e il revisionismo, perché mentre da un lato entrambi paradossalmente perdurarono, dall’altro, unico fatto veramente nuovo forse, si finì per insistere sempre più sul secondo termine: al riformismo politico ‘di sempre’ si accompagnò un ‘sempre’ più accentuato e costantemente aggiornato revisionismo culturale ed ideologico. ‘La compromissione reiterata’: questo il titolo che proporremmo per un libro ancora tutto da scrivere sulla politica culturale comunista di questi anni.

Comunque si vennero sempre più abbandonando stantie e retrive parole d’ordine. Il processo fu certamente molto lento, ma oggi, sul finire di un altro decennio, ormai abbastanza chiaro ed inequivocabile nelle sue componenti essenziali. Apparvero sempre più squalificate e declassate almeno le vecchie formulazioni sull’‘impegno’ o sulla letteratura e la critica ‘militanti’; si abbandonarono, anch’essi cautamente, gli antichi abbagli neorealistici e si venne sempre più affermando, anche dentro il partito, la nozione di intellettuale come specialista, autonomo ricercatore su cui urgevano sempre meno scelte operative eteronome, ferme restando naturalmente la fedeltà ai principi ultimi della ‘linea’. Anche ‘fuori’ tale fenomeno si andava generalizzando sempre più e permetteva così di consumare le mistificazioni più macroscopiche. Ciò non significa ovviamente che non esistano a tutt’oggi residui abbastanza evidenti dell’antico nesso politica-cultura; solo ci sembra che per poterli più correttamente demistificare sia necessario rendersi conto, anche e soprattutto, delle trasformazioni frattanto avvenute. Si è infatti aperta una nuova fase, «un periodo di autentica distinzione dialettica [sugli aggettivi non siamo completamente d’accordo], non già tra i partiti quali essi sono oggi (fittizie incarnazioni dei movimenti e delle esigenze reali) ma fra gruppi e tendenze, e fra momenti dell’azione e momenti della teoresi, fra ricerca e strumentazione»53. L’ironia della sorte ha voluto che fosse proprio il partito ad attuare in linea di massima le indicazioni di un marxista ‘critico’: riprova di quanto poco utilizzabili fossero sul piano della contestazione pratica e politica anche quelle ultime indicazioni, perché come le precedenti nate da un’inesatta analisi della realtà e perciò integrabili da parte di chi non chiedeva di meglio che si desse vita a polemiche ‘alternative’ culturali anziché politiche.

Gli anni che seguirono subito dopo il XX Congresso appartengono ovviamente alla preistoria di tale processo reale, ma da questo punto di vista ci sembra ugualmente significativo, per alcuni cenni premonitori che vi fanno la loro comparsa, il dibattito svoltosi presso l’Istituto Gramsci dal 3 al 5 gennaio 1959 sui Problemi del realismo in Italia54. Esso risulta equivocamente in equilibrio tra il nuovo e l’antico. Dà irrimediabilmente sul passato per l’oggetto stesso che vi è posto all’incanto – il realismo – ma poi, e soprattutto, per alcune richieste e proposte che vi sono avanzate: l’impegno militante degli artisti, le reiterate distinzioni tra metodo e tendenza, i binomi del tipo realismo = umanesimo, arte = conoscenza della realtà ecc. Ma risulta al contempo proteso verso il futuro quando si afferma da più parti l’autocritico e parziale ripensamento degli equivoci trascorsi, la necessità di riprendere in esame, magari alla luce e ai fini sempre del realismo, i risultati culturali delle ‘avanguardie’ o di altri momenti salienti della produzione contemporanea o quando si levano talune voci contro il dirigismo culturale, le estetiche precettistiche e i vizi del contenutismo. Ma anche per ciò che riguarda più da vicino i frequenti accenni che vi è dato rinvenire alle tesi lukacsiane, ci accorgiamo di trovarci di fronte ad un ritmo binario. Da un lato vi sono infatti riprese le ormai note obiezioni, ricalcanti gli schemi già fissati nel lontano 1953: sembrerebbe quasi che sei anni siano trascorsi senza lasciare alcuna traccia, come se nel frattempo sia in sede di sistemazione teorica sia nella prassi critica attuata nel vivo delle polemiche non ci si fosse avvalsi più volte di taluni spunti o corollari direttamente derivati dall’ungherese. Salinari e Gerratana sono ancora una volta i più accaniti55, ma è poi soprattutto il secondo che ripete pedissequamente le violente requisitorie di un tempo: unico elemento nuovo l’individuazione del pericolo di ‘sociologismo’ cui va incontro una estetica prescrittiva che non tenga conto delle caratteristiche specifiche della società cui si riferisce l’opera d’arte in oggetto56. La qual cosa significava da un lato spezzare un’altra lancia a favore di quel microstoricismo italiano che aveva finora lavorato quasi esclusivamente sulla storia locale delle classi subalterne57 e dall’altro significava, cosa ancor più grave, ignorare la più che trentennale lotta condotta da Lukács contro il ‘sociologismo’ e il marxismo volgare’.

Eppure, nonostante il tono talora anche sferzante degli interventi, non ce la sentiremmo di definire Lukács unicamente come il costante bersaglio polemico di questo dibattito. Egli è piuttosto tanto più presente proprio quando non ne ricorre esplicitamente il nome: ad esempio nella relazione introduttiva di Salinari, il quale del resto si era mostrato sempre meno caustico nei confronti del teorico ungherese58, laddove si individuano «alcuni tratti fondamentali dell’arte concepita come rispecchiamento del reale» nella ‘consapevolezza’, ‘storicità’, ‘tipicità’ e ‘partiticità’ del fatto artistico. Infatti Salinari non aveva mai messo in dubbio la generale concezione, propria del materialismo dialettico, secondo cui «l’arte è una delle forme del rispecchiamento dialettico del mondo esterno nella coscienza dell’uomo» (anche se egli preferirà richiamarsi a Lenin piuttosto che a Lukács) ed aveva pur condotto in questi anni – a voler tralasciare altri aspetti minori del peculiare lukacsianesimo del critico – una sua lotta contro i miti decadenti o il cronachismo della narrativa realistica contemporanea59.

Ma ci è sembrato poi ancor più significativo il recupero tutto particolare che di alcune indicazioni lukacsiane si tentò in un secondo dibattito sull’Avanguardia e il decadentismo, sempre promosso dall’Istituto Gramsci tra il 5 e il 6 luglio dello stesso anno. Il resoconto riportato sul n. 18-19 del «Contemporaneo» è abbastanza indicativo anche per altri punti di vista che caratterizzarono la politica culturale comunista in quel periodo60; ma l’aspetto che in questa sede maggiormente ci interessa è il costante richiamo alle note teorizzazioni di Lukács sull’avanguardia proprio negli interventi più polemici nei confronti della relazione di Mario De Micheli, il quale aveva liquidato come troppo schematiche e semplicistiche sia l’identificazione di decadentismo ed avanguardia che la convinzione di una loro comune radice reazionaria. Indicazioni in tal senso è possibile ricavare, ad esempio, pur tra molte cautele, negli interventi di Sereni e della Rossanda; ma esse diventano molto più esplicite poi in Antonello Trombadori e perfino in un antilukacsiano convinto quale Della Volpe. Questi accusò De Micheli di non aver tenuto abbastanza presenti gli avvertimenti del teorico ungherese relativi agli stretti rapporti fra decadentismo e avanguardia, ed infine sostenne che il termine e il concetto stesso di avanguardia non potevano servire a dei materialisti marxisti:

e dobbiamo sostituirvi [così concludeva Della Volpe] quello di realismo socialista: cioè di una poetica generale che per principio (trasparente già nella sua stessa denominazione) mira ad evitare il formalismo e ogni squilibrio di forma e contenuto e a restaurare quindi con la piena umanità dell’arte (ch’è senso e ragione) la pienezza dell’arte stessa, e a confortare, infine, la vocazione alla classicità ch’è propria dell’opera d’arte autentica61.

Ma se la tesi dellavolpiana veniva ad essere, bisogna riconoscerlo, alquanto diversa dai discorsi di fondo degli altri interventi, Trombadori non aveva remora alcuna nel denunciare «una troppo frettolosa volontà di negare alla posizione di Lukács un valore che va oltre gli stessi limiti di pensiero e di metodo dello studioso ungherese», perché proprio per non perdere di vista le grandi linee storiche tendenziali della lotta delle idee e della ricerca creativa «non soltanto preferisco – diceva il critico – mantenere un atteggiamento cauto nei confronti della tesi lukacsiana, ma starei attento a non discostarmi troppo da quanto in essa vi è di giusto come esame di tendenza complessivo, come indicazione degli elementi caratterizzanti dei grandi movimenti artistici moderni»62. In altre parole, quando si trattava di respingere i furori avanguardistici e, in genere, ‘modernistici’ di taluni compagni di strada, allora ci si accorgeva di quanto potesse tornare utile uno studioso come Lukács.

E più in generale si può dire, concludendo, che saranno proprio gli aspetti più esterni e fastidiosamente precettistici del Lukács teorico quelli che finiranno per filtrare in certe sistemazioni ufficiali, a dispetto di tutte le polemiche di Gerratana e per tutte le varianti e gli innesti che vi si potranno apportare. Mentre il persistere di talune pregiudiziali di fondo – ad esempio il rifiuto delle analisi di ‘lungo periodo’ o della componente antinaturalista – impedirà una considerazione serena ed accorta dei pregi effettivi del saggista e del critico della letteratura ottocentesca, che non erano invece sfuggiti, come abbiamo visto, ad altri più attenti lettori di Lukács e che avrebbero potuto esercitare un’utile funzione di aggiornamento, di rinnovamento in senso europeo e non-conformista, e comunque indirizzare ben diversamente le nostre considerazioni sulle tradizioni culturali italiane e sulle vicende della cultura contemporanea. Ma ovviamente non è il caso di indulgere alla tentazione dei ‘se’, soprattutto quando essi non ci interessano poi realmente; basterà qui accennare al fatto, questo si reale, che Lukács è andato sempre più acquistando col tempo, al di là delle polemiche e delle profonde incomprensioni, la venerabilità un po’ fredda ed ufficiale di un ‘classico’, l’etichetta un po’ equivoca di ‘grande teorico marxista’. Il suo nome e la sua stessa firma torneranno ad apparire con sempre maggiore frequenza prima sul «Contemporaneo», poi su «Rinascita» e perfino su «l’Unità». E non sarà certo dovuto al caso che, mentre sono passati quasi inosservati i capolavori giovanili, l’interesse maggiore dei ‘partitici’ si sia sensibilmente spostato in questi ultimi anni su quegli interventi più direttamente politici che rivelano in Lukács un convinto assertore delle vie nazionali al socialismo e della coesistenza pacifica. Come non è certo un caso che gli Editori Riuniti, i quali in un ventennio si sono limitati a pubblicare due sole opere di Lukács, fra l’altro le peggiori che egli abbia scritto, abbiano ora sentito la necessità di dare alle stampe un volumetto che da uno dei quattro brevi scritti che vi sono raccolti deriva il titolo assai significativo: Il marxismo nella coesistenza. E nella copertina si parla di «impegnate prese di posizioni del celebre filosofo marxista».

Ma il dibattito sul realismo e l’avanguardia, sul lukacsiano concetto di ‘totalità’, sul rifiuto o meno della sua categoria della ‘mediazione’, si era frattanto esteso e rapidamente diffuso anche al di fuori dell’area del marxismo ufficiale. Anzi, a dire il vero, era stato ancora una volta proprio in taluni ambienti eterodossi che esso aveva ricevuto il suo primo avvio e soprattutto la sua prima seria e qualificata impostazione. All’inizio si era articolato, come abbiamo avuto occasione di ricordare in più riprese, intorno ai risultati e alle proposte del ‘realismo critico’; ma nuovo materiale doveva essere in seguito fornito alla discussione in atto dalla comparsa della traduzione del saggio di Adorno, La conciliazione forzata, contenente uno dei più serrati e violenti attacchi che nei confronti di Lukács si era avuto occasione di conoscere fino a quel momento63. Questo scritto, certo molto diseguale e non sempre felice, ebbe tuttavia l’indubbio merito di permettere di riallacciare un discorso che, almeno in parte, era rimasto interrotto dopo la prima apparizione dei Minima Moralia (dovuta per di più proprio ad un lukacsiano, come abbiamo visto) e che d’altro canto si veniva sempre più sottilmente intrecciando a considerazioni di diversa natura: non bisogna infatti dimenticare che proprio tra il’59 e il’60 appaiono La distruzione della ragione e Il giovane Hegel. Così la polemica veniva necessariamente ad ampliarsi fino a pervenire ad alcuni problemi di fondo che, travalicando ormai le indicazioni del ‘realismo critico’ investirono le più generali considerazioni sulla funzione dell’arte nelle società moderne, soprattutto in quelle a capitalismo avanzato, o addirittura interessarono diverse ed ormai opposte Weltanschauungen. In altre parole si stabilì un collegamento senza dubbio più immediato e diretto di quanto non fosse avvenuto per il passato tra il lukacsiano rifiuto di taluni fenomeni della letteratura novecentesca o le conseguenti proposte di ben diversi spunti e modelli e il più generale impianto ideologico e filosofico che a quel rifiuto e a quelle proposte si sottendeva.

Pertanto quell’unità di intenti almeno – se non proprio di vedute – che aveva caratterizzato fino al 1956 la cultura marxista d’opposizione, si venne frantumando nel corso degli anni, dando origine ad una serie ininterrotta di gruppi e tendenze (anche a non voler considerare alcuni tentativi di ‘far parte a se stessi’) che, ormai noti a tutti, sarebbe tra l’altro impossibile indicare in questa sede in tutte le loro variegate sfumature e diversificazioni64. Rimane comunque il fatto che risultarono mutate le stesse condizioni oggettive in cui essi si trovarono ad operare. In precedenza bersagli polemici ed obiettivi erano stati al contempo più limitati ma anche più chiaramente definibili: guerra fredda e stalinismo, Occidente ed Oriente, capitalismo e socialismo erano stati i punti fermi, le costanti di cui essi avevano dovuto tener conto e che allo stesso tempo avevano tentato di superare. Si erano infatti sentiti uniti dalla comune battaglia impegnata tanto contro la cultura neo-idealistica e neo-ermetica quanto contro le involuzioni burocratiche e dogmatiche dei compagni militanti all’interno dei partiti: di qui erano nate, già in epoca di ‘disgelo’, quelle indicazioni di un fronte unito dei ricercatori e degli intellettuali da noi già analizzate. Certo distinzioni era possibile farne ad ogni momento; l’individualismo intellettuale rimase pur sempre più un pericolo da combattere che non un vizio di fondo definitivamente allontanato e i risultati che furono effettivamente raggiunti interessarono gruppi ristretti, anche se i più attivi e preparati. Tuttavia è anche indubbio che tali distinzioni si resero sempre più profonde ed ormai insanabili nel periodo in cui, venute meno le condizioni stesse di quella loro lotta su due fronti, in un clima di revisionismo e di cauto riformismo ormai imperanti e pressoché generalizzati, mutarono radicalmente le prospettive e le indicazioni che essi furono in grado di suggerire.

La prova generale fu in un certo senso costituita dalla polemica Guiducci-Cases65, la quale ebbe sì ancora una volta ad oggetto le teorizzazioni del filosofo ungherese: e da questo punto di vista, come per il tono, i moduli e la violenza stessa degli interventi, essa appartiene senza dubbio al passato; ma ben presto si ebbe l’impressione sempre più evidente che questo nuovo riesame delle posizioni lukacsiane, lungi dall’essere un ennesimo tentativo di misurarsi con esse per distinguerne il loglio dal frumento, veniva piuttosto a configurarsi come una precisa resa dei conti con un recente e più generale passato culturale che si era voluto velleitaristicamente contraddistinto da un’equivoca politica di alleanze. Fu invece questo il momento dei ‘distinguo’, tanto più che un po’ tutti si sentivano responsabili degli errori del passato e volevano ricrearsi una sorta di personale verginità intellettuale e politica; si preferì quindi insistere sulle differenze e sulle distanze, che senza dubbio ci furono piuttosto che sulle analogie che pur in modo massiccio erano ancora presenti. Il fatto che la polemica finisse per travolgere con sé ben altri temi di fondo è dimostrato, se non altro, dalla constatazione – da noi già fatta – che i suoi più lontani residui vennero a saldarsi con il dibattito di poco più tardo sulle ‘summe’ filosofiche di György Lukács: ancora una volta egli veniva così a scandire tempi e ritmi della nostra cultura di sinistra. I termini dello scontro Guiducci-Cases sono ormai troppo noti perché sia il caso di tornarvi sopra e per questo abbiamo preferito trarne piuttosto alcune considerazioni generali. Certo è che l’apertura delle ostilità e la sempre più manifesta frattura ormai originatasi tra i due gruppi doveva produrre un’altra importante conseguenza che non può essere, questa no, trascurata: il riavvicinamento della schiera dei lukacsiani ortodossi all’area del marxismo ufficiale. Riavvicinamento – è doveroso riconoscerlo – non cercato né tantomeno voluto, ma pur sempre esistente di fatto e magari anche ‘machiavellicamente’ imposto. E non solo perché il richiamo ‘di sempre’ alle grandi tradizioni dell’umanesimo borghese, con tutte le differenze di tono e di livello da noi costantemente poste in rilievo, doveva necessariamente condurre a ‘comuni’ equivoci, comuni incomprensioni e gravi rifiuti di talune componenti della cultura borghese, ostacolandone un corretto processo di comprensione globale, ma anche perché, nel caso specifico di paleo- e neo-marxismo, se Cases poté contare su un minimo di appoggio e di fiancheggiamento, questi gli vennero dagli intellettuali di partito66.

Di qui si dipartono in ogni caso gli infiniti rivoli della ‘moderna cultura d’opposizione e di contestazione’ che in questi ultimi tempi abbia preferito abbandonare la ‘lezione dei classici’, ormai ‘metafisici’ ed immobili nel loro statico splendore di rivoluzionari un po’ demodée, di antesignani di aree primitive e depresse e del tutto appartenenti alla preistoria degli ‘splendidi lumi neocapitalistici’. Alla antica abusiva quanto abusata mania ‘citatologica’ dai grandi del passato se ne è sostituita una altrettanto maniaca dai più recenti campioni di tecniche operative ispirantesi ad un generico marxismo di impronta sociologica e neopositivistica: tecniche più raffinate e sottili insomma di integrazione in apparati e situazioni senza dubbio diverse. Le tappe di questo processo sono state molte, troppe per meritare di essere ricordate tutte. D’altro canto siamo abbastanza convinti che anche se volessimo sceglierle a caso, non ne verrebbe meno il rigore generale della ricostruzione: del resto non costituirebbero queste scelte proprio degli efficienti campioni di indagini ‘empiriche’ e ‘scientiste’? Resta comunque il fatto – questo sì grave e serio – che neopositivisti o metodologi, rappresentanti del New-Criticism anglosassone o autori di processi ad estetiche metafisiche, epigoni dellavolpiani o estetologi empirici, nuovi ma anche meno dignitosi ‘trattatisti dell’angoscia’ o sagaci studiosi dell’alienazione, assertori di rifiuti, grandi rifiuti e rifiuti di ogni rifiuto o teorici di arti e letterature da civiltà industriali o transindustriali, stilcritici o semantici, strutturalisti o preziosi restauratori di atteggiamenti formalisti, custodi della vecchia e storica o ideatori di nuove e dirompenti avanguardie…, resta comunque il fatto, dicevamo, che tutti i citati e citabili rappresentanti della cultura ‘moderna’ nostrana divennero i più autorevoli interpreti delle esigenze di informazione, della diffusione di più ampi ‘consumi culturali’ soporiferi e diversivi, del potenziamento di certi canali e di certe sollecitazioni, che sono poi i tratti più tipici della cultura della nuova società capitalistica. Mentre i più aggiornati esperimenti di riformismo politico degli anni sessanta permettevano che passassero incontrastati il piano politico di ristrutturazione del sistema e il piano economico di ammodernamento delle tecniche e degli strumenti di accumulazione e concentrazione del capitale67, questi rappresentanti delle più ‘moderne’ istanze indigene, affiancati dai divulgatori (spesso neanche fedeli e sufficientemente preparati) delle più ‘moderne’ risultanze della ricerca d’oltralpe, preparavano l’ingresso anche della nostra cultura nell’area neocapitalistica. La loro opera di aggiornamento permise alle espressioni della sovrastruttura borghese di consumare taluni impacci e divenire più agili e disinvolte, fra l’altro nel loro programma di affiancamento ideologico al processo reale di reificazione e proletarizzazione: la riduzione della ‘società’ in ‘fabbrica’ si ottiene anche con quegli strumenti di persuasione occulta che sono quelli della cultura, soprattutto se resa più razionale, e quindi più efficiente e funzionale, per aver bevuto alla fonte delle più moderne tecniche operative.

Divergenze e diversificazioni continuarono certo a sussistere, e non solo nel tono e nel livello, cioè nella ‘qualità’, ma anche nella misura, cioè nel ‘quanto’ di effettiva integrazione, anche se, a parte taluni ripensamenti recentissimi e perciò non si sa quanto reali e totali, la demarcazione fu al massimo fra la sacra fames di raggiungere l’‘altra sponda’ e le secche di un cauto riformismo illuminato, che solo per il piglio più nuovo e spregiudicato si distingueva da quello di sempre. È quest’ultima un’osservazione amara che comincia a farsi strada, e molto lentamente, proprio in alcune parole ‘recenti’ come quelle di Gianni Scalia, che pur è stato uno dei protagonisti tanto della precedente fase dell’‘autonomia e politicità della ricerca intellettuale socialista’ quanto delle nuove proposte perennemente sospese tra integrazione e riformismo68.

La duplicità di sfumature e risvolti di questo iter abbastanza unitario spiega anche la variegata gamma delle posizioni che nei confronti di Lukács si assunsero negli ambienti intellettuali ora descritti. Esse oscillano generalmente tra un rifiuto sempre più categorico ed un’accettazione limitata e parziale, magari rivista e corretta alla luce di Adorno-Benjamin-Goldmann e perfino Marcuse. Si procede cioè, da un lato, dalle più antiche opposizioni che in sede più propriamente filosofica si sono levate contro il Lukács ‘metafisico’ dal fronte neo-marxista e neo-empirista (Armanda Guiducci, Franco Fergnani e, in genere, il gruppo raccolto attorno a «Il pensiero critico», nuova serie – ma sono soltanto alcuni esempi) alle più recenti obiezioni, neopositiviste anch’esse, ma d’altra origine, che, in sede di ‘applicazione sistematica del metodo semiologico’ o di ‘introduzione del concetto operativo di mentalità’ quale è offerto dalle ‘scienze empiriche della cultura’, si sono espresse da chi ha tentato di conciliare avanguardia e realismo, sostituendo a Lukács Brecht, Majakovskij o altre ‘interpretazioni del marxismo’69, fino a giungere alle recentissime riserve di ascendenza dellavolpiana e althusseriana (ad esempio il Lukács di Marzio Vacatello, Firenze 1968). D’altro canto soprattutto dopo la pubblicazione dei capolavori giovanili, si tende a riprendere talune osservazioni che Müntzer e soprattutto Amodio espressero a suo tempo sulle pagine di «Ragionamenti» circa l’elemento ‘utopico’ che si conserverebbe anche nel Lukács marxista e realista, e le si sviluppa in modo più organico ed articolato: l’esempio più illuminante – ma si tratta pur sempre di un unico esempio – può essere costituito da Tito Perlini, di cui è uscito recentemente Utopia e prospettiva in György Lukács (Bari 1968), la raccolta senza dubbio più ampia di studi lukacsiani che sia finora uscita in Italia e la più ricca di materiale documentario e bibliografico.

Così il discorso culturale, divenuto più autonomo e specifico, permetteva di superare sì le più grossolane e stantie prospettive progressiste, ma non solo finiva talora per riesumarne altre, di un progressismo certo più sfumato ed appena percettibile, ed aggrapparvisi disperatamente in extremis70 (e non sarà forse un caso che il commento a Lukács sia divenuto sempre più un commento all’‘utopia’ e alla ‘prospettiva’); tale discorso poi, e soprattutto, non attuava il superamento nell’unico senso possibile, quello della fine del discorso intellettuale appunto e dell’inizio del discorso sulla prassi politica e rivoluzionaria, ma conduceva sulla vita della sua pura e semplice spoliticizzazione, e quindi della sua più immediata e diretta integrazione. Certo l’antidoto a questa situazione reale non poteva davvero essere costituito da un astratto, velleitario quanto attardato paleomarxismo, del resto sempre più hegeliano e sempre meno marxista, che continuò costantemente a richiamarsi ai ‘classici’ e a Lukács, alla ‘totalità’ e al realismo, all’umanesimo e all’‘uomo integrale’. Per questo ricercatori come Cesare Cases e Vittorio Saltini, i più ostinati e caparbi del resto tra i lukacsiani di vecchia maniera, finirono sempre più per apparire come degli isolati, che non contavano affatto nella conduzione del processo culturale, a cui non rimase niente altro da fare che compiacersi di questo loro isolamento e di questa loro aristocratica fedeltà – unici puri – ai ‘principi primi’. Mentre i neolukacsiani dell’ultima ora affinarono sempre più il loro discorso e rivalutarono soprattutto alcuni spunti del filosofo ungherese che potessero essere utilizzati anche in un taglio ‘avanguardistico’ e servire di base per ogni soluzione prospettica e futuribile di società socialista, essi rimasero gli unici che si sobbarcarono per alcuni anni il gravoso incarico di difendere il maestro su tutta la linea: oggi non sapremmo dire quanto ciò fosse dovuto a fede incrollabile, a coerenza, a coraggio o ad incoscienza e cecità intellettuale o, forse, un po’ a tutte queste cose prese insieme. Certo essi rimasero, al di fuori di quelli ancora operanti nei partiti operai, gli eredi unici, o quasi, del vecchio progressismo borghese, con gli equivoci realistici ed ottocenteschi: ed ormai dovrebbe risultare chiaro che tali nostre considerazioni non possono essere accusate dagli interessati di riecheggiare spunti e polemiche di tipo neopositivistico perché provengono da ben altra direzione.

E non sarà certo il caso di dimostrare il lukacsianesimo ortodosso di questi due intellettuali, tanto esso è noto a tutti, anche per esplicite loro professioni di fede. Ci sembra invece operazione senza dubbio più degna di essere condotta e più feconda di sviluppi quella intesa a considerare il modo tutto particolare da essi seguito nel più recente ‘preteso’ superamento di Lukács, che pur essi proclamano e che nel complesso, a nostro avviso, si limita ad un superamento di taluni schemi precettistici più fastidiosi e consunti, di taluni furori antinovecentisti più retrivi ed ormai inutilizzabili, ma non investe, soprattutto in Saltini, la più grande proposta umanistica e positiva. In altre parole si supera Lukács proprio quando si è ormai fatta strada la convinzione che egli non permette, in fondo, una spiegazione, una giustificazione totale e completa della cultura come valore universale, un’assimilazione onnicomprensiva dell’eredità borghese71. Solo che a questo punto ci sembra doveroso rilevare che le posizioni dei due ‘ex-lukacsiani’ si dividono ed infrangono il blocco monolitico di un tempo. Non riusciamo infatti a liberarci da un sospetto: Vittorio Saltini abbandona Lukács perché ormai «è giunta l’ora di tornare a Hegel senza intermediari»72, oppure perché egli non avrebbe consentito il recupero dell’altro idolo a lungo vagheggiato: Schiller. Del resto il critico aveva sempre mostrato di ritenere che «fondamentale problema della cultura socialista è assorbire l’eredità positiva di quella borghese»73; soltanto che ora egli si accinge all’assorbimento anche di quella che Lukács aveva stigmatizzato come ‘negativa’. Ma un altro dubbio non riesce ad abbandonarci; che, in ultima istanza, questo allontanamento dalle direttrici e dai parametri del passato sia sempre stato più affermato, che non effettivamente e compiutamente realizzato; e non solo perché ancora il 30 giugno 1968 continua a professarsi ‘lukacsiano convinto’, ma poi soprattutto perché trova ancora «inopportuno ironizzare […] sui valori umanistici, che oggi certuni liquidano facilmente come valori borghesi», o perché si ritiene, contro ogni masochismo nichilista, che «chi combatte sensatamente la società capitalistica, rivendica (in modo esplicito o implicito) l’attuazione di quei valori (d’uguaglianza, giustizia, libertà e felicità per tutti) che la cultura borghese ha elaborato quando fu rivoluzionaria, ma che la società borghese non è in grado di realizzare. Il pensiero socialista porta solo alle loro conseguenze tali valori»74. Forse ha veramente ragione Saltini: queste ultime sono cose che nemmeno Lukács avrebbe mai detto, almeno in questa forma!

Per Cesare Cases, invece, il discorso è in parte diverso. Alcuni dei suoi ultimi scritti75 contengono osservazioni e spunti di ben altra natura: così le obiezioni alle tesi lukacsiane sull’antifascismo e la coesistenza o all’eccessiva importanza da lui attribuita agli intellettuali nella ‘rinascita del marxismo’, come, in genere, tutte le affermazioni che sembrerebbero autorizzarci a parlare di una ‘svolta’. Ma anche in questo caso, seppure in una misura diversa, il discorso di fondo rimane ugualmente equivoco e se non altro confuso, giacché non è possibile sfuggire all’impressione che ci si trovi di fronte ad un nuovo estremo tentativo di riproporre la mistificazione di un discorso politico basato su valori come la ‘volontà rivoluzionaria’, la ‘prospettiva’, la certezza che ‘la non verità dell’estetica si risolverebbe soltanto nella verità della politica’ o la contestazione della ‘insensatezza del mondo’, quando non addirittura di fronte alla volontà velata di resuscitare l’ultimo discorso possibile sull’arte, la cultura e il ruolo degli intellettuali. Ci lasciano infatti molto perplessi e fortemente dubbiosi affermazioni recentissime come queste, sorte come commento alle note considerazioni di Baran:

Di un’‘avanguardia’ composta di intellettuali non si può quindi più parlare: quando si è sprofondati nella medesima palude e risulta impossibile tirarsene fuori […], una pretesa del genere è inadeguata. Con maggiore legittimità si può però tuttora parlare di un ‘compito dell’intellettuale’, poiché grazie alla sua cultura questi è più facilmente in condizione di rendersi conto dell’illibertà propria e altrui: non è un uomo libero che risveglia i non-liberi alla libertà, ma un non-libero che dà il senso dell’illibertà ai non-liberi assorbiti nel benessere76.

Parole che del resto confermano dubbi meno recenti di chi come noi ha sempre guardato con sospetto ogni fusione di proposte avanguardistico-umanistiche, in cui anche Cases si è voluto cimentare in modi tutti particolari e personali77.

Alla schiera dei lukacsiani appartenne anche Franco Fortini ed anzi siamo fermamente convinti che un discorso su Lukács e le influenze da lui esercitate sulla cultura italiana resterebbe senza dubbio mutilo ed incompiuto senza l’accenno alla sua attività di ricercatore. E se l’abbiamo finora passato sotto silenzio (in questa ultima parte del resto, giacché nelle altre Fortini ha costituito il nostro più costante punto di riferimento, anche quando non ne appariva esplicitamente il nome) ciò non è certo dovuto a dimenticanza o a facili liquidazioni. Che anzi i risultati da lui raggiunti continuano tenacemente ad apparirci come il più alto punto d’arrivo cui potesse pervenire in Italia un intellettuale borghese, per le caratteristiche stesse della sua formazione europea, per il tono, il livello e il valore innegabile di tanta parte della sua scrittura critica e saggistica, per la lucidità e il rigore di talune analisi come lo stesso ‘splendido isolamento’ in cui continua a consumare gli equivoci ultimi, gli errori e le mistificazioni di fondo, senza dubbio le più alte, raffinate e complesse cui fosse dato di approdare. Il suo nome ritorna quindi soltanto ora non solo per ragioni esterne che risulteranno chiare nelle pagine seguenti ma anche, e soprattutto, perché ci è sembrato doveroso condurre su di lui un discorso a parte, vista la distanza che realmente lo separa dagli ‘altri’ e vista anche la tenacia e la fermezza con cui egli stesso ha voluto scindere, almeno a partire dagli anni sessanta, la propria responsabilità e la propria ricerca da quelle dei suoi antichi e recenti compagni di strada.

Franco Fortini era stato a suo tempo il primo, e certo tra i pochi, che aveva messo in luce gli equivoci che si sottendevano alla «famosa immagine delle bandiere borghesi risollevate dal fango ad opera di un braccio proletario», che si sottendevano cioè alla illuministica pretesa di assicurare al nostro paese quella rivoluzione democratico-borghese che non aveva mai avuto e alle grossolane interpretazioni di impianto nazional-popolare. In una fase in cui erano tutt’altro che scomparse temperie resistenziali e linee frontiste la sua voce si era pur levata contro

l’illusione che nella attuale fase politico-economica italiana, romanzo e film possano svolgere una funzione ‘progressista’ e ‘popolare’ che non sia di retroguardia, illusione che nasce dalla indebita trasposizione nel nostro tempo della funzione progressista esercitata dalla letteratura nazional-popolare in una fase ormai tramontata della borghesia (errore di Gramsci) e della funzione progressista esercitata dalla letteratura socialista negli attuali paesi socialisti78.

Lo stesso Senno di poi che, proprio perché fungeva da introduzione concludeva i Dieci inverni, pur portandosi dietro gli errori di un recente passato, chiudeva un’epoca e se non altro segnava la data di morte delle vecchie formule dell’engagement e delle illusorie richieste di ‘autonomi istituti di ricerca socialista’: anche in questa resa dei conti fu il primo fra i suoi compagni di un tempo, egli che pur era potuto apparire «il difensore della legislazione della libertà letteraria ed artistica» e la sua scrittura «una continua ‘dichiarazione dei diritti’ del cittadino e dell’artista»79. Ma le analisi fortiniane, le sue ricostruzioni storico-culturali e teorico-culturali si fanno sempre più lucide e demistificanti man mano che ci avviciniamo ai nostri giorni e agli scritti migliori di Verifica dei poteri. Egli procede oltre, fino alla negazione di ogni ‘mandato sociale’, fino al recupero di quell’‘eterna porta stretta’ che è l’economia politica e la sua critica pratica; si fa quindi storico di un processo che ha coinvolto la sua stessa persona e le sue stesse illusioni, il processo ad un periodo in cui, «con le apparenze di una convulsione vitale, la storica grande pretesa delle guide morali e intellettuali della Sinistra dava – insieme alla Sinistra medesima – gli ultimi tratti»80. Egli, ancora una volta tra i primi, ha compreso tutta la miseria e l’ipocrisia della lotta intrapresa contro la pianificazione capitalistica con le armi della letteratura: la miseria perché ne ha sperimentato personalmente l’inefficacia; l’ipocrisia, perché ne ha visto consumare fino in fondo tutti i furori integrazionistici e le funzioni di copertura degli interessi ideologici del capitale nella sua fase più avanzata. Egli è finalmente giunto a toccare il fondo dell’equivoco progressista, tramite la stessa vivisezione delle sue forme più fastidiose di ‘falsa coscienza’, tramite la scarnificazione della sua mistificazione ultima del ‘movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti’:

si tratta di uscire da un fatale errore della cultura di sinistra, cioè quello di ritenere che alla lotta di classe corrisponda necessariamente una lotta tra due culture. Probabilmente la cultura è una sola: la cultura dei ‘proprietari’, dei proprietari della coscienza, dei proprietari di dio, dei proprietari dell’essere81.

Mai come in questo momento si è avuta l’impressione di trovarci molto vicini al discorso unico e ultimo che si sarebbe dovuto sempre fare; ma esso non rimane l’unico e l’ultimo anche per Fortini.

Verifica dei poteri è infatti un libro ambiguo e bifronte, e ciò non sarà dovuto soltanto al fatto che esso raccoglie gli scritti di prima e di dopo il ’60, ma proprio perché gli stessi discorsi che seguono a quella ‘svolta’ conservano un ritmo equivoco, un’illusione ultima:

C’è luogo a procedere: nell’ordine dell’agire pratico ossia politico e anche in quello, paradossale più di sempre, della parola letteraria. Che ormai solo se accetta di venire emessa senza speranza di ritorno o di eco può attraversare, quando che sia, il corpo dei suoi destinatari82.

Dal crollo e dalle macerie della fortiniana ‘distruzione della ragione’ si è pur salvata la speranza ultima, quella di sempre in fondo: la poesia liberatrice; ormai essa è allontanata nelle brume incerte di altri lidi, è possibile solo da ‘un’altra riva’, ma rimane pur sempre l’unico valore.

Ed è a questo punto che anche il nostro discorso deve ormai muoversi in altre direzioni e non soltanto perché in questi termini si è già scritto sull’ultimo Fortini – e sarebbe certamente inutile ripetere le cose dette quando molte di nuove rimangono ancora da dirne – ma soprattutto perché proseguirlo in questo senso significherebbe allontanarci irrimediabilmente da quanto ha costituito il punto di partenza, l’angolo visuale precipuo della nostra ricerca. Nella sede presente interessa molto di più riannodare l’intrapresa analisi su Lukács in Italia e riuscire a comprovare, nonostante tutte le apparenze, il ‘quanto e il quale’ del debito che anche le affermazioni recenti di Franco Fortini hanno contratto nei confronti del pensatore ungherese. Egli magari non sarà neanche stato l’unica musa – non si vuol qui togliere a Fortini nulla di ciò che spetta a Fortini – e fors’anche l’operazione è stata possibile solo dopo una lunga e dolorosa selezione che ha salvato solo alcuni tratti, pochi ma quelli che contano veramente, del teorico marxista dagli anni’30 in poi, i quali sono andati a fondersi, perché ormai lo potevano, con gli accordi e le risultanze della sua gioventù ‘maledetta’; ma tutto ciò non può cancellare in noi l’impressione che Lukács costituisca tuttora uno dei punti di riferimento essenziali del ‘nuovo’ Fortini. E forse anche egli lo ammetterebbe e lo ammette di fatto con una certa facilità e con il coraggio di sempre. Anche le nostre osservazioni precedenti del resto celavano tale fine o comunque ne costituivano la premessa indispensabile; ma è ormai ora di abbandonare ogni ‘discorso indiretto’ e di venire al fondo delle cose.

E bisognerà innanzitutto dire, proprio per intendere i motivi e la misura del superamento lukacsiano attuato da Fortini, che egli ha tra i primi contribuito ad intaccare uno dei più consunti luoghi comuni che ha accompagnato, ed anzi promosso e facilitato, la diffusione dell’opera di Lukács in Italia: la sua possibilità, cioè, di fornire un’alternativa allo stalinismo. Alcune voci contrarie si erano talora levate anche in precedenza e proprio dalle pagine di «Ragionamenti» (ad esempio quelle di Armanda Guidacci, Amodio e Müntzer) ma erano rimaste isolate e per di più ambigue, proprio per essere state prima e contemporaneamente anche quelle che più avevano utilizzato Lukács in senso anti-dogmatico. Franco Fortini, invece, proprio ripercorrendo dall’interno la storia del ‘mandato sociale’ in nome del quale gli intellettuali furono chiamati a testimoniare, riesce ad individuare tutti gli equivoci dell’antifascismo dei ‘fronti popolari’ e della politica delle alleanze, da cui György Lukács fu, sul piano politico come su quello culturale, certo direttamente e massicciamente influenzato, tanto che «le sue contraddizioni sono della stessa specie di quelle che egli rimprovera a Stalin»83. Non si vuol qui negare la reale funzione ‘frontista’ di Lukács o le stesse vicende biografiche che mostrano come abbia pagato di persona la sua opposizione, ma chiarire che si tratta soltanto di una lotta interna allo stalinismo: che insomma riteniamo che solo nell’ambito dell’ideologia staliniana si possano comprendere molti tratti del Lukács marxista. Certo, leggendo gli interventi che si succedettero al 1° Congresso degli scrittori sovietici del 1934 o riesumando le scarne notizie che si possono ricavare dal 1° Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, tenuto a Parigi nel 1935, restiamo veramente impressionati dai punti di contatto, dalle analogie innegabili dei discorsi di fondo, a parte le differenze di tono e di livello che è pur sempre doveroso riconoscere. Il fatto è che per troppo tempo abbiamo avuto, e forse abbiamo tuttora, una visione monolitica e statica dello stalinismo; ed in fondo lo stesso ‘disgelo’ e gli stessi attacchi kruscioviani sono stati anch’essi dogmatici e burocratici. Tutto ciò non ci ha permesso un’analisi più precisa ed attenta, che stabilisse anche differenze e sfumature all’interno del discorso unitario. Questo soltanto, unitamente ad altri fattori che qui non è il caso di esaminare, ha potuto consentire che a Est come ad Ovest Lukács sia potuto passare per l’antesignano di una ‘rivolta reale e alternativa al regime’ quando essa ne costituì al massimo una proposta riformista e liberalizzatrice. La storia dello stalinismo è ancora tutta da scrivere e non è certo nostra intenzione neppure fondarne le premesse, ma la pubblicazione recente del dibattito svoltosi a Mosca dal 17 agosto al 1° settembre del 1934, che doveva segnare l’atto di nascita della tragicomica Unione degli scrittori sovietici, ha rivelato in tutta la sua evidenza le influenze che la cultura ufficiale dovette innegabilmente esercitare sulle formulazioni del Lukács maturo, ferme restando la maggiore ampiezza e profondità, la varietà di articolazioni e la minore provvisorietà dell’impianto teorico, come i diversi esiti e risultati critici, la diversa latitudine in cui poté spaziare la sua ricerca84.

Ora tutto ciò è stato almeno in parte anticipato da Fortini, anche se non sempre egli lo ha condotto fino alle sue estreme conseguenze; infatti quel Lukács che per questo o per altri motivi è stato cacciato dalla porta, rientra poi dalla finestra. Si è già detto che Verifica dei poteri è un libro ambiguo e bifronte e se ne sono anche accennate le ragioni. Non resta ora che approfondirle e chiarirle anche alla luce della influenza che il teorico ungherese ha continuato ad esercitare sul nostro; influenza che non poteva non riuscire contraddittoria e stridente se giustapposta a quegli inizi di discorso corretto in cui egli si era pur provato. La verità è che, anche dopo il 1960, Fortini ha continuato ad intrecciare tra loro ipotesi di lavoro e di ricerca quanto mai diverse; ed anche a non voler considerare le parti più caduche di quel suo libro, quelle che più danno verso il passato, non per questo un evidente equivoco di fondo cessa di serpeggiare pur tra le sue pagine più nuove e lucide. Tanto che egli può perfino giungere a mescolare a quelle sue prime considerazioni demistificanti, che è riuscito a far proprie nel corso mosso e drammatico di venti lunghi anni, il retaggio di ben più antiche proposte che ormai si consideravano sepolte in un passato equivoco e confuso. Ecco così riapparire nell’ultimo saggio sulle Istituzioni letterarie e progresso del regime, quasi spettro di altri tempi, il tema dell’‘autogestione’ «come linea di comportamento che in parte può rientrare nel sistema, in parte ne esorbita». E ancora una volta le conseguenze che se ne traggono risultano drammaticamente protese a restituire al regno della parola quella stessa consistenza del prosaico mondo della prassi che pur lo stesso Fortini sembrava avergli negato:

E, più semplicemente e immediatamente, c’è anche da proporre e da attuare, con apparente modestia, la costruzione di modelli di ricerche, di studi, di scritture saggistiche o critiche, di gestione di istituzioni letterarie; non in concorrenza con quelle esistenti ma come una tra le innumerevoli forme di partecipazione al ‘movimento reale che abolisce lo stato di cose presente’, cioè alla generale azione politica per il comunismo85.

Ebbene noi siamo convinti che all’origine di tutto ciò è ancora una volta l’insegnamento del maestro di un tempo – anche se non più solo ed assoluto – magari depurato di quelle scorie più impure cui del resto neppure il primo Fortini si era troppo facilmente concesso ed abbandonato. Ma ciò che indubbiamente rimane, pur nella precarietà e nella miseria dell’ora presente, sono quelle sue più generali proposte umanistiche, quella tensione prospettica verso il ‘dove’ dell’uomo alla luce della ‘concezione del mondo’, che si è fatta vieppiù difficile e precaria, che è ormai il frutto di una conquista e di una riconquista quotidiane, ma che è pur sempre riaffermata in tutta la sua necessità. Così come permane una certa idea e una certa ‘funzione’ della critica o il sempre ribadito nesso arte-vita, ora presente in tutta l’immediatezza provocatoria di un tempo86, ora magari più sfumato ed incerto e come purificato dalla lettura del giovane Lukács.

Non è certo sfuggito il tono accorato e nostalgico con cui Fortini continua a rincorrere quell’immagine del critico-saggista,

una figura del critico che è di un’alta tradizione: il critico come il diverso dallo specialista, come colui che discorre sui rapporti reali fra gli uomini, la società e la storia loro, a proposito e in occasione della metafora di quei rapporti, che le opere letterarie sono87.

Accanto alla consapevolezza che «gli anni recenti l’hanno resa quasi incredibile», conflittualmente s’accampa la olimpica e caparbia certezza che quell’immagine proposta seguiti ad essere giusta. Su tale certezza appunto è costruito l’intero saggio che dà il titolo al volume e che è del 1960. Non a caso Lukács vi regna sovrano ed ancora una volta vi ritorna quel suo lontano scritto del 1939, Lo scrittore e il critico, che già avevamo avuto occasione di individuare come una delle letture più attente e costanti di taluni intellettuali italiani. Anzi la scrittura critica vi diventa l’unica forma di mediazione ormai possibile, l’unica veramente indispensabile e anche la più responsabile, visto che essa viene ad essere presente in tutti i giunti della produzione e della circolazione culturale: «Esercitare la critica, svolgere il discorso critico vuol dire allora poter parlare di tutto a proposito di una concreta e determinata occasione», vuol dire «compiere scelte, individuare argomenti, costruire discorsi, impiegare linguaggi che siano scelte, argomenti, discorsi e linguaggi tendenzialmente augurabili ad una società nella quale ‘il libero sviluppo di ciascuno condizioni il libero sviluppo di tutti’»88. Ma in Verifica dei poteri sono anche presenti i primi accenni che in seguito potranno assicurare la fusione con i risultati dell’Anima e le forme: così quelli a Goldmann e al concetto di ‘struttura dinamica significante’ come la ‘forma’ stessa e la ‘funzione’ del saggio. Accenni che si svilupperanno poi tanto nell’Introduzione all’opera giovanile di Lukács (Milano 1963) quanto, e soprattutto, in quella terza parte del Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo (1964-65), che così fastidiosamente riesce stridente rispetto alle lucide analisi contenute nelle prime due: riprova quest’ultima, se ancora ne occorressero, di quanto radicata rimanga in Fortini la voluta ambiguità del discorso di fondo, tanto da costituire l’equivoca e duplice matrice all’interno di una stessa esemplificazione saggistica. La fusione lukacsiana è naturalmente consumata nell’unica direzione possibile e pagando l’unico prezzo possibile: essa anziché fungere da conferma della enorme distanza intercorrente tra le due fasi dell’attività dell’intellettuale ungherese, si preferisce, sulla scorta di talune affermazioni di Thomas Müntzer, raccorciarla, magari in modo velato ed indiretto. Anziché ricavare dall’Anima e le forme la conferma almeno correttamente borghese della fine ultima del proprio discorso, la conferma di quelle analisi tragiche ma lucide che lo stesso Fortini ha talora mostrato di essere in grado di condurre, si preferisce andare a cercarvi precedenti di ironici e saggistici rifiuti alla ‘morte’, di mediazioni e di estremismi che, sotto altre spoglie, ritornerebbero anche nel Lukács maturo: ennesimo esempio di una lettura prospettica e conciliatrice.

La verità è che non si vuole ‘morire’, anche quando ci si è approssimati, più di quanto altri fossero stati in grado di fare, alla consapevolezza e alla irresolubilità di quella morte, che è indispensabile proprio ai fini del ‘movimento reale che abolisce lo stato di cose presente’. Ed ecco allora che la ricorrente ‘autogestione’ degli istituti letterari può assumere una nuova ‘maschera’: essa è impossibile, al limite, senza una trasformazione della società circostante, ma è pur sempre valida come proposta pratica e politica del sindacato della cultura, giacché anche dopo la fine del ‘mandato sociale’ gli intellettuali non mancano certo di ‘civica attività possibile’. Una volta constatato che «la classe operaia è coatta all’impiego pratico della propria vita, al principio di prestazione, al lavoro immediatamente utile», se è vero che, «in quanto essa sia classe rivoluzionaria ossia ‘vera’ negazione, opera oggettivamente ad abolire la ‘informalità’ della propria esistenza e dell’esistenza in genere: quindi a ‘formalizzare’ la vita»89, non dimentichiamo neppure che «l’opera d’arte e di poesia non è (ma questo è tutto il suo onore) se non la profezia metaforica o la metafora profetica di quella formalizzazione»90. Ecco perché, in ultima analisi, «l’uso letterario della lingua è omologo a quell’uso formale della vita che è il fine e la fine del comunismo»91, ed ecco perché «rimane campo vastissimo […] al discorso letterario, alla sua utilità»92.

Non si può sfuggire al sospetto che il Lukács giovane sia solo servito, dopo la drammatica constatazione della fine del mandato sociale, a rendere più sottile e rarefatta, più ‘ermetica’ se si vuole, ma non per questo meno ostinata e fideistica, l’illusione di sempre: che insomma la prassi non sia una cosa diversa dal ‘sogno di una cosa’, da quella ‘facoltà formatrice sulla vita che è appunto il proprio delle opere d’arte’. L’onore del poeta è salvo. Si perpetua ancora una volta la certezza, che è di Fortini come era stata di Lukács e di tutta la tradizione umanistica, che il poeta ‘porti la spada’ per il mondo e proprio in quanto poeta agisca; ritorna l’illusione dell’incidenza della parola ai fini della lotta dell’oggi e ai fini di quell’anticipazione del ‘dove’ dell’uomo, che è sua da sempre: utopia e prospettiva quindi. Naturalmente ora che i due piani del presente e del futuro sembrano irrimediabilmente o temporaneamente allontanati, la parola diviene sempre più sfumata e profetica, lieve ed appena allusiva; essa torna ad essere speranza o, se si preferisce, fede ultima. Ecco perché perfino i dubbi e gli interrogativi possono diventare gli stessi:

L’interrogativo sulla possibilità di star commettendo un errore di metodo critico, di poetica e finalmente di vita, fa tutt’uno con quello (che ha sempre perseguito i migliori politici dell’opposizione rivoluzionaria) sul possibile errore di metodo nell’intento di ‘trasformare il mondo’93.

E che il ritmo binario ed ambiguo scelto da Fortini non sia dovuto al caso né ad un temporaneo offuscamento, ed invece costituisca quella paradossale costante che ormai è la sua, lo dimostrano anche i suoi ultimi scritti. Così egli ha ragione quando dà vita a quella sua bella e suggestiva ricostruzione storica dell’avanguardia e della neo-avanguardia94, la più concisa e rapida, ma anche la più incisiva e corretta nel mare magnum di carte, saggi e volumi che sull’argomento in questi ultimi anni ci hanno sommerso fino a toglierci il respiro. Ma al contempo ha anche ragione Tito Perlini – ma solo in questo ha ragione – quando nota che in realtà Fortini non è riuscito e non ha voluto mantenersi aderente a questa sua radicale impostazione per quanto riguarda il modo stesso di sentire, di valutare e di ‘praticare’ la poesia: il suo presentarsi come forma, appunto, che è in grado di sottrarsi al mondo della necessità e della casualità e di ribadire la libertà di un ‘dove’ che fonda il ‘donde’95. Egli continua così ad oscillare «tra la fedeltà alla poesia come anticipazione ideale ed una radicale svalutazione delle speranze e illusioni che minano alla base una simile concezione in una società a capitalismo organizzato in cui la mercificazione tende a farsi totale»; ciò gli permette di consumare l’equivoco ultimo e la lacerazione – che ormai non può più tuttavia apparire ‘tragica’ per la sua caparbia quanto monotona reiterazione – «tra un attaccamento ostinato ai valori che si esprimono nell’arte come affermazione dell’assente e l’opposta tendenza a liquidare tale fedeltà come un residuo mitologico, una ostinata illusione di cui urge sbarazzarsi in nome di una visione radicalmente demistificata che miri a risolvere in prassi»96. Residuo mitologico ed illusione che sono poi anche di Perlini.

Né ci sembra convincente e decisiva la recente replica di Franco Fortini97. O meglio essa lo è soltanto nella misura in cui conferma e ribadisce i risultati del suo saggio – e in ciò egli ha ancora una volta pagine felici e certo all’altezza delle sue migliori. Per il resto sono cose che già conosciamo e di cui abbiamo già parlato in questo nostro scritto. Qui, come nel saggio e nella stessa nota di Perlini, si fa un gran parlare di Lukács, e non solo di quello ‘giovane’ ma anche dell’autore de La distruzione della ragione; vi ritorna insistentemente ancora una volta, come ha avvertito lo stesso Fortini, «la vecchia (anzi millenaria, direbbe l’immancabile imbecille) voce di Lukács»98. Ultimo esempio, almeno al momento attuale, delle tante polemiche che si sono incrociate sulla testa e sui testi del teorico ungherese. Come abbiamo visto, esse hanno accompagnato, commentato e chiosato un ventennio ed oltre di cultura italiana, tornando a scandirne le tappe fondamentali e le svolte decisive, costituendone infine una delle componenti primarie così nelle ‘miserie’ come – talora e di rado – negli ‘splendori’. E quel che è peggio, tali polemiche hanno indebitamente accompagnato anche un ventennio ed oltre di storia del movimento operaio italiano con le conseguenze che ormai tutti conosciamo. Mentre ci si azzuffava sui valori e sui principi primi, si permetteva la restaurazione neocapitalistica senza nemmeno tentare (o se ciò è stato fatto ne sono noti i risultati) di fornire una risposta che non fosse più intellettuale, ma politica e realmente alternativa a quelle articolate dalle dirigenze riformiste dei partiti, che costituivano ormai il diverso, l’altro, se non perfino l’opposto della classe. Si trattava di un discorso difficile, certo; solo che oggi non si può più continuare ad interrogarci sul ‘perché’ non lo si è fatto. E se comunque può risultare più o meno giusto il rimprovero per non averlo condotto realmente, non si può davvero pretendere l’assoluzione completa o la giustificazione per non averlo neppure tentato.

Ed è per questo che nel ripetere che negli ultimi venti anni in Italia si è fatto un gran parlare di Lukács, troppo forse, lo facciamo con la consapevolezza, ma anche con una punta d’orgoglio, che l’‘imbecille’ fortiniano fosse rivolto potenzialmente anche a noi.

1 Lukács in Italia, in Conversazioni con Lukács, Bari 1968.

2 G. Scalia, L’ideologia letteraria del realismo (1959), ora in Critica, letteratura, ideologia, Padova 1968, p. 113.

3 Non per questo riteniamo di dover abbandonare ‘tutti’ i parametri di giudizio usati nel passato o di dover rinunciare a taluni stimolanti risultati cui si è già pervenuti e che risulteranno invece presenti in questa nostra analisi, ma ci è sembrato doveroso chiarire ad apertura di pagina che altri sono i nostri intenti, volendo al contempo delimitare come parziali o del tutto mistificanti quegli stessi parametri e perfino alcuni di quegli stessi suggestivi risultati, qualora siano utilizzati per diverse quanto equivoche operazioni ‘culturali’.

4 M. Caprara, La polemica sull’opera di Giorgio Lukács, in «Società», settembre 1950, p. 495.

5 Non si dimentichi, inoltre, che proprio sulla stessa rivista, e pressoché contemporaneamente alle traduzioni del «Politecnico», era già apparso uno scritto di Lukács dal titolo Cultura marxista e democrazia progressiva (n. 5, 1947, pp. 581 e ss.).

6 In «Quaderni della Critica», luglio 1949, pp. 110-112. Altri, e a quanto ci risulta unici, documenti di forzatura del silenzio furono una recensione di A. Pieri (ne «Il Ponte», aprile 1950, pp. 419 e ss.) ed un intervento di F. Di Giammatteo (Le contraddizioni di Georg Lukács, sulla «Fiera Letteraria», 23 ottobre 1949), il quale, seppure con ben altra competenza, e conoscenza dell’autore, ci sembra ripetesse discorsi abbastanza analoghi a quelli crociani sull’«impossibilità di costruire un sistema organico sulla base di schemi appassionatamente accettati», ma anticipando anche talune obiezioni, sempre più frequenti in futuro, contro la lukacsiana «naturale propensione per i valori contenutistici» e la sua incapacità di risolvere il problema dell’aspetto formale e dello specifico artistico.

7 C. Salinari, Marxismo e critica letteraria in un libro di Lukács, in «Rinascita», novembre 1953.

8 Cfr. Lukács e i problemi del realismo, in «Società», dicembre 1953, pp. 546-563.

9 Cfr. Una discussione tra la Seghers e Lukács, ne Il marxismo e la critica letteraria, Torino 19642, pp. 378-415; si veda in particolare p. 384.

10 Cfr. Lukács in Italia (1959), ora in Verifica dei poteri, Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Milano 1965 e, in particolare, p. 209. Del resto non solo di questa indicazione siamo debitori a Fortini nel presente studio, almeno al livello di ricostruzione storica.

11 Anche la recensione di G. Carocci ai Saggi sul realismo (in «Belfagor», settembre-ottobre 1950, pp. 597-602) era risultata tutta costruita in questa direzione, anche se essa costituiva poi un episodio abbastanza isolato per l’accettazione affatto entusiastica quanto confusa del pensiero lukacsiano. L’indicazione della mediazione fra mondo comunista e mondo occidentale, era comunque destinata a svilupparsi in misura sempre più ampia per motivi di varia natura ma abbastanza evidenti; così ad esempio nel breve studio di V. Amoruso, Lukács e i problemi del realismo (in «Aut-Aut», settembre 1958, pp. 263-266), che seguiva al XX Congresso, ai fatti d’Ungheria e alla pubblicazione de Il significalo attuale del realismo critico.

12 In ordine di pubblicazione: L. Caretti, Marxismo e letteratura, in «Itinerari», 31 ottobre-31 dicembre 1953; P. Citati, Tre libri di Lukács, in «Lo Spettatore italiano», gennaio 1954; G. Della Volpe, Contraddizioni dell’estetica di Lukács, in «Filmcritica», gennaio 1954, poi in Il verosimile fìlmico e altri scritti di estetica, Roma 1954; A. Banfi, A proposito di Lukács e del realismo in arte, in «Realismo», gennaio-febbraio 1954; C. Luporini, Per una nozione di realismo, ne «Il Contemporaneo», 17 aprile 1954; P. L. Contessi, Questioni di estetica e di materialismo dialettico, ne «Il Mulino», giugno 1954.

13 Non a caso lo stesso Fortini, il quale pur è stato all’epoca il più autorevole rappresentante tra quanti lamentavano il mancato inserimento dell’opus lukacsiano nel vivo della cultura italiana, non può non riconoscere che «nonostante le resistenze e le critiche, in modo quasi inavvertito, fra il ’54 e il ’56, l’influenza di Lukács in Italia non fece che crescere, favorita, oggi è chiaro, dall’atmosfera del ‘disgelo’» (Lukács in Italia, cit., p. 202).

14 G. Lukács, Il marxismo e la critica letteraria, cit., rispettivamente p. 410 e 415.

15 Per l’esistenza precaria di queste riviste («Discussioni», «Opinioni», «Ragionamenti», «Passato e presente», ecc.) e, in genere, per la problematica sopra accennata cfr. A. Guiducci, Dallo ždanovismo allo strutturalismo, Milano 1967, in particolare l’Introduzione.

16 «Non per nulla Lukács, da grande critico culturale hegeliano-marxista, ama l’arte che definisce ‘grande’, l’arte che abbraccia in una sintesi, la più vasta possibile, i problemi di un’epoca, e le contraddizioni, anche, di un’epoca» (ivi, p. 63).

17 La biblioteca immaginaria (1951), in Dieci inverni (1947-1957). Contributi ad un discorso socialista, Milano 1957, pp. 79-81. Ma anche più tardi, in Verifica dei poteri, a p. 50 si può leggere: «Questo è il critico-filosofo e il critico-scrittore di cui ci parla Lukács nel suo saggio; e il critico-storico, di cui Lukács medesimo è esempio. Quest’idea della critica che si ostina a non abbandonarci è, in sostanza, quella che ne ebbe l’umanesimo romantico, e che continua, in altri umanesimi, fino ai giorni nostri. Si fonda su di un perseguimento della dignità, passata, presente o possibile dell’uomo, della sua unità. Il critico letterario ha come oggetto un’opera che, proprio perché non-discorsiva, non-analitica, ma sintetica, ha o pretende avare la complessità stessa ‘del mondo’, della ‘vita’ e dell’‘uomo’».

18 Si veda a questo proposito quanto Renato Solmi ebbe a scrivere nella sua Introduzione ai Minima moralia, Torino 1954: «Chi si è formato sui testi dei classici, di Lukács, di Gramsci, e vive in paesi dove la lotta di classe ha ancora un senso, non può condividere il pessimismo di Adorno, che, per essere maturato nel quadro di un’esperienza cosmopolitica, non è forse per questo più giustificato» (p. LII), e altrove: «Il marxismo non è un metodo, ma una concezione del mondo: e non potrebbe rinunciare alla totalità senza pervertirsi in altro» (pp. LVII-LVIII). Tali indicazioni dovevano essere ancora più insistentemente ribadite più tardi nell’Introduzione, datata 1959, all’Angelus Novus di W. Benjamin, Torino 1962: «Una conseguenza di questa chiusura reale, dell’inconsistenza oggettiva di una speranza ridotta a formularsi in termini ambiguamente religiosi, è data dall’impossibilità di formulare le basi di una piattaforma critica, o, in altre parole, di dominare storicamente il problema dell’eredità. Il problema della continuità culturale, della assunzione dell’eredità valida del vecchio nel nuovo mondo, che è al centro degli sforzi e dell’attività teoretica di Lukács, non si lascia, nonché risolvere, nemmeno impostare dagli elementi anche migliori dell’avanguardia. […] Resta che, da un lato, solo l’impostazione umanistica di Lukács permette di intendere gli sviluppi complessivi dell’evoluzione in una prospettiva veramente storica; e che, dall’altro, solo essa rimane aperta sull’avvenire come realtà concretamente possibile. Non è quindi come esempio, ma come documento, che presentiamo al pubblico italiano queste pagine di Benjamin» (pp. XXXVI-XXXVII).

19 La Guiducci, che più di una volta si era interessata di Lukács e tornerà ancora a farlo, pubblicherà sulla rivista una stimolante recensione a Il verosimile fìlmico di G. Della Volpe, intrecciando raffronti tra il teorico della ‘coerenza semantica’ e il pensatore ungherese (n. 2, novembre-dicembre 1955; ora in Dallo ždanovismo…, cit., pp. 233-237) ed una a Breve storia della letteratura tedesca, al Thomas Mann e a La letteratura sovietica (n. 5-6, maggio-agosto 1956; ora in op. cit., pp. 57-69). A Luciano Amodio si dovette poi un interessante intervento (Der alte Lukács, n. 5-6) dove, fra l’altro, si stabilivano per la prima volta dei nessi tra le teorizzazioni lukacsiane e lo stalinismo e si anticipavano, in genere, tutte le future osservazioni relative ai residui utopici e metafisici presenti anche nel Lukács maturo.

20 Si vedano di F. Fortini le recensioni a Spitzer e ad Auerbach sui un. 1, 2, 5-6 di «Ragionamenti» (ma ora in Verifica dei poteri, rispettivamente pp. 165-171 e 179-186) e di C. Cases I limiti della critica stilistica e i problemi della critica letteraria, in «Società» nn. 1 e 2, 1955 (ora in Saggi e note di letteratura tedesca, Torino 1963, pp. 267-314) e Il paradosso di Mimesis, ne «Il Contemporaneo», 7 luglio 1956.

21 È questo il titolo di un noto saggio di F. Fortini uscito nel 1956 su «Il Contemporaneo» ed ora in Dieci inverni, cit., pp. 221-226.

22 Ivi, p. 22.

23 La biblioteca immaginaria, ivi, p. 76.

24 Da un ‘Libro bianco’ (1950-1953), ivi, p. 155.

25 K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, tr. it. di F. Codino, Roma 1958, p. 23.

26 Da questo punto di vista varrebbe la pena di rileggere attentamente tutti i contributi ad un discorso socialista contenuti in «Ragionamenti», ma si veda poi in particolare il supplemento del settembre 1956 al n. 5-6 della rivista, che riferisce appunto sulle Proposte per una organizzazione della cultura marxista italiana.

27 Socialismo e libertà. Pamphlets di politica e cultura, Torino 1956, p. 23.

28 Ivi, p. 32; abbastanza significativo e caratterizzante ci sembra quest’altro passo: «Così si deduce facilmente che la cultura di sinistra non può essere soltanto una sezione culturale di un comitato centrale di partito. La cultura è il partito, come la politica è il partito. E meglio e nel suo insieme: La cultura marxista è il movimento operaio, come la politica marxista è il movimento operaio» (p. 65).

29 Ivi, pp. 42-43.

30 Ivi, p. 75.

31 G. Lukács, Il significato attuale del realismo critico, Torino 1957, pp. 19-20. Un testo questo per molti aspetti particolarmente vicino, come vedremo, alle richieste di tali gruppi di intellettuali marxisti, conosciuto per di più in un momento in cui non erano ancora sopiti gli intransigenti rigori moralistici seguiti alle vicende ungheresi.

32 F. Fortini, Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo. 1 (1964- 65), in Verifica dei poteri, cit., p. 121.

33 A. Guiducci, Dallo ždanovismo…, cit., p. 54. Abbastanza correttamente la stessa Guiducci poté più tardi ricostruire questa particolare atmosfera che caratterizzò l’assimilazione di Lukács da parte dei marxisti ‘critici’: «L’umanesimo di Lukács, le sue richieste degli anni ’40 […], le sue speranze, perfino la più fieramente escatologica di una restituzione dell’uomo a ‘uomo totale’ anche attraverso un’arte non più alienata; ma, soprattutto, quel suo prendere a misura di una realtà nuova l’uomo moralmente e socialmente rinnovato delle società nate dalla rivoluzione, furono linee ad alta tensione lungo le quali la sua opera vibrò da noi, nel passato, come oggi non è possibile più. Noi toglievamo quelle speranze a conferma della nostra fiducia in una seria, piena e risoluta maturità dell’uomo nel socialismo realizzato» (ivi, pp. 80-81).

34 G. Lukács, Il marxismo e la critica letteraria, cit., p. 58.

35 Ivi, pp. 136-137.

36 Ivi, p. 466.

37 R. Guiducci, Socialismo e libertà, cit., p. 67.

38 F. Fortini, Il senno di poi, in Dieci inverni, cit. p. 33.

39 Ivi, p. 76.

40 G. Lukács, i, cit., p. 138.

41 Cfr. la Prefazione a Il marxismo e la critica letteraria, cit., p. 9.

42 Dallo ždanovismo…, cit., p. 55.

43 Si vedano a questo proposito le belle pagine fortiniane de La selva ironica (1955), in Dieci inverni, cit., in cui si dice, fra l’altro: la lentezza di Mann «allude al passato dell’alta Germania dell’idealismo umanistico e al futuro d’una società senza idoli di volgare faustismo individuale o collettivo. Così egli ha accettato di fare della sua pagina un palinsesto, uno scritto cifrato, una selva ironica, e quanto di meno ‘popolare’ sia dato immaginare, proprio perché più di ogni altro ha saputo che questo era, per uno scrittore inserito nelle convulsioni del tardo capitalismo, l’unico modo per parlare di giustizia, di carità e di speranza. […] oggi egli è il solo a dirci come un uomo possa interrogare sempre senza finire a inginocchiarsi o a ghignare, e che cosa sia un vecchio, e che cosa quel ‘genere umano’ avvenire intravveduto dalle rocche delle città universitarie tedesche, fra Illuminismo e Romanticismo, da quei maestri suoi che grazie anche a lui son tornati ad essere i nostri» (pp. 94-95).

44 R. Guiducci, Socialismo e libertà, cit., p. 17.

45 F. Fortini, Politicità e autonomia della cultura, in Dieci inverni, cit. p. 223.

46 F. Fortini, Il senno di poi, ivi, p. 13.

47 R. Guiducci, op. cit., pp. 45-6.

48 Così ad esempio si era espresso il teorico ungherese: «L’ostile dissidio tra arte e vita viene a cessare là dove sono aboliti lo sfruttamento e l’oppressione del popolo lavoratore, dove il popolo organizza la vita sociale secondo i propri interessi economici e culturali, cioè secondo gli interessi di tutti ad eccezione di un pugno di sfruttatori. La vittoria del socialismo instaura la feconda azione reciproca tra l’artista e la vita innalzandola a un livello mai raggiunto sinora. Cessa l’anormale soluzione di continuità nei rapporti tra lo scrittore e il pubblico: lo scrittore è tornato a condividere i più profondi sentimenti del popolo, a combattere al suo fianco le sue più impegnative battaglie. … Perseguendo i fini veri e reali dell’arte, l’artista adempie al contempo importanti compiti sociali» (Il marxismo e la critica letteraria, cit., p. 251)». Dove non c’è altro, per fastidiosa che possa apparire, che una risentita tensione ‘civile’ o ‘populistico-messianica’.

49 F. Fortini, Il metellismo (1955), in Dieci inverni, cit., p. 102.

50 «E veramente si ebbe l’impressione, in quel periodo, che liquidato definitivamente il deteriore neorealismo letterario, superati o in via di superamento i tenaci residui programmatici di tipo naturalistico o avanguardstico, assunto un atteggiamento più consapevole nei confronti della letteratura sovietica, la nozione di ‘grande realismo’ propria di Lukács consentisse non solo un ripensamento delle vicende letterarie e critiche italiane del trentennio precedente, per un definitivo distacco dalle radici culturali del nostro decadentismo, ma permettesse di volgersi alla letteratura della borghesia ottocentesca con altri occhi, di sostituire allo schema decadentistico un altro genere di lettura. Fu quella una grande occasione sprecata, per la cultura marxista italiana; (e non l’unica). […] Lukács ci suggeriva una prospettiva dell’Ottocento europeo quale in Italia, dopo la sintesi desanctisiana e le geniali intuizioni gramsciane, non si era più aperta. Autori e periodi che la cultura dell’idealismo e dell’ermetismo aveva tenuti oscurati o celati tornavano visibili: pensiamo a Heine e a Keller, a Puškin e a Kleist. Non solo: ma l’insegnamento di Lukács ci riportava alle fonti del pensiero classico tedesco, ci costringeva a riprendere, o a leggere per la prima volta, Goethe o Schiller o Lessing. Per la prima volta si chiariva fra noi il senso di certe grandi opere assopite, come il Meister; mutava la prospettiva di lettura di un Hölderlin; e di là si poteva tentare di intendere nuovamente Swift, Cervantes, Shakespeare» (in Verifica dei poteri, cit., pp. 202-203).

51 Ivi, p. 220.

52 Ivi, p. 221.

53 F. Fortini, Il senno di poi, in Dieci inverni, cit., p. 32.

54 Cfr. il resoconto sommario che ne riportò «Il Contemporaneo», febbraio-marzo 1959.

55 Galvano Della Volpe permane tenacemente antilukacsiano anche in questa occasione, ma, come è noto, partendo, ora come nel ’54, da ben altre posizioni ed argomentazioni, alcune delle quali accettabilissime, almeno da un punto di vista ‘interno’ e ‘specifico’, se non nelle sue proposte ultime sulle possibilità di un’estetica marxista, che continua a sembrarci un controsenso.

56 «Si cade, a mio parere, nel pericolo del sociologismo quando si indica come modello della critica letteraria marxista quella critica che si limiti a rintracciare nella singola opera d’arte l’equivalente delle categorie economiche proprie di una formazione economico-sociale, ad esempio della società capitalista, e lasciando da parte, come non rilevanti, le caratteristiche specifiche della determinata società capitalista cui si riferisce l’opera d’arte» (ne «Il Contemporaneo», febbraio-marzo 1959, p. 52).

57 Tale accusa di Gerratana aveva poi come suo bersaglio più immediato, oltre Lukács s’intende, l’intervento di Lucio Colletti, l’unico seriamente polemico dell’intero dibattito, in quanto finiva per investire – sia pure in modo implicito – il provincialismo del culto nazional-popolare. Avvertiva infatti Colletti che troppo spesso Salinari nella sua relazione introduttiva si era dimenticato «che Lukács ha scelto come piattaforma storica alla quale riferire l’opera d’arte, non già una particolare situazione locale e nazionale, ma quella piattaforma ben più fondamentale che è la formazione economico-sociale capitalistica, la società borghese moderna» (ivi, p. 18). E poco più oltre: «È in questo contesto che dobbiamo rivedere e reimpostare l’opposizione tra cultura nazionale-popolare e cosmopolitismo. A volte si ha l’impressione di una indebita chiusura del nostro discorso critico; perché, nel momento in cui si cerca di aderire a una situazione storico-reale, si scambia per situazione storico-reale una situazione solo locale, perdendo così quella prospettiva di sviluppo a livello internazionale ed europeo, che pure dovremmo considerare nella misura in cui l’Europa è oggi teatro di una contrapposizione di fondo tra mondo socialista e mondo borghese. Questo ‘storicismo’ ha ben poco a che fare con lo storicismo materialistico di Marx» (ivi, p. 19).

58 In una recensione a Il significato attuale del realismo critico, apparsa su «Il Contemporaneo» del 30 novembre 1957 col titolo Leggendo Lukács, scriveva tra l’altro: «È inutile sottolineare come i giudizi di Lukács ci trovino quasi sempre consenzienti e, comunque, sempre pronti a riconoscerne l’intelligenza e l’acutezza». Anche se vi si ribadivano poco oltre profondi dissensi di metodo.

59 Salinari è poi rimasto ancor oggi costantemente legato a queste sue impostazioni, fatta eccezione per taluni aggiornamenti o revisioni che non possiamo qui indicare (si veda in proposito, soprattutto l’Introduzione agli Scritti sull’arte di K. Marx e F. Engels, Bari 1967). Egli, ad esempio, è sempre stato uno dei più convinti assertori del realismo, tanto che, se da un lato è giunto ad intitolare una sua recente pubblicazione di vecchi e nuovi studi Preludio e fine del realismo in Italia (Napoli 1967), d’altro canto vi si può leggere in uno scritto del 1967 – La crisi del realismo –: «nonostante le amare esperienze di questi anni, non ci rassegniamo a rinunziare all’ipotesi realistica» (pp. 203-204).

60 Risulta evidente, ad esempio, il tentativo di superare talune grosse contraddizioni cui ci si trovò subito di fronte: le maggiori furono senza dubbio quelle rappresentate dai giudizi fortemente critici che nei confronti dell’avanguardia erano stati sempre pronunciati da tutti i partiti comunisti, almeno a partire da una certa epoca, e dal fatto che solo pochi mesi prima era stato organizzato ancora un convegno sul realismo, che abbiamo visto come per molti aspetti restasse ancorato a vecchie formulazioni. Il tutto fu affrontato con un discorso condotto ambiguamente in due diverse direzioni: la salvaguardia del realismo e la prosecuzione di serrate critiche alla avanguardia da un lato, e dall’altro accenni di autocritiche e di aperture. Fu poi abbastanza risentito l’altro tentativo di sanare le più grosse fratture tramite la immediata traduzione in termini ‘indigeni’ e ‘nazionali’ del linguaggio dell’avanguardia europea: tentativo che, se poteva forse sortire l’effetto, sperato da taluni, di snaturare e quindi smussare e rendere innocue alcune punte avanzate del fenomeno, ci continua a sembrare d’altro canto l’operazione culturale più ambigua ed equivoca che sia dato di tentare nei confronti della nostra cultura novecentesca, la quale ha ben poco a che fare con le contemporanee avanguardie europee.

61 Cfr. «Il contemporaneo», n. 18-19, pp. 76-77.

62 Ivi, pp. 54-55.

63 T.W. Adorno, Erpresste Versöhnung (Zu Georg Lukács. Wieder den missverstandenen Realismus), in «Der Monat», XI, 122, novembre 1958; tr. it. di E. Zolla, La conciliazione forzata. Lukács e l’equivoco realista, in «Tempo presente», marzo 1959, pp. 178-192.

64 Anche perché alcuni fra questi gruppi, ancora operanti, vengono ad interessare la sottile ed incerta linea di demarcazione della ‘cronaca dell’oggi’, laddove sono in atto ulteriori ripensamenti e reimpostazioni del discorso culturale e politico; anche se talune indicazioni quindi risultano abbastanza felici ed interessanti, potremmo al massimo prevederne i futuri sviluppi con un minimo di correttezza ma non certo individuarli con rigore. Perciò preferiamo, a questo punto, lasciare che la ricerca si muova su un piano più generale e sistematico che non analitico e classificatorio.

65 Si veda di A. Guiducci, Estetica e marxismo: G. Lukács, in «Passato e presente», n. 3, 1958, pp. 261-294 (ora, con il titolo Il prezzo della totalità, in Dallo ždanovismo..., cit., pp. 79-106), e di C. Cases, Marxismo e neopositivismo, Torino 1958

66 E tanto per non perdere la nostra abitudine di chiamare le cose per nome, si vedano a questo proposito Marxismo, neopositivismo e altre cose di C. Luporini (ne «Il Contemporaneo», gennaio 1959, n. 10, pp. 3-22) e il rinvio di Cases allo stesso Luporini, il cui articolo, La metodologia del marxismo nel pensiero di Antonio Gramsci (in «Nuovi Argomenti», n. 30, gennaio-febbraio 1958, pp. 181-206), è considerato «come ottima confutazione della concezione neopositivistica di Gramsci». Certo Luporini non risparmierà a Cases come a Lukács obiezioni e d’altro canto apparirà più ‘aperto’ nei confronti delle «tecniche mentali che vengono comunemente designate come ‘convenzionalistiche’ o come ‘operativistiche’» (p. 7); ma, al contempo, si mostrerà d’accordo con l’uno come con l’altro sul concetto della ‘totalità del reale’ e sulla più generale liquidazione del neopositivismo; e questo è quello che conta: l’accordo di fondo nonostante la diversità dei metodi di lotta.

67 E se tali piani non sono ‘interamente’ passati, ciò si deve in primo luogo alla violenza della risposta operaia, sempre più qualificata e massiccia, sempre più chiaramente protesa nell’unica direzione eversiva possibile (quella del potere), e in ultima istanza alle controforze costituite dal troppo poco tempo da cui è in atto il processo neo-capitalistico nel nostro paese e dall’arretratezza della classe dirigente borghese. Ma certo non si deve in nessun modo e in nessun caso alle opposizioni aperte o velate degli eterni ‘profeti’ di sempre, degli intellettuali che da tempo immemorabile si proclamano avanguardie teoriche e sostenitori, interpreti e guide illuminate degli sforzi operai di liberazione rivoluzionaria.

68 Cfr. Introduzione (breve) a un libro del passato, in Critica, letteratura, ideologia, cit., pp. 7-11.

69 Intendiamo qui riferirci soprattutto a Piero Raffa e alla sua ultima raccolta di scritti, Avanguardia e realismo (Milano 1967), ma si tratta di una posizione che a suo tempo è circolata ampiamente in riviste come «Nuova Corrente» e anche altrove.

70 Si vedano ad esempio le recenti posizioni di Fortini, caparbiamente convinto, nonostante tutto e nonostante le sue stesse analisi, che «come da un’altra riva, è possibile la letteratura», o perfino quelle di uno dei suoi tanti oppositori di oggi (e non sarà forse un caso che, dopotutto, il discorso finisca per risultare simile); così dice infatti Perlini: «La morte dell’arte non deve venir accettata, perché l’accettarla equivarrebbe alla consacrazione dello stato di fatto vigente ed asseconderebbe la pretesa della realtà di porsi come totalità attuata, come realizzazione dell’Utopia. La falsità di una realtà che pretende di porsi come totalità pienamente attuata finirebbe in tal modo per restar completamente celata allo sguardo. L’impulso autodistruttivo dell’arte conviene quindi non si tramuti in un atto suicida che contribuirebbe fortemente alla definitiva legittimazione dell’onnipotenza di ciò che esiste» (Avanguardia e mediazione (a proposito di un saggio di Franco Fortini), in «Nuova Corrente», n. 41, 1967, p. 84).

71 Per misurare il ritmo binario e tutto equivoco con cui si consuma tale superamento in Saltini, si veda, ad esempio, sia Il consuntivo dell’opera di Lukács, ne «L’Espresso», 10 gennaio 1965, che Uno scrittore ridotto in formule, ivi, 25 luglio 1965.

72 Le strade della critica letteraria, ivi, 27 ottobre 1963.

73 Cesare Cases e il classicismo marxista, ivi, 1 dicembre 1963.

74Le citazioni sono tratte da I borghesi contro la borghesia, ivi, 14 luglio 1968.

75 Cfr. già l’Introduzione a Il romanzo storico di G. Lukács, Torino 1965, e poi, soprattutto, Le idee politiche di Havemann e di Lukács, in «Quaderni piacentini», n. 27, giugno 1966, pp. 15-18, La coesistenza culturale, ivi, n. 33, febbraio 1968, pp. 94-104 e la Prefazione a W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino 1966.

76 La coesistenza culturale, cit., p. 97.

77 «Poiché Lukács può, da storico e teorico, avere ragione su molti punti in cui Benjamin approda a contraddizioni insolubili, può giustamente esaltare il valore dell’‘eredità’ classica o offrire una motivazione e un inquadramento del fenomeno dell’avanguardia comunque più soddisfacenti di quelli di Benjamin. […] Ma il richiamo a Goethe e alle tradizioni umanistiche non può garantirci assolutamente nulla: questa ‘eredità’, questo ‘peso dei tesori che gravano sull’umanità’ non è automaticamente nostro, ma può diventarlo solo se allontaniamo la minaccia della barbarie e della distruzione e creiamo le condizioni in cui questo peso sarà di tutti e non solo di pochi. È questa la verità di Benjamin (e di molta avanguardia) contro le illusioni ottimistiche cui il movimento operaio ricade periodicamente in preda. […] l’esperienza dell’avanguardia è stata estremamente valida e significativa in quanto ha messo il dito sul punto dolente, sulla inadeguatezza dell’eredità umanistica a comprendere l’istanza del presente, sull’abisso che si scava sotto i piedi della civiltà» (Prefazione a W. Benjamin, L’opera d’arte, cit. pp. 14-15). [Nel testo originale di Merolla il riferimento alla nota 77 è saltato, benché al fondo dell’articolo sia riportata questa nota. Dato che l’argomentazione su Cases finisce qui, ci sembra che non si possa trovare altra collocazione che a fine di questa sezione. Nota di gyorgylukacs.wordpress.com]

78 Il metellismo, in Dieci inverni, cit., p. 101.

79 G. Scalia, Due diari dell’engagemant (1958), in Critica, letteratura, ideologia, cit., p. 66.

80 Premessa a Verifica dei poteri, cit., p. 11.

81 Da un’intervista concessa a «Il Giorno», 17 marzo 1965.

82 Premessa, cit., p. 16.

83 Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo, I, in Verifica dei poteri, cit., p. 127. Alla stessa pagina leggiamo anche: «Invece di dirci che i Fronti Popolari furono una necessità imposta dalla lotta contro il fascismo ma non riuscirono ad evitare la massima jattura, cioè la guerra; e che, soprattutto, le convergenze intellettuali allora si rivelarono valide solo e limitatamente alla lotta contro il fascismo e largamente negative nei confronti delle lotte socialiste, quelli e questi sono presentati come vittorie rivoluzionarie».

84 Infatti, pur ribadendo che non è questa la sede in cui si possa avviare una rigorosa e compiuta analisi in proposito, non ci sembra tuttavia neppure il caso di trascurare le prime, ma radicate e tenaci, impressioni di analogie e corrispondenze che indubbiamente suscita una lettura come quella degli interventi raccolti in Rivoluzione e letteratura, a cura di G. Kraiski, con introduzione di V. Strada, Bari 1967. Nonostante taluni punti di divergenza, si ricava ad esempio dall’ampia relazione di Bucharin (La poesia, la poetica e i compiti della creazione poetica nell’URSS) una prima impostazione del problema dello ‘specifico’ della creazione letteraria e in generale della peculiare forma di conoscenza che è quella artistica. Da un lato si ribadisce la stretta connessione intercorrente fra conoscenza estetica e materialismo dialettico – «la sua premessa filosofica» (p. 258) –, dall’altro si precisa che, nonostante la profonda unità del reale e del pensiero che lo ‘rispecchia’, tale unità è appunto dialettica e come tale ammette e anzi determina una certa differenza tra ‘forme di pensiero’: «Quello logico opera mediante un’intera gamma di concetti, situati a vari livelli di astrazione» (p. 216); nel ‘pensiero per immagini’, invece, «il processo di generalizzazione non ci porta oltre i suoi limiti (come accade nel pensiero logico e nel suo prodotto più elevato, il pensiero scientifico). Qui si coagula proprio quest’elemento sensibile, profondamente concreto, profondamente ‘vivo’. Non abbiamo qui un riflesso scientifico del reale, bensì un quadro sensibile generalizzato di ordine fenomenologico, non dell’‘essenza’ ma del ‘fenomeno’. Questo non significa che si tratta di un’illusione o di un sogno. Niente affatto! Nel fenomeno appare quest’essenza che poi si trasforma in fenomeno» (p. 217). Bucharin imposterà poi in modo dialettico il problema dell’eredità borghese, in polemica con Gorkij (pp. 232-233 e passim), lancerà i suoi strali tanto contro il formalismo e la decadenza borghese quanto contro il sociologismo volgare, ma poi, e soprattutto, nel tentativo di fornire una definizione del realismo socialista, così si esprimerà: «il realismo socialista non può coincidere con il naturalismo di Zola, che incitiva a descrivere la realtà ‘telle qu’elle est’, e non può nemmeno accoglierne l’altra parola d’ordine ‘l’imagination n’a plus d’emploi’. Il realismo socialista ha l’audacia e il dovere di ‘sognare’ fondandosi sulle oggettive tendenze di sviluppo della realtà» (p. 261); e poco prima aveva detto: «Il realismo socialista si distingue dal realismo comune perché pone immancabilmente l’accento sulla costruzione del socialismo, sulla lotta del proletariato, sulla nascita di un uomo nuovo e su tutti i numerosissimi e complicatissimi ‘nessi e mediazioni’ del grande processo storico in corso» (p. 260). Sul tema della prospettiva socialista come sulla polemica antinaturalista avevano già insistito del resto sia l’intervento di Fadeev che la relazione di Radek (La letteratura mondiale contemporanea e i compiti dell’arte proletaria). Il primo, nel denunciare il puro descrittivismo della letteratura sovietica e la sua mancanza di prospettiva – il leniniano ‘sogno rivoluzionario’ – così concludeva: «Perché il realismo socialista non è affatto una fotografia della realtà e dei particolari quotidiani. […] Nel presentare l’eroe del nostro tempo, molti di noi non si sono ancora liberati dallo schematismo, cioè dal vizio di mostrare gli uomini non attraverso caratteri tipici in circostanze tipiche, bensì come personaggi artificiosi, in circostanze create artificiosamente dall’autore» pp. 100 e 102). Radek poi insisteva sul problema dell’eredità e delle sue delimitazioni (Balzac e Tolstoj, non Proust o Joyce), sul carattere dialettico del grande realismo e sulla necessità, per il realismo socialista, di formulare con chiarezza e rigore una prospettiva («Esso implica la conoscenza non soltanto della realtà così com’è, ma anche della direzione in cui si muove, cioè verso il socialismo, verso la vittoria del proletariato internazionale, e quindi esige una comprensione approfondita, totale, della nostra epoca tanto contraddittoria» (p. 182). Ed infine precisava in una breve replica: «Noi non fotografiamo la vita, e nel cumulo degli avvenimenti cerchiamo i principali. Non esiste un realismo che offra tutto senza una scelta, altrimenti sarebbe il più banale naturalismo. Dobbiamo selezionare i fenomeni, e il realismo consiste in un processo di scelta compiuto in nome di ciò che è essenziale, in nome dei princìpi direttivi» (p. 206). Radek era poi stato quello che più aveva insistito sul problema delle alleanze culturali e sulla necessità della costituzione di un ‘fronte antifascista’ dei letterati democratici europei; ma è questo il tema che ritorna più frequente in quasi tutti gli interventi e costituisce il leitmotiv dell’intero dibattito. Se a tutto ciò si aggiungono le prime formulazioni del ‘realismo critico’ (Gorkij e altri), delle sue differenze con il realismo socialista e, al contempo, l’affermazione della validità, sul piano della comune lotta ideologica contro il fascismo, della ricerca degli intellettuali ‘critici’ europei che non abbiano ancora scelto di militare sotto le bandiere del socialismo; se si aggiungono infine tutta una serie di sottili ma non meno significative rispondenze che qui non abbiamo potuto precisare e analizzare, o le influenze che in questo periodo viene ad esercitare su Lukács un teorico come Michail Lifšic, potremo avere almeno una prima approssimativa conferma di quale importanza dovette avere la problematica ideologica e culturale della Russia sovietico-stalinista sulla formazione del Lukács marxista, con tutte le diversificazioni di piani e livelli che pur ci sembra di aver sottolineato in vari punti di questo nostro scritto.

85 Istituzioni letterarie e progresso del regime, in Verifica dei poteri, cit., p. 95. Della contraddizione si mostrerà parzialmente consapevole lo stesso Fortini quando, nella Premessa, ci avvertirà che questo scritto «si ricollega […] ad un tema abbastanza desueto, e se ne era discorso una decina d’anni fa: che cosa può fare lo scrittore» (p. 17).

86 Leggiamo in Consigli a pochi (1959), ivi, p. 30: «Non esiste problema della poesia o della letteratura che non sia della società. Qualsiasi discorso sulla letteratura e sulla poesia che per voler essere un discorso su di un distinto respinga le implicazioni, cioè le eteronomie, è obiettivamente errore e menzogna».

87 Premessa, ivi, p. 11.

88 Verifica dei poteri, ivi, p. 50.

89 Al di là del mandato sociale, ivi, pp. 154-155.

90 Ivi, p. 153.

91 Ivi, p. 159.

92 Ivi, p. 158.

93 Verifica dei poteri, ivi, p. 57.

94 Due avanguardie, in Avanguardia e neo-avanguardia, Milano 1966, pp. 9-21.

95 Si vedano a questo proposito soprattutto talune pagine de L’ospite ingrato. Testi e note per versi ironici, Bari 1966.

96 Entrambe le citazioni sono tratte da T. Perlini, Avanguardia e mediazione, cit., p. 81.

97 Avanguardia e mediazione (risposta a Tito Perlini), in «Nuova Corrente», n. 45, 1968, pp. 100-110.

98 In Due avanguardie, cit., p. 13.

Lukács in Italia

28 lunedì Dic 2015

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Cases, contro Lukacs, crocianesimo, dellavolpiani, Fortini, fortuna e influenza di Lukacs, hegelismo, Lukács in Italia, ricezione Lukacs, totalità


di Fernando Liuzzi

«Il Contemporaneo-Rinascita», 30 luglio 1971.

Nei giorni immediatamente successivi alla morte di György Lukács si è detto da più parti (Paolo Milano alla televisione; Gianfranco Corsini sulle colonne di Paese sera) che l’Italia è uno dei paesi in cui più vasta eco ha trovato l’opera del grande pensatore marxista. In effetti, basta scorrere i cataloghi delle case editrici e i repertori dei libri usciti per accorgersi come dal ’49 a oggi stampe e ristampe delle opere di Lukács siano state edite in Italia pressoché annualmente, senza considerare i suoi articoli e saggi apparsi su buona parte della stampa quotidiana e periodica della sinistra italiana (l’Unità, Rinascita, Il Contemporaneo, Nuovi Argomenti, Cinema Nuovo, ecc.). In realtà uno scritto di Lukács apparve in italiano già nel 1921, quando (lo ha ricordato Lelio Basso) Rassegna comunista pubblicò nei suoi numeri 14, 15 e 16 con il titolo «Rosa Luxemburg come marxista», un celebre saggio che verrà poi ad essere incluso, l’anno successivo, in Storia e coscienza di classe. Il fascismo chiude brutalmente questo rapporto appena iniziato, che può riaprirsi solo dopo la guerra quando, nel 1949 apparve Goethe e il suo tempo, la prima, come si è detto, di una nuova e lunga serie di traduzioni1.

Tuttavia, è proprio tenendo presente questa larga messe di traduzioni, e la mole non indifferente di interventi, saggi ed adesso anche libri2 che direttamente o indirettamente, per opera di autori italiani, chiamano in causa il nome di Lukács, che, leggendo le commemorazioni o necrologi apparsi sulla stampa italiana dopo la sua morte, non si può sfuggire ad una strana e penosa impressione. Da una parte, infatti, tutti si affrettano ad esternare l’omaggio per il grande scomparso, dall’altra in molti dietro alle luci della lode, prendono forma critiche sottili che vanno a concretizzarsi in quella, assai grave per un marxista, di inattualità, cioè di inadeguatezza ai tempi. Si ha l’impressione, insomma, che da più parti, in quest’occasione, si sia voluta portare a termine, nei confronti del pensiero di Lukács, un’opera di seppellimento per imbalsamazione, che tenda cioè, proprio sottolineando i suoi pretesi tratti «olimpici» e «goethiani», a porlo «al di sopra delle parti», e cioè fuori dal gioco.

Ma, più in generale, si assiste a uno strano gioco di rinvii per cui gli studiosi di filosofia sottolineano l’importanza del contributo estetico di Lukács, quelli di estetica rimandano all’importanza di scritti come Storia e coscienza di classe, i politici che, ovviamente, di questo testo non sanno che farsene, dicono che esso è importante perché lo hanno letto «i giovani», e questi ultimi invece o conoscono Lukács solo per sentito dire, o magari hanno letto un testo assai diverso come Il marxismo e la critica letteraria) e così il cerchio si chiude.

Come spiegare questa contraddizione tra una diffusa conoscenza e una quasi altrettanto diffusa ostilità, o, almeno, semi-ostilità? In realtà per capire almeno parzialmente la storia complessa dei rapporti tra l’opera di Lukács e il marxismo e, più in generale, la cultura italiana del dopoguerra, occorre operare una rigorosa distinzione tra la fortuna di Lukács, ampia e diffusa, e la sua influenza: e si vedrà allora che quest’ultima, ciò che più conta per un pensatore, è stata molto inferiore di quanto comunemente non si creda. E in questo senso non ci sembra certo casuale che si sia potuto parlare, a proposito di questo rapporto, di una «discussione contro Lukács»3.

Rintracciare allora le origini dei fili che in questa contraddizione fanno nodo, significherebbe ripercorrere tutta la storia del marxismo e della cultura italiana per più di venti anni; il che, se esorbita dai limiti oggettivi di questo articolo, ci offre intanto due immediate considerazioni. Una prima, che questa dell’influenza di Lukács, nei suoi vari aspetti (rapporto Marx-Hegel, estetica marxista, problema dell’alienazione, questione del realismo, democrazia proletaria, riforma economica, rinascimento del marxismo, problema dei generi letterari, ecc.), sarebbe una chiave di lettura di tale storia culturale e politica di interesse non secondario; e una seconda, che l’ampiezza e la profondità degli intrecci che sempre porta con sé una riflessione sul suo pensiero, come è stato recentemente osservato4, è prova (tra le altre) della sua grandezza.

Ci limiteremo più semplicemente a formulare, circa i modi e i motivi del contrasto sopra delineato, alcune ipotesi di fondo, rintracciandone i segni solo in alcuni punti della polemica che più direttamente entreranno in contatto col discorso; con quel tanto di arbitrario e con le omissioni che un simile metodo comporta: e delle quali chiediamo senz’altro scusa al lettore.

Nel 1949, come abbiamo visto, esce la prima importante traduzione italiana, quella di Goethe e il suo tempo; pochi mesi prima Benedetto Croce ne aveva recensito l’edizione tedesca5. Croce pone subito in chiaro che ciò che più gli dà fastidio nel «signor Lukács», è che egli sia un «ripetitore» sia pure insigne «del Marx», e che in quanto tale si dia «naturalmente» a ricondurre «senz’altro alla polemica e critica “sociale”» la tragedia di Margherita. Dopo una confutazione teoreticamente volgare di tale interpretazione nel corso della quale Croce trova modo di riprendersela anche con Engels e non stenta a confessarci candidamente che dopo aver preso visione di tali orrori ha «rinunziato a leggere il libro intero», libro che, nientemeno, «è uno dei soliti nei quali ora si rinnova indefessamente l’attentato di istupidire il lettore». Questa recensione crociana ci sembra importante al di là della notizia, proprio perché ci consente di sottolineare le due cose che in essa sono chiare; e cioè, da una parte il fatto che per un autore coscientemente borghese attaccare Lukács significa anche e subito attaccare il marxismo nelle persone dei suoi stessi fondatori, e dall’altra che al fondo di tale rifiuto, da un punto di vista più specificamente estetico, sta l’impossibilità di accettare quella «categoria del tipico o particolare, interposta tra il singolo e l’universale» (Fortini) che consente appunto a Lukács di operare quella «storicizzazione delle forme artistiche» che è preclusa, e cui non ambisce, chi, come Croce, ha una concezione della «Poesia assoluta ed eterna».

Per ciò che riguarda questo aspetto estetico della questione, diremo subito che il difetto, che qui si evidenzia, interno al pensiero crociano, circa il rapporto tra storia e poesia, non è a nostro giudizio, un difetto personale, ma un momento di un problema irrisolto negli ultimi due secoli della cultura italiana: quello del rapporto tra età moderna e antichità classica. Vogliamo dire con questo che mentre Lukács è un autore la cui opera rimanda subito a quella di Hegel e a quella, come nota ancora giustamente Fortini, di «Goethe o Schiller o Lessing», cioè ad autori che hanno speso larga parte dei propri sforzi nella definizione di tale complesso rapporto, in Italia è mancato un Classicismo propriamente detto, e che, per tacere dei critici e dei teorici, quei letterati per cui questo problema è stato direttamente importante nella loro produzione, da Monti a Foscolo, da Carducci a Quasimodo, si sono mostrati scarsamente coscienti della reale dimensione del problema; e che anzi con essi la borghesia italiana è stata piuttosto incline a dare al problema una soluzione estetizzante, con tutto il bagaglio di superficialità e di irrazionalismo che questo termine comporta. In Lukács invece, tramite i suoi «autori», e tramite una profonda assimilazione del pensiero di Marx, è stata sempre acuta la percezione della «specificità» dei tempi moderni, e la teoria dei generi, di evidente derivazione classica, è stata lo strumento della mediazione teorica tra opera poetica data e divenire storico della base produttiva corrispondente6.

Per quanto riguarda invece la prima parte delle nostre osservazioni su Croce, e cioè il legame strettissimo che egli vede tra il marxismo di Marx e di Engels e quello di Lukács, legame che sarà poi parzialmente o totalmente negato da molti marxisti italiani, è doveroso osservare come in linea generale l’andamento delle fortune di Lukács presso questi ultimi, sia largamente legato all’andamento delle complesse vicende culturali e politiche del movimento operaio italiano e internazionale: si pensi ad esempio, all’insorgere dello ždanovismo, alla pubblicazione delle opere di Gramsci, alla crisi del neorealismo, al XX Congresso, all’imporsi, sull’onda dello sviluppo monopolistico, della industria culturale, alla crisi del ’56, al nuovo ciclo di lotte operaie e studentesche degli anni ’60, alla riammissione di Lukács al partito ungherese nel ’67. Andamento la cui irregolarità, al di là dell’indubbia drammaticità di queste vicende storiche, e al di là della pur giusta osservazione di Cases secondo cui il pensiero di Lukács «proprio per il suo rigore e la sua assenza di compromessi scopre facilmente i fianchi agli attacchi»7, va ricondotto, a nostro giudizio, a un vizio di fondo del marxismo italiano o, quanto meno, di sua larga parte. Vizio che consiste, se ci è concesso questo giudizio, nella sua scarsa attitudine a fondare il proprio discorso con analisi salde e rigorose condotte su quel terreno che è più proprio dell’indagine marxista: la ricostruzione storica e la critica dell’economia politica. Accade così che, se da una parte diminuisce la capacità di persuasione e penetrazione nei confronti dei più agguerriti teorici di parte borghese, esso stesso si trova d’altra parte esposto, in assenza di tale saldo ancoraggio teorico, all’insorgere delle crisi, delle mode e delle reazioni alle mode.

A questo punto ci sembra che si comprendano meglio alcuni motivi di fondo di quella contraddizione tra fortuna (molta) e influenza (poca) di Lukács in Italia; ci sembra cioè di poter vedere che, per condensare il nostro discorso in una formula, i canali della fortuna di Lukács nel nostro paese sono anche stati i canali della sua sfortuna. Infatti, se da una parte è assai probabile che l’hegelismo italiano abbia precostituito un terreno favorevole alla ricezione di un pensatore nella cui opera tanta importanza occupa la categoria della totalità, è anche vero che esso, nel suo proporsi come sintesi teorica dell’Italia unita, si portava dietro un tal bagaglio di problemi (anche estetici) irrisolti, che essi hanno poi fatto nodo in un groviglio a tutt’oggi irrisolto, come abbiamo visto, sia pure di scorcio, a proposito del problema del rapporto tra poesia e storia. Abbiamo detto a tutt’oggi irrisolti; e lo ripetiamo perché questo è il punto: il fatto cioè che nel dopoguerra molti per liberarsi dalle angustie e dagli errori di Croce e dell’idealismo italiano, si sian mossi verso il marxismo o verso altre direzioni senza aver fatto fino in fondo i conti, come diceva Marx, con la propria «anteriore coscienza filosofica», e dando per dato un superamento che era piuttosto un atto volontario che una conquista acquisita. Si comprende allora che se questo canale ha contribuito senz’altro alla diffusione dell’opera di Lukács assai maggiore in Italia che, ad esempio, nei paesi di lingua inglese, di tutt’altra tradizione filosofica, esso ha poi costituito un ostacolo al crearsi di una salda influenza dell’estetica marxista; e si veda, ad esempio, la quasi totale assenza dell’influenza di Lukács nel campo della critica letteraria.

D’altra parte è evidente anche che proprio l’esistenza in Italia di una classe operaia combattiva e di un forte movimento operaio e quindi di larghi settori dell’editoria, della stampa e dell’opinione orientati a sinistra, hanno offerto gli strumenti e il pubblico per la penetrazione di Lukács in Italia. Ma la scarsa omogeneità e le incertezze (e gli sbandamenti anche) della critica e del pubblico, di cui abbiamo indicato sopra un motivo fondamentale, hanno fatto sì che, incompreso dai critici di volta in volta per diverse ragioni, sia noto al pubblico, se pur largamente, spesso solo attraverso più o meno interessate e più o meno profonde deformazioni.

Il nostro ragionamento qui si chiude; ed è evidente che più che un riesame del dibattito su e con Lukács in Italia, esso costituisce solo una premessa a tale riesame; il tentativo di delineare le coordinate nel cui ambito sistemare tutta la complessa e varia fenomenicità del dibattito stesso.

Tuttavia, per evitare che le omissioni in cui l’articolo è sin qui incorso, si facciano troppo gravi, ci sembra necessario ricordare l’importanza che Della Volpe e i «della-volpiani» hanno avuto nel mantenere alto il livello del dibattito, e in particolare le sicure acquisizioni raggiunte anche (e qui giustamente) contro Lukács circa il rapporto tra Marx e Hegel quale si delinea nel Giovane Hegel lukacsiano8; interpretazione quest’ultima che, sia detto di passaggio, è sostanzialmente difesa da Vittorio Saltini sull’Espresso.

È anche necessario ricordare l’importante dibattito che si tenne all’Istituto Gramsci dal 3 al 5 gennaio del 1959 sui Problemi del realismo in Italia9.

Infine un accenno ad alcune influenze positive di Lukács in Italia. Esse, come sembra, si legano in notevole misura alla critica cinematografica, e in particolare, oltre alla rubrica tenuta da Alberto Moravia sull’Espresso (che ad es. si servì della nozione di realismo critico a proposito de L’eclisse di Antonioni) alla rivista Cinema Nuovo, che è tutta percorsa da una impostazione «lukacsiana», e alla persona del suo direttore, Guido Aristarco, di cui ricordiamo qui un libro Il dissolvimento della ragione (Feltrinelli, Milano, 1965). Esse si legano anche alla rivista di Carocci e Moravia, Nuovi Argomenti, e ad un libro dello stesso Moravia, L’uomo come fine (Bompiani, Milano, 1964).

1 L’elenco completo fino al ’59 (riaggiornato poi sino al ’63) da cui traiamo questi dati, è contenuto nella nota 1 dell’utile saggio di Franco Fortini su «Lukács in Italia» che sta in Verifica dei poteri, Il Saggiatore, Milano, 1965, pp. 194-222. Questo saggio, che avremo qui ancora occasione di citare, è stato ripreso da Cesare Pianciola, nella sua nota su «Lukács in Italia» posta a chiusura di Conversazioni con Lukács, di Abendroth, Holz e Kofler, De Donato, Bari 1968, pp. 195-205. I più recenti contributi italiani alla discussione su L. di Vacatello, Perlini, e dello stesso Pianciola vengono a loro volta discussi da Cesare Vasoli, al termine della seconda parte del suo ampio studio su «Lukács tra il 1923 e il 1967», Il Ponte, 1969, n. 2, pp. 239-250. Vedi anche Nicola Badaloni, Il marxismo italiano degli anni ’60, Editori Riuniti, Roma, 1971.

2 Vedi Marzio Vacatello, Lukács, Firenze, La Nuova Italia, 1968, Tito Perlini, Utopia e prospettiva in György Lukács, Bari, Dedalo, 1968; Giuseppe Vacca, Lukács o Korsch?, De Donato, Bari, 1969; Nicola M. De Feo, Weber a Lukács, De Donato, Bari, 1971; Giuseppe Bedeschi, Lukács, Laterza, Bari, 1970.

3 Cfr. F. Fortini, op. cit., p. 218; il corsivo è nostro.

4 Cfr. M. Vacatello, «Storia e coscienza di Lukács», in Il Ponte, 1971, n. 5-6.

5 Cfr. B. Croce, Quaderni della Critica, luglio 1949, pagine 110-112.

6 Sull’importanza decisiva del rapporto tra passato e presente per la definizione di un «valido criterio estetico», cfr. le importanti osservazioni di Lucio Colletti alle pp. 18-19 del n. 11 del – Contemporaneo, febbraio-marzo 1959. Vedi anche, sulla coscienza di tale specificità nel L. premarxista di Teoria del romanzo e dell’Anima e le forme, le osservazioni di A. Asor Rosa nella prima parte del suo saggio sul giovane L., saggio dalla cui impostazione peraltro dissentiamo: «Il giovane Lukács teorico dell’arte borghese», in Contropiano, 1968 n. 1, pp. 59-62.

7 Cfr. Cesare Cases, «Lo scoiattolo e l’elefante», Il Contemporaneo, 21 aprile 1956. È questo uno dei migliori articoli che, su Lukács, siano mai stati pubblicati in Italia, e a fianco del quale vanno qui ricordate le attente introduzioni premesse alle edizioni einaudiane de Il romanzo storico e de Il marxismo e la critica letteraria. Per l’ulteriore sviluppo del suo pensiero su L. vedi «Le idee politiche di Havemann e Lukács», Quaderni piacentini, n. 27, giugno 1966.

8 Cfr., ad es., le importanti considerazioni di Colletti in Il marxismo e Hegel, Laterza, Bari, 1969, pp. 87-93 e note, 98 e nota, 119-120, 270, 353-356, e le opere di M. Rossi e N. Merker ivi cit.

9 Cfr. Il Contemporaneo, anno II, 1959, n. 11-12.

Libertà e prospettiva: una lettera a Cesare Cases

06 domenica Dic 2015

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carteggio, Cases, egocentrismo, Manzoni, prospettiva, soggetto-realtà


di György Lukács

da Testamento politico e altri scritti contro lo stalinismo, a c. di A. Infranca e M. Vedda, Edizioni Punto Rosso, Milano 2015.


8 giugno 1957

Caro amico,

la sua lettera mi ha molto rallegrato, malgrado l’“egocentrismo” [Ichbezogenheit]. Credo che non disturberà la nostra amicizia che mi com­porti anche come uno “storico della letteratura” oggettivo, di fronte a questa categoria sommamente soggettiva che amico e contemporaneo utilizza. Lei dice che la mia interpretazione oggettiva, sociale di Manzoni provocherà resistenza tra gli psicologisti italiani. Molto bene, credo che trattandosi di questo egocentrismo, è necessario applicare lo stesso metodo: non è una categoria psicologica congenita – o al massimo una tendenza –, bensì un risultato di complicate interrelazioni tra soggetto e realtà sociale oggettiva. Credo che questo sia il metodo per risolvere questo problema, tanto nel passato come nel presente, tanto scientifi­camente quanto praticamente.

Da un lato, mi ricordo molto bene che l’egocentrismo non sempre ha svolto in lei questo ruolo. Dall’altro, so a partire da una buona esperienza, che nella mia bella casa di riposo a Bucarest dovetti anche con­durre una lotta che non vado oltre l’egocentrismo [1]. Non creda che con tali considerazioni, ricorro ad una estetizzatone, a una capitolazione di fronte alla cattiva realtà, così come accadde spesso con la “riconcilia­zione” del vecchio Hegel. Si tratta, innanzitutto, di seguire la prospetti­va. Ricorderà, forse, la mia conferenza su questo tema all’ultimo congresso degli scrittori tedeschi, che si tenne l’anno scorso. In quell’occa­sione dissi che la prospettiva non è una realtà – se quella è rappresenta­ta in tal modo, allora si produce un happy end – ma è, alle volte, una real­tà futura. Pertanto, è reale e irreale allo stesso tempo. Se uno si attiene a questo, allora è possibile trovare, anche sotto le circostanze più sfavore­voli, uno spazio anche minimo per l’attività. Forse conosce, a partire da precedenti conversazioni, che la mia massima favorita è una piccola va­riazione della famosa frase pronunciata da Zola ai tempi del caso Dreyfus [2]: «La verité est lentment en marche, et à la fin des fins, rient ne l’arrêtrera»[3].

Mi rallegro soprattutto per ciò che scrive su Manzoni. Ho sperimen­tato qualcosa di simile in Inghilterra in relazione a Walter Scott. Sareb­be molto buono che concretasse qualche volta il piano su Manzoni che abbozza nella sua lettera. Dopo tutto ciò che è pubblicato ne Il roman­zo storico può essere soltanto una indicazione, uno stimolo. Una vera valorizzazione marxista di Manzoni può essere soltanto opera di un ita­liano; ma credo che una valorizzazione concreta sarebbe molto impor­tante per l’Italia, e lei è proprio l’autore indicato per farla.


La traduzione è tratta dall’originale in tedesco conservato presso l’“Archivio Lukács” di Budapest. Traduzione di Antonino Infranca.

[1] Nel 1956, Lukács appoggiò la ribellione ungherese contro il regime comunista ungherese e promosse una profonda trasformazione del sistema. Una volta re­pressa questo rivolta, fu deportato in un campo di concentrazione a Bucarest, dove rimase fino al 10 aprile 1957.

[2] Alfred Dreyfus (1859-1935), ufficiale dell’esercito francese nato in Alsazia, fu accusato ingiustamente di consegnare a un governo straniero documenti sulla di­fesa nazionale. Fu sottomesso a corte marziale, degradato e condannato all’erga­stolo nell’Isola del Diavolo. Gli sforzi della moglie e degli amici di Dreyfus riusci­rono a rivelarne l’innocenza, che era stato vittima della corruzione – e in particola­re dell’antisemitismo – dell’esercito e delle istituzioni pubbliche francesi. Zola in­tervenne attivamente a favore di Dreyfus e scrisse, in questo contesto, un famoso pamphlet J’accuse [Io accuso] (1898). Nel 1906 Dreyfus fu aministiato e riuscì a ri­prendere i gradi militari.

[3] «La verità è lentamente in marcia e, alla fine dei tempi, nulla la fermerà». La frase di Zola («La verité est en marche, et rien ne l’arrêtrerà») fu uno dei più diffusi slo­gan durante il caso Dreyfus. Quando il senatore Scheurer-Kestner chiese la revi­sione di questo caso, Zola scrisse un articolo su Le Figaro (25 novembre 1897) in­titolato, precisamente, da questo slogan.

Il centenario lukacsiano

23 venerdì Ott 2015

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Adorno, Bloch, Cases, centenario, Faust, Giovane Lukács, Goeghe, Holz, Lenin, Lukacs, Mazzone, Nicolas Tertulian, ontologia, Perlini, Prestipino, rispecchiamento, Simmel, Tragedia


di Gian Mario Cazzaniga

«Rivista di Storia della Filosofia», 1, 1986.

La stagione di convegni che sembra aprirsi in occasione del centenario della nascita di Lukács può agevolare la ripresa del dibattito su una figura culturale, certamente importante, alla cui estese influenza passata in campo filosofico e nella critica letteraria ha corrisposto negli ultimi anni una attenzione tutto sommato scarsa.

Il convegno «György Lukács nel centenario della nascita 1885-1985», svoltosi ad Urbino il 13-15 febbraio 1985 per iniziativa dell’Istituto di scienze filosofiche e pedagogiche della Facoltà di Magistero e dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, ha costituito una interessante occasione di confronto fra studiosi di orientamento diverso, realizzando quindi l’obiettivo di un primo bilancio sullo stato presente degli studi.

Hai iniziato Guido Oldrini (Università di Bologna) con una relazione su «Giovane Lukács o Lukács maturo?», in cui viene sottolineata l’importanza della svolta teorica degli anni Trenta, sotto l’influenza delle letture moscovite dei Quaderni filosofici Lenin e dei manoscritti giovanili marxiani, svolta che pone le premesse teoriche per la futura Ontologia. In questo quadro viene esaminata criticamente la letteratura recente, in particolare anglosassone, che esaltando l’idealismo soggettivo giovanile ignora o misconosce la produzione della maturità, con una operazione storiograficamente infondata. Il recupero della distinzione fra le alienazione e oggettivazione nella centralità del concetto di lavoro permette infatti a Lukács di cogliere una genesi e costituzione ontologica degli strati del reale che ne consente una distinta autonoma lettura. Il terreno sociale e la sfera culturale risultano quindi dotate di proprie leggi, non riducibili meccanicamente a quelle della struttura materiale.

Nicolae Tertullian (Ecole Pratique des Hautes Etudes, Parigi) ha sviluppato la sua relazione su «Adorno e Lukács: la conciliazione impossibile». La tensione fra i due teorici, che giunge alla sprezza della Conciliazione sforzata di Adorno (1958) e della risposta di Lukács nella Prefazione del 1962 a Teoria del romanzo, ha finito per celare i fondamenti comuni delle due teorie estetiche, individuabili nella tradizione classica di Goethe e Hegel. L’obiettivo polemico per Adorno è la teoria del rispecchiamento, cui oppone la distanza della forma estetica dall’empirico, pur senza negarne la natura di fatto sociale. Il ruolo della mediazione soggettiva, in quanto costitutiva del fatto artistico, è tuttavia presente e sottolineata in tutta l’estetica lukacsiana. La stessa polemica contro le avanguardie viene motivata dalla insufficiente qualità del filtro soggettivo, non dalla soggettività in quanto tale, come mostra il riguardo di Lukács per Bartók e Kafka. Ciò che viene respinto in Adorno è piuttosto l’immersione nel negativo, l’assunzione del momento antirealistico come espressione condivisa del disincanto del mondo. In questo senso Lukács parlerà in una lettera del 1968 di un ruolo «schopenauriano» di Adorno, certo agli antipodi con le sue posizioni militanti sul terreno della politica culturale.

La relazione di Luciano Amodio (Milano) su «Lukács e la fiaba infinita» ha analizzato Sette fiabe, una recensione di Lukács a Bela Balázs del 1918. Abbiamo qui un frammento di una teoria dei generi letterari in cui la fiaba, in quanto equivalenza di possibilità e realtà, si costituisce come genere a sé. Si pone tuttavia una ulteriore distinzione fra mondo della fiaba antica, molteplicità di realtà possibili che è piuttosto ritrovamento che invenzione, e forma della fiaba moderna in quanto allegoria, non coincidenza col mondo che è tuttavia anche nostalgia di un mondo possibile. Di qui l’antinomia fra forma tragica, in cui la possibilità originaria viene elevata a destino, e forma fiabesca in cui domina piuttosto una scelta originaria da porre in questione. L’attenzione per la fiaba assume perciò per Amodio un carattere paradigmatico. Nel momento della crisi (1917), Lukács sceglierà di andare incontro alla rivoluzione non come a utopia, in quanto weberiana possibilità oggettiva, ma come a fiaba, possibilità esistenziale e istanza di novità assoluta.

Pasquale Salvucci (Università di Urbino) nella sua relazione «Lukács e la filosofia classica tedesca (Fichte)» ha ripreso criticamente la lettura lukacsiana di Fichte, con particolare riferimento a Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica. Mentre Fichte rappresenta nel suo giacobinismo il momento più radicale dell’idealismo soggettivo, il suo limite è costituito per Lukács dal contrasto assoluto fra libertà e realtà, contrasto colto dal giovane Hegel che, riconducendo la storia della libertà sul terreno sociale, ne concretizza il manifestarsi e lo sviluppo delle realizzazioni possibili. Questo tema di una hegeliana «fame di realtà» ritornerà più tardi nell’Ontologia. Ma il contrasto fra libertà e realtà è per Salvucci già presente in Fichte, sia pure con una strumentazione debole individuata nel ruolo degli intellettuali e dello stato pedagogo. Né la tesi fichtiana della natura come regione della coscienza risulta infirmata dalle critiche di Schelling ed Hegel, il cui idealismo oggettivo finisce per costituire una «autoillusione filosofica», peraltro secondo Lukács storicamente necessaria affinché il farsi della coscienza storica possa essere riportato dalla successiva critica materialistica su un diverso e vincente terreno.

Domenico Losurdo (Università di Urbino) nella relazione «Lukács e la distruzione della ragione» ha cercato di ricollocare nel suo reale significato storico questo testo controverso. La stesura nasce dalla lotta antifascista, contro i recuperi nazisti di Hölderlin ed Hegel, completandosi nel dopoguerra con un duplice obiettivo polemico contro la Norimberga storiografica che riportava le origini del Terzo Reich da Lutero a Hegel, col rischio di una condanna-assoluzione generale, e contro la tesi zdanoviana che riconduceva lo stesso Hegel al filone della reazione feudale. La classica coppia materialismo-spiritualismo diventa perciò qui contrapposizione tra idealismo e irrazionalismo, nel tentativo di recuperare all’interno della tradizione marxista un filone borghese progressista. Abbiamo qui una difesa della soggettività come cardine del razionalismo moderno, mentre il limite va piuttosto individuato nella tesi della continuità tra decadenza e nazismo. Lukács teorico della rottura rivoluzionaria rischia qui di ricadere in uno schema evoluzionistico, così come Croce, teorico della continuità, vedendo nel fascismo la rottura di una tradizione finirà per celarne radici e responsabilità storiche.

Italo Mancini (Università di Urbino) nella relazione «La differenza che non è infinita» ha ridiscusso criticamente le tesi di Goldmann di una presenza lukacsiana, con Pascal e Racine, fra i costruttori della coscienza tragico cristiana, con particolare riferimento a Metafisica della tragedia (1911). In questo periodo lukacsiano emerge con forza il tema della differenza, della Vita come altro dalla quotidianità, dell’irradiamento della bontà come categoria gnostica che unifica soggetto ed oggetto. Se il dramma è un gioco fra l’uomo e il destino, dove Dio è spettatore, questa dimensione esistenziale resta per Lukács differenza nel finito, non si fa mai prospettiva teologica nell’infinita differenza fra l’io-tempo e l’eternità. Di qui la critica di Bloch, che nella categoria weberiana del caso riscopre i fondamenti realistici dell’azione libera e della stessa utopia religiosa che si proietta in un tempo storico inteso come possibilità, multiversum. Gli spunti di metafisica cristiana si annullano dunque su un terreno radicalmente laico e appaiono piuttosto una gigantesca metafora della storia d’amore con Irma Seidler, dove l’attesa del miracolo non va oltre l’essere coscienza e segno della crisi.

Tito Perlini (Milano) nella relazione «L’etica nel tardo Lukács» ha analizzato l’ultimo periodo come ripresa di una simbolica goethiana, dove l’idea conserva la realtà dandole significato, in opposizione ali allegoria, dove il concetto elimina la cosa e tradisce l’immagine risolvendola in astrazione. Di qui il primato lukacsiano del realismo in quanto realizza­zione dell’immanenza del significato, in polemica col naturalismo e con le avanguardie che costituiscono il riflesso del processo di dissoluzione della realtà prodotta dalla fase tardo-capitalistica. In questo quadro Estetica e Per l’ontologia dell’essere sociale si pongono come introduzione all’Etica che Lukács non scriverà, in quanto tentativo di riflessione sullo sviluppo del mondo moderno, processo di laicizzazione che supera l’etica indviduale astratta della religione nella padronanza sociale del mondo tramite l’arte e la scienza.

Proprio il porsi di queste ultime come strumenti di consapevolezza e veicoli di liberazione fonda l’ottimismo ancora ottocentesco lukacsiano, figlio della deutsche Klassik, e motiva la sua debole presenza oggi, dove questo ottimismo diventa improponibile.

Laura Boella (Università di Milano) nella relazione «Etica e ontologia nell’ultimo Lukács» ha cercato di cogliere gli elementi di continuità fra la tarda elaborazione teorica lukacsiana e la produzione precedente. La svolta degli anni Trenta costituisce una riflessione su una fase di riflusso del movimento rivoluzionario, in cui il recepimento di riconciliazione hegeliana con la realtà non annulla il progetto lukacsiano di redenzione del mondo. In questo contesto è significativo il saggio su Keller (1939), in cui una società civile non ancora assoggettata al capitalismo si proietta nel futuro come modello di comunità etica. L’Ontologia dell’essere sociale si pone come introduzione ad un’Etica che resterà progetto, ponendo il lavoro come prassi teleologica costitutiva della natura umana e fondante il mondo della rappresentazione simbolica e della produzione di valori. Natura e cultura restano tuttavia come antinomia irrisolta e proprio questa perdurante contraddizione dell’ultimo Lukács ripropone come attuali i temi della critica alle aporie del progresso e della persistenza dei problemi metafìsici dell’esistere umano.

Giuseppe Prestipino (Università di Siena) nella relazione «L’Ontologia di Lukács: revisioni oggi possibili» ha analizzalo il tentativo nell’Ontologia di superare la teoria del rispecchiamento privilegiando la struttura teleologica del lavoro, in quanto autorealizzazione umana e conseguente arretramento della barriera naturale, e rielaborando l’analisi hartmanniana di un tempo pluristrato (cosale, vissuto, pensato). È possibile ripercorrere una analisi materialistica a partire dal cogito cartesiano, in cui la forma teleologica compiuta di una comunità autoprogettantesi costituisca il punto di partenza per i livelli inferiori di realtà: momento organico della teleologia non cosciente, momento inorganico ateleologico. Sul rapporto fra materia e forma è significativo che mentre Hartmann distingue fra tempo delle forme psichiche e tempo delle forme sociali, Lukács unifichi nel tempo dell’essere sociale. C’è qui un passaggio incompiuto. Lukács intravede una forma futura socioteteologica che si autoregola consapevolmente, ma in sostanza resta bloccato sul tempo presente, dove la forma sociale non ha regolazione cosciente. Tuttavia questo tentativo può essere ulteriormente sviluppato: solo partendo da una forma compiuta di realtà oggi non ancora visibile, in quanto possibile ma non realizzata, il progetto ontologico può avere fondamento sviluppo.

La relazione di Hans H. Holz (Università di Croningen) su «Il problema della mimesis nell’estetica di Luktìcs» ha analizzato l’estetica lukacsiana della maturità in chiave di tensione irrisolta fra una ontologia materialistica fondata sulla dialettica della natura ed una teoria del rispecchiamento come mimesis dell’umanizzazione della natura. La mimesis sorge come riproduzione di accadimenti umani e naturali, si articola nelle forme della raffigurazione e della riflessione producendo livelli mimetici cumulativi, prima nel rituale magico e poi nel mito, da cui sorge la distinzione tra magia e arte in quanto secolarizzazione (consapevolezza del carattere mimetico del rito). Lukács coglie però insufficientemente il livello più astratto della rappresentazione (relazione e strutture), da cui la sua incomprensione dell’arte astratta. Resta inoltre un concetto debole di natura, da cui la riduzione del lavoro al momento teleologico e la svalutazione della scienza, colta come disantropomorfismo, nei confronti dell’arte intesa come simbolo di libertà, massimo distacco dall’essere-in-sé. Nell’Ontologia si intrecciano nuovi e vecchi tempi, riemerge con insistenza uno status soteriologico dell’arte come Vita, per cui la teoria materialistica della mimesis resta un gigantesco progetto incompiuto.

La relazione di Cesare Cases (Università di Torino) sugli studi faustiani di Lukács ha infine affrontato la lettura lukacsiana del Faust come tappa della storia dell’umanità, grandiosa allegoria del capitalismo in cui la traduzione poetica non cela contraddizioni e possibilità di rovesciamento verso una più umana futura comunità. Ma il testo, e particolarmente l’atto finale, manifestano piuttosto la consapevolezza che il capitalismo apre un processo di distruzione dei rapporti umani e autodistruzione, da cui scaturisce la rivolta della natura violentata. Mentre per Lukács il Faust chiude la fase classica dell’arte, mentre successivamente solo il romanzo sarà in grado di affrontare criticamente la realtà capitalistica, si può invece rilevare che proprio la scrittura allegoria del secondo Faust risulta capace di riflettere i processi di mercificazione, mentre il realismo balzachiano, dove l’umano prevale ancora sull’astrazione, distoglie dal generale dominio del denaro. Di qui l’incomprensione del testo nel secondo Ottocento e la riscoperta nella scrittura allegorica faustiana sono da parte di quella avanguardia novecentesca che Lukács non amava. Nelle Faust-Studien opera una lettura della storia come susseguirsi necessario di stadi, il cui limite è la permanente tendenza a sfociare nel giustificazionismo storico, limite peraltro presente non solo nell’opera lukacsiana ma in tutto il marxismo.

La diversità di temi orientamenti espressi dal convegno si è poi ulteriormente allargata nelle comunicazioni (G.M. Cazzaniga, Università di Urbino, «Kultur e Zivilisation nel giovane Lukács»; A. De Simone, Università di Urbino, «Dalla tragedia alla dialettica. Note sul rapporto tra il giovane Lukács e Simmel»; A. Mazzone, Università di Messina, «Causalità e teleologia dell’ontologia lukacsiana»).

Il dibattito sulle relazioni ha infine contribuito a mettere in luce diversità dei filoni interpretativi e nodi controversi, dal significato della pubblicistica lukacsiana all’interno del dibattito culturale terzinternazionalistico al possibile rapporto fra i diversi periodi dell’esperienza intellettuale e politica di Lukács. Nel confronto con i contemporanei è stato dibattuto in particolare il rapporto con il messianismo blochiano e con la teoria critica di Adorno, così come la presenza di Hartmann nelle opere più tardi, mentre è forse rimasto in ombra il momento più specificamente storiografico dell’influenza lukacsiana sul dibattito culturale e letterario di questo secolo.

È difficile prevedere se l’occasione del centenario stimolerà una ripresa di studi originali su questo pensatore, alla cui indubbia influenza in ambiti culturali diversi ed in forme e tempi diversi a seconda dei contesti nazionali sembra oggi corrispondere una attenzione debole, una sorta di silenzio che attende ancora un bilancio storiografico meditato.

Gli atti del convegno urbinate, che si annunciano imminenti, costituiranno comunque un utile materiale sullo stato attuale della ricerca.

La passione durevole per una filosofia dell’emancipazione.

13 sabato Dic 2014

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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di Costanzo Preve

da Una nuova storia alternativa della filosofia, petite plaisance, Pistoia 2013.

Note di analisi sull’ontologia dell’essere sociale di Lukács e proposta articolata di sua rifondazione categoriale critica

Nell’ultima parte della sua vita (1956-1971) il filosofo ungherese di lingua tedesca G. Lukács (1885-1971) si accinse ad un’impresa filosofica che per la sua serietà ed il suo livello qualitativo può essere paragonata senza esagerazione a quelle compiute da autentici geni del pensiero come Spinoza, Kant, Hegel e Marx. Prima scrisse una monumentale Estetica, che non deve essere confusa con un’opera specialistica sul giudizio estetico puro e semplice, ma che ha come oggetto la cosiddetta «missione defeticizzante dell’arte», rivolta a combattere quello che chiamava «l’ateismo permanente alla manipolazione ideologica» (su questo punto Lukács ha incontrato felicemente l’Antonio Gramsci della rivalutazione del cosiddetto «senso comune» come matrice della filosofia). Terminata l’Estetica, Lukács si ripropose di scrivere un’Etica. E, tuttavia, egli si rese immediatamente conto del fatto che un’Etica scritta senza prima accertare le categorie dell’essere sociale non può che sboccare inesorabilmente in un’etica dell’intenzione di tipo kantiano, o in un’etica della responsabilità di tipo weberiano, o in una interminabile, sfiancante ed inutile “disputa sui valori”, oppure in un’interminabile casistica di tipo gesuitico su cosa si dovrebbe fare in situazioni-limite, scelte appositamente per evitare di prendere in considerazione le normali situazioni della vita quotidiana (del tipo: è possibile cavare gli occhi al torturato se in questo modo gli si può far confessare dove ha messo una bomba che ucciderebbe centomila persone? È lecito tagliare la gola alla propria madre se questo comporta la salvezza di dieci persone?). Lukács si rese presto conto che è del tutto inutile scrivere un’Etica, o se si vuole una Morale, se prima non ci si è chiariti bene la natura prima dell’essere sociale in generale (in quanto è appunto categorialmente distinto dall’essere naturale oggetto delle scienze moderne di tipo galileiano, newtoniano ed einsteiniano), e poi dell’essere sociale specifico (in quanto appunto è capitalistico, e non primitivo, antico-orientale, asiatico, schiavistico o feudale-signorile).

Fra il 1964 ed il 1971, infatti, Lukács si accinse a scrivere un’ontologia dell’essere sociale. Non mi riferisco affatto all’opera in due volumi e tre tomi conosciuta con questo nome. Mi riferisco all’insieme delle sue opere del periodo 1964-1971, dalla vera e propria Ontologia dell’Essere Sociale, ai Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, dall’Uomo e la Democrazia all’autobiografia in forma di dialogo intitolata Pensiero Vissuto, dalle conversazioni tenute con Kofler, Holz e Abendroth, dalla corrispondenza con Hoffmann alle numerosissime interviste rilasciate a singoli, riviste e giornali. Si tratta infatti di un complesso unitario di posizioni contenute in volumi diversi e diseguali per esposizione e livello di astrazione.

Devo una spiegazione al lettore. Lukács ha scritto questo complesso monumentale fra i settantanove e gli ottantasette anni di età, quando ormai la fine è imminente e si tratta di stilare un bilancio complessivo dell’attività filosofica di un’intera vita. In quel periodo io invece andavo dai ventuno ai ventotto anni, e mi trovavo in una congiuntura politica ed ideale ben diversa. Fra me e Lukács si instaurava di fatto una vera e propria «non-contemporaneità» (Ungleichzeitigkeit), per usare il termine proposto da Ernst Bloch. Io sono vissuto allora nel contesto delle rifondazioni filosofiche e superscientifiche del “marxismo” alla Della Volpe ed alla Althusser, mentre Lukács era stato allievo di giganti come Georg Simmel e Max Weber, e contemporaneo di pensatori epocali come Herbert Marcuse, Adorno, Sartre, Heidegger, Bloch, ecc. Inoltre, aveva dovuto fare i conti con Stalin e lo stalinismo, e con il connesso dilemma tragico se accettarlo, sia pure interiormente non condividendolo, oppure rompere con esso, ed in questo modo uscire anche dal movimento operaio organizzato (come fece ad esempio un altro grande pensatore esemplare dell’epoca come il tedesco Karl Korsch).

Dilemmi tragici, mentre i dilemmi del mio tempo erano soltanto comici, se cioè strisciare davanti ad un barone universitario per riuscire a sostituirlo dopo avergli portato la borsa per vent’anni, inserirsi in cordate partitiche introiettando servilmente i parametri ideologici della cultura di schieramento, oppure scegliere una sorta di solitudine metodologica che però non implicava affatto pericoli di morte, incarcerazione o licenziamento ma soltanto ridicole difficoltà di pubblicazione e di recensione. Ritengo di aver capito abbastanza presto la differenza fra un’epoca tragica di dilemmi esistenziali assoluti ed un’epoca comica di simulazione situazionistica alla Debord, e per questa ragione non mi sono mai ridicolmente “identificato” con Lukács. E tuttavia in una cosa mi sono effettivamente identificato psicologicamente, e la potrei formulare grosso modo così: come si fa a sopportare il peso del conflitto schizofrenico fra una causa storica che si ritiene legittima (la causa di Marx, e cioè della legittimità della critica radicale al capitalismo) ed un profilo politico che si ritiene pessimo e da sostituire il più presto possibile (lo stalinismo e le sue pratiche massacratone e dispotiche)?

Non esiste ovviamente nessuna “formula di salvezza” che possa fornire un formulario di questo tipo. Eppure Lukács, nella sua vita concreta, ha mostrato di possedere almeno concettualmente questo dilemma. In questo suo aspetto mi sono certo soggettivamente identificato, e non vedo perché debba rimuoverlo o silenziarlo.

E tuttavia, sia ben chiaro, non sono un fan di Lukács, e Lukács non solo non è il mio guru, ma non è neppure il mio principale pensatore di riferimento. Conosco abbastanza bene il piccolissimo gruppo dei “lucacciani”, ne stimo alcuni e ne disprezzo altri. Non ho quindi alcuna preoccupazione di ortodossia lucacciana. Da tempo sono disceso dalla sella dei nobili cavalli di pensatori di riferimento grandissimi (Spinoza, Hegel, Marx), o semplicemente grandi (Adorno, Bloch, Sartre, Gramsci, lo stesso Lukács, ecc.). Mi sono comprato un asinello, che però è mio, che nutro, mantengo e di cui sono responsabile. Meglio essere proprietario di un asinello, che essere costretto da altri a scendere da cavallo, o meglio dal cammello, perché l’appartenenza ideologica è un fenomeno da cammelli nel senso preciso dato a questa parola da Nietzsche. Dunque io non sono un fan di Lukács, ma un pensatore radicalmente indipendente. Mi merito quindi integralmente le lodi che mi possono essere fatte, e nello stesso tempo non ho scusanti per le sciocchezze che inevitabilmente mi sarà capitato di dire.

Ritengo semplicemente che l’ontologia dell’essere sociale, intesa non come un titolo di libro, ma come una prospettiva filosofica praticabile, sia quanto di meno peggiore (e cioè di migliore) il “mercato filosofico” di oggi ci offre. Non sento quindi il bisogno di criticare Lukács, e quindi nemmeno ovviamente di approvarlo o “giustificarlo”. Seguendo il motto metodologico di Ernst Bloch del «camminare eretti», io cammino eretto anche nei confronti di Lukács, e penso a lui idealmente come ad un amico anziano nel frattempo defunto. Defunto nel frattempo è anche Cesare Cases, il germanista che fu amico personale di Lukács, e con cui invece ho potuto scambiare valutazioni e rilievi su Lukács, così come ho potuto farlo con filosofi di livello come Kofler e, naturalmente, con Nicolae Tertulian, esempio ineguagliabile di competenza filosofica e di onestà intellettuale.

Considerando Lukács come un amico anziano nel frattempo scomparso, so bene di ricollegarmi idealmente a quella catena di conflitti filosofici che ho fatto iniziare con Eraclito. Il lettore è quindi avvertito: non leggerà qui un commento esegetico-critico all’ultimo Lukács, ma leggerà soltanto un insieme di considerazioni personali sulla prospettiva filosofica dell’ontologia dell’essere sociale. In questo insieme di considerazioni, si avrà un compendio critico riassuntivo dei trentanove capitoli precedenti, che trovano qui un loro (provvisorio) coronamento. Una regola basilare del discorso filosofico, forse la regola più importante di tutte, è quella di confrontarsi con i punti più alti possibile del discorso filosofico stesso, in particolare quando i punti alti sono quelli della propria tradizione di scuola. Solo i mediocri si confrontano con i “punti bassi”, e lo fanno per la meschina soddisfazione di uscirne facilmente vincitori. Confrontandosi con i “punti alti”, invece, si rischia facilmente la sconfitta, perché è probabile che questi “punti alti” stessi si trovino ad un’altezza concettuale che noi non potremmo mai raggiungere. E tuttavia il discorso filosofico si distingue da tutti gli alti tipi di agone sportivo, di concorrenza economica e di prestigio sociale per il fatto che non ci sono mai né vinti né vincitori, ma solo la Filosofia vince (la scrivo volutamente con la maiuscola per enfatizzare il concetto).

Questa tradizione viene direttamente da Socrate, che non era interessato a “vincere sul campo” la tenzone retorica, ma ad avviare un processo problematico-maieutico che coinvolgesse entrambi gli interlocutori per giungere ad una accettabile definizione concettuale comune. Certo, Socrate non aveva ancora letto Marx, ed aveva tutto il diritto di non sapere la cosa fondamentale, e cioè che esiste uno sbarramento invalicabile ad ogni argomentazione razionale, e questo sbarramento è l’interesse di classe, che rende ad un certo punto impossibile la prosecuzione del flusso argomentativo bipolare, inserendovi in mezzo l’elemento ideologico.

Ma mentre Socrate aveva tutto il diritto di non saperlo, il seppellitore dei francofortesi Habermas non ha il diritto di non saperlo. E così come lo studioso di scienze naturali non ha il diritto di non sapere che Darwin è esistito, e quindi bisogna fare i conti con la sua teoria dell’evoluzione, nello stesso modo oggi non si ha il diritto di non sapere che esiste un sistema filosofico – piaccia oppure no – che spiega come il flusso argomentativo dialogico bipolare non passa, in presenza di interessi di classe divergenti. Non è possibile “convincere” un membro della oligarchia finanziaria globalizzata, che consuma in lussi quanto sarebbe necessario per la sopravvivenza fisica di diecimila persone, che la sua ricchezza si basa sul lavoro sfruttato di altri. Il flusso argomentativo necessariamente si interrompe. Ripeto, Socrate poteva non saperlo, ma quando Habermas propone una teoria generale dell’argomentazione che prescinde totalmente dai rapporti di diseguaglianza sociale, ed afferma egualmente che essa mira ad un convincimento possibile, ci si chiede se egli menta sapendo di mentire, sia istupidito, oppure marxianamente sia in mezzo alla falsa coscienza ideologica necessaria degli agenti storici. Siccome si chiama “dialettica” l’insieme dei metodi dialogici per rendersene parzialmente conto da soli, non ci si stupisce più quando Habermas sublima la propria falsa coscienza ideologica con il rifiuto metodologico della dialettica.

Ciò detto, la filosofia non ha nulla del dialogo buonista e del chiacchiericcio esibizionistico da caffè letterario. Essa è un «campo di battaglia», come ha giustamente detto Kant (Kampfplatz). Ma questo Kampfplatz, a differenza di Canne e di Waterloo, non vede mai vincitore uno dei due schieramenti, ma solo la Filosofia in quanto tale. Il concetto (Begriff) può essere definito in molti modi, ma forse il modo migliore per definirlo è «ciò che non può diventare per sua natura proprietà privata di nessuno». Anche Heidegger affermò che la filosofia non si può amministrare (verwalten), e qui sta infatti la differenza fra filosofia ed ideologia: l’ideologia per sua propria natura è amministrata da capillari apparati ideologici, mentre la filosofia si muove liberamente, e si fa beffe di chi la vuole amministrare e regolamentare.

Bisogna quindi sempre confrontarsi con i punti più alti possibili del pensiero filosofico, rischiando di uscire battuti dall’inevitabile campo di battaglia (Kampfplatz). Ed allora ho deciso nel mio ultimo capitolo conclusivo di confrontarmi con il punto più alto possibile del pensiero della scuola marxista novecentesca, che per me appunto è Lukács. Il motivo per cui lo considero il più alto, naturalmente, verrà progressivamente analizzato in questo capitolo. Se alla fine del capitolo Lukács risulterà vincitore, ed io perdente, mi riterrò soddisfatto egualmente.

Lukács ha incarnato nella sua lunga vita (1885-1971) l’intreccio fra filosofia e politica, e nello stesso tempo il rifiuto sistematico di sciogliere la filosofia nella politica. E poiché i politici di professione se ne fregano della filosofia, e sono soltanto interessati al suo uso ideologico di manipolazione, è evidente che per tutto il corso della sua vita Lukács sia stato assai più tollerato e sospettato che riconosciuto nella sua grandezza oggettiva. A volte ha dovuto piegarsi – e vedremo perché – ma nell’essenziale ha sempre «camminato eretto» – come direbbe Bloch – e la sua biografia lo mostra ampiamente. E tuttavia, prima di affrontarne il pensiero – e di criticarlo quando lo ritengo opportuno – ci sono quattro determinazioni generali che intendo subito segnalare.

In primo luogo, Lukács è stato un modello di comportamento intellettuale per quanto riguarda il fare i conti con Marx. C’è un testo del 1933 (con un post-scriptum del 1957) che si intitola La mia via al marxismo (Mein Weg zu Marx) che è assolutamente esemplare in proposito. Scrive Lukács: «Il rapporto con Marx è la vera pietra di paragone per ogni intellettuale che prenda sul serio il chiarimento della propria concezione del mondo, lo sviluppo sociale, in particolare la situazione presente, la propria posizione stessa ed il proprio atteggiamento rispetto ad essa. La serietà, lo scrupolo e l’approfondimento con cui egli si dedica a questo problema ci indica se ed in quale misura egli voglia, consciamente o inconsciamente, sottrarsi ad una chiara presa di posizione nelle lotte della storia attuale».

Parole d’oro. E parole d’oro perché esse non scendono correttamente nei dettagli della particolare interpretazione che possiamo dare al pensiero generale di Marx, al materialismo storico, alla dialettica, ai suoi rapporti o meno con Hegel, ai veri e propri macroscopici errori di previsione che fece sul decorso storico del capitalismo, ai “residui” positivistici o messianici più o meno secolarizzati, ecc. Tutto questo è ovviamente importante, e fa parte della necessaria esegesi marxiana e della ancora più importante ricostruzione sociale materialistica della storia del marxismo. Ma tutto questo non è essenziale, e viene soltanto dopo. Prima è necessaria una presa d’atto, che non tocca certamente sciocche classificazioni di “inferiorità” o di “superiorità” rispetto a Platone, Aristotele, Spinoza, Kant, Hegel, ecc. Non si tratta di stilare classifiche dossografiche per giochi di società o di chi verrà buttato prima dalla torre. Si tratta di qualcosa che in effetti presuppone una decisione esistenziale totale, che consiste nel rifiuto dell’adattamento (Anpassung) alla società capitalistica, intesa come totalità alienata, e quindi non-vera, e quindi falsa. Questo atto esistenziale totale è la mossa primaria, quella a cui tutto il resto verrà poi di fatto ricondotto come conseguenza necessaria. Il fatto di considerare la totalità sociale capitalistica (e poi imperialistica, ecc.) come alienata, e quindi non-vera, e quindi falsa, pone necessariamente il problema filosofico (e non solo giuridico, economico, sociologico, politico, ecc.) della verità. In questo senso il problema della verità è un problema pratico prima ancora di essere teorico. E qui bisogna riflettere sui due termini di «serietà» e di «sottrazione» (cioè del sottrarsi) che presenti nella citazione di Lukács.

È assolutamente normale che ci si voglia «sottrarre» alle lotte della storia in cui si vive. Queste lotte, infatti, non sono soltanto stressanti e pericolose, ma sono anche incerte, opache ed ambigue, per cui si può scoprire (ed anzi necessariamente si scopre) che coloro che tu credevi i tuoi disinteressati e generosi compagni di lotta sono in realtà una banda di “ultimi uomini” nicciani, soggettivamente quasi sempre più spregevoli dei borghesi stessi. La scoperta traumatica di questa realtà, caratteristica del movimento comunista del Novecento, ha causato una serie lunghissima di scoperte pittoresche e tragicomiche del cosiddetto “Dio che ha fallito”. Tipico degli intellettuali è prima credere che il comunismo sia storicamente il sostituto immanente di Dio nella storia, e poi scoprire che in esso pullulano numerosi tipi umani più ripugnanti dei vermi in un cadavere, con successiva inevitabile riadesione al capitalismo più sfrenato, che diventa in pochi anni prima il “male minore”, poi il “bene maggiore”. Questo è un modo classico di sottrarsi, caratteristica della tipologia umana del comunista “deluso” (quello, appunto, del Dio che ha fallito). Ma ci sono anche modi molto più nobili di “sottrarsi”, e nulla è più stupido e fastidioso del moralismo del cosiddetto “impegno” che li colpevolizza. Ci si può tranquillamente rifugiare nella scienza, nella famiglia, nella professione, nell’arte, negli studi eruditi, nei viaggi, nella carriera, ecc. In proposito, Lukács sostiene che in casi del genere «il soggetto in quanto tale avvizzisce per lo più nell’ampio arco che va dallo specialismo alla stravaganza».

È possibile che Lukács sia stato troppo severo nel mettere nello stesso mazzo il chirurgo, l’ingegnere progettista, il traduttore letterario (lo specialismo) con il produttore di merda d’artista ed il pagliaccio mediatico-televisivo (la stravaganza). A mio parere lo è stato. Ma io vivo ormai in un’epoca “ellenistica” in cui il ripiegamento protetto nel privato è spesso rimasto il solo modo per razionalizzare la sconfitta storica attuale provvisoria di tutti i tentativi storici di emancipazione, e quindi non si può condannare troppo in fretta l’avvizzimento pendolare fra specialismo e stravaganza. Lukács è vissuto in un’epoca “classico-ellenica”, e non “ellenistica” come la nostra; è quindi naturale che sia severo con coloro che in vario modo si «sottraggono» alle sfide del tempo.

È invece più importante riflettere sul termine «serietà», applicato al rapporto che instauriamo con Marx. Questo rapporto non può essere lo stesso di quello che instauriamo con Dante, Cervantes, Goethe o Shakespeare, e non può essere neppure lo stesso di quello che instauriamo con Platone, Aristotele, Epicuro, Spinoza, Kant, Hegel, Weber o Heidegger. Marx ci provoca (nel senso che ci pro-voca, ci chiama fuori, ci grida di venir fuori) a dire apertamente che cosa pensiamo del nostro presente e come lo valutiamo. In proposito, i filosofi di professione sono maestri nella mancanza di serietà, perché credono sinceramente di cavarsela con ricostruzioni sofistiche del pedigree teorico marxiano. Ma anche se fosse vero (e non lo è) che il pensiero di Marx è una tarda secolarizzazione della escatologia ebraico-cristiana (Löwith), oppure una forma rinnovata di neoplatonismo laico basato sulla confusione fra contraddizione dialettica ed opposizione reale senza contraddizione (Colletti), e via elencando almeno altre venti interpretazioni consimili, quasi tutte liberamente derivate dalla teoria del disincanto di Max Weber, ebbene, anche se tutto questo fosse vero (e non lo è), resta poco serio il pensare di “sbrigarsela” in questo modo con il problema reale oggettivo della totalità capitalistica. Una volta che si sia “smontato” tutto Marx con l’abilità con cui un meccanico smonta un motore (ed il filosofo accademico, con tutta la sua prosopopea, non è altro che un normale meccanico che anziché avere a che fare con dei pistoni e con delle valvole ha a che fare con apparati concettuali, di cui però, a differenza del meccanico, che gli è molto superiore, non conosce assolutamente la provenienza, ma che crede che gli siano “caduti” dal tetto dell’officina), resta il problema del nostro rapporto esistenziale soggettivo con la totalità sociale. Qui sta il concetto lucacciano di serietà. Credere che siano sufficienti stroncature gnoseologiche del pensiero di Marx è veramente poco serio, ed in proposito i più esilaranti sono gli economisti di “sinistra”, che pensano veramente che l’impresa filosofica di Marx cada perché risulta impossibile o incerta la cosiddetta (totalmente e ridicolmente irrilevante) «trasformazione dei valori in prezzi di produzione». La critica alle prove ontologiche, cosmologiche e fisico-teleologiche all’esistenza di Dio non sono mai riuscite ad abolire la religione. Si tratta di una pittoresca deformazione dell’intellettuale universitario, che crede di avere risolto definitivamente una questione storica quando riesce a trovare degli “errori”, e li cancella con la sua comica matita rossa e blu.

In secondo luogo, Lukács ha chiarito in modo veramente esemplare il concetto di passione durevole. Questo punto è ancora più importante e decisivo del precedente. Cito Lukács: «Nei giovani la frequente dedizione entusiastica ad una causa può terminare al medesimo modo o nella fedeltà (lucida o ottusa) ad essa, o nel passaggio ad un diverso campo, oppure ancora nella perdita di capacità di dedizione in genere […]. I movimenti giovanili così frequenti nell’ultimo mezzo secolo lo mostrano con la massima evidenza, e tanto più quanto più danno valore centrale alla giovinezza stessa […]. Occorre esaminare se e fino a quale punto una dedizione è in grado di indurre l’individuo ad innalzarsi sopra la propria particolarità, oltre che a dar luogo ad una passione durevole».

Credo che si tratti di una citazione stupenda, che una volta analizzata e scomposta in elementi concettuali ci può permettere di cogliere l’essenziale della questione. Qui Lukács ci propone una vera e propria antropologia sociale della elaborazione della dedizione giovanile (la fedeltà alla causa abbracciata in gioventù, lucida o ottusa, il passaggio ad un diverso campo, e la perdita della capacità di dedizione in genere). Se ad esempio, quarantacinque dopo (1968-2013), esaminiamo i cosiddetti “reduci” dell’anno domini 1968, troviamo tutte e tre le tipologie descritte da Lukács, la fedeltà lucida o ottusa, il passaggio ad un diverso campo, ed infine la perdita di dedizione in genere. Certo, Lukács aveva avuto vent’anni nel 1905, in un contesto storico ben diverso sia da quello del 1968 sia da quello del 2013, ma si nota immediatamente la capacità, tutta hegeliana, e tutta derivata dal metodo dialettico della Fenomenologia dello Spirito, di cogliere la natura della figura sociale della gioventù. Il primo filosofo moderno che mette la gioventù in quanto tale al centro del suo sistema filosofico è Fichte, che usa la metafora del «ringiovimento» (Verjungen) per indicare il rinnovamento emancipativo della società, ed individua nella gioventù come categoria sociale il suo soggetto storico capace di portarci fuori dall’epoca della compiuta peccaminosità. Oggi tutto questo può sembrare illusorio e “romantico”, ma non bisogna dimenticare che la gioventù di cui parla Fichte non aveva vissuta un’infanzia all’ombra della play-station e dei modelli di consumo televisivi, un’adolescenza in una scuola degradata, ed un’incipiente maturità in un contesto di lavoro salariato flessibile e precario. In altre parole, ed usando una terminologia marxiana, Fichte non poteva neppure immaginare che cosa sarebbe potuto avvenire in un’epoca di sottomissione crescente del lavoro al capitale e di approfondimento orizzontale (la globalizzazione) e verticale (la manipolazione capillare) del modo di produzione capitalistico.

La fedeltà, lucida o ottusa (generalmente ottusa) alla causa sposata in gioventù è molto rara, e spesso caratterizza il tipo umano che Nietzsche aveva definito degli “eremiti”. Personalmente, conosco (ed apprezzo umanamente) alcuni eremiti che cercano incessantemente di ricostruire gruppi eretici del marxismo rivoluzionario, trotzkisti, stalinisti, operaisti, anarco-comunisti, ecc. Nell’epoca attuale, essi vivono come se la signora Rosa Luxemburg fosse ancora fra noi, come se Stalin inseguisse ancora Trotzky armato di piccozza, e come se si potesse ancora credere sinceramente al crollo del capitalismo a causa della caduta tendenziale del saggio di profitto. Eppure – lo dico chiaramente – pur essendomi demarcato da tempo da ogni forma di eremitaggio ideologico, umanamente stimo molto di più questi eremiti di quanto stimi e consideri le due tipologie antropologiche del passaggio all’altro campo e della perdita di capacità di dedizione in genere. Meglio infatti l’eremita dell’«ultimo uomo».

Eppure lo stesso Lukács, morto nel 1971 e quindi ben prima del triennio di dissoluzione del comunismo storico novecentesco 1989-1991, ci mette giustamente in guardia dallo spirito eremitico e dalle tentazioni dell’eremitaggio. Scrive Lukács: «Dobbiamo convincerci che oggi, quanto al risveglio del fattore soggettivo, non possiamo rinnovare e continuare gli anni Venti, ma dobbiamo cominciare da un nuovo punto di partenza, sia pure utilizzando tutte le esperienze che sono patrimonio del movimento operaio e del marxismo. Dobbiamo renderci conto infatti chiaramente che abbiamo a che fare con un nuovo inizio, o per usare un’analogia, che noi ora non siamo negli anni Venti del Novecento, ma in un certo senso all’inizio dell’Ottocento, quando dopo la rivoluzione francese si cominciava a formare lentamente il movimento operaio. Credo che questa idea sia molto importante per il teorico, perché ci si dispera assai presto quando l’enunciazione di certe verità produce solo un’eco molto limitata».

Considero questa citazione di Lukács ancora più decisiva ed importante delle precedenti, perché essa stringe insieme i tre elementi psicologico-concettuali della «passione durevole», del nuovo inizio, e della disperazione nel rendersi conto che quanto si dice produce un’eco talmente limitata da provocare necessariamente non tanto il passaggio ad un diverso campo, quanto proprio la perdita della capacità di dedizione in genere. La tematizzazione di questo intreccio suggerito genialmente da Lukács è infatti assolutamente decisiva.

Iniziamo dall’analisi di quella particolare disperazione, che potremo chiamare disperazione del filosofo. L’atleta non si dispera, ma perde oppure vince. L’imprenditore non si dispera, ma ha successo e si arricchisce oppure va in fallimento e perde tutto. Il ricercatore scientifico non si dispera, ma verifica le sue ipotesi, oppure vi rinuncia e sceglie un’altra strada. Il filosofo, invece, è quella peculiare figura che da un lato è spesso convinta di aver colto la “verità” della totalità sociale in cui vive, ma non potendo dimostrarla né con metodi scientifici (Galileo), né con metodi argomentativi (Habermas), e restandone tuttavia convinto, si dispera necessariamente per la sua penosa impotenza. Il problema sta allora nel modo in cui si elabora questa impotenza, dal momento che – come dice giustamente Lukács – «ci si dispera assai presto quando l’enunciazione di certe verità produce solo un’eco molto limitata».

In generale, l’elaborazione di questa disperazione porta a due strade entrambe bloccate. Da un lato, si comincia a pensare che quelle che noi riteniamo verità, producendo un’eco molto limitata, non siano poi quelle “verità” che crediamo, ma siano solo pure illusioni ideologiche falsificate dal mondo esterno. Questo atteggiamento è suicida, perché le verità filosofiche non sono come le certezze fisiche o le esattezze matematiche, e quindi il consenso ed il dissenso esterni non possono certo verificarle o falsificarle. Tutte le teorie e tutti i criteri della falsificabilità popperiana, postpopperiana o anti-popperiana, valgono solo per le scienze naturali, e non valgono per la filosofia. La filosofia non ha date di scadenza temporali, dal momento che parte sempre dal «proprio tempo appreso nel pensiero», ma arriva anche e sempre a «ciò che è, ed è eternamente». La filosofia se la ride di Popper, Lakatos o Feyerabend. Si commette quindi un errore, quando si comincia a dubitare della propria visione filosofica, necessariamente indimostrabile con i metodi della fisica, perché raccoglie solo un’eco molto limitata. Dall’altro, si può cominciare a pensare che ciò che noi diciamo sia giusto, ma che il mondo esterno sia troppo coglione e corrotto per capirlo. In sostanza, al mondo ci sarebbero soltanto pochi saggi, cioè noi stessi ed i nostri più stretti sodali. Questa via, che definirei paranoico-nicciana, può soltanto portare alla distruzione fisica di chi la pratica. Dal momento che il buon senso è relativamente diffuso nel mondo, pur consentendo che il buon senso è quasi sempre l’ultimo dei metafisici, perché baluardo della «pseudo-concretezza» (Kosík), è storicamente poco probabile che nel mondo gli unici saggi siamo noi ed i nostri sodali. Bisogna quindi percorrere un’altra via.

Questa via non può essere che quella del carattere storico-disvelativo della verità. Questo non significa accettare il relativismo ed il convenzionalismo, per cui la verità non esiste, ma viene chiamata così e così a seconda della relatività del tempo storico e della convenzionalità delle sue definizioni.

La «passione durevole» per il comunismo, o se si vuole per la critica al capitalismo, presuppone dunque – per esistere e per essere coltivata e sviluppata – che ci si renda conto che essa da un lato coincide con il percorso della nostra vita umana concreta, necessariamente e fatalmente breve, ma che dall’altro essa è ideale, nel senso che va al di là della nostra stessa vita umana. Del resto, si tratta dello stesso concetto di «immortalità» presente in una lettera di Antonio Gramsci a sua madre, che era cattolica e non certo “marxista”, e il marxismo lo aveva probabilmente solo sentito nominare. Il marxismo è quindi idealismo non solo nel senso della scienza filosofica “tedesca” delle lettere di Marx ad Engels ed a Lassalle, ma in questo senso ben preciso. Mi rendo conto che questo provocherà una smorfietta epistemologico-positivistica nel marxista medio, ma non so proprio che cosa farci.

Oltre a segnare profondamente il rapporto fra marxismo ed idealismo (per cui potremmo dire – con un certo grado di approssimazione – che senza un certo grado di idealismo non è neppure possibile coltivare una scienza non-filosofica – e quindi non-idealistica – come lo stesso materialismo storico inteso come teoria “pura” e “scientifica” dei modi di produzione), il concetto di «passione durevole» è una vera e propria “porta girevole” per tematizzare un insieme di problemi essenziali del nostro tempo.

In primo luogo, il concetto di «passione durevole» riprende il concetto greco di bilancio filosofico di una vita intera, senza alcun privilegiamento del “momento magico” della giovinezza. I Greci sapevano bene che il bilancio di una vita si fa solo alla fine. Fichte aveva le sue ragioni per sostenere che la gioventù era il solo soggetto che sfuggiva alla corruzione generalizzata dell’epoca storica della compiuta peccaminosità. Dal momento che egli, del tutto correttamente, definiva metaforicamente il «finito» come l’accettazione conformistica del dispotismo signorile-feudale, ed «infinito» la tensione al suo superamento nella prassi concreta (ho già ripetutamente affermato – e qui lo ripeto – che Fichte, e non Marx, è il fondatore della filosofia della prassi, e Marx l’ha solo “applicata” al comunismo), è normale che egli si rivolgesse alla gioventù, intesa come il soggetto complessivo del «ringiovanimento» del mondo (Verjungen). È del tutto possibile sostenere che la classe proletaria di Marx, intesa come soggetto risolutore e non corrotto, non sia che il sostituto-successore della gioventù fichtiana. E tuttavia Fichte ha torto, e Lukács ha ragione. La gioventù deve essere onorata, ma non privilegiata come soggetto storico. Ciò che conta è la «passione durevole», non la passione giovanile. La passione è il minimo comun denominatore di tre generazioni, giovani, persone di mezza età ed anziani. E del resto, il “giovanilismo” ha smesso da tempo di essere pensato come lo aveva pensato il grande Fichte (il Verjungen come metafora del superamento della corruzione dell’epoca della compiuta peccaminosità), per diventare feticcio pubblicitario, in quanto la merce si vende meglio se è associata a carni piene e non a carni rugose e cascanti. La vecchiaia, ancora “veneranda” nei tempi antichi, medioevali e protomoderni, è oggi una vergogna da nascondere con il lifting della chirurgia estetica oppure con la segregazione degli anziani in città protette per pensionati (qui gli USA e lo Stato “caldo” della Florida sono all’avanguardia, anche se si può sempre sperare che il resto del mondo non li segua). E non è neppure vero che la gioventù sia meno “corruttibile” della mezza età e della vecchiaia. In un’epoca postmoderna della «produzione flessibile» (Jameson), dello spostamento del parametro simbolico dal tempo del progresso allo spazio dell’economia liberale globalizzata (Harvey), del disincanto socialmente indotto verso le «grandi-narrazioni» (Lyotard), della fine della vecchia alleanza fra critica economica e critica artistico-culturale al capitalismo (Boltanski e Chiapello), ecc., la gioventù diventa insieme un feticcio pubblicitario dell’esaltazione dei corpi come supporto degli oggetti di consumo e un soggetto facilmente ricattabile da quel “politicamente corretto”, che funziona oramai come codice di accesso ideologico alle funzioni di potere sociale in un mondo senza Dio e composto da ultimi uomini. Il politicamente corretto dice (enumero brevemente e senza alcuna pretesa di classificazione completa) che magari Marx è un barbone interessante, ma che non c’è più l’imperialismo, e che solo dei militanti attardati e fanatici ancora lo sostengono; che Dio è soltanto più un oggetto di credenza per ignoranti del tutto ignari della risolutiva teoria di Darwin, ma che una religione “civile” è ancora necessaria, il culto della memoria del genocidio ebraico (e solo di quello, gli altri assai numerosi sono tutti derubricati a generiche atrocità contestualizzabili), il quale è “imparagonabile”, ed essendo imparagonabile è di fatto religiosizzato (solo l’unicità veritativa delle religioni è infatti imparagonabile), e funzionerà per sempre come complesso di colpa per l’Europa, che resterà sempre militarmente occupata per espiare; che è “vietato vietare”, dal momento che tutto ciò che è acquistabile potrà essere acquistato e tutto ciò che è tecnicamente fattibile potrà essere fatto (Günther Anders), ecc. Dal momento che il giovane non è ancora entrato nel mondo delle istituzioni economiche e politiche che fanno accedere al mondo del privilegio (global middle class, e cioè nuovo ceto medio borghese senza la coscienza infelice della vecchia piccola-borghesia illuministico-romantica), egli ha necessità del “politicamente corretto” come indispensabile codice d’accesso. Già da tempo la cosiddetta “democrazia” non è più l’insieme di interessi sociali da rappresentare in nome di un voto popolare “libero”, ma è diventata un codice d’accesso obbligatorio fissato da bande non elette di politici di professione (circo mediatico), cosiddetti “grandi intellettuali” che rappresenterebbero la cosiddetta (ed inesistente) “opinione pubblica”, con in più la copertura ideologica della casta universitaria. Oggi il giovane è un soggetto indebolito e ricattato, anche per le difficoltà enormi che si frappongono ad una sua autonomizzazione economica, professionale, e quindi anche sessuale e matrimoniale (nella storia dell’intera umanità non è mai avvenuto che una generazione potesse arrivare ad un’autonomia reale soltanto intorno ai trent’anni, a causa dei salari flessibili e precari, per poi dover sopportare cinici mascalzoni che dopo aver creato questa situazione insultano i giovani come “bamboccioni”).

Ho volutamente aperto questa parentesi sulla condizione giovanile oggi per poter far rilevare le ragioni storiche e sociali del tramonto dell’illusione fichtiana sul soggetto giovanile, ritenuto l’unico in grado di abbattere la corruzione dell’epoca della compiuta peccaminosità, e per evidenziare la pertinenza del concetto lucacciano di passione durevole, che rilegittima attraverso l’astrazione filosofica il concetto greco dell’alleanza fra le tre generazioni (giovani, persone di mezza età ed anziani). E tuttavia, non è soltanto questo il nodo del concetto di «passione durevole».

La «passione durevole» lucacciana si nutre della consapevolezza della necessità di un nuovo inizio, sia pur “mediato” dalle esperienze di un secolo di movimento operaio e di marxismo. Morto nel 1971, Lukács era impregnato dell’idea di “riformabilità in extremis” del baraccone socialista, poi crollato definitivamente circa vent’anni dopo la sua morte. In realtà Lukács si sbagliava: il baraccone era corrotto al punto di essere arrivato all’ultimo stadio della produzione di massa della figura antropologica dell’«ultimo uomo» (con un necessario correlato minoritario di “eremiti”), era giunto allo stadio dell’epoca della compiuta peccaminosità, e se Lukács fosse arrivato all’età di cento e dieci anni avrebbe assistito alla scena, ad un tempo ridicola, grottesca e tragica, della formazione di un’alleanza fra speculatori, pescecani della finanza internazionale, bande mafiose assassine interne ed esterne, burocrati riciclati ed altri mostri sociali, che privatizzano tutto ciò che tre generazioni “socialiste” avevano costruito. Pur essendo un ammiratore della capacità previsionale di Lukács, ritengo che il nostro autore non disponesse delle categorie teoretiche necessarie per comprendere questo maestoso fenomeno. E ritengo che non le avesse per il suo sostanziale rifiuto delle correnti letterarie alla Kafka, e per la sua adesione all’estetica realistica alla Thomas Mann. Thomas Mann non può spiegare gli oligarchi russi, i loro consumi e soprattutto i loro stili di vita. Ci vogliono Aristofane, Teofilo Folengo, Kafka, Borges, ecc. Non nego che anche Balzac abbia descritto qualcosa di simile, accaduto nell’epoca 1815-1848. Ma nella dissoluzione del socialismo reale c’è stato qualcosa di più, un’eccedenza grottesca e tragica che va al di là dei canoni del cosiddetto «realismo socialista».

La centralità del concetto lucacciano di «passione durevole» non è stata a mio avviso ancora pienamente colta dalla critica. Il fatto che Lukács la leghi strettamente al concetto di «resistenza alla disperazione soggettiva» nel vedere che ciò che si pensa ottiene un’eco soltanto molto limitata mi sembra molto importante. Significativa è l’analogia storica proposta da Lukács: non siamo negli anni Venti del Novecento, ma se proprio si vuole cercare un’analogia (e non dovrebbe essere necessario, dato il carattere strutturalmente ingannatorio di tutte le analogie storiche) siamo piuttosto negli anni Venti e Trenta dell’Ottocento. Naturalmente Lukács sapeva benissimo che stava usando un’analogia un po’ impropria. E tuttavia in questo modo egli si differenzia da tutte le letture messianiche del marxismo, coltivate da suoi grandi coetanei come Bloch e Benjamin (e non a caso poi privilegiate come facile oggetto di critica e di stroncatura da pensatori come Löwith, Colletti, ecc.), per proporre una lettura integralmente razionalistica di esso. Vorrei insistere molto su questo cruciale concetto.

Chi intende criticare il pensiero di Marx nel suo complesso deve necessariamente interpretarlo in senso messianico-prometeico, per il semplice e banale fatto, accessibile anche ad un normale studente liceale intelligente, che il messianesimo prometeico non tiene, non è difendibile, è fatalmente condannato ad essere presto o tardi distrutto dal disincanto (le avventure della dialettica di Maurice Merleau-Ponty, la fine delle grandi narrazioni di Jean-François Lyotard, ecc.). La riflessione di Lukács, essendo essa stessa fondata su di un radicale rifiuto del messianesimo escatologico e delle attese teologico-teleologiche, non può diventare oggetto di una “stroncatura” alla Löwith, ed è per questo necessario che venga socialmente silenziata il più possibile.

Passiamo ora ad un terzo punto essenziale, dopo il fare i conti con Marx e dopo la «passione durevole» non solo giovanistico-generazionale. Si tratta del modo con cui Lukács affronta il venerando concetto marxiano di «alienazione». Qui, a mio avviso, la sua interpretazione è veramente buona, o almeno la migliore che conosca.

Il dibattito sul concetto di alienazione e sul giovane Marx non è mai stato un puro dibattito filosofico-filologico per addetti ai lavori, ma è sempre stato (nel senso che lo è da circa ottanta anni, da quando sono stati pubblicati i Manoscritti economico-filosofici del 1844) uno schermo per un dibattito politico. Mai come in questo caso la filosofia – come sistema razionale delle conoscenze categoriali (Schulbergriff) – è diventata l’insieme dei pensieri che interessano necessariamente ogni uomo (Weltbegriff). In un certo senso, il problema dell’interpretazione dell’alienazione è l’equivalente marxista dell’interpretazione del dogma dialettico della trinità nella teologia cristiana. Dimmi come interpreti l’alienazione e la trinità e ti dirò che razza di marxista o di cristiano sei. Ritengo necessario fare alcune considerazioni preliminari sull’alienazione per poi giungere in modo contrastivo a Lukács, premettendo però che Lukács ha sempre tenuto fermo (dagli anni Trenta alla sua morte avvenuta nel 1971) il principio dell’essenzialità del concetto di alienazione nel pensiero marxiano. Togli a Marx il concetto di alienazione, e Marx muore. Ho inteso formulare in modo volutamente estremistico la mia opinione in proposito per non lasciare dubbi al lettore su questo punto.

Ripeto qui per comodità del lettore le mie due concezioni fondamentali sul concetto di alienazione (Entfremdung) in Marx. In primo luogo, è evidente che Marx non si “inventa” questo concetto, ma lo eredita da pensatori come Rousseau, Hegel e Feuerbach. E tuttavia, egli modifica qualitativamente questo concetto, applicandolo al lavoro salariato, qualificato come lavoro alienato. In sostanza, il lavoro salariato è anche sempre lavoro alienato, in quanto è anche e sempre lavoro sfruttato. Il concetto di sfruttamento (Ausbeutung) e quello di alienazione (Entfremdung) coincidono. Ma non sarebbe giusto dire che il primo è un concetto economico, ed il secondo un concetto filosofico, che fanno quindi parte di due aree disciplinari distinte (il primo cibo per economisti, il secondo cibo per filosofi), in quanto per Marx esiste solo un’unica critica dell’economia politica borghese-capitalistica, che non permette separazioni disciplinari fra economia e filosofia.

Inoltre, il fatto che ci sia sfruttamento (Ausbeutung) nel rapporto fra lavoro salariato e capitale, e che ci sia sotto l’apparenza dello scambio fra equivalenti (il che comporta che il fenomeno non coincida con l’essenza, e sia quindi del tutto illusorio l’approccio alla Locke ed alla Hume, ma ci voglia invece un approccio dialettico alla Hegel), comporta una conseguenza decisiva, e cioè che tutta la società è alienata, e quindi “falsa” nel senso concettuale hegeliano per cui “vero” è soltanto il tutto, mentre la “parte” è volta a volta certa, esatta, sbagliata, ecc., ma comunque mai vera o falsa (al massimo, può essere veridica o ipocrita).

Ha quindi avuto sostanzialmente ragione l’economista-filosofo italiano Claudio Napoleoni (1924-1988) a sostenere, primo, che la teoria filosofica dell’alienazione coincide con la teoria economica del valore-lavoro e, secondo, che nella società capitalistica solo alcuni (sia pure generalmente la maggioranza statistica della popolazione) sono sfruttati, mentre tutti sono alienati. Queste due tesi di Napoleoni mi sembrano esattissime. Si possono certo rifiutare, ma a mio avviso in questo modo si rifiuta anche Marx.

In secondo luogo, il fatto che Marx non riprenda esplicitamente questo concetto nelle sue opere dette “mature” non significa affatto che lo abbia – per così dire – “respinto”. Ritengo invece che lo abbia “metabolizzato” ed incorporato pienamente nel suo processo di pensiero (Denkweg), per cui non era più necessario che lo ripetesse ossessivamente. E del resto, studi filologici recenti (come quello di Roberto Fineschi sui rapporti fra Hegel e Marx) hanno accertato il continuo e documentabile “ritorno” di questo concetto anche nelle sue opere mature.

Ho qui riassunto per comodità del lettore il mio punto di vista sul problema dell’alienazione. Ed è però importante soprattutto rilevare che nei discorsi rivolti a “stroncare” Marx si ha – in un certo senso – una duplicazione della strategia argomentativa prima indicata, per cui ci si fa prima un idolo polemico manifestamente indifendibile, e poi lo si distrugge gioiosamente. E così come si riduce il pensiero di Marx ad (insostenibile) messianesimo prometeico, ed in questo modo lo si distrugge gioiosamente con infantile facilità, nello stesso modo si interpreta il concetto di alienazione come rottura di una felice e non alienata unità comunitario-sociale originaria, che costituisce un mondo a testa in giù, che poi viene progressivamente raddrizzato dalla storia universale necessitata, fino al comunismo concepito come il ristabilimento naturalistico “autentico” di un mondo finalmente con i piedi per terra. Il lettore informato sa ormai che il primo modello di stroncatura (Karl Löwith), ed anche il secondo modello di stroncatura (Lucio Colletti) stroncano in entrambi i casi una caricatura precedente. È quello che si chiama in linguaggio ordinario il “vincere facile”.

La pulsione ad eliminare dal profilo teorico marxiano il concetto di alienazione è un fenomeno talmente diffuso e pittoresco da meritare un’indagine sociale, e non solo culturalistico-concettuale. Personalmente, ho vissuto il clima ideologico degli anni Sessanta del Novecento, e so bene che allora vi fu un tentativo di togliere al marxismo i suoi lati “sgradevoli” di lotta di classe per affermare una sorta di innocua teoria sociale del generico disagio psicologico-esistenziale tipico della società industriale connotata come “avanzata”. È evidente che il concetto di alienazione in quel contesto storico preciso (e questo capitava anche ai correlati concetti di “uomo” e di “umanesimo”) mirava ad una sorta di neutralizzazione universitario-psicologica del marxismo, che passava così da Lenin e Rosa Luxemburg a Eric Fromm ed a Umberto Galimberti. La reazione althusseriana, che negava radicalmente il mantenimento nel Marx “maturo” e “scientifico” del concetto di alienazione, era quindi socialmente del tutto giustificata, ma lo era soltanto dal punto di vista della “lotta di classe ideologica nella congiuntura politica” (1956-1968, e per di più solo a Parigi), mentre era catastroficamente errata nel contesto storico generale Novecentesco. Detto questo, insisto nel non identificare le due correnti “scientiste” di Lucio Colletti e di Louis Althusser. Il programma dellavolpiano di ritraduzione dell’intero pensiero di Marx in un modello galileiano di scienze della natura del tutto “affrancato” da Hegel e dalla dialettica non può che portare ad un suicidio programmato a tempo, e dobbiamo essere grati (parlo sul serio, ed alla lettera) a Lucio Colletti per aver mostrato in piena luce l’esito autodistruttivo e suicida di questo programma. Il programma althusseriano è infinitamente più serio, perché spinge giustamente a fissare gli sguardi sulla scienza non-filosofica dei modi di produzione sociali, e non certo sulla gnoseologia, scienza della delegittimazione di ogni pretesa di conoscenza della totalità (si chiami Dio oppure Capitale), o tantomeno sulla metodologia, pittoresca ed irrilevante scienza per nullatenenti. Dunque, nessun segno di eguaglianza fra Colletti ed Althusser. Nel linguaggio pittoresco dei maestri di scuola, daremo a Colletti un bel quattro, ed a Althusser addirittura un generoso sette (mi perdonino i rispettivi fans, ed accettino il fatto che non sempre si può utilizzare il lessico serioso della conferenza filologica).

E tuttavia non si può e non si deve evitare di riflettere sulle conseguenze provocate dal rifiuto del concetto di alienazione e dalla teoria della cosiddetta “rottura epistemologica”. Si va infatti da una concezione di episteme che oscilla dal concetto positivistico di Auguste Comte al concetto sociologico di Max Weber (in entrambi i casi nessuno capisce perché si debba lottare contro il capitalismo se non lo si giudica negativo, e non si vede come sia possibile giudicarlo negativo con una semplice visione strutturalistica della dinamica dei modi di produzione), che scivola poi nella (fastidiosa e riduzionistica) definizione di filosofia come “lotta di classe nella teoria”, ed infine sfocia nell’apologia della aleatorietà come sublimazione della propria (peraltro giustificata) critica alla precedente (ed insostenibile) filosofia necessitaristico-teleologica della storia, insaporita ed aromatizzata con il peperoncino rosso del messianesimo e del prometeismo. Ma questo comporterebbe una critica all’intero Denkweg di Althusser, che non mi interessa affatto fare in questa sede, se non per contrapporlo idealmente alla molto maggiore sobrietà di Lukács.

Vi sono ovviamente molte altre varianti, tutte cattive, del rifiuto della centralità del concetto di alienazione. Un’ultima variante italiana (Roberto Finelli), storicamente poco importante, ma comunque socialmente significativa, propugna una sorta di marxismo ridotto al concetto di “astrazione reale” che rifiuti esplicitamente, e quindi espunga del tutto dal quadro teorico, i due concetti di alienazione e di contraddizione. Tralascio qui le argomentazioni, del tutto sofistiche, con cui questi due concetti vengono “licenziati”. Senza alienazione e senza contraddizione avremmo egualmente un corpo, ma senza gambe e senza braccia. Se il marxismo è uno sgabello a tre gambe, e metaforicamente lo è, queste tre gambe sono effettivamente i concetti di astrazione reale (il mondo sensibilmente sovrasensibile), di contraddizione dialettica (che include peraltro come suo momento particolare l’opposizione reale economica fra sfruttati e sfruttatori, che restano comunque i due poli di una correlazione essenziale), ed infine di alienazione sociale. Devo ammettere che la proposta di trasformare uno sgabello a tre gambe in uno sgabello ad una gamba sola è esilarante, ma socialmente parlando si tratta soltanto dell’ennesima “pensata” sofistica universitaria per togliere al marxismo qualunque residuo potenziale eversivo. Ed effettivamente un marxismo senza esplicita eversione per me è come una pastasciutta senza sugo. A qualcuno potrà piacere, ma a me no.

L’esemplarità, ed a mio avviso l’insuperabilità, del modo in cui Lukács tematizza la categoria di alienazione sta in una specifica fusione di Marx e di Hegel. Da Marx Lukács ricava l’assoluta oggettività esistente della categoria di alienazione, ed il fatto che essa non possa essere “posta” e poi “tolta” con un semplice atto del pensiero autocosciente (vi è qui chiaramente una critica ad Hegel, cui viene attribuita una concezione puramente logica e coscienziale di alienazione). Da Hegel, ed in particolare dalla dottrina del concetto della Scienza della Logica, Lukács ricava il rapporto fra l’universalità, la particolarità e l’individualità come momenti logici del concetto stesso, che resta unitario. Una breve spiegazione ulteriore permetterà di cogliere la grande correttezza del pensiero di Lukács.

In una lettera a Lucien Goldmann, Lukács sostiene che «il pensatore sostanziale è preoccupato da un unico pensiero per tutta la vita». E Lukács è veramente stato un pensatore «sostanziale», la cui sostanza può essere individuata in una sua singolare affermazione, per cui egli affermò di se stesso: «Non parteciperò più alla mia stessa alienazione» (ich mache meine eigene Entfremdung nicht mehr mit). Si tratta peraltro della stessa formula che era servita come parola d’ordine dei membri della scuola di Francoforte, il che significa che molte distinzioni di “scuola” vengono meno quando si tratta di “stringere” la cosa stessa. Ma cerchiamo di commentare, sia pure brevemente, questa ottima formulazione.

In primo luogo, vi è il riconoscimento del fatto che l’alienazione esiste oggettivamente, ed è una categoria logico-ontologica della produzione capitalistica in quanto tale, e non certo una sofisticata opinione sul disagio esistenziale in un mondo mercificato. Questo disagio esistenziale ovviamente c’è, anche se le tendenze esistenziali postmoderne (tipica ancora una volta è la posizione del filosofo delle riviste femminili italiane, Umberto Galimberti) tendono a staccarlo dalla coscienza infelice, ed a negargli così ogni carattere di sintomo superficiale di un universalismo impossibile.

In secondo luogo, c’è l’ovvio riconoscimento del fatto che l’alienazione riguarda in primo luogo noi stessi, e non certamente soltanto gli altri. Tipico del moralismo dell’intelletto astratto (Verstand) è il separare noi stessi dagli altri, e pensare che gli altri siano alienati, tranne noi che non lo siamo, perché abbiamo capito tutto quel che c’era da capire, come se fossimo un laicizzato Dio hegelo-marxiano. La cosa suona subito ad un tempo grottesca ed esilarante, eppure è proprio il modo in cui la falsa coscienza del marxista medio ha a lungo impostato le cose. Tutti sono alienati, perché non capiscono che il capitalismo è cattivo, tranne me ed i miei sodali e correligionari, che invece lo abbiamo capito. Nel paranoico mondo marxista la cosiddetta “autocritica” è sempre stata un rituale di confessione religiosa, di pentimento servile e di adeguamento al potere (classiche in proposito le cosiddette “autocritiche” di tipo staliniano, peraltro mantenute in vita fino al triennio dissolutivo 1989-1991). In realtà appare chiaro che la critica non può essere fatta da un soggetto destoricizzato e desocializzato, e quindi incapace di tematizzare anche se stesso (come è il caso di tutte le costituzioni formalistiche del soggetto, da Cartesio a Kant, e di tutte le “sparizioni” del soggetto sostituito da flussi di abitudini e/o di volontà di potenza, da Hume a Nietzsche). La critica deve essere fatta da un soggetto che, almeno in via di principio, è disposto non solo a farsi criticare da altri (cosa che peraltro neppure il più grande dei paranoici potrà mai di fatto socialmente impedire), ma è disposto a criticare se stesso. Ed il suo modo di poter criticare se stesso è quello di accettare l’inserimento della propria particolarità individuale all’interno di una dialettica oggettiva delle “figure” delle forme di coscienza, il che fa diventare la Fenomenologia dello Spirito di Hegel il modello insuperato di questa possibilità di inserimento autocritico.

In quanto universale concreto, il concetto è l’universalità riferita all’individualità. L’individualità non è altro che me stesso, in quanto mi penso in rapporto alla particolarità concreta che forma la mia personalità. Ma la particolarità (per Hegel come per Lukács) non è altro che la semplice negazione diretta dell’universalità, in un certo senso la semplice “sottrazione” dell’universalità. Peraltro l’universalità stessa, come ogni realtà, può soltanto concretamente esistere nella forma di una sua determinazione (Bestimmung), che è poi sempre e solo una concretizzazione storico-sociale. E tuttavia l’individualità reale e concreta dell’uomo non può identificarsi con la particolarità, in quanto tutte le determinazioni particolari devono essere prese in considerazione, e non una sola. In questo caso l’alienazione è certamente una determinazione dell’universalità del concetto di capitale, ma è una determinazione anche la volontà libera soggettiva di non partecipare ad essa. Questo è il significato della scelta libera soggettiva di non voler più partecipare (mitmachen) alla propria stessa alienazione (Entfremdung).

Lukács identifica così correttamente il concetto marxiano di libertà con la scelta di non partecipare più alla propria stessa alienazione, oppure, utilizzando il linguaggio hegeliano, di “spostare” la propria particolarità di adesione all’universalità della produzione capitalistica, ad un tempo sfruttata ed alienata in quanto unione di alienazione e di valore, alla propria individualità di adesione all’universalità di una realtà emancipata. Questa concezione di libertà si differenzia radicalmente da tutte le altre concezioni di libertà di tipo aprioristico (la libertà del volere come postulato dalla possibilità della morale categorica in Kant), di tipo religioso (la libertà come “dono” di Dio, che vuole così renderci liberi e simili a Lui, in modo che possiamo scegliere se essere salvati o essere dannati), o infine di tipo neoliberale (la libertà del soggetto proprietario di “intraprendere” nel mondo delle merci e del denaro). L’alienazione non è così la presunta rottura di una (inesistente) unità organica originaria, ma è una condizione oggettiva che riguarda tutti. Tutti siamo infatti alienati, ma c’è chi decide di parteciparvi e chi decide invece di non parteciparvi più. Il concetto di alienazione, inteso come scelta di interrogare la propria particolarità (alienata) in nome della propria individualità (libera), viene in questo modo ad ereditare la grande tradizione di Spinoza e di Hegel. Di Spinoza, perché la sua filosofia non è affatto una filosofia della necessità (come ripete pigramente la manualistica), ma è una filosofia della libertà dell’individualità che però tiene conto dell’esistenza oggettiva della necessità (in questo caso, dell’esistenza oggettiva della alienazione capitalistica). Di Hegel, perché accetta la problematizzazione dialettica del soggetto, e del fatto che universalità, particolarità ed individualità non possono essere ontologicamente separate. Hegel infatti ha scritto che «la separazione delle realtà dalla verità è specialmente cara all’intelletto, che tiene le sue astrazioni ed i suoi sogni per alcunché di vero». E per finire Hegel ha scritto: «Ma quando io parlo di realtà, si deve pur tenere presente il senso in cui adopero questa espressione, dal momento che nella mia Scienza della Logica ho trattato ampiamente la nozione di realtà e l’ho accuratamente distinta dall’accidentale che ha esistenza e da altri consimili concetti».

Il quarto ed ultimo aspetto generale del pensiero di Lukács è parimenti di grande importanza. Fino ad ora abbiamo insistito sui tre punti del prendere sul serio il proprio rapporto con Marx, della passione durevole come alternativa esistenziale alle concezioni mitico-sociologiche del privilegiamento fichtiano della giovinezza come soggetto privilegiato, della lotta alla corruzione dell’epoca della compiuta peccaminosità, ed infine della decisione di non partecipare più alla propria stessa alienazione. Tocchiamo ora il cuore della natura filosofica del pensiero di Lukács, che molti commentatori lucacciani non hanno colto sufficientemente, e che io invece sottolineerò con particolare enfasi.

Ho già ampiamente fatto riferimento in precedenza alla distinzione kantiana fra il concetto scolastico della filosofia intesa come sistema organizzato delle conoscenze razionali (Schulbegriff), ed il concetto mondano di essa, intesa come ciò che interessa necessariamente ogni uomo (Weltbegriff). In proposito, ho ricordato che Habermas ha scritto che Hegel è stato il primo che li ha fusi insieme, ma è anche in un certo senso l’ultimo, perché la modernità consiste appunto nella rinuncia alla “normatività” della verità filosofica cui Hegel credeva fermamente. In proposito, quella fusione dei due elementi che Habermas attribuisce a Hegel come al “primo” (ed anche però l’ultimo, per cui di fatto Hegel diventerebbe l’unico – attributo che neppure i più entusiasti ammiratori di Hegel – come chi scrive – sarebbero disposti ad attribuirgli) caratterizza invece tutta la storia della filosofia occidentale (ma anche indiana e cinese), almeno fino alla sua istituzionalizzazione universitaria neokantiana e post-neokantiana. Solo questa istituzionalizzazione, che caratterizza quasi tutta l’istituzione universitaria odierna (le brillanti eccezioni purtroppo confermano la regola), ha rotto il precedente rapporto organico fra il concetto scolastico ed il concetto mondano di filosofia, e vedremo più avanti che il punto di partenza del giovane Lukács sarà appunto quello di rompere con il giuramento gnoseologico neokantiano e di decidere (grazie anche all’incontro con Ernst Bloch) di filosofare nel modo in cui lo avevano fatto Aristotele ed Hegel. In breve, ritengo che Lukács sia stato nel Novecento il punto più alto della fusione fra Schulbegriff e Weltbegriff, che sia possibile pacatamente dimostrarlo, e che qui stia la sua inarrivabile specificità, al di là dell’accettazione o meno della prospettiva dell’ontologia dell’essere sociale. Questo, però, presuppone una ennesima breve ricognizione della precedente storia della filosofia occidentale. Essa è necessaria, perché se non si inserisce Lukács in questa nobile tradizione si corre il rischio di perdere la specificità del suo contributo. Se infatti si legge Lukács, ci accorgiamo subito che i riferimenti allo stalinismo si uniscono a considerazioni su Epicuro e Spinoza, e che note sulla vita quotidiana si mescolano ad interpretazioni originali di Marx e di Hegel. Questo non può che irritare i sacerdoti della filologia universitaria, e non può al contrario che confermare a studiosi indipendenti come chi scrive di essere sulla via giusta. Chi volta le spalle all’unione fra Schulbegriff e Weltbegriff, infatti, non può interessare a nessuno, che non sia un irrilevante animale accademico preso dai suoi grotteschi riti di identità.

La costituzione del sapere filosofico in disciplina erudita autoreferenziale e fine a se stessa è relativamente recente, e risale grosso modo a metà Ottocento. In quel momento storico, in particolare dopo la svolta del 1848 ed il clima controrivoluzionario di normalizzazione reazionaria che si diffuse in Europa (testimoniato da autori diversi come il De Sanctis di Schopenhauer e Leopardi ed il Lukács della Distruzione della Ragione) i poteri dominanti non ritennero sufficiente legittimarsi con la pura scienza evoluzionistica (esemplare è il caso di Spencer come ideologo del darwinismo sociale), ma considerarono opportuno togliere alla riflessione filosofica qualunque potere contestativo rispetto all’esistente attraverso la sua istituzionalizzazione universitaria integrale. Questa istituzionalizzazione avviene storicamente con modalità diverse nei vari paesi europei, ed in Germania, il paese guida della seconda rivoluzione industriale, avviene con l’organizzazione di un sistema di “filtraggio” basato sull’erudizione positivistica, da un lato, e sulla riduzione neokantiana della filosofia a gnoseologia, dall’altro. È questa la ragione per cui Lukács non sbaglia dicendo che dopo il 1848 Hegel passa in un certo senso il “testimone” a Marx. Si può contestare e ritenere schematico questo giudizio, ma è un fatto che il concetto mondano di filosofia (Weltbegriff) inteso come l’insieme di ciò che interessa necessariamente ad ogni individuo, passa veramente da Hegel a Marx.

Nel mondo degli antichi Greci l’idea di una facoltà universitaria di filosofia era letteralmente impensabile. Fino ad Epicuro ed agli stoici compresi (e quindi senza alcuna differenza fra periodo presocratico, socratico, platonico, aristotelico e stoico delle origini) si dava assolutamente per scontato che la filosofia esistesse soltanto nel suo significato mondano (Weltbegriff). In periodo ellenistico nasce peraltro la filologia fine a sé stessa (il Museo e la Biblioteca di Alessandria d’Egitto), ed i romani ricchi cominciano a seguire corsi di filosofia in greco come forma di cultura di status (Cicerone, ecc.). Il distacco del sapere filosofico dal suo concetto mondano, essenziale nei trecento anni che vanno da Eraclito allo stoico Zenone, è dunque storicamente e socialmente legato ad un periodo storico di crematistica scatenata, dispotismo del denaro, fine del metron, indebolimento del katechon, ripiegamento nell’individualità politicamente del tutto impotente, ecc. E nonostante tutto questo, la filosofia continua ad essere praticata come forma di vita comunitaria dei saggi, ed il fatto che potesse essere fatta diventare un oggetto di specialismo socialmente neutralizzato non avrebbe neppure potuto essere immaginato dagli antichi in modo fantascientifico.

Il cristianesimo medioevale non avrebbe potuto avere facoltà separate di filosofia, a meno che queste ultime potessero essere identificate con la facoltà di “arti” nel periodo averroista parigino. Le facoltà canoniche erano tre (diritto, medicina e teologia), e questo non è un caso, perché era socialmente impensabile che si potessero costituire facoltà separate di filosofia, che sarebbero inevitabilmente potute diventare centri di contestazione globale alla legittimazione religiosa dell’ordine sociale feudale e signorile. Ma questo non bastò. L’esperienza di Occam (ed in parte dell’averroismo latino) dimostra come si fosse sviluppato un uso rivoluzionario e contestativo della teologia (nominalismo, chiesa invisibile, ecc.).

Molti filosofi del tempo, anche in area cristiana, erano in realtà medici prestati alla filosofia (come l’aristotelico Pietro Pomponazzi, laureatosi in medicina a Padova nel 1487). Spinoza era del tutto estraneo all’università, e rifiutò un’offerta ad Heidelberg per timore di non poter esprimersi “liberamente”. Chi conosce la corruzione della disciplina universitaria odierna può trovare addirittura comico che qualcuno si sia posto il problema di “esprimersi liberamente”, dal momento che il codice d’accesso alla filosofia universitaria di oggi si basa sulla adesione mimetica (e priva ormai di coscienza infelice) alle opinioni dei cattedratici che dispongono delle chiavi degli accessi per concorso, in una totale assenza di qualsivoglia “meritocrazia”.

La grande maggioranza degli illuministi francesi del Settecento, su cui sono state costruite centinaia di carriere universitarie, era composta da persone totalmente estranee agli apparati universitari dell’epoca. Kant e Hegel, invece, erano certamente prodotti universitari integrali (come poi, più di un secolo dopo, Husserl e Heidegger), ma erano ancora personaggi in cui si univano gli aspetti scolastici e gli aspetti mondani della filosofia. Kant utilizzava la sua cattedra per delegittimare il potere politico-normativo della metafisica (e per questo fu anche “richiamato”) ed Hegel intendeva rappresentare nel pensiero l’epoca nuova di gestazione e di trapasso che riteneva di interpretare adeguatamente. Persino i pensatori che inaugurano il pittoresco periodo di odio verso il sapere universitario (Schopenhauer e Nietzsche sopra ogni altro) sono prodotti integrali del curriculum universitario del tempo.

Tutto ciò si interrompe a metà Ottocento dopo il 1848, per ragioni di tipo storico e sociale prima ricordate. Il potere pubblico e mondano della filosofia come insieme di pensieri che interessano necessariamente ad ogni uomo (Weltbegriff) era infatti inversamente proporzionale al sapere positivistico erudito ed al neokantismo gnoseologico. Lukács è quindi ad un tempo un rivoluzionario ed un restauratore. Un rivoluzionario, perché cerca di innestare nel concetto scolastico della filosofia, intesa come sapere sistemico, i contenuti della critica dell’economia politica di Marx, che essendo una disciplina globale non integrabile nella divisione universitaria delle discipline, spezza e distrugge il falso sapere compartimentalizzato, ed in questo modo neutralizzato e disinnescato. Un restauratore, perché restaura il bimillenario carattere mondano (Weltbegriff) della filosofia. La filosofia torna ad essere ciò che interessa necessariamente ad ogni uomo, senza per questo cessare di essere anche l’esposizione categoriale e razionale del sapere.

Per finire con la segnalazione di questi punti generali, ve n’è forse ancora un quinto che fa da “cifra” interpretativa per la personalità di Lukács. Questo allievo novecentesco di Hegel e di Marx, che accettò Stalin per puro “realismo” storico e non certo perché ne condividesse i comportamenti e l’ideologia, mise sempre al primo posto le sue convinzioni soggettive, e non si adeguò mai al cosiddetto “giudizio dei fatti”. Per lui (come per altro per Marcuse) il realismo hegeliano non era mai l’effettuale o il vincente (e cioè ciò che i giornalisti filosoficamente analfabeti chiamano hegelismo), ma sempre ciò che storicamente avrebbe potuto essere portato al suo concetto (Begriff). Ripetutamente ricordò un verso della Pharsalia di Lucano che diceva: «La causa vincente piacque agli dei, ma quella vinta piacque invece a Catone» (causa victix diis placuit, sed victa Catoni). Ancora nella autobiografia in forma di dialogo rilasciata poco prima della morte (cfr. Pensiero vissuto) Lukács ricordò il motto Ugocsa non coronat per indicare la cifra del suo pensiero. Nel 1723 l’assemblea nazionale ungherese, formata dai rappresentanti di ciascuna regione o comitato, votò la Prammatica Sanzione, che prevedeva la successione di Maria Teresa al trono di suo padre, Carlo d’Asburgo. Gli unici che rifiutarono la propria approvazione furono i rappresentanti di Ugocsa, la più piccola regione dell’Ungheria di allora. Lukács intende dire con questo esempio storico che si può e si deve dire: «Mi oppongo, pur non contando nulla», oppure «Mantengo il mio disaccordo, pur sapendo che le cose andranno diversamente». E Lukács dice: «Per me Ugocsa non coronat, e cioè io non mi lascio comandare, ha sempre fatto da musica di accompagnamento per la Fenomenologia dello Spirito e per la Scienza della Logica di Hegel».

Ora che conosciamo la musica di accompagnamento alla filosofia di Lukács possiamo passare alla decifrazione filosofica della sua vita. Figlio dell’alta borghesia ebraica bilingue (tedesco e ungherese) di Budapest, Lukács è stato caratterizzato per tutta la vita da queste tre determinazioni. In quanto bilingue (ungherese e tedesco) ha subito avuto un rapporto universalistico con la lingua, scegliendo quella che gli sembrava più adatta alla comunicazione delle sue idee in quanto più conosciuta (e per questa ragione è passato abbastanza precocemente dall’ungherese al tedesco). Teniamo presente che per tutti gli anni Venti il tedesco era la prima lingua dell’Internazionale Comunista (solo dopo il 1929 fu sostituita dal russo – conseguenza inevitabile della costruzione del socialismo in un solo paese), era la lingua di comunicazione di tutta l’Europa centrale, settentrionale ed orientale, ed esercitava la funzione del greco nel mondo antico, del latino nel mondo medioevale e dell’inglese nella società odierna. Ma le lingue non sono mai strumenti neutrali di comunicazione.

Esse si portano dietro un mondo di simboli, in questo caso il mondo della grande letteratura (Goethe in primo luogo), e soprattutto il mondo della grande filosofia classica tedesca, che non comprende affatto soltanto il cosiddetto “idealismo”, ma anche Lessing, Herder, Kant, il dibattito postkantiano, fino a Schopenhauer ed allo stesso Feuerbach (e per quanto mi riguarda anche Marx, a tutti gli effetti, ma non credo che Lukács redivivus sarebbe d’accordo). Lukács appartiene alla lingua tedesca come Aristotele appartiene alla lingua greca. Non riesco a pensarlo all’interno dello spirito un po’ frivolo e razionalistico della lingua francese o all’interno dello spirito pragmatico, scettico-empirico ed operazionalistico della lingua inglese.

L’essere stato figlio dell’alta borghesia ebraica di Budapest è stato certo un caso, ma a mio avviso ne ha anche determinato lo spirito. Quando nacque, nel 1885, Hitler era ancora al di là da venire (anche se in realtà Hitler, come Lukács, nacque come cittadino dell’impero degli Asburgo nel 1889 – lo stesso anno di Heidegger e di Wittgenstein). Siamo lontanissimi dal clima politico-culturale che è poi sfociato in Auschwitz oppure nel sionismo nazionalistico-identitario come nuovo profilo di appartenenza del popolo ebraico. Allora gran parte della cultura ebraica dell’Europa Centrale era il luogo della problematizzazione universalistica (e quindi nient’affatto ebraica) della condizione umana.

Ci è difficilissimo comprendere oggi questa situazione storico-epocale del grande pensiero ebraico, particolarmente in un’epoca in cui gli ebrei sono stati consacrati ad una sorta di sacerdozio levitico europeo ed americano della nuova religione laica della cosiddetta “eccezionalità dell’olocausto”, con pellegrinaggi, scolaresche e giornate esclusive della “memoria” (laddove tutte le altre numerose “memorie” dell’ingiustizia e della oppressione non sono evidentemente ritenute degne di sacralizzazione postuma – penso soltanto alle centinaia di migliaia di vittime del colonialismo italiano in Libia ed in Etiopia, addirittura ignorate nei nostri indecenti manuali scolastici di storia). Si tratta – purtroppo – dell’ultima vittoria postuma di Hitler. Ma Lukács (che pure ebbe un fratello ucciso in un battaglione del lavoro riservato agli ebrei nel tempo del dominio dei fascisti ungheresi delle cosiddette Croci Frecciate) fa parte ancora dell’ultima leva del grande universalismo ebraico europeo, che ha nutrito fra l’altro il miglior pensiero comunista novecentesco (su questo punto l’odierna operazione di silenziamento mediatico-universitario è in pieno svolgimento, e sembra quasi che il grande pensiero filosofico ebraico del Novecento abbia soltanto prodotto la modesta professoressa Hannah Arendt), pensiero che mi ostino a pensare si trovi soltanto “silenziato” in una eclissi temporanea.

Di questo grande pensiero ebraico novecentesco Bloch ha interpretato il lato utopico-messianico (quello contro il quale i vari Löwith hanno pensato di “vincere facile”), mentre Lukács ne ha interpretato il lato razionalistico-realistico, quello appunto più difficile da stroncare, e che appunto per questa ragione viene preferibilmente silenziato e diffamato (stalinista, ecc.).

È bene comprendere fino in fondo la genesi del pensiero di Lukács, e su questo punto purtroppo la maggior parte delle monografie critiche non aiuta. Lukács, così come Marx, passò da studi giuridici alla filosofia, anche se si laureò egualmente in legge nell’università di Koloszvàr (oggi Cluj in Romania). Il passaggio dagli studi di diritto agli studi di filosofia è un vero e proprio topos della situazione esistenziale ottocentesca e novecentesca. In termini filosofici, potremmo dire che si tratta della pulsione esistenziale che spinge a passare dall’intelletto (Verstand) alla ragione dialettica (Vernunft).

Il diritto è il regno dell’intelletto astratto, della formalizzazione delle norme, dell’applicazione della fattispecie concreta all’astrazione universalizzante della norma, del superamento della vecchia giustizia del “caso per caso” (quella che Max Weber chiamava la «giustizia del cadì», cioè del giureconsulto arabo che giudicava in base alla propria saggezza ed esperienza). Esso è una scuola per l’intelletto, in quanto abitua alla precisione terminologica ed alle distinzioni (esemplare in proposito è stato per me il magistero epistemologico di Norberto Bobbio, ed esemplare anche il mio correlato rifiuto di accettare che si possa filosofare per dicotomie oppositive e non invece – ça va sans dire – per contraddizioni logico-dialettiche), ma nello stesso tempo invita a riconoscere nella “concretezza” del mondo così com’è il solo mondo possibile. Ma il mondo apparentemente “concreto” è in realtà il mondo completamente “astratto” di quella che Karel Kosík ha chiamato «pseudo-concretezza», ed il passaggio dalla facoltà di legge alla facoltà di filosofia rappresenta proprio il passaggio dall’accettazione metodologica della pseudoconcretezza dell’intelletto (Verstand) alla problematizzazione dialettica del significato espressivo della totalità (Vernunft).

Questo ha riguardato molte persone, dal giovane Marx al giovane Lukács. Ma qui appunto si situa esistenzialmente il «disincanto» (Entzauberung) di Lukács, disincanto peraltro ammesso apertamente da Lukács nella sua ultima autobiografia in forma di dialogo. È bene soffermarci un poco, perché non si tratta solo di un episodio della biografia lucacciana, ma di una vera e propria «figura dialettica universale» nel senso della Fenomenologia dello Spirito.

Sembra oggi che il termine «disincanto» (Entzauberung) debba essere inteso esclusivamente nel senso di Nietzsche (morte di Dio), di Weber (approdo della lunga storia del razionalismo occidentale al politeismo “infondato” dei valori), di Lyotard (disincanto verso la precedente credenza nelle grandi-narrazioni emancipative), di Löwith (scoperta che la presunta scienza marxista non è altro che secolarizzazione della vecchia escatologia ebraico-cristiana nel linguaggio dell’economia politica), di Colletti (scoperta che il pensiero di Marx non è altro che neoplatonismo riverniciato), ed infine di Heidegger letto secondo la coppia postmoderna Vattimo-Galimberti (presa d’atto che il mondo si è rinchiuso sopra di noi in una tecnica planetaria intrascendibile da accettare fatalmente). A pochi viene ormai in mente che questa sorta di fine della storia (attribuita sempre erroneamente ad Hegel, magari letto alla Kojève ed alla Fukuyama) non è che una formazione ideologico universitaria frutto di una congiuntura storica del tutto temporanea, che fra mezzo secolo verrà probabilmente storicizzata e riferita ad un clima culturale che non fa che registrare nel rarefatto e pittoresco mondo ideologico la vittoria tennistica del capitalismo neoliberale sul comunismo storico novecentesco realmente esistito nel ventennio 1985-2005.

Per Lukács il “disincanto” fu una cosa totalmente diversa. Fu il disincanto nei confronti dell’inserimento nel mondo delle istituzioni e dello spirito borghese, disincanto che si consumò nel decennio 1905-1915, e che si originò dalla scoperta semitraumatica della totale insensatezza dello specialismo universitario. E si noti bene che non si trattò di una delusione nei confronti di pittoreschi baroni e tromboni mediocri ed analfabeti, ma di un «disincanto» che sorse dalla frequentazione di maestri assoluti come Simmel e Weber. Vorrei insistere molto su questo punto: Lukács non fu disincantato dalla mediocrità di anonimi analfabeti saliti in cattedra per cooptazione tribale-mafiosa, ma fu disincantato dopo essere stato allievo di Simmel e di Weber.

Si tratta ovviamente di un disincanto che non sorgeva da una delusione psicologica contingente e “aleatoria”, ma di un disincanto verso la totalità della cultura “borghese” nel suo complesso, che trovava nell’insensatezza specialistica della cultura universitaria tedesca semplicemente il suo punto di “deviazione” (clinamen, parekklisis) per dirla con Epicuro. E Lukács ricorda un aneddoto che fu quasi decisivo per la sua vita. Aveva letto un ponderoso saggio accademico che discuteva del colore degli occhi di Lotte nel Werther, che Goethe afferma che erano blu, mentre in realtà erano neri. E Lukács scrive: «Io vidi in questo l’incarnazione di ciò che Hatvany chiamò la scienza di ciò che non vale la pena di sapere [Die Wissenschaft des Nichtwissenswerten]».

L’insensatezza dello specialismo universitario non era evidentemente che il riflesso superficiale di una ben più profonda e pericolosa insensatezza generale. E qui Lukács ebbe la fortuna di incontrare Ernst Bloch (suo coetaneo, un ebreo tedesco nato nel 1885). La decisività di questo incontro è testimoniata sempre in Pensiero Vissuto. Dice Lukács: «Su di me ebbe enorme influenza Bloch. Egli infatti mi convinse con il suo esempio che era possibile filosofare alla maniera tradizionale. Fino a quel momento io mio ero immerso nel neokantismo del mio tempo, ed adesso incontravo in Bloch il fenomeno di qualcuno che filosofava come se l’intera filosofia odierna non esistesse, e che era possibile filosofare al modo di Aristotele e di Hegel».

Considero questa citazione decisiva per l’interpretazione complessiva non solo di Lukács, ma dell’intero progetto di ontologia dell’essere sociale, e più modestamente del contenuto di tutti e quaranta i capitoli di questo mio saggio. È possibile, ed è anzi necessario, riprendere a filosofare nel modo di Aristotele e di Hegel. Questo non significa (sembra quasi sciocco doverlo dire!) che si debba coltivare l’illusione di riuscire a filosofare al loro livello. La storia della filosofia dispensa l’immortalità a pochissimi grandi del pensiero, e sono molti i chiamati, ma pochi gli eletti. Qualunque filosofo di medie capacità, che si metta a leggere Platone, Aristotele, Spinoza, Kant o Hegel, si rende conto immediatamente di non essere in grado di raggiungere la loro profondità e la loro capacità di analisi e di sintesi. Avviene un po’ come nel film di Forman Amadeus, in cui sia Giuseppe II che Salieri, dopo aver composto un motivetto ed aver ascoltato quello proposto da Mozart, si rendono immediatamente conto di trovarsi di fronte a qualcuno di superiore a loro.

Non si tratta quindi di voler competere con Aristotele o con Hegel. Chi si mettesse su questo piano ne uscirebbe sconfitto, e la delusione porterebbe a sicuri momenti di depressione. Si tratta di filosofare al modo di Aristotele e di Hegel, con la pretesa cioè di unire al «proprio tempo appreso nel pensiero» ciò che «è, ed è eternamente», o, se si vuole, di unire il concetto scolastico con il concetto mondano di filosofia, in cui l’esposizione sistematica delle categorie del pensiero, che passa anche necessariamente per la ricostruzione di tutta la storia della filosofia precedente, deve sempre essere rivolta a ciò che interessa necessariamente ad ogni uomo.

Nella sua vita, Lukács ha filosofato come Aristotele ed Hegel. Per questo è stato un esempio ed un maestro (quantomeno un mio maestro, insieme ad Hyppolite e pochissimi altri), e questo del tutto indipendentemente dall’accordo o dal disaccordo con singole tesi interpretative.

Senza Bloch, Lukács sarebbe forse rimasto invischiato nel neokantismo e nella gnoseologia, tipica disciplina per nullatenenti. E tuttavia, vale la pena esaminare tre dei suoi maestri, e cioè Simmel, Weber e Lenin. In proposito, al di là di precisazioni monografiche, mi limiterò ad esprimere il mio pensiero sul contributo di questi tre illustri personaggi.

Lukács considera nell’essenziale Simmel un po’ “frivolo”, mentre riconosce sempre la “serietà” di Weber. Dal momento che Lukács ha conosciuto personalmente Simmel, ed io l’ho soltanto letto sui libri, non ho nulla da eccepire. E tuttavia considero la Filosofia del Denaro di Simmel un capolavoro assoluto, ed un libro “paradossalmente” hegeliano. Si tratta di un’opera che considero intrisa di “marxismo involontario”, in un senso che ora spiegherò. I “marxisti volontari” del tempo, e cioè coloro che si autocertificavano soggettivamente come tali (ma anche i pazzi si autocertificano soggettivamente in modo sincero e veridico come Napoleoni), affrontavano il problema del denaro in modo trogloditico, come se esso fosse soltanto il vecchio “sterco del diavolo” di medioevale memoria, oppure fosse per definizione qualcosa di non-filosofico, ma semplicemente di “economico”, da lasciare cortesemente ai colleghi di economia. Simmel affronta la questione del denaro in modo dialettico, dal momento che da un lato il denaro è la sostanza astratta e generica del valore di scambio puro (ma questo lo aveva già detto bene Marx), ma dall’altro concretizza invece la fioritura di diverse forme sociali di vita. E sono appunto queste forme sociali di vita diverse la vera forza del capitalismo, che da un lato non si fonda su nessuna ideologia e neppure su nessuna grande narrazione (come opina erroneamente Lyotard), ma dall’altro trova un robustissimo consenso passivo proprio nella moltiplicazione di diverse forme di vita, che potremmo chiamare la concretizzazione sociale dell’astrazione economica. Nel noioso cimitero della filosofia marxista della Seconda internazionale (1989-1914) il non-marxista e marxista involontario Simmel è l’unico che di fatto porta avanti le intuizioni marxiane sul denaro. È impressionante altresì che in un’epoca in cui non esisteva ancora per nulla una vera “società dei consumi”, che sul continente europeo non arriva prima degli anni Sessanta del Novecento e che soltanto negli ultimi anni comincia ad articolarsi come dittatura leggera della pubblicità e della coazione all’uniformazione pluralistica delle varie forme di vita consentite, Simmel abbia individuato l’«errore metafisico» basato sul privilegiamento dei mezzi sui fini nel consumo e nell’uso dei prodotti della tecnica.

Ritengo poco probabile che Lukács non sia stato influenzato dalla teoria di Simmel sul carattere dialettico del denaro (che socialmente parlando rappresenta la concretizzazione plurale di una precedente astrazione singolare), e sull’errore metafisico che ne discende. Ripeto, si tratta di una stupenda teoria marxista-inconsapevole, del tutto degna di Hegel e di Marx. Certo, avendo letto Simmel, la “frivolezza” accademica della sua scrittura risulta ad occhio nudo. Quando Simmel morì nel 1918 Lukács ne scrisse un “necrologio filosofico” che ancora oggi si legge con interesse. E tuttavia, è il confronto con Max Weber il cuore della “risposta” di Lukács. Ancora una volta, vale la pena di confrontarsi con i punti più alti, e non certo con scagnozzi lottizzati di nessuna importanza. E proprio la grandezza di Weber ci permette di inquadrare il problema-Lukács al punto più alto possibile.

Da un lato, infatti, è oggi generalmente accettata la tesi per cui Weber discende direttamente da Nietzsche nel “nucleo metafisico” delle sue opinioni, ed il neokantismo funziona solo come metodologia scientifica delle sue categorizzazioni. La teoria weberiana del nesso fra teoria del razionalismo occidentale, disincanto del mondo, politeismo dei valori ed insuperabilità della gabbia d’acciaio deriva direttamente dall’annuncio nicciano della morte di Dio, che però viene “smussato” nei suoi angoli acuti togliendone gli aspetti profetico-esagitati, eliminando ogni “superamento” da parte del superuomo-oltreuomo della fatale gabbia d’acciaio del capitalismo, e soprattutto chiamando ipocritamente “etica della responsabilità” la semplice presa in carico delle compatibilità riproduttive della società borghese-capitalistica. Lukács, essendo stato allievo diretto di Weber, capisce benissimo che tutto il pensiero di Weber gira intorno al nesso fra fine della filosofia e accettazione “destinale” dell’insuperabilità della società borghese-capitalistica, ieraticamente travestita con il pomposo e supponente nome di “modernità” (Weber, morto nel 1920, non poteva ovviamente immaginare la ridicola semplificazione del suo pensiero da parte dell’ingrato seppellitore dei francofortesi Juergen Habermas). E la filosofia, ovviamente, cui si intima di smettere di esistere come giudizio sulla totalità del mondo, viene seppellita proprio perché bisogna togliere progressivamente qualsiasi istanza “esterna” alla riproduzione “destinale” del mondo. Lukács capisce bene tutto questo, ed appunto per questo tutto il suo pensiero deve essere interpretato in termini di restaurazione della grande tradizione che va da Aristotele ad Hegel. Non si capisce altrimenti il significato della frase «fare come se la filosofia moderna non esistesse, e riprendere a filosofare come Aristotele ed Hegel». L’ontologia dell’essere sociale (non alludo ai titoli dei saggi, ma alla prospettiva filosofica espressa con questo termine) non è altro che questo: filosofare nel Novecento come se fossimo Aristotele ed Hegel, consapevoli certamente di non poter arrivare al loro livello, ma nello stesso tempo seguire il loro esempio.

Dall’altro lato, il fatto che Lukács dopo il 1918 abbia aderito ad un “marxismo” basato sulla (erronea ed incorreggibile) teoria del rispecchiamento non poteva permettere di portare fino in fondo questo progetto di restaurazione del modo di filosofare come Aristotele e come Hegel. È noto che il capolavoro del giovane Lukács (cfr. Storia e coscienza di classe, scritta peraltro da un trentottenne, neppure poi molto “giovane”) non si basa sulla teoria del rispecchiamento, ma sulla teoria “idealistica” dell’unità fra soggetto ed oggetto (e cioè sul proletariato come lato soggettivo e sulla storia universale dell’umanità come lato oggettivo), ma è altresì noto che a partire dal 1926-1931 Lukács aderisce formalmente al canone filosofico marxista staliniano. Questo canone non prevede (ed anzi condanna esplicitamente come “idealismo”) il carattere veritativo della pratica filosofica, che viene anzi degradata a pratica ideologica. Lukács accetta formalmente questa degradazione, con quella che potremmo chiamare una “guerra di guerriglia” e di sopravvivenza, e continua a fare dell’alta filosofia chiamandola nello stesso tempo “ideologia”. Ma alla fine l’accettazione della teoria del rispecchiamento si vendica, perché nella sua stessa formulazione dell’ontologia dell’essere sociale egli deve necessariamente limitarsi ad elencare tre e solo tre forme di rispecchiamento conoscitivo (quotidiano, artistico e scientifico), ed in questo modo la filosofia sparisce. Dal momento che la filosofia non può avere per sua natura un carattere “rispecchiante” di un oggetto esistente al di fuori di noi, ne consegue che essa non può avere alcun carattere conoscitivo, e quindi ovviamente nessun carattere veritativo. Ecco, questo è in poche parole la contraddizione-Lukács, che però rivela non solo un suo “limite”, ma esprime la contraddizione fondamentale del marxismo dell’intero Novecento. Contraddizione che riformulerò brevemente così: da un lato, soltanto la ripresa esplicita della tradizione conoscitiva e veritativa della filosofia, da Aristotele ad Hegel, avrebbe potuto “salvare” l’autocoscienza dei marxisti stessi rispetto ai processi storico-sociali in atto; dall’altro, questa ripresa esplicita era impossibile, perché l’ideologizzazione del marxismo operata dagli apparati politico-burocratici, con la connessa imposizione del materialismo dialettico inteso come mistificata naturalizzazione della storia e con la connessa diffamazione dell’idealismo inteso come difesa della religione, costringeva ad imprigionare la filosofia stessa nella prigione dell’ideologia, forma di conoscenza che per sua stessa natura è oggetto di manipolazione e di amministrazione gestita da apparati appositi.

Lukács evitò la guerra 1914-1918, non so se perché era raccomandato o perché fu “riformato” per ragioni di salute. In Ungheria ho ascoltato entrambe le ragioni. Nel 1918, alla fine della guerra, andò ad iscriversi al partito comunista ungherese di Bela Kun, personaggio che non stimò mai (e che sparì poi nelle purghe di Stalin del 1936-38), e disse: «Prima o poi bisognerà comunque farlo». Restò comunista in interiore homine, ma anche pubblicamente (morì nel 1971 con la tessera del Partito ungherese del lavoro). Nel 1919 fu commissario nell’effimera Repubblica comunista ungherese dei consigli, e sarebbe sicuramente stato fucilato dai controrivoluzionari vincitori, se non fosse scappato a Vienna. E tuttavia ritengo che l’avvenimento decisivo della sua vita si determinò quando fu costretto ad ordinare la fucilazione di alcuni disertori al fronte, in occasione dell’invasione dell’esercito romeno. Essere costretti a sporcarsi le mani di sangue è un’esperienza che è stata risparmiata alla mia generazione (sono nato nel 1943). Da un lato, ne sono ovviamente ben contento, dall’altro sono consapevole che non è giusto condannare troppo in fretta persone che si sono trovate in questo tragico dilemma. Lukács conosceva ovviamente la figura hegeliana della cosiddetta “anima bella”, che vive all’interno di dilemmi morali astratti, e crede di essere “morale” perché la storia non la costringe mai a “sporcarsi le mani”. È facile avere le mani pulite quando la storia non ci costringe – lo vogliamo o no – a sporcarcele. Lukács pare se le sia sporcate. Anche Bobbio se le è sporcate scrivendo una lettera servile a Mussolini in occasione del suo brevissimo arresto. Personalmente, seguo il principio di non salire in cattedra per condannare persone che hanno vissuto un periodo storico più tragico di quello che mi è toccato in sorte. Ma questi dilemmi sono per loro stessa natura irrisolvibili. Risolvibile è invece il dilemma etico (etico, non morale) dell’eventuale adesione al comunismo nel 1918, e cioè non in una congiuntura astratta, ma in una congiuntura storica ben concreta, che si tratta appunto di comprendere fino in fondo.

L’adesione di Lukács al comunismo leninista (perché il suo comunismo fu sempre incrollabilmente “leninista” fino alla fine) fu da subito un dilemma etico. La comprensione di questo fatto non è affatto difficile, se ci si riporta a quegli anni, e si pensa alla spaventosa e sanguinosa mattanza cui furono sottoposti i popoli europei a causa delle scelte imperialiste della borghesia europea nel 1914. Il fatto è che la tendenza egemone oggi è quella di dimenticare questa sanguinosa mattanza e “retrodatare” la condanna dello stalinismo al 1917. Esemplare è in proposito la bibbia di questa retrodatazione, il Passato di una Illusione di François Furet. Il comunismo diventa una figura filosofica della propria personale illusione giovanile (Furet fu ovviamente un comunista in gioventù, poi ovviamente “deluso”, che trasforma l’elaborazione della propria precedente illusione in visione disincantata della storia universale secondo il vecchio consolidato modello del passaggio dall’utopia al terrore), ed in questo modo si dimenticano le scelte oligarchiche del 1914, fatte alle spalle dei popoli ridotti a carne da cannone, che sono l’unica legittimazione storica reale del successivo comunismo storico novecentesco. È chiaro che questa legittimazione non può essere trovata in un barbuto signore tedesco chiamato Marx, e neppure nel marxismo deterministico-evoluzionistico di Kautsky, che a posteriori possiamo considerare una delle più infondate ed illusorie teorie dell’intero sistema solare (Plutone incluso).

Si può essere “marxisti” senza essere “leninisti”? Ovviamente sì, si può esserlo. Ad esempio Rosa Luxemburg, Kautsky, Bernstein, il govane Lyotard, Korsch, Mattick, Pannekoek, lo sono stati. Anche Adorno e Bloch non sono certo stati “leninisti”. Ma Lukács lo è stato (e sulla sua scia, il modesto scrivente). Ora, ognuno può definire il leninismo come vuole, e per esempio Stalin lo ha fatto in due importanti scritti del 1924 e del 1926. Ho già espresso un giudizio molto severo sulla filosofia di Lenin, che personalmente rifiuto radicalmente. Ma, a parte la (per me) sacrosanta iniziativa rivoluzionaria del 1917 esiste una rivoluzione copernicana fatta da Lenin rispetto allo stesso Marx, che è la teoria dell’imperialismo. Dal momento che lo stesso Lukács la condivideva, mi sembra opportuno parlarne, dopo aver però segnalato il punto nodale dell’interpretazione lucacciana di Lenin, che è pressoché identica a quella di Antonio Gramsci. Lenin, in altre parole, come portatore dell’attualità della rivoluzione.

Antonio Gramsci definì la rivoluzione russa del 1917 in termini di rivoluzione contro il Capitale, intendendo non certo il primo volume del Capitale di Marx, ma l’interpretazione evoluzionistica e deterministica del marxismo prevalente nella Seconda Internazionale socialista. Il libretto di Lukács intitolato Lenin, e pubblicato nel 1924, sostiene esattamente la stessa tesi di Gramsci. Un esame comparativo dei lavori filosofici rispettivi di Lukács e di Gramsci porterebbe a riscontrare somiglianze molto forti. Ad esempio le critiche di Gramsci e di Lukács al meccanicismo del Manuale di Bucharin sono praticamente identiche. Lukács era nato nel 1885 e Gramsci nel 1891, in posti che più diversi non avrebbero potuto essere, Budapest e la provincia sarda. Ma entrambi facevano parte di quella vera e propria “generazione magica” per cui la filosofia raggiunse il massimo del Weltbegriff, cioè della concezione per cui essa tratta di ciò che interessa necessariamente ad ogni uomo. Le differenze di dettaglio, pur esistenti, vengono dopo.

Non può esistere in Marx una compiuta teoria dell’imperialismo, per il semplice fatto che l’imperialismo vero e proprio è un prodotto della grande depressione economica 1873-1896, che tra l’altro produsse anche la formazione ideologica marxista engelsiano-kautskiana del ventennio 1875-1895 e la correlata teoria del cosiddetto (e completamente inesistente) crollo del capitalismo. Esiste però (eccome se esiste!) una teoria del colonialismo, e del fatto che il commercio colonialistico è stato uno dei presupposti per lo sviluppo capitalistico (secondo Paul Sweezy il principale, secondo Maurice Dobb invece soltanto un fattore coadiuvante, il principale essendo invece la trasformazione capitalistica settecentesca dell’agricoltura inglese). Se è così (e mi sembra che sia filologicamente ineccepibile!), cadono allora tutte le interpretazioni sul carattere “progressivo” del capitalismo e sulla giustificazione indiretta che può essere data alla colonizzazione capitalistica.

È vero che Marx (ma solo nei primi anni cinquanta, dopo sempre meno, e negli ultimi anni per nulla) si è lasciato andare a (stupide) affermazioni sul carattere “progressivo” del colonialismo (in particolare riguardo all’India, ma anche lì solo fino all’indegno massacro che seguì l’insurrezione dei cepoys del 1857), ma in un contesto più largo queste (stupide) affermazioni devono essere contestualizzate, e se le si contestualizza queste (stupide) affermazioni rivelano che Marx ancora dipende dalla filosofia occidentalistica ed eurocentrica di Hegel. Per ammirare Marx, e ritenersi suoi allievi critici ed indipendenti, non c’è mica bisogno di sottoscrivere bovinamente tutte le frasi che può aver scritto nella sua vita! Gli antichi dicevano: quandoque dormitat atque Homerus, e chi non lo capisce se lo vada a cercare nel dizionario!

Lo “spirito” di Marx era totalmente anticoloniale, e possiamo quindi ipotizzare che sarebbe stato anti-imperialista, come possiamo ipotizzare che non si sarebbe riconosciuto nel modello socialista di Stalin, ed avrebbe avuto solo disprezzo e disapprovazione integrale per il modello nazionalsocialistico di Hitler. Non si tratta allora di evocare Marx in una seduta spiritica per fargli dire con i tavolini che ballano che cosa ha pensato di Bush e di Bin Laden, ma semplicemente di interpretare il suo spirito generale. E allora la mia conclusione è questa: chi nega il carattere “marxiano” della categoria di imperialismo uccide Marx per la seconda volta. L’accettazione della categoria di imperialismo è la cartina di tornasole per sapere se è possibile essere marxisti oggi.

Il geografo marxista David Harvey ha scritto recentemente un’opera (cfr. The new Imperialism) che aggiorna creativamente le opere precedenti, tenendo conto dei nuovi dati storico-politici. Harvey distingue tre fasi successive del dibattito sull’imperialismo. La prima è quella classica (Hobson, Lenin, Rosa Luxemburg), che si basava soprattutto sui tre elementi della sovraccumulazione del capitale, del sottoconsumo che ne derivava e della spartizione del mercato mondiale e dell’accesso alle materia da parte delle principali potenze del periodo (Germania, Inghilterra, Francia, Russia, Giappone, ecc.). Questa prima forma classica è stata com’è noto la principale causa del sanguinoso macello della grande guerra 1914-1918, ed anche della benemerita e mai abbastanza lodata rivoluzione russa del 1917. La seconda fase ha avuto il suo coronamento negli anni Sessanta del Novecento, e si è soprattutto fondata sulle nuove relazioni neocoloniali che si sono sviluppate dopo le grandi lotte anticoloniali dei due decenni precedenti (Samir Amin, Paul Sweezy, Gunder Frank, ecc.). La terza fase, quella attuale, si basa sulla globalizzazione, sul dominio dell’impero americano e sulle nuove contraddizioni che questo odioso dominio comporta (resistenze nazionali e religiose, emergenza di nuovi poli imperialistici ancora dominati, tipo India, Cina, Brasile, ecc.). In una seria ontologia dell’essere sociale questi temi dovrebbero coprire uno spazio più grande ancora di quello che è stato dedicato a Cartesio, Spinoza, Kant e Nietzsche. Non potendolo fare per ragioni di spazio me ne scuso, ma neppure voglio dimenticare di sottolineare la mia opinione così: la questione dell’imperialismo è ancora più importante della questione del rapporto fra Hegel e Marx, e solo Dio sa quanto importanza io dia al rapporto fra Hegel e Marx!

Tutto questo lo dovevo a Lukács. Detto questo, prima di affrontare il nostro problema centrale, quello della natura dell’ontologia dell’essere sociale di Lukács, voglio ancora soffermarmi liberamente su due temi importanti e generalmente poco trattati dai commentatori lucacciani, quelli del rapporto rispettivo di Lukács con Hitler e con Stalin.

A proposito di Hitler, Lukács si muove in direzione opposta al modo in cui i due circhi complementari mediatico ed universitario affrontano il problema di Hitler. Il politicamente corretto di oggi, la cui dittatura corrisponde a tutte le forme precedenti di costrizione ideologica (ma che per la natura fluida del capitalismo può limitarsi a demonizzazioni e silenziamenti, diffamazioni e ridicolizzazioni, senza bisogno di ricorrere ad artigianali e pittoreschi roghi e tenaglie roventi), non riesce a discutere realmente di Hitler, ed oscilla fra la demonizzazione inesplicabile, l’irruzione metafisica del diabolico nella storia, la banalità del male, l’eccezionalità espiatorio-religiosa di Auschwitz, la necessità di negare addirittura il legittimo fatto nazionale tedesco per limitarsi ad un impossibile e demenziale “patriottismo della costituzione”, ecc. Si ha in questo modo una classica rimozione psicoanalitica di Hitler, che viene così interamente destoricizzato, desocializzato e deculturalizzato. Chi pensa in questo modo di poter “tenere lontane” le giovani generazioni da un nuovo Hitler sappia che con questo insieme di demonizzazione, desocializzazione, destoricizzazione, deculturalizzazione (insieme ideologicamente necessario per costituire la nuova religione atea dell’olocausto, la cui funzione è l’apologetica indiretta – il termine è lucacciano, e quindi utilizziamolo – del sionismo e del suo garante strategico, l’impero USA e le sue basi militari che costellano il mondo) otterrà l’effetto contrario. Il solo modo di condannare Hitler, che merita ovviamente una condanna senza appello e senza giustificazione (è infatti vero che Auschwitz, pur non essendo affatto stato “unico”, non consente nessuna giustificazione), consiste nella sua collocazione storica. In questa ottica deve essere letto il capolavoro di Lukács La Distruzione della Ragione, che non è affatto una “lavagna dei cattivi”, e neppure la cucitura storica di una grande narrazione demoniaca, ma è una riflessione sulle vicende del razionalismo occidentale. L’ebreo Lukács non si sogna neppure di scrivere una storia sacra giudeocentrica del Novecento (l’espressione «giudeocentrica» è di Domenico Losurdo). Egli ne scrive una storia culturale, e su questo deve essere giudicato.

A proposito della visione del mondo complessiva (Weltanschauung) nazionalsocialista Lukács sostiene che essa si basa sul “trasferimento” alla strada di quanto era stato a lungo soltanto attività di salotti, caffè e studi degli eruditi. E mi sembra proprio che sia così. Altro che irruzione del demoniaco nella storia, banalità del male ed altre pittoresche sciocchezze! Non è forse vero che oggi salotti, caffè, studi degli eruditi teorizzano la necessità storica di un impero americano? E possiamo allora stupirci che negli USA i tifosi mascalzoni dei politici repubblicani inalberino cartelli con su scritto “Bomb Iran”? I Sudeti, che Hitler occupò nel 1938, ed in cui c’era un’inequivocabile stragrande maggioranza tedesca, sono forse diversi dal Kosovo del 1999, in cui c’era una stragrande maggioranza albanese? Perché portare via una provincia alla Cecoslovacchia nel 1938 è demoniaco, e portare via una provincia alla Jugoslavia nel 1999 è una meritoria difesa dei diritti umani?

Il lettore capisce perfettamente che non intendo affatto “giustificare” Hitler. Tutto al contrario! Io penso che Hitler debba essere condannato senza appello, ma questa condanna deve essere storica, sociale, filosofica, razionale, e non deve dar luogo a nuove religioni con i rituali ed i pellegrinaggi del caso. Chi vuole condannare Hitler legga invece la Distruzione della Ragione, e capirà il rapporto fra l’elaborazione di concezioni sofisticate ed il loro “trasferimento” nella strada.

A parte questo, l’opera lucacciana è un vero tesoro di stimoli, ed è appunto per questo che oggi è diffamata ed ignorata. Lukács ha elaborato per il comportamento diffuso degli intellettuali il termine «Grand Hotel dell’Abisso» (Hotel Abgrund), per indicare quegli alberghi di lusso costruiti sulle cascate, in modo che sorseggiando il tè ed ascoltando buona musica classica l’ospite potesse dare di tanto in tanto uno sguardo d’orrore sul burrone che si apriva sotto il suo sicuro balcone. Si tratta (e non intendo affatto nasconderlo) di uno dei maggiori contributi alla sociologia degli intellettuali che sia mai stato scritto. Un’altra categoria lucacciana assai utile è quella di «apologia indiretta». Se infatti un sistema sociale appare troppo ingiusto per essere direttamente difendibile, un buon modo per farne l’apologia è sostenere che è il “meno peggiore possibile”. Vediamo oggi, a quarant’anni dalla morte di Lukács, che il capitalismo imperialistico globalizzato si legittima con la continua ed insistita retroazione della condanna del socialismo. E poi c’è chi dice che Lukács sarebbe sorpassato!

Allievo di Max Weber, Lukács non si stanca di ripetere che la tesi fondamentale di Weber è quella dell’impossibilità del socialismo, per cui (cito) «l’apparente storicità delle considerazioni sociologiche tende – sia pure mai in modo esplicito – a giustificare il capitalismo come sistema necessario e sostanzialmente non più modificabile, ed a scoprire le pretese contraddizioni economiche e sociali del socialismo che ne devono rendere impossibile la realizzazione sia nel campo teorico che nel campo pratico». Non si poteva dire meglio, ed inquadrare meglio il problema.

Le osservazioni intelligenti nel campo della storia della filosofia sono innumerevoli. Mi limito a segnalare che Lukács afferma che l’attribuire una mentalità antistorica all’illuminismo è un’infondata leggenda borghese, perché anzi l’illuminismo ha a tutti gli effetti scoperto la storia in senso moderno (e richiamo qui le autorevoli opinioni di Cassirer e di Koselleck). Egli afferma anche che Fichte, volendo dedurre l’intero mondo della conoscenza dalla dialettica dell’Io e del Non-Io (quella che Kant definì uno «scandalo della filosofia») riprende la stessa rigorosa immanenza con cui Spinoza deduceva il suo mondo dall’estensione e dal pensiero, e questo rilievo, a mio avviso, consente una rilettura alternativa dell’intera storia della filosofia (come quella che il lettore ha sotto gli occhi). Per finire, Lukács sostiene che la lotta di Hegel contro Schelling non deve essere ritenuta un semplice battibecco accademico fra specialisti, ma deve essere ritenuta una lotta fra la costruzione della dialettica e la fuga da essa nell’irrazionalismo.

La difesa del razionalismo dialettico in Lukács deve quindi essere letta come l’unico vaccino possibile non solo contro Hitler, ma contro qualsiasi “ritorno” di Hitler. Com’è chiaro, si tratta di una strategia filosofica e culturale opposta a quella dominante oggi, che si fonda sulla tesi irrazionalistica ed antidialettica della demonicità incomparabile di Hitler, per cui i cosiddetti “negazionisti”, assimilati ai bestemmiatori medioevali, sono l’unica corrente culturale del mondo (occidentale) cui viene negato il diritto di parola, che viene invece consentito a tutti gli altri bestemmiatori. Naturalmente, so bene che nel chiacchiericcio diffamatorio del Gerede odierno, simili affermazioni vengono subito intese in termini di cripto-nazismo, antisemitismo ed approvazione del negazionismo. È del tutto inutile negare che sia così. So bene che le kantiane regole della prudenza consigliano di non svegliare il cane che dorme. E tuttavia non si può fare a meno di ritornare sempre al punto essenziale, che riformulerò ancora una volta così: volete condannare Hitler? Volete che in futuro un nuovo Hitler non possa affacciarsi più nel teatro della storia? Bene, avete ragione, perché quello che ha fatto Hitler è completamente inaccettabile e non può essere in alcun modo giustificato. Auschwitz, ad esempio, è del tutto inaccettabile. Ma sappiate che la strategia irrazionalistica della demonizzazione, della destoricizzazione e della mescolanza fra banalità del male ed irruzione del diabolico nella storia non serve agli scopi che vi proponete. Anzi, il modo ieratico-rituale-religioso che avete scelto è il modo migliore per fare sì che quando un nuovo Hitler si riaffaccerà non potrà essere riconosciuto. Solo uno sciocco, infatti, può pensare che si ripresenterà eguale a quello precedente, con i baffetti e la stridula pronuncia tedesca. Si ripresenterà totalmente diverso, ovviamente, e solo un’educazione filosofica razionale e dialettica potrà forse permettere di riconoscerlo, e quindi di combatterlo. Persino il medioevale più scemo sapeva che il diavolo non si presenta mai con il forcone e la coda arricciata. Vogliamo forse essere al di sotto del medioevale più scemo?

Ho riassunto qui non tanto le opinioni specifiche di Lukács su Hitler (che erano ovviamente pessime), quanto l’approccio razionalistico al problema-Hitler. Esporrò ora le mie considerazioni sull’approccio di Lukács al problema-Stalin. Queste considerazioni sono infatti molto più importanti di quelle svolte in precedenza. L’ostilità di Lukács verso Hitler è infatti del tutto evidente, ed è sufficiente sottolinearne l’elemento critico di tipo dialettico-razionalistico. L’approccio di Lukács verso il problema-Stalin è invece immensamente più significativo, perché è esemplare di molti approcci, sia di contemporanei sia di pensatori posteriori. Ammetto apertamente che il mio personale approccio al problema-Stalin è sostanzialmente simile a quello di Lukács, e perciò prenderò “due piccioni con un fava”, perché parlerò di Lukács, ma dirò anche come io vedo la questione nei suoi tratti essenziali.

È stato Lukács uno “stalinista”? Bisogna ovviamente intendersi bene sul termine. Se mettiamo nel grande cesto degli “stalinisti” tutti i comunisti novecenteschi che non hanno rotto politicamente in modo esplicito con il comunismo maggioritario “ufficiale” di Stalin allora sì, lo è stato. Ma, appunto, nego che il criterio della rottura esplicita con Stalin sia un parametro storiografico utile. E così come a proposito della collocazione politica di Hegel ho utilizzato in un precedente capitolo un modello spaziale a tre lati (i vecchi ceti di Metternich, la furia del dileguare del contrattualismo rivoluzionario di Rousseau e di Robespierre, ed infine la società civile che fonda lo Stato dell’economia politica liberale inglese), nello stesso modo utilizzerò per Lukács un modello simile, basato sulle possibilità politiche concrete che aveva Lukács nel corso della sua vita terrena, e non sulla retrodatazione religiosa che è oggi corrente, retrodatazione basata sulla demonizzazione di Stalin come incarnazione del male assoluto (sia pure un pochino meno di Hitler, perché ha fatto le fosse di Katyn ed il sistema schiavistico dei gulag, ma non ha fatto l’imparagonabile ed eccezionale Auschwitz). Si tratta di un’analisi molto importante, che non riguarda solo Lukács, ma l’intero Novecento politico-filosofico.

Lukács si riconosceva in una filosofia della storia universale basata sull’idea per cui il capitalismo, lungi dall’essere il coronamento razionale della storia universale (Weber), era un momento di passaggio necessario (e cioè l’hegeliano potere del negativo) verso una società emancipata, che chiamava “comunismo” perché così l’avevano chiamata i suoi due maestri Marx e Lenin (è importante la paroletta due, perché non si pensi che Lukács sia stato un allievo “diretto” di Marx). Bene, si tratta esattamente della stessa filosofia della storia che io coltivo, ed ecco perché trovo ridicolo che si possa dire che il pensiero di Marx non è una filosofia della storia, e non la contiene neppure implicitamente. Il fatto che una simile tesi, analoga a quella della terra piatta, venga sostenuta seriamente, può per me essere spiegato soltanto in termini di pressione sociale sugli intellettuali, cui viene “ordinato” di essere moderni, postmoderni, post-metafisici, scientifici e via ordinando. Non è quindi possibile capire Lukács se non lo si colloca in questo quadro di storia universale.

La storia universale, però, può essere pensata con le categorie astratto-dicotomiche dell’intelletto (Verstand), oppure con le categorie dialettico-ontologiche della ragione (Vernunft). Se penso la storia universale (e non posso fare a meno di pensarla – persino i suoi negatori più feroci, come i neopositivisti e gli althusseriani, in realtà la pensano, ma poiché non la tematizzano, finiscono per cadere in forme grottesche come la fine capitalistica della storia, l’aleatorietà oppure le moltitudini desideranti in lotta con un impero deterritorializzato e privo di Stato-nazione), e la penso sulla base dell’intelletto (Verstand), non posso fare a meno di pensarla con le categorie aporetiche, dicotomiche ed astratte dell’intelletto, ed allora si scatena un carnevale di contraddizioni logiche e di opposizioni reali. Ma la contraddizione è ontologica, e non è mai solamente logica (ed ecco perché la preferenza di Hegel nei confronti di Kant non è un affare di seminario universitario, ma è una questione che «riguarda direttamente ogni uomo», Weltbegriff). Se affronto il problema-Stalin in chiave intellettiva (Verstand) ne risultano un mucchio di conseguenze, fra le quali il fatto che egli non applica Marx e Lenin, e quindi non si comporta come avrebbe dovuto comportarsi se avesse veramente “applicato” Marx e Lenin. Ma Lukács cercava di affrontare il problema-Stalin con la ragione dialettica (Vernunft), ed è così giunto a questa conclusione: in termini di filosofia della storia, il passaggio dal capitalismo al socialismo è ad un tempo necessario e buono (l’unione di questi due attributi costituisce un concetto, Begriff); e tuttavia questo passaggio non riesce a compiersi secondo le ipotesi di Marx prima e Lenin dopo; bisogna hegelianamente cercare di capire perché non si compie in quel modo, ma in un modo nuovo ed inedito; una volta che lo si sia capito (o creduto soggettivamente di capire), si può pensare che si tratti di una deformazione grave, ma correggibile una volta che si sia superata la fase “tattica” dell’emergenza, per raggiungere una fase “strategica” in cui il passaggio al socialismo possa essere “ripreso” su nuove basi.

Questo è forse stalinismo? Non lo credo proprio. È forse un errore sulla natura dello stalinismo, ma non è assolutamente “stalinismo”. Forse che riconoscersi in una filosofia della storia del superamento del capitalismo è “stalinismo”? Forse che il pensare (magari sbagliandosi – ma è facile dirlo nel 2013 con il noto “senno del poi”) che lo stalinismo sia solo una malaugurata fase storica “immatura” destinata ad essere superata è stalinismo? Non lo credo proprio.

Agnes Heller, che senza essere mai stata una “allieva” di Lukács (non condivideva nulla del progetto dell’ontologia dell’essere sociale, unico vero testamento di Lukács, odiava il socialismo reale, ed ha accolto con rauche grida di gioia la restaurazione del capitalismo) ne ha però studiato seriamente la personalità, ed ha a mio avviso risolto brillantemente l’enigma teorico del cosiddetto “mistero-Lukács”. La Heller distingue due tipi di marxismo, riferiti al sistema socialista di tipo sovietico-staliniano, il marxismo dottrinario ed il marxismo ideologico. Per “dottrinario” intende l’unica dottrina ufficiale obbligatoria di Stato, per “ideologico” intende la libera coltivazione pluralistica delle interpretazioni di Marx. La terminologia è cattiva, perché in realtà c’era da un lato una dottrina ideologica, e dall’altra una libera coltivazione filosofica, e questa confusione terminologica dice tutto sul livello penoso del pensiero della Heller. E tuttavia prendiamo provvisoriamente per buona questa terminologia. Secondo la Heller nel sistema di dominio sovietico tutti i tipi di marxismo ideologico (compreso paradossalmente quello che ritiene che Stalin abbia avuto ragione) sono fuori legge per la semplice ragione che essi implicano il pluralismo per la loro stessa natura “ideologica”.

Ma la stessa esistenza di una “ideologia marxista” è una sfida al diritto assoluto del sovrano a porsi come il solo interprete autentico della dottrina. Scrive la Heller, e devo ammettere che scrive qualcosa di geniale: «Quando accusò Lukács di “stalinismo”, neppure Deutscher afferrò il nocciolo del problema. Lukács poteva accettare tutte le teorie di Stalin che voleva, ma non poteva egualmente diventare stalinista, per la semplice ragione che praticava un marxismo di tipo ideologico. Il suo marxismo restava comunque illegale, rappresentava una forma di pluralismo, nonostante il contenuto dei suoi scritti. Egli non rinunciava al suo diritto di interpretare in modo indipendente la teoria, un diritto che non era affatto garantito. […] la logica del sistema non poteva tollerare una teoria sociale originale ed indipendente, almeno non senza le tendenze eufemisticamente definite “amministrative” del regime». Per chi conosce la logica riproduttiva di queste fogne a cielo aperto, che mettevano in prigione particolarmente gli oppositori “marxisti” indipendenti, “amministrativo” significava nell’ordine richiamo, minaccia, ricatto, licenziamento, prigione e morte.

Devo ammettere che nonostante la mia irrefrenabile antipatia per la cosiddetta (ed inesistente) “scuola di Budapest”, che ha usato Lukács per autosponsorizzarsi nell’accademia occidentale per poi pugnalarlo dopo morto (in pittoresco e sintomatico parallelismo con ciò che Habermas ha fatto con i suoi maestri francofortesi – si tratta evidentemente di un fatto sociale, cioè di un rinnegamento funzionale ad un codice d’accesso alla nuova rispettabilità post-comunista), la Heller coglie veramente in modo eccellente il nocciolo della questione. Lukács poteva anche condividere quasi tutte le idee di Stalin, ma non poteva per questo diventare “stalinista”, perché lo stalinismo non consiste in un insieme di libere opinioni, ma in una rinuncia ad avere opinioni indipendenti. La teoria politica dello stalinismo non può essere spiegata attraverso Rousseau, Hegel o Marx, ma soltanto attraverso Hobbes, che teorizza il monopolio assoluto del Leviatano statale sull’unica religione consentita, non certo perché questa religione fosse quella giusta (Hobbes era totalmente ateo e materialista), ma unicamente perché il solo modo di garantire l’ordine sociale dalle rivolte era la garanzia statale-poliziesca-militare sull’unicità della dottrina. E questo Lukács non poteva garantirlo, perché la sua educazione filosofica hegelo-marxiana non poteva permettergli di rinunciare a pensare.

C’è qui lo spazio per una ulteriore osservazione. A partire da Thomas Mann, esiste una pittoresca (ed infondata) tradizione che connota Lukács come il gesuita della rivoluzione. In questo caso, ovviamente, il “gesuitismo” è usato come metafora per indicare i sofistici allineamenti alle giustificazioni del potere, in questo caso quello papale. Ma qui si dimentica che il fondatore dell’ordine dei gesuiti, il basco spagnolo Ignazio di Loyola, aveva teorizzato che bisognava obbedire al papa come un “corpo morto” (perinde ac cadaver). Ma Lukács, proprio per le ragioni esposte dalla Heller, non poteva certamente essere un “gesuita”, in quanto non rinunciava e non poteva non rinunciare a quello che la Heller impropriamente chiama il marxismo di tipo ideologico, e cioè la libera riflessione indipendente.

Quale fosse la natura dello stalinismo, Lukács l’aveva capito benissimo. In una stupefacente pagina di Pensiero Vissuto, richiesto di dire in che modo era sopravvissuto agli anni terribili dei processi sovietici 1936-1939, rispose che ciò era probabilmente dovuto al fatto di vivere a Mosca in una specie di sottoscala, e cioè in un alloggio che nessun delatore poteva volere. Se fosse vissuto in una bella villetta con giardino, sarebbe stato arrestato in piena notte, deportato e non sarebbe probabilmente sopravvissuto. Una persona che ammette candidamente qualcosa del genere può restare “comunista” soltanto se distingue accuratamente la materialità storico-sociale empirica chiamata “comunismo” (e cioè i delatori ed i poliziotti) e l’idealità storico-processuale della sua filosofia universalistico-emancipativa della storia. È questa un’ennesima ragione che spinge a ridefinire il rapporto teorico fra materialismo ed idealismo, o per meglio dire fra materialità effettuale e congiunturale ed il trascendimento di questa materialità in una filosofia idealistica del processo storico. E a questo punto uno si può definire ed autocertificarsi in termini di “materialista a diciotto carati” (magari perché non crede in Dio e chiama questo suo privato ateismo “materialismo” – come faceva Lukács) ma nessuno può impedirmi di connotare come “idealismo” (nel senso di Fichte e di Hegel, ma anche addirittura di Platone) la capacità di trascendimento del dato empirico fattuale. Evidentemente per Lukács il “reale” non si riduceva al sistema di spionaggio e di assassinio di quegli anni.

La storia raccontata da Lukács sul suo alloggetto-sottoscala che non attirava i delatori apre comunque uno squarcio di interpretazione sulla natura dei grandi processi degli anni 1936-39. Come nel caso di Hitler, anche in questo caso è comodo spiegare tutto con la “follia assassina” di Stalin. E tuttavia, secondo la corrente storiografica di Arch Getty e di Ludo Martens (certo minoritaria, ma in casi come questi solo il minoritario è credibile e rilevante, mentre il maggioritario è solo la ricaduta conformistica del politicamente corretto universitario), il periodo dei grandi processi è interpretabile come una gigantesca rivolta plebea contro i privilegi dei burocrati, rivolta plebea che Stalin cavalcò per ragioni politiche (più o meno come fece Mao trent’anni dopo, fra il 1966 ed il 1969, con la mia generazione di maoisti religiosi e sciocchi che pensava si trattasse di un “ritorno a Marx” – ma Lukács, che era ancora vivo, vi riconobbe un “già visto” e non vi cascò), salvo poi a fucilare sia Yagoda che Yezov, i due capi-assassini. Tutto questo viene censurato, perché il politicamente corretto di “sinistra” non può ammettere a sé stesso che il popolo non è sempre “buono”, ma talvolta è invidioso, spietato e cattivo. Meglio cullarsi nell’illusione per cui il “male” è sempre fatto da singoli demoniaci e crudeli (Mussolini, Franco, Hitler, Stalin, Pol Pot, ecc.), esentandone sempre e dovunque i normali capitalisti non-politici.

Ma torniamo al quadro storico in cui dovette muoversi Lukács nella sua vita, applicando il metodo della contestualizzazione già usato a proposito di Hegel. Solo in questo modo, infatti, potremo pretendere di capire qualcosa su Lukács ed i suoi tempi. E se vogliamo esaminare alcune possibilità concrete, trascurandone ovviamente altre astrattamente possibili (farsi prete cattolico, convertirsi al sionismo ed andare in Palestina e cacciare via gli abitanti dalla loro terra in nome di lontani diritti biblici, diventare bonzo buddista, ecc.), io vedo per Lukács solo quattro possibilità: ritornare al capitalismo liberale dopo un adeguato pentimento, farsi tentare dalla demagogia nazionalsocialista e fascista, scegliere la strada testimoniale del marxismo “puro” dei consigli, ed infine aderire alla grande eresia trotzkista del tempo. È bene esaminare una per una queste quattro possibilità, in modo sfacciatamente spregiudicato e realistico, per capire come la scelta di continuare ad essere fedele alla sua scelta esistenziale del 1918 non implica affatto nessuno “stalinismo”.

La scelta di tornare a succhiare i capezzoli della grande madre borghese-liberale, e quindi capitalistica-imperialistica, dopo il normale sbandamento giovanile “comunista”, è sempre stata la più ovvia e convenzionale di tutti, ed è infatti stata la scelta prevalente della grottesca e sciagurata generazione europea detta del “Sessantotto” (1968). Secondo un vecchio detto (che non si può più applicare alle giovani generazioni post-borghesi e new middle-class di oggi, ma implica la persistenza della hegeliana coscienza infelice della piccola borghesia classica), chi non è comunista a vent’anni è uno stupido, ma chi lo resta ancora a quarant’anni è ancora più stupido.

È per questo che Lukács contrapponeva la «passione durevole» al passaggio ad un diverso campo oppure alla perdita di dedizione in genere. La gioventù è pensata come il luogo biologico dell’ideale, e la maturità come il ritorno disincantato al materiale. Max Weber spiegato ai deficienti. Si crede che il comunismo sia la nuova religione di salvezza dell’umanità, poi si incontrano i comunisti veri in carne ed ossa, con inclusa la figura del cinico burocrate, dello straccione invidioso e dell’intellettuale mediocre per cui tutto diventa “ideologia”, non perché lo sia, ma perché l’idiota è incapace di capire l’arte, la religione, la filosofia e la scienza, e allora sopravviene prima il Dubbio Iperbolico (ma questo comunismo sarà mai possibile?) e poi il Disincanto Definitivo (ma certo che è impossibile, e se possibile detestabile, e quindi meglio il capitalismo, prima come male minore, e dopo qualche anno di intrallazzo come bene maggiore).

A questo punto il ritorno al capitalismo neoliberale è garantito: il Dio ha fallito, si ritorna al Mondo (e cioè ai soldi, oppure alle querimonie contro il totalitarismo in favore della libertà). L’idea che un grande filosofo critico come Lukács potesse seguire questa penosa e ridicola trafila a metà fra Aristofane e Alberto Sordi e che l’allievo di Simmel e di Weber potesse comportarsi come Cohn-Bendit o Adriano Sofri è un vero insulto per l’intelligenza.

La scelta nazionalsocialista e fascista non era solo preclusa a causa della origine ebraica di Lukács, ma era resa impossibile proprio dai suoi presupposti filosofici. Ho volutamente previsto questa fattispecie a prima vista assurda, perché si tende a rimuovere il fatto che molti convinti comunisti della prima ora (il norvegese Quisling, il francese Doriot, l’italiano Bombacci, e molti comunisti tedeschi) passarono al fascismo. E vi passarono per una ragione semplicissima, che la storiografia politicamente corretta di oggi tende a rimuovere, e questa ragione semplicissima sta in ciò, che il fascismo era realmente molto più sociale del normale capitalismo liberale, ed era quindi in grado di lottare contro la disoccupazione ed il parassitismo del capitale finanziario molto più di quanto lo fosse il capitalismo liberale, che dopo il 1929 era invece a tutti gli effetti disoccupazione e parassitismo del capitale finanziario. Lungi infatti dall’essere una dittatura degli elementi più reazionari del capitale finanziario (come recitava la dilettantesca formula di Dimitrov al VII congresso dell’Internazionale Comunista), il fascismo tedesco era una dittatura del capitale industriale e produttivo, che aveva come base di massa la piccola borghesia e come apparato politico di comando il partito nazionalsocialista. È del tutto normale – e quindi niente affatto “demoniaco” – che quando si riduce in un anno la disoccupazione da sette milioni ad un milione, e quando si mettono in opera le solite strutture sociali del consenso di massa (assistenza pubblica, ostelli della gioventù per giovani, ecc.), con correlate forme ideologiche di scarico del normale odio plebeo verso i capri espiatori (ebrei, zingari, malati mentali, “improduttivi” vari) si possa avere un buon consenso sociale. È questa la ragione per cui gli intellettuali di stupidità media (e cioè la stragrande maggioranza della categoria) furono tentati dalla demagogia fascista. E persone come Quisling, Doriot, Bombacci, Céline, Pound, ecc., ne furono tentati non certo perché fossero “peggiori” dei neoliberali che scappavano a servire gli interessi imperiali di Londra e di New York, ma perché la loro “socialità” non si radicava – come nel caso di Lukács – in una filosofia universalistica della storia.

È questo il cuore della questione, che né i neoliberali né i comunisti ortodossi potranno mai capire (e neppure i fascisti in buona fede). Vedere fra il 1933 ed il 1945 il fascismo come la “terza via” fra il capitalismo liberale imperialistico (pensiamo all’orrido colonialismo inglese in India, ed all’altrettanto orrido colonialismo francese in Indocina) ed il dispotismo staliniano non era per nulla l’irruzione del demoniaco nella storia o la banalità del male, ma era una tentazione del tutto comprensibile. Il fascismo era infatti non solo più “sociale” del “capitalismo liberale”, ma anche meno soffocante e dispotico dello stalinismo (non parlo ovviamente dei crimini di guerra 1939-1945, ma del fascismo 1933-1939). Solo in Spagna (guerra civile spagnola 1936-1939) il fascismo era a tutti gli effetti tradizionalismo reazionario puro. In Germania non lo era, e neppure nella trasformistica Italietta lo era.

Ciò che era propriamente insopportabile nel fascismo era la sua ostentata e provocatoria non-universalità. Coltivava il razzismo biologico, e si trattava di un delirio positivistico che attirava medici ed igienisti vari, ma non poteva che ripugnare a persone educate nella concezione universalistica di Spinoza, Hegel e Marx (non parlo qui del cosiddetto neo-hegelismo fascista, che è un semplice culto veteroliberale dello Stato colonialista ed imperialista, che chiamava “etico” il colonialismo ed il razzismo mussoliniano). Parlava della “nazione”, e schiacciava le nazioni degli altri, mandando la plebe in divisa a massacrare gli arabi della Cirenaica e gli eroici combattenti etiopici del 1935-1941. Forse che la Libia e l’Etiopia non avrebbero avuto il diritto di essere anche loro “nazioni” come l’Italia? Chi è stato realmente educato all’umanesimo di Kant, di Hegel e di Marx (non parlo ovviamente dei neokantismi e dei neohegelismi universitari) non poteva accettare questa doppia morale e questo doppio registro. Ed è questa la ragione per cui possiamo ipotizzare che gli ex-socialisti aderenti al fascismo e poi al nazionalsocialismo (Mussolini sopra tutti) fossero persone il cui legittimo odio “sociale” verso il capitalismo liberale e verso il dispotismo staliniano non era nutrito dall’umanesimo universalista. Conclusione: il solo reale antidoto alla tentazione fascista, comunque si ripresenti ed in qualunque modo si travesta (certo, è improbabile che si ripresenti con saluti romani e camicie nere o brune), è il razionalismo universalistico. L’essere “sociali”, di per sé, non solo non è una vaccinazione, ma può addirittura essere un fattore di adesione. Soltanto l’umanesimo universalistico è realmente un fattore strategico di dissuasione.

Vi era una terza possibilità per tutti coloro che, delusi della “realizzazione” stalinista e della soffocante organizzazione di partito leninista, che chiedeva pur sempre un sacrificio dell’autonomia assoluta del giudizio filosofico compatibilizzato con i vincoli della formazione ideologica di appartenenza politico-identitaria, continuavano ad identificarsi con il pensiero di Marx e con il marxismo. Si trattava del cosiddetto minoritarismo testimoniale del cosiddetto “comunismo dei consigli” (Rätekommunismus), la corrente che fino al 1918 aveva rifiutato la concezione leninista del partito (Gorter), ed aveva quindi rifiutato di aderire alla Terza Internazionale Comunista. Non si può negare che costoro, ritenuti “eretici marxisti”, fossero paradossalmente dei “fondamentalisti ortodossi” marxiani. Essi rifiutarono il modello leninista, ritenendo che la struttura inevitabilmente burocratica dell’organizzazione comunista, una volta preso il potere ed avviato un processo di “accumulazione primitiva socialista” non avrebbero potuto fare altro che costruire un capitalismo di Stato, in cui le categorie del rapporto sociale di capitale sarebbero state conservate, in una forma semplicemente statalizzata. In questo modo essi da un lato riprendevano le vecchie critiche di Marx a Lassalle (ma anche in parte le vecchie critiche di Bakunin a Marx), e dall’altro anticipavano di quarant’anni le critiche del gruppo Socialisme ou Barbarie (Castoriadis, Lyotard, ecc.). Si tratta appunto di un gauchisme ante litteram.

Questa corrente, inevitabilmente testimoniale nella sua ortodossia marxiana integrale (dove hanno vinto, infatti, sia pure provvisoriamente come ora sappiamo, gli operai hanno vinto con il partito e con lo Stato, e non certo con gli inattuabili, confusionari ed inefficienti consigli di base – i consigli infatti, soviet, sono serviti per rompere in modo rivoluzionario lo Stato capitalista, ma non hanno mai potuto “gestire” nulla, replicando la frammentazione produttiva tipica dello Stato capitalistico stesso) non poteva che fare del minoritarismo la propria bandiera. Eppure questa corrente espresse almeno due marxisti novecenteschi di primo livello, l’olandese Anton Pannekoek ed il tedesco Karl Korsch. I contributi teorici da loro apportati al pensiero critico non sono stati a mio avviso inferiori a quelli portati da Adorno o da Gramsci, ed il fatto che siano meno conosciuti è dovuto soltanto alla pigrizia della casta intellettuale, che segue le mode e seppellisce non solo chi è morto, ma chi sarebbe ancora vivo ma non più di moda. In Marxismo e Filosofia, opera del 1923, in mezzo ad osservazioni molto intelligenti (ma anche in mezzo ad estremistiche sciocchezze, come quella per cui per ora la filosofia è ancora utile – a differenza di come pensa Bucharin – ma quando sarà realizzato il comunismo esprimerà «solo il punto di vista superato di un passato ancora immerso nell’ignoranza», sic!), Korsch rileva l’ovvietà, che era però allora una vera e propria bestemmia, per cui «si deve considerare tendenza fondamentale della filosofia borghese non quella che si ispira ad una concezione idealistica, ma quella che si ispira ad una concezione materialistica influenzata dalle scienze naturali».

Questa assoluta ovvietà fu scritta, stampata, diffusa e discussa nel 1923, ed è allora evidente che l’averla respinta può soltanto essere spiegato come un fatto sociale, e non solo come un’idiozia estremistica di recensori e di burocrati dell’ideologia. Fin dal 1923 Korsch insiste sul fatto che quella di Marx è una “critica”, e non una scienza positiva, e nello stesso tempo il bel libro di Emmanuel Renault, stampato in Francia nel 1995, e che sostiene la stessa identica tesi di Korsch, non porta neppure il nome di Korsch nei riferimenti bibliografici. Il fatto che la storia del marxismo, pur perfettamente ricostruibile, sia costellata da queste incredibili dimenticanze, fa pensare che i giochi di oblii e riscoperte siano spiegabili unicamente con motivazioni “estremistiche” di clima politico. Per quanto riguarda Pannekoek, il suo libro sulla filosofia di Lenin è a mio avviso un classico assoluto, perché spiega in modo chiaro che il materialismo di Lenin è un materialismo di tipo francese settecentesco, completamente premarxiano, e corrisponde a bisogni di lotta ideologica tipici non dei momenti avanzati della storia del capitalismo, ma di una situazione arretrata di necessaria lotta contro la simbiosi di dispotismo zarista semifeudale e di sacralizzazione di questo dispotismo da parte della chiesa ortodossa russa.

Lukács non volle scegliere la via dell’autoemarginazione testimoniale, che considerava una forma di manifestazione della figura morale (morale, non etica) dell’«anima bella». Pur stimando Korsch, che abbandonò il movimento comunista organizzato nel 1926 (e morì poi negli USA nel 1961), egli scrisse ripetutamente che non aveva voluto finire emarginato come Korsch, ma aveva voluto «poter partecipare in forma organizzata alla lotta contro il fascismo tedesco». Personalmente, rispetto pienamente questa scelta, e non ha alcun senso dire che la si condivide o meno, perché viviamo in un diverso periodo storico in cui questi dilemmi non si pongono più. Oggi essere considerati come “rinnegati” dalle bande di ridicoli pagliacci dei residui partitini politicamente corretti della cosiddetta “sinistra radicale” (sic!) è ad un tempo onorevole e del tutto irrilevante, mentre allora le cose stavano diversamente, dal momento che si era ancora vicini al grande evento esplosivo della rivoluzione russa del 1917. Detto questo, poiché fra non molto sarà passato un secolo da questi eventi, possiamo ora rispettare sia la scelta di Lukács di restare “interno” al movimento comunista sia la scelta di Korsch di restarne “esterno”, con la conseguenza inevitabile di essere connotato come “traditore”, “rinnegato” e “nemico del popolo”.

Nell’essenziale, la filosofia di Korsch può essere connotata come una forma di marxismo dell’empirico. Erroneamente indicato da alcuni frettolosi commentatori come hegeliano, il marxismo di Korsch è in realtà una forma di positivismo empiristico quasi popperiano. Korsch parte dal fatto che il marxismo può essere “verificato” soltanto dalla constatazione della capacità “attuale” della classe operaia, salariata e proletaria di agire in modo rivoluzionario senza mediazioni partitiche, e considera “falsificata” questa ipotesi marxiana dalla constatazione che nei fatti in URSS c’è Stalin, in Germania c’è Hitler, e negli USA c’è Roosevelt. Gli operai non ci sono da nessuna parte. Questo gioco di verificazioni e di falsificazioni, a mio avviso, è figlio delle correnti neopositivistiche di Vienna e di Berlino, e non esprime in alcun modo un rinnovamento hegeliano del marxismo. Più di trent’anni dopo, ma con una volgarità teorica imparagonabile con la nobiltà classica di Korsch, la scuola marxista italiana impropriamente autodefinitasi come “operaismo” riprese in modo pressoché integrale, l’apparato concettuale di Korsch, identificando la capacità rivoluzionaria con l’attualità dei movimenti autonomi della classe operaia di fabbrica. E tuttavia, come ho detto, vi è un abisso fra Korsch e gli operaisti, perché Korsch teneva fermo il carattere totale ed integrale della capacità rivoluzionaria del proletariato, mentre gli operaisti effettuano una tragicomica riduzione del concetto marxiano (e koschano) di rapporti sociali di produzione complessivi a semplici rapporti di fabbrica (e di fabbrica fordista per di più) fra innovazione tecnologica capitalistica e resistenza operaia all’estorsione di plusvalore relativo attraverso il casino sindacale ed il sabotaggio. È proprio il caso di dire che certe volte un fenomeno si presenta prima come tragedia, e la seconda volta come farsa. L’operaismo, a mio avviso, può essere interpretato come una riproposizione farsesca del nobile (e completamente errato) pensiero di Korsch.

Se il pensiero di Korsch può essere interpretato in termini di marxismo dell’empirico di origine neopositivistica, la grande eresia di Trotzky può essere interpretata come il punto massimo del marxismo dell’intelletto astratto (Verstand). Da un punto di vista formalistico astratto, infatti, non c’è dubbio che il trotzkismo sia molto più “ortodosso” dello stalinismo, e questo spiega perché il trotzkismo sia politicamente una minoranza organizzata che si riproduce incessantemente, e tuttora è presente in Europa, in America Latina e nel mondo intero. Il pensiero marxiano propriamente detto, pur essendo sempre rimasto incompiuto come il Torso del Belvedere di Michelangelo, non poteva certamente prevedere quello che poi è successo nel Novecento. Non poteva prevedere che le classi operaie dei paesi capitalistici avanzati sarebbero state integrate in modo subalterno e pittoresco attraverso i due processi di economicizzazione sindacalistico-politica del conflitto (Bauman) e della nazionalizzazione imperialistica delle masse (Mosse). Non poteva prevedere che, a causa di questa integrazione, i proletari di tutto il mondo non si sarebbero affatto uniti (almeno per ora), ma si sarebbero vicendevolmente massacrati al servizio dei profitti imperialistici. Non poteva prevedere che la rivoluzione non avrebbe avuto luogo nei punti alti della produzione capitalistica, ma nel principale anello debole della catena mondiale imperialistica. Non poteva prevedere che, in mancanza di questa rivoluzione, sarebbe stato necessario intraprendere la costruzione di un modello socialista in un solo paese. Non poteva prevedere che questa costruzione avrebbe necessariamente implicato la formazione di strutture politico-burocratiche di tipo dispotico, e che ogni progetto di “esportazione” della rivoluzione in altri paesi sarebbe stata resa impossibile da ragioni di tipo diplomatico (alleanze fra Stati capitalisti), militare (bomba atomica), sociale (formazione di ceti medi non interessati al socialismo ma anzi ostili ad esso), ecc.

Dal momento che il canone trotzkista è un canone ortodosso (in quanto deriva da un’interpretazione estremistica di “sinistra” del marxismo della Seconda internazionale 1889-1914), un canone testimoniale (in quanto testimonia la permanenza infinita nel tempo di un modello del tutto inapplicabile, ma anche “morale”, in quanto non si è “sporcato le mani” con la bassa realtà fangosa della storia), e soprattutto un canone dell’intelletto astratto (Verstand) e non della ragione concreta (Vernunft), è inevitabile che esso si scinda continuamente in scissioni ripetute ed ossessive, che hanno caratterizzato, caratterizzano, e certamente caratterizzeranno in futuro, il movimento trotzkista. La scissione caratterizza infatti il mondo dell’intelletto astratto (Verstand), perché per sua propria natura l’intelletto astratto si nutre di astrazioni isolate e non dialetticamente correlate. Non è un caso, infatti, che il movimento trotzkista abbia prodotto buoni storici, ma quasi nessun filosofo, in quanto per sua natura il trotzkismo rifiuta di stabilire un rapporto teorico forte fra il proprio modello astratto di storia e la storia reale. Astrattamente, infatti, la classe operaia non dovrebbe produrre una “burocrazia”, dovrebbe sempre agire in modo “rivoluzionario” (e se non lo fa – come ovviamente non si sogna affatto di fare – la colpa è delle sue “direzioni” politiche burocratizzate), dovrebbe rifiutare di fare il socialismo in un solo paese, dovrebbe perseguire una rivoluzione permanente, ecc., tutte determinazioni dell’intelletto astratto (Verstand), e non certamente di un corretto uso della ragione dialettica (Vernunft).

Lukács respinse quindi sia la versione empiristico-neopositivista di Korsch sia la versione astratto-intellettualistica di Trotzky non certo perché era “stalinista”, dal momento che – come ha correttamente rilevato Agnes Heller – non poteva essere stalinista in quanto praticava un libero marxismo di tipo “ideologico” e non “dottrinario” (la terminologia è scorretta, ma il concetto è chiaro), ma perché seguiva una sua autonoma linea di pensiero. Nel 1956 si prestò a far parte dell’effimero governo Nagy, ma il suo realismo lo portò a votare contro l’irresponsabile rottura del patto di Varsavia, mostrando ancora una volta che un pensiero filosofico veramente profondo non è affatto incompatibile (tutto al contrario!) con la capacità di realismo politico. Già nel 1929 (cfr. Tesi di Blum) Lukács aveva preceduto di alcuni anni la linea politica antifascista dei fronti popolari, accettata solo nel 1934, e per questa sua preveggenza fu espulso dall’attività politica e dovette (ma fu una fortuna per l’umanità) limitarsi a studiare le questioni teoriche (che sono per definizione inutili ed irrilevanti per i bestioni burocratici che si vantano sempre di essere “pratici”, e la cui praticità conduce sistematicamente la causa del comunismo alla rovina!). Nel 1949 Lukács cercò di opporsi alla deriva estremistica del governo del comunista ungherese Rakosi, e per questo fu emarginato, cacciato e punito. Nel 1957 gli fu proposto di testimoniare contro Nagy, di cui pure aveva disapprovato i comportamenti, e lui rispose che lo avrebbe fatto solo se Nagy avesse passeggiato libero per le strade di Budapest (Nagy fu invece fucilato l’anno dopo ed il suo cadavere fu gettato in una fossa comune). A mio avviso, il rifiuto di collaborare al rituale dei processi comunisti dell’epoca equivale alla scrittura di quell’Etica che non scrisse mai. Che cos’è infatti l’etica? L’etica è il rifiuto di collaborare all’iniquità, o se si vuole il rifiuto di collaborare alla propria stessa alienazione (ich mache meine eigene Entrfremdung nicht mehr mit). Il lettore avrà notato che giriamo, giriamo, ma torniamo sempre allo stesso punto.

Possiamo ora “stringere” finalmente la discussione, e concludere sia tutti questi quaranta capitoli sia questo quarantesimo ed ultimo. Si tratta, infatti, non certo di analizzare ulteriormente il progetto ontologico lucacciano, in quanto entrambe le versioni date in piena e totale solitudine dall’ultimo Lukács (l’Ontologia propriamente detta in due volumi ed i Prolegomeni in un unico volume) non sono esposte in modo rigoroso. Si tratta invece di congedarsi dal lettore dandone un’interpretazione generale convincente, e per questo torneremo ad alcune considerazioni già proposte nel Prologo e nell’Introduzione. Mi sembra giusto che un testo filosofico torni alla fine al punto di partenza, arricchite però dalle considerazioni svolte nel corso dell’opera. Era questo il metodo di Hegel, un metodo insuperabile cui essergli per sempre grati.

In estrema sintesi, il progetto di ontologia dell’essere sociale dell’ultimo Lukács (progetto aperto ed ancora incompiuto, e quindi da non identificarsi con i due libri editi intitolati Ontologia e Prolegomeni) è caratterizzato da una rifondazione della filosofia che si ispira alla filosofia comunista della storia derivata da Marx (il termine “che si ispira” a Marx deve essere preferito al termine “marxismo”, che segnala soltanto una successione di formazioni ideologiche, quasi tutte irrecuperabili e da archiviare nella storia del pensiero del passato). Questa rifondazione si caratterizza per un consapevole reinserimento di questo progetto nella tradizione classica del pensiero occidentale (e per tradizione classica intendo la tradizione che va da Aristotele a Hegel passando per Spinoza), e questo reinserimento avviene passando per una autocritica radicale dei precedenti modelli “marxisti” di tipo deterministico-positivistico, da Kautsky a Stalin, e soprattutto di tipo estremistico-messianico-utopistico.

In altre parole, il reinserimento nella tradizione classica passa necessariamente attraverso l’autocritica consapevole della propria (storicamente inevitabile, in quanto sorta come effetto ideologico necessaria della rottura rivoluzionaria del 1917) autocoscienza precedente di tipo messianico, utopistico, prometeico e teleologico. Ad un marxismo soteriologico di tipo paolino è necessario contrapporre un marxismo sobrio, ispirato a Spinoza ed a Hegel.

Questa operazione non può essere condotta a termine con semplici mezzi filologico-universitari, per il semplice fatto che dentro Marx, e non solo dentro la lettera, ma anche dentro lo spirito, coesistono contraddittoriamente statuti teorici diversi, si intrecciano insieme una scienza filosofica della totalità espressiva ed una scienza non-filosofica delle strutture dei modi di produzione sociali, si accavallano categorie ispirate alla possibilità ontologica senza necessità (dynamei on) a categorie ispirate alla categoria apodittico-previsionale di necessità storica, ed in definitiva non possiamo trovare una esposizione sistematica delle categorie caratterizzate dall’unità ontologica di pensiero e di essere che secondo lo Hegel della prefazione alla Fenomenologia dello Spirito era la precondizione per il passaggio dalla filosofia alla vera e propria scienza filosofica. Non possiamo quindi ritornare semplicemente a Marx, e quindi possiamo escludere che il progetto di ontologia dell’essere sociale sia un progetto definibile come “ritorno a Marx”, e tantomeno come un ritorno al “vero” Marx. Il vero Marx è una postulazione religiosa, del tipo del ritorno al vero Gesù, al vero Maometto, al vero Budda. Non esiste il vero Marx, perché la verità non è mai un accertamento filologico, ma è sempre un processo storico. Essa connota certamente ciò che è, ed è eternamente, ma per coglierlo siamo costretti a passare necessariamente per il nostro tempo appreso nel pensiero. Il nostro tempo non è più quello di Hegel (1790-1830), non è più quello di Marx (1840-1880), non è più quello di Lukács (1910-1970), e fra qualche anno e decennio non sarà più il mio tempo, in cui sto pensando e scrivendo. Questo non comporta affatto il cosiddetto “relativismo”, e neppure la cosiddetta incommensurabilità delle filosofie (secondo il modello esposto da Thomas Khun in epistemologia e da Richard Rorty nella filosofia vera e propria). Questo comporta unicamente la determinazione storica della verità nel tempo, in cui il termine “verità” indica l’infinito e l’assoluto, ed il termine determinazione storica indica il finito. L’infinito ed il finito non sono quindi contrari antinomici, ma opposti in correlazione essenziale. Analizziamo ora separatamente (ma è una pura astrazione scolastica, dal momento che si tratta di un processo unitario) il momento del reinserimento consapevole nella tradizione classica del pensiero occidentale ed il momento del superamento autocritico delle versioni estremistiche, messianiche e prometeiche del marxismo. La ragione per cui Lukács ha saputo fare questo è molto semplice: negli anni venti egli era stato colui che aveva portato al massimo grado sistemico questa tentazione messianico-estremistica, ed è appunto perché la conosceva perfettamente, avendola elaborata lui stesso, era in grado di “superarla” nel senso hegeliano del termine.

A costo di ripetere per l’ennesima volta cose già ripetutamente dette in precedenza (ma è meglio ripetere dieci volte la stessa cosa piuttosto che rischiare che non venga capita perché troppo “straniante” rispetto ad abitudini che rifiutano anche solo la possibilità di un radicale riorientamento gestaltico), bisogna risottolineare che il progetto ontologico di Lukács non ha nulla, ma proprio nulla a che vedere con tutte le impostazioni classiche che ci consegna la storia del marxismo.

I soli pensatori importanti che considero parzialmente “compatibili” con Lukács sono Antonio Gramsci e Karel Kosík. E ripetiamo ancora una volta queste incompatibilità. Qualcuno ha scritto: “Mi ripeterò fino a che non sarò capito”. Ebbene, mi ispiro a questo aureo detto.

Il progetto di ontologia dell’essere sociale è incompatibile con la filosofia che ha ispirarla prima formazione ideologica marxista del ventennio 1875-1895. Questa filosofia, di impronta positivistica, basata su una concezione neokantiana di rispecchiamento di un «oggetto esterno della conoscenza» (Lange) e su di una concezione classificatoria della storia della filosofia occidentale basata su di una contrapposizione fra idealisti antiscientifici e positivisti scientifici (Laas), si ispirava alla concezione della necessità previsionale delle «leggi scientifiche dell’evoluzione sociale» (Engels, e poi Kautsky). La categoria di necessità era quindi fusa con una filosofia necessitaristica della storia, al punto da ispirare una definizione di libertà come coscienza integrale della necessità (Plechanov). I tentativi di opporsi a questa concezione, prevalentemente ispirati all’insegnamento di Henri Bergson (Georges Sorel ed altri) non riuscirono a coagularsi in un sistema coerente, e questo fatto può essere spiegato soltanto attraverso una deduzione sociale delle categorie: la classe operaia sublimava la propria palese impotenza storica complessiva in una teoria religiosa dell’evoluzione necessaria dal capitalismo al socialismo, ed il marxismo di Kautsky funzionava così da “messa della domenica” che santificava le attività feriali di tipo riformistico (Matthyas).

Il progetto di ontologia dell’essere sociale è incompatibile con qualunque forma di materialismo dialettico, non importa se engelsiana, leniniana o staliniana. Nonostante l’accettazione (che ritengo errata) da parte di Lukács della teoria engelsiano-leniniana del rispecchiamento (Widerspiegelung), che a mio avviso funziona (ammesso che funzioni) soltanto per quanto riguarda la ricerca nel campo delle scienze naturali (Geymonat), ma certamente non funziona nel mondo sociale caratterizzato dalla prassi attiva di trasformazione dei soggetti individuali e sociali, egli respinge la naturalizzazione teleologica della dialettica, le tre cosiddette (ed inesistenti) «leggi della dialettica», ed in questo modo respinge in toto il materialismo dialettico (Diamat). Possiamo notare che forse è sempre stato troppo timido ed incerto nel respingerlo con il disprezzo e la radicalità che questa buffonata filosofica meritava, ma è bene notare che egli visse in «tempi oscuri» (il termine è di Bertolt Brecht), in cui i dissidenti potevano essere arrestati ed uccisi. Appare inoltre chiaro che il Diamat come filosofia era pessimo, ma come ideologia era stupendo e performativo, perché avallava con la sua teoria naturalistico-positivistica la pretesa della direzione politica staliniana di essere «coerente con le leggi della storia».

Il progetto di ontologia dell’essere sociale è incompatibile con qualunque forma di realizzazione integrale della filosofia nella storia, per cui la filosofia sarebbe una forma di coscienza temporanea, e temporanea perché “alienata”, della coscienza sociale degli agenti storici. Questa concezione messianico-religiosa della realizzazione “integrale” della filosofia nel comunismo, e quindi nel comunismo inteso come fine della storia, è stata sostenuta da pensatori onesti e rivoluzionari (ad esempio dal francese Henri Lefebvre, che ho avuto l’onore di conoscere personalmente), ma resta inaccettabile e radicalmente sbagliata. La filosofia, come del resto l’arte, la religione e la scienza, tutte radicate nella vita quotidiana degli uomini in società ed in comunità, è una forma di coscienza e di attività permanente. Fa parte della condizione umana in quanto tale, e caratterizza l’uomo come animale contraddistinto dal lavoro, dal linguaggio, ed infine dalla consapevolezza anticipata della propria sicura morte individuale, che per ciò stesso lo spinge a dare un significato (o anche solo a cercarlo, e addirittura paradossalmente a negarlo) al segmento temporalmente limitato della propria esistenza. Non esiste quindi, e non può esistere, una fine della filosofia attraverso la sua presunta realizzazione. La sua realizzazione, infatti, è infinita, mentre il massimo di comunismo cui possiamo aspirare è un «comunismo della finitudine», come si esprime opportunamente il grande marxista francese André Tosel.

Il progetto di ontologia dell’essere sociale è incompatibile con qualunque forma di verificazione e/o falsificazione storico-empirica, per cui viene data alla classe operaia di fabbrica una sorta di data ultimativa di “scadenza” per la sua attesa rivoluzione sociale totale, pena l’annuncio disincantato di “morte del marxismo” per incapacità manifesta del soggetto che dovrebbe esserne il portatore. Tralasciando tutta la pittoresca banda neoliberale, il rappresentante marxista maggiore di questa concezione è stato Karl Korsch (considero gli operaisti italiani soltanto un’appendice sociologica filosoficamente irrilevante). Ma la verità del marxismo (o se si vuole per i suoi oppositori la sua falsità) non può essere oggetto di verificazione e/o falsificazione storica. Soltanto il certo, l’esatto ed il veridico sono oggetto di falsificazione, perché dispongono di parametri e di protocolli appositi. La “verità” del marxismo (ammesso ovviamente che sia “vero” come io ritengo) non ha date empiriche di scadenza. Le avrebbe se il suo fondamento ontologico fosse la capacità “misurabile” della classe operaia e di fabbrica. In questo caso, il marxismo si potrebbe “falsificare” per manifesta incapacità rivoluzionaria intermodale. Ma la classe operaia, salariata e proletaria è solo una parte di un possibile (dynamei on) insieme plurale di soggetti collettivi e comunitari, a pari grado con i contadini, i popoli oppressi, le nazioni minacciate dal furore imperiale, i lavoratori flessibili e precari dell’odierna globalizzazione neoliberale, ed in più i soggetti sociologico-politici nuovi che per il momento non possiamo neppure immaginare, ma che saranno certamente visibili nel 2050, 2100 o 2150.

Korsch è stato un grande pensatore, ma è stato anche influenzato dalla corrente antifilosofica del neopositivismo logico di Vienna e di Berlino (poi ampiamente emigrata in USA e in Gran Bretagna). Questa scuola si basa sull’assorbimento della categoria ontologica hegelo-marxiana di verità nelle strutture di certificazione e/o falsificazione delle scienze naturali. In proposito Karl Popper, che si vantava di essere il “seppellitore” del neopositivismo, per aver compiuto l’irrilevante passaggio dall’irrilevante verificazionismo all’irrilevante falsificazionismo (li chiamo “irrilevanti” perché sono certamente rilevanti per l’epistemologia delle scienze naturali, ma sono del tutto irrilevanti per la conoscenza filosofica propriamente detta), è stato in realtà il culmine del (l’irrilevante) neopositivismo. Ma qui Korsch è caduto vittima della pressione sociale del tempo, per cui tutti si affrettavano a giurare di non voler aver nulla a che fare con la “filosofia per la filosofia” (Löwith), con la metafisica (orrore! orrore!) e con il «punto di vista superato di un passato ancora immerso nell’ignoranza» (Korsch, ecc.). La filosofia di Marx, ammesso che abbia un soggetto portatore (e ce l’ha), ha come soggetto di riferimento l’ente naturale generico umano (Gattungswesen) che non fa né l’operaio, né il contadino, né il medico, né l’ingegnere, che non è né uomo, né donna, né gay, che non è caratterizzato dal colore della pelle o da un riferimento etnico o religioso privilegiato, che non è né occidentale, né orientale, né nordista né sudista, ma che può essere o fare tutte queste cose. Si possono “falsificare” i contadini in India, gli operai in Francia, i tecnici in Svezia, ecc., ma non si falsifica l’unità di teoria economica del valore e della filosofia dell’alienazione. L’accettazione neopositivistica (erroneamente scambiata per “hegeliana” persino dall’amico di Korsch, Bertolt Brecht) della data di scadenza della falsificazione di Marx da parte di Korsch ci mostra le conseguenze di queste sociologismo rivoluzionario. Il marxismo si identifica con un certo ciclo storico di lotte operaie, poi queste lotte operaie sono sconfitte, o semplicemente rifluiscono, e si trovano subito degli ingenui a proclamare solennemente che il “marxismo è morto”, l’unico mondo possibile è il liberalismo imperialistico, sono finite le grandi narrazioni, e la sola cosa che c’è rimasta è il bombardamento degli Stati-canaglia (rouge states) per affermare i “diritti umani” a geometria variabile con missili USA a puntamento rapido.

Il progetto di ontologia dell’essere sociale è incompatibile con qualunque riproposizione di un modello utopico-messianico di marxismo, non importa come argomentato o variamente “secolarizzato”. Le ragioni di queste riproposizioni possono essere le migliori di questo mondo, come ad esempio la distinzione di Ernst Bloch fra corrente fredda e corrente calda del marxismo. Alla corrente fredda, evoluzionistica, positivistica, scientista, deterministica, meccanicistica, ecc., Bloch contrappone la corrente calda, che recupera sia la tradizione del giusnaturalismo rivoluzionaria settecentesca, sia la tradizione biblico-messianica. Il pensiero di Marx, tuttavia, non è una vasca da bagno con due rubinetti, uno d’acqua fredda ed uno d’acqua calda. L’acqua calda scotta, e l’acqua fredda gela. È noto che si apre un po’ l’uno e un po’ l’altro, alla fine l’acqua tiepida non è più né fredda né calda, e per questo è gradevole.

È del tutto normale che Bloch abbia voluto contrapporsi al cosiddetto “marxismo ufficiale” dottrinario, qualificandolo come “freddo”. Ma il suo rimedio è peggiore del male. Il marxismo non può sopportare dosi da cavallo di messianismo religioso imperfettamente secolarizzato. Naturalmente, Bloch non ha tutti i torti. È vero che esiste una “sinistra aristotelica” di tipo averroista, e che Avicenna e Maimonide sono fonti del pensiero comunista non inferiori a nessun’altra. È vero che esiste un Experimentum Mundi, e che la stessa ontologia non è ancora del tutto compiuta, terminata e realizzata. È vero che Lenin, parlando delle tre fonti e tre parti integranti del marxismo (economia politica inglese, filosofia classica tedesca e socialismo politico francese) ha dimenticato altre due fonti del tutto legittime, il diritto naturale rivoluzionario e l’impulso messianico-religioso a ribellarsi contro l’ingiustizia. Tutto questo è vero, purché non si dimentichi che il messianismo escatologico può essere certamente un fattore ideologico positivo in una concreta situazione sociale (Münzer nel 1525, rivoluzione iraniana nel 1979, ecc.), e questo è molto buono, ma resta profondamente sbagliata la scelta di dare al pensiero di Marx un fondamento religioso e messianico.

Non si tratta certamente soltanto di non “cadere” nelle critiche alla Weber o alla Löwith. Qualsiasi cosa facesse il marxismo, Weber e Löwith lo criticherebbero lo stesso, perché dietro alla loro critica teorica alla secolarizzazione messianica ci sarebbe sempre e soltanto il rifiuto politico del comunismo e l’accettazione strategica del capitalismo. Si tratta di una necessità interna allo statuto dell’ontologia dell’essere sociale, che prescinde del tutto dalle cosiddette “critiche esterne”. L’ontologia dell’essere sociale è incompatibile con uno statuto messianico del marxismo. Se si crede di curare la corrente fredda con la corrente calda, ebbene può soltanto trattarsi di una cura temporanea e sintomatica, come il mettere in un bel bagno caldo un naufrago rimasto a lungo in acque fredde. Ma il pensiero di Marx non può essere un messianesimo. Sul messianesimo credo che abbia sostanzialmente ragione Max Weber: l’annuncio messianico caratterizza tutte indistintamente le religioni occidentali (e quindi anche la religione comunista di Marx, nel momento in cui essa “incontra” le speranze sociali di emancipazione di massa), ma nello stesso tempo esso non può essere che temporaneo, per il semplice fatto che è socialmente ed ontologicamente del tutto impossibile, e deve quindi “razionalizzarsi” in una forma di vita quotidiana e comunitaria consolidata e diffusa. È questa mancata razionalizzazione che ha “ucciso” il comunismo dopo più di settant’anni, non certo la mancata «realizzazione messianica» (Bloch), e neppure quella versione pallida e moderata della mancata realizzazione messianica che è il rifluire dei «gruppi-in-fusione» dotati di finalità-progetto nella serialità cosiddetta «pratico-inerte» (Sartre).

Il progetto di ontologia dell’essere sociale è incompatibile con qualunque riproposizione di un marxismo puramente “scientifico”, di una scientificità indifferentemente galileiana (il modello previsionale della scienza della natura) oppure weberiana (la scienza priva di giudizi di valore etico-politici). Lukács era troppo vecchio e impegnato nel suo lavoro per perdere tempo con le nuove versioni di questa testardaggine scientista (Galvano Della Volpe, Lucio Colletti, e soprattutto Louis Althusser e la sua scuola). Ma non ne aveva neppure bisogno, perché queste scuole post-1945 non facevano che riproporre con una nuova riverniciatura gnoseologica (Della Volpe) ed epistemologico-ideologica (Althusser), concezioni che si erano presentate con frequenza asfissiante nei settant’anni precedenti. Il sogno positivistico di un marxismo senza fondazione filosofica percorre infatti tutta la sua storia, a partire dal ventennio di costituzione 1875-1895, e si tratta di un dato sociale prodotto dall’ingiunzione a “scientificizzarsi” per poter essere presi sul serio dagli apparati ideologici universitari. Ma un marxismo senza fondazione filosofica diventa un puro pragmatismo, ed il pragmatismo è sempre puro utilitarismo. Oggi si esalta molto il filosofo americano recentemente scomparso Richard Rorty, nemico di ogni fondazionalismo filosofico, relativista dichiarato (ha infatti affermato di non aver fatto altro che applicare alla filosofia il relativismo epistemologico dell’incommensurabilità dei paradigmi scientifici di Thomas Khun), sostenitore della derubricazione della filosofia a conversazione fra le altre (nemmeno i sofisti greci erano giunti a tanto!), ecc. Mi sono già espresso in proposito, ma data l’importanza del tema mi ripeterò: togliere alla filosofia ogni pretesa “fondazionalità” non significa affatto (se non per gli sciocchi!) togliere ogni fondazionalità in generale in direzione di un presunto (ed inesistente) “sapere senza fondamenti”, ma significa lasciare un solo fondamento implicito, il fondamento dell’assolutezza indiscutibile della riproduzione capitalistica ed imperialistica. Oggi togliere ogni pretesa fondazionale alla filosofia equivale all’affermazione medioevale della possibilità di dimostrare Dio. Così come la legittimazione ideologica di quei tempi si basava sul fondamento trascendente di Dio (e quindi sulle concesse “prove teologiche”), nello stesso modo la legittimazione ideologica di oggi si basa sulla performatività pura del flusso di produzione e di consumo, e quindi si basa sul fondamento immanente della riproduzione capitalistica, che non ha bisogno di nessun altra fondazione. Ogni altra fondazione, infatti, potrebbe in qualche modo metterla in discussione, e quindi è bene che si dica (e gli sciocchi ovviamente lo ripetono come ripeterebbero un mantra buddista alla moda) che non ci può essere nessuna fondazione filosofica di nulla (e particolarmente della società).

Lukács ovviamente capiva benissimo tutto questo, e capiva che esisteva quella che chiamava «solidarietà antitetico-polare fra esistenzialismo e neopositivismo». Con questo, il codice ideologico del tardo capitalismo era messo allo scoperto. Certo, ci si può lamentare che Lukács, anziché usare il bel termine di “filosofia”, abbia usato il cattivo ed ambiguo termine di “ideologia”. Lukács sapeva perfettamente che Marx aveva usato il termine di “ideologia” in senso negativo, come falsa coscienza, organizzata o no, e come riflesso deformato degli interessi sociali classisti contrapposti. Ma sapeva anche che Lenin aveva modificato radicalmente il significato del termine, dandone una valenza positiva, per cui l’ideologia diventava il punto di vista complessivo della coscienza di classe e della visione del mondo del proletariato rivoluzionario e delle forze “progressiste”. È questa la ragione per cui sia nell’Ontologia sia nei Prolegomeni il termine “ideologia” è utilizzato in modo positivo, nel senso dello smascheramento comunista delle ideologie capitalistiche (fra cui – prima di ogni altra – l’ideologia della deideologizzazione, che gli apparati ideologici del capitalismo ripetono sempre in modo asfissiante e protervo).

Vi è ovviamente un’altra ragione di fondo per la preferenza lucacciana del termine ideologia rispetto al termine filosofia, che porta il paradosso per cui il più grande filosofo marxista del Novecento si vergogna costantemente del termine “filosofia”. Si tratta dell’accettazione lucacciana della teoria gnoseologica del rispecchiamento, che in effetti una volta accettata toglie alla filosofia qualunque pretesa conoscitiva e veritativa di tipo fondazionale, e che non consente nessuna scienza filosofica di tipo hegeliano e marxiano. Una volta accettata la (a mio avviso profondamente errata) teoria del rispecchiamento, utile forse per le scienze della natura, ma non certamente per la trasformazione fichtiano-marxiana della società alienata, si ricade inevitabilmente nella dicotomia Materialismo/Idealismo, con la correlata necessità di “combattere” l’idealismo in nome del materialismo, che non può che portare ad un vicolo cieco. Ma non possiamo pretendere che Lukács, uomo del suo tempo, rinunciasse alla teoria del rispecchiamento ed alla correlata dicotomia Materialismo/Idealismo. È impossibile camminare oltre l’ombra che il sole ci proietta sulla sabbia. Chi scrive – ma ormai lo hanno capito tutti, a causa delle continue volute ripetizioni – è favorevole all’ontologia dell’essere sociale, ma è contrario sia alla teoria del rispecchiamento sia all’inutile, positivistica e gnoseologica dicotomia Materialismo/Idealismo.

Il progetto di ontologia dell’essere sociale è incompatibile, infine, con la stessa riproposizione del marxismo messianico-estremista del giovane Lukács di Storia e Coscienza di Classe e più in generale dei suoi scritti marxisti del settennato 1919-1926. Lukács non avrebbe infatti mai potuto mettere tanto bene a fuoco il problema dell’ontologia dell’essere sociale se non fosse stato lui stesso quaranta armi prima a produrre il profilo migliore possibile del marxismo messianico-estremistico. E parlo del profilo migliore possibile con conoscenza di causa, avendo a suo tempo studiato con cura tutte le opere in cui questo modello è esposto. Dopo la rivoluzione del 1917 il comunismo si trovò privo di una vera legittimazione ideologico-filosofica, al di là delle risposte polemiche di Lenin a Kautsky ed a Rosa Luxemburg. Il primo tentativo di fornire una legittimazione filosofica al nuovo comunismo fu dato da Nicolai Bucharin nel 1921 con un Manuale di materialismo storico, capolavoro “negativo” di riduzionismo, economicismo e determinismo. Il fatto che questo libro orribile e dilettantesco abbia potuto essere preso sul serio dimostra che un grande evento rivoluzionario non può certamente dotarsi in tempo reale di una sufficiente autoconsapevolezza. Lukács propose un paradigma filosofico diverso ed anzi opposto, basato sull’identità idealistica di soggetto e di oggetto, in cui il soggetto era l’idealtipo di proletariato rivoluzionario universale (e qui l’influenza idealtipicizzante di Max Weber è palese), e l’oggetto era il corso della storia universale (e qui l’influenza della filosofia hegeliana della storia è parimenti palese).

Si trattava di un buon modello filosofico, certamente superiore a quello di Bucharin ed anche a quello imposto nel 1931 da Stalin. E nello stesso tempo si trattava di un modello messianico-estremistico, perché investiva il proletariato di una sorta di missione metastorica complessiva che ben presto il proletariato reale (e non quello idealtipico maxweberiano) avrebbe mostrato di non poter realizzare.

Vorrei insistere molto su queste sette distinte incompatibilità (le ripeto nell’ordine dandone un nome per indicarle: Engels, Stalin, Lefebvre, Korsch, Bloch, Althusser, lo stesso giovane Lukács) perché se non le si è capite fino in fondo come pars destruens non si potrà mai capire che il progetto di ontologia dell’essere sociale è la pars construens che risulta dal superamento dialettico di queste distinte sette unilateralità. Ed è appunto questa comprensione che è mancata, ed evidentemente non poteva che mancare, al modo con cui la proposta di Lukács fu valutata.

Eppure la questione è chiarissima, e può anche essere espressa in modo concettualmente chiaro: abbiamo bisogno socialmente di un anticapitalismo radicale moderno, ma questa radicalità non può essere raggiunta attraverso il messianesimo estremistico in filosofia ed attraverso l’avanguardismo provocatorio nell’arte; questa radicalità, paradossalmente (ma tutta la filosofia è paradosso, unico avversario del pregiudizio!), può essere conseguita soltanto attraverso un reinserimento consapevole del pensiero comunista di Marx nel grande alveo della tradizione filosofica occidentale più “tradizionale” possibile, quella che passa da Aristotele ad Hegel. Questo paradosso non poteva evidentemente essere socialmente compreso ai tempi di Lukács, per cui egli non poteva che morire senza eredi (non parlo qui di luminose eccezioni come Nicolae Tertulian e Werner Hofmann). Lukács ha lasciato un messaggio in una bottiglia, e questa bottiglia galleggia ancora sul mare. Il rifiuto di accettare il messaggio lucacciano è stato così diffuso da far sì che anche questo rifiuto deve essere socialmente dedotto.

I più vergognosi furono i quattro filosofi ungheresi membri della cosiddetta (ed inesistente) scuola di Budapest (Heller, Féher, Markus, Vajda). Costoro si dichiarano “allievi” di Lukács fino al 1971, anno della sua morte, in quanto attaccarsi al suo nome era pure sempre una “sponsorizzazione” nel mondo accademico occidentale. Poi, appena morto il “maestro” (ma la cosa assomiglia molto al seppellimento di Adorno fatto da Habermas – per questo ritengo sia un fatto sociale, e non solo accidentale), pubblicarono documenti in cui non solo prendevano le distanze dal progetto dell’ontologia, ma lo demolivano totalmente punto per punto con ipocrita acredine, in favore di una mescolanza eclettica di filosofia dei valori alla Scheler, di disincanto alla Max Weber e di neokantismo alla Habermas (e cioè tutto ciò che Lukács aveva consapevolmente respinto). Una volta crollato il socialismo reale ed affermatosi pienamente il monopolio militare dell’impero americano, la Heller si è lasciata andare ad oscene grida di gioia, che varrebbe la pena rileggere (sono state pubblicate anche in italiano). Non critico i “quattro” di Budapest per il loro profilo filosofico. Li critico per aver lasciato passare per anni il mito di essere “allievi di Lukács”. L’allievo non è certamente chi ti frequenta. L’allievo è chi, almeno in parte, è solidale con te e condivide il tuo progetto filosofico. Per quanto mi riguarda, ho frequentato a lungo Ludovico Geymonat e Norberto Bobbio, ed ho anche goduto della loro stima ed amicizia (peraltro ricambiata), ma non mi sognerei mai di definirmi loro “allievo”, perché non condivido praticamente nulla del loro progetto teorico e filosofico. Si può essere amici personali, ed avversari filosofici, per cui i quattro budapestini sono stati tra i più accaniti ed ingenerosi avversari di Lukács.

Se i liberali anticomunisti di Budapest furono avversari di Lukács, ci si potrebbe aspettare che almeno i “marxisti” lo vedessero con favore. Ma neppure per sogno! Nella principale rivista filosofica della Germania Orientale un certo Beyer pubblicò nel 1969 un articolo intitolato: “Ontologia marxista. Una moda idealistica”. Non c’è bisogno di ulteriori commenti. Cesare Cases, il germanista italiano che fu amico di Lukács, non perse mai occasione di dire che l’Ontologia era un ritorno alla vecchia filosofia universitario-accademica, inutile per qualunque progetto rivoluzionario.

I commentatori sessantottini ignorarono sempre l’Ontologia, ed invece facevano l’apologia di Storia e Coscienza di Classe del 1923, senza tenere alcun conto nella loro stolidità motoria che lo stesso Lukács aveva detto che, per usare un’analogia, non si era più negli anni Venti del Novecento, ma all’inizio dell’Ottocento, quando incominciava soltanto a formarsi il movimento operaio. Il polacco Leszek Kołakowski, che scrisse un’acutissima storia critica del marxismo, che era anche l’elaborazione della sua personale totale rottura con esso, dedicò a Lukács un capitolo sprezzante che ignorava completamente l’esistenza del progetto ontologico, parlava di “mitologia” marxista, ed era intitolato La ragione al servizio del dogmatismo.

Non poteva mancare in questa galleria Juergen Habermas. Come riferisce la Heller, non appena gli fu esposta la trama concettuale del progetto ontologico, «Habermas ebbe una reazione di rifiuto per principio. Un tentativo di questo genere gli sembrava contrastare con una visione storica del marxismo, e dirigersi verso il ripristino dei grandi sistemi razionalistici, il che fa parte del passato filosofico».

Habermas coglie veramente qui il centro della questione. È infatti esattamente così. Lukács intendeva veramente ripristinare i grandi sistemi razionalistici, ed in questo modo ricollegarsi al «passato filosofico». E tuttavia io rovescio di 180 gradi la sua valutazione. Appunto per la ragione che dice Habermas ciò che Lukács voleva era bene, ed è anzi fin troppo timido in questa restaurazione. Questa restaurazione deve essere non solo perseguita, ma anzi deve essere ancora ulteriormente radicalizzata, senza curarsi di usignoli, corvi e cornacchie, e del loro coro di “sapere senza fondamenti”, ecc.

Siamo giunti finalmente al cuore della questione. Ci sono volute centinaia di pagine per arrivarci, ma in questo modo ci siamo arrivati meglio, senza lasciarci alle spalle penosi equivoci storiografici ed interpretativi. Possiamo quindi, in chiusura, tentare un ennesimo bilancio di chiarificazione.

La deduzione sociale delle categorie del pensiero è indispensabile, perché in caso contrario tutta la storia sociale del pensiero umano si riduce necessariamente a quella che Hegel ha definito «una disordinata filastrocca di opinioni». È anche possibile chiamare “materialistico” in senso marxiano il metodo della deduzione sociale delle categorie, ma non è obbligatorio farlo, perché ad esempio Hegel, che era indubbiamente “idealista”, utilizza di fatto questo metodo nel disegnare lo sviluppo dialettico delle figure sociali nella sua mirabile Fenomenologia dello Spirito. E allora è meglio chiamare questo metodo “genetico” per sfuggire alla falsa dicotomia materialismo/idealismo. Il metodo genetico è però anche un metodo storico, l’unico metodo storico possibile, da non confondere con il cosiddetto “storicismo”, che è invece una negazione della storia, perché sovrappone alla storia reale un insieme ideologico variamente improntato al relativismo, oppure alla teleologia predeterminata. Il metodo genetico è però anche un metodo ontologico-sociale, perché l’essere sociale nelle sue diverse configurazioni storico-classiste è la matrice ed il fondamento della struttura portante su cui si sviluppano le categorie. In questo senso Marx ha ragione, e continua ad averla anche dopo il crollo sociale dei sistemi economici del comunismo storico novecentesco 1917-1991, crollo sociale che invece porta con sé nella sua dissoluzione gran parte delle formazioni ideologiche marxiste posteriori al ventennio di costituzione 1875-1895.

L’apparato ideologico universitario delle facoltà di filosofia, al di là delle sue pretese maxweberiane di “oggettività”, è appunto un apparato ideologico, e come tutti gli apparati ideologici non può avere gli strumenti concettuali per potersi vedere come tale. Esso (salvo luminose eccezioni, che come tutte le eccezioni confermano la regola) deve quindi obbedire ai vincoli ideologici che gli impongono indirettamente (ed in alcuni casi anche direttamente) le classi dominanti dell’attuale società capitalistica globalizzata largamente postborghese e postproletaria. Questa assunzione di vincoli sistemici viene generalmente fatta con quella che Marx chiama «falsa coscienza necessaria degli agenti storici». I vincoli sono molti, ma qui potremo per brevità riassumerli in due. In primo luogo, bisogna appunto che la storia della filosofia venga concepita come disordinata filastrocca di opinioni, il che permette da un lato l’esercizio della filologia riferita appunto esclusivamente alle opinioni stesse, e dall’altro contribuisce a dare socialmente un’immagine di inutilità della filosofia stessa, perché nessuno potrebbe ritenere socialmente utile una successione erudita di una filastrocca destoricizzata e desocializzata di opinioni. In secondo luogo, bisogna diffamare in tutti i modi come tradizionale, metafisica, arretrata e premoderna qualsiasi “fondazionalità” della filosofia, in modo che la normatività dei comportamenti individuali e sociali venga riservata esclusivamente ai vincoli sistemici della riproduzione capitalistica, per cui chi si sottrae a questi vincoli viene subito accusato di sottrarsi alla cosiddetta «etica della responsabilità» alla Max Weber (Max Weber è il Tommaso d’Aquino della razionalità capitalistica). Insisto su questo punto: l’apparato ideologico universitario nel suo complesso deve strutturalmente e funzionalmente depotenziare il carattere di razionalismo critico del pensiero filosofico, e le due forme convergenti di depotenziamento sono la sua riduzione a filastrocca di opinioni premoderne e la negazione di qualunque suo carattere fondazionale. Non è sempre stato così. Ad esempio, al tempo di Kant e di Hegel non era così. Ma oggi è così, e chi non lo capisce, per stupidità e/o opportunismo, paga con il prezzo del codice d’accesso politicamente corretto al sistema ideologico universitario la rinuncia a qualsiasi critica radicale indipendente ai rapporti di produzione dominanti. Nicchie di professori universitari “marxisti” vengono ovviamente tollerate, sia pure marginalizzate e tenute sotto controllo, ma si fa in modo che costituiscano ghetti autoreferenziali sostanzialmente innocui, oltre che di volta in volta ignorati, ridicolizzati e travisati dal cannibalismo del sistema mediatico.

Individuare la necessità di una deduzione sociale delle categorie non significa però avere risolto il problema. Se questo infatti è adoperato senza un’accurata distinzione fra valore filosofico e valore ideologico delle categorie, ed i due valori vengono identificati, allora il metodo appena scoperto è subito da gettare via, perché non può che dar luogo ad un carnevale relativistico e sociologistico che nega ogni valore conoscitivo e veritativo alla filosofia. Per usare il lessico di Hegel, la filosofia tratterebbe certo del «proprio tempo appreso nel pensiero», ma ignorerebbe il suo vero oggetto, che è «ciò che è, ed è eternamente». Il benemerito scopritore novecentesco di questo metodo, Alfred Sohn-Rethel, è spesso caduto in questo errore, ma lo si deve scusare, perché una scienza non deve mai rimanere al livello del suo scopritore, ma deve continuamente correggersi ed autocorreggersi. Tutto il mio lavoro può essere interpretato come una cortese correzione a Sohn-Rethel (per quanto riguarda il metodo genetico delle categorie) ed a Lukács (per quanto riguarda le categoria dell’ontologia dell’essere sociale). E tuttavia, pur rivendicando la mia originalità in proposito, non ho nessun problema ad ammettere di volermi collocare nel solco di Sohn-Rethel e Lukács.

Fin qui, però, abbiamo soltanto girato intorno al punto essenziale della questione. Ed il punto essenziale sta in ciò, che la filosofia per sua propria natura è l’unione di due elementi inscindibili, il sistema delle conoscenze razionali e l’insieme di ciò che interessa necessariamente ad ogni uomo, elementi inscindibili che Kant connotò con i nomi rispettivi di Schulbegriffe di Weltbegriff. L’avverbio “inscindibilmente” è qui la parola concettualmente più importante.

Da un lato, infatti, l’apparato ideologico universitario, a partire dalla svolta positivistica e neo-kantiana di metà Ottocento, ha separato questi due elementi inscindibili, ed ha limitato la filosofia al suo solo Schulbegriff, diffamando, isolando ed intimidendo tutti coloro che volevano servirsi degli apparati universitari per praticare un Weltbegriff, che si affermava ormai impossibile, premoderno, metafisico, ecc. (e da Habermas a Rorty abbiamo qui solo l’imbarazzo della scelta). Dall’altro lato, ed in segreta solidarietà antitetico-polare (o se vogliamo in manifesta divisione funzionale del lavoro ideologico), gli apparati politico-ideologici, che si servono della filosofia esclusivamente per la sua “ricaduta” ideologica, ma non hanno alcuna intenzione di rispettarne l’autonomia e soprattutto la veritatività indipendente da ogni manipolazione, hanno ritenuto di poterne utilizzare l’aspetto mondano (Weltbegriff) disprezzandone nello stesso tempo il rigore sistematico, che richiede necessariamente un apprendimento lento e faticoso, per nulla inferiore ai tempi di apprendimento della medicina, dalla chimica e della farmacologia, in una parola del suo Schulbegriff. Concetto scolastico senza concetto mondano, e viceversa concetto mondano senza concetto scolastico, ecco le membra dilacerate e scomposte dell’unico corpo concettuale della filosofia.

Con questo, non intendo dire affatto che gli unici abilitati a dare giudizi sulla totalità del mondo sociale in cui viviamo sono i filosofi muniti di dottorato a Parigi ed a Oxford, ed in possesso non solo della conoscenza della lingua inglese come strumento di comunicazione dei sudditi dell’unico impero legittimo dello spazio globalizzato imperialistico mondiale (Harvey), ma anche del greco antico di Platone e di Aristotele e del tedesco di Kant e di Hegel. Una simile concezione elitistico-demenziale non farebbe che riproporre in modo farsesco la tragica illusione di Platone di poter garantire ed assicurare la scienza filosofica intesa come riferimento normativo dell’organizzazione sociale attraverso l’istituzionalizzazione di una casta non elettiva di governanti muniti della scienza filosofica (episteme) del Vero, del Giusto, del Bene e del Bello.

La tentazione di simili riproposizioni si è affacciato molto spesso nella storia, anche se quasi mai in modo direttamente filosofico-platonico, e quasi sempre prima in modo teologico-religioso (dalla controriforma cattolica ai puritani protestanti inglesi) e poi in modo direttamente economico-dispotico (e si pensi alle canaglie oligarchiche che governano il mondo tramite apparati come la Banca Centrale, il Fondo Monetario Internazionale, ecc.).

È chiaro che l’esaltazione della filosofia come luogo di fusione fra il suo concetto scolastico ed il suo concetto mondano, fusione per loro propria natura esclusa dagli apparati ideologico accademico-universitari e politico-militanti, è incompatibile con il suo sequestro elitario in apparati snobistico-elitari di supercolti (o presunti tali) con la puzza al naso e con la convinzione di essere migliori degli altri. Al contrario, ho enfatizzato in precedenza l’interpretazione data da André Tosel alla filosofia di Spinoza in termini di coesistenza egualitaria sociale fra i dotti ed i non-ancora-dotti, ma potenzialmente in grado di diventarlo (dynamei on). E fra tutti i pensatori marxisti novecenteschi ho soprattutto lodato Antonio Gramsci e György Lukács, come coloro che hanno messo alla base di tutto il “senso comune” (Gramsci) ed il “rispecchiamento quotidiano” (Lukács). È infatti del tutto secondario, anche se meritevole di analisi, il fatto che la teoria del rispecchiamento sia o no esatta, o il fatto che il nuovo senso comune possa essere portatore di fattori di impedimento ad una visione dialettica della realtà. Ciò che invece conta è il comune carattere democratico, e quindi non elitario, della concezione di pratica della filosofia in Spinoza, Gramsci, e Lukács.

Il lettore avrà notato che ho parlato di “pratica della filosofia”, e non solo di “filosofia in generale”. La filosofia, infatti, è un sapere pratico, nello stesso modo in cui peraltro è anche un sapere teorico (uso qui i significati aristotelici dei due termini). L’ateniese Socrate non è stato infatti l’“inventore” della filosofia, ma è stato il primo che ha inaugurato la pratica comunitaria della filosofia stessa. Nei primi capitoli di questo saggio non ho nascosto la mia fermissima opinione, per cui la filosofia ha un’origine sociale, e quindi in un certo senso anonima e strutturale, e sorge da una problematizzazione politica delle leggi (nomoi), viste come il principale fattore frenante (katechon) nei confronti della dismisura infinita ed indeterminata (apeiron), cui opporre in modo consapevole (logos) una misura sociale (metron) delle ricchezze (chremata), e questo non solo per impedire la dissoluzione della città (polis), ma anche per perseguire lo scopo del vivere bene (eu zen), vivere bene che corrisponde alla natura (physis) dell’uomo, che per sua natura appunto è un animale politico, sociale e comunitario (politikòn zoon), ed un animale dotato di capacità di linguaggio, ragione e calcolo (zoon logon echon). Ed è appunto questo che consente, al di là delle differenze di scuola, di parlare di un complessivo “umanesimo greco”, come risulta da una illuminante trilogia del filosofo italiano Luca Grecchi.

Questa è però soltanto la genesi della filosofia, non ancora la genesi della pratica filosofica come pratica sociale comunitaria. Di quest’ultima è invece inventore l’ateniese Socrate, tenendo conto però che il socratismo non è in alcun modo una scuola particolare fra molte altre (in proposito il Socrate di Platone non è affatto socratismo, ma platonismo al cento per cento), ma è semplicemente il nome che si dà ad una pratica comunitaria della filosofia prima inesistente. Come ha correttamente rilevato Olaf Gigon, più che di socratismo bisognerebbe parlare di sokratikòs logos, e cioè di una forma di ragione comunitaria ispirata da Socrate. Il sokratikòs logos è un altro dei molti doni inestimabili offerti dalla polis degli ateniesi all’intera umanità, insieme alla tragedia di Eschilo, Sofocle ed Euripide, alla commedia di Aristofane, alla storiografia di Tucidide ed alla scultura di Fidia. Tutti questi doni sono stati resi possibili da una concezione profondamente religioso-comunitaria della vita associata, concezione del tutto incomprensibile per chi ragiona sulla base di un individualismo ispirato a Hume o a Kant, di una fallacia naturalistica o di un presunto politeismo dei valori.

La religione dei Greci non disponeva ovviamente di libri sacri di riferimento e di apparati sacerdotali di tipo inquisitorio, e per questa ragione era a tutti gli effetti più “religiosa” del successivo cristianesimo, come del resto a loro tempo sia Hegel che Marx capirono molto bene, e come invece Nietzsche non riuscì mai a capire, ipnotizzato nelle sue ossessive dicotomie e soprattutto nella sua errata concezione del mondo sociale greco classico, fondato su di un modo di produzione di piccoli produttori indipendenti e di piccoli proprietari “misurati” (metron), e non certo su di un modo di produzione schiavistico incontrollato in cui schiavi ed iloti mantenevano nell’«ozio creativo» individui pigri ma dialoganti. La vita dei Greci, oltre ad essere religiosa, era anche comunitaria, e per questa ragione incomprensibile, inattingibile ed irrapresentabile per chiunque si ostina ad interpretarla secondo schemi posteriori che non le corrispondono in alcun modo, come l’individualismo borghese, il moralismo kantiano, la concezione formalistica del soggetto di tipo cartesiano, il cosiddetto “laicismo”, l’estetismo neoclassico, la cosiddetta “scienza disinteressata”, e via via sempre più fraintendendo.

Socrate fu l’inventore non certo della “filosofia”, ma della pratica filosofica comunitaria, perché ad Atene era politicamente impossibile continuare a far passare contenuti politici attraverso lo schermo di filosofie naturalistiche (l’acqua di Talete, l’aria di Anassimene, il «fuoco semprevivo» di Eraclito, la permanenza nel tempo della buona legislazione di Parmenide definita in modo metaforico con il termine to on, l’essere «sferico»). L’accesso di tutti all’agorà, ed il diritto di tutti i cittadini all’uguaglianza dei diritti (isonomia) ed all’accesso eguale della parola pubblica (isegoria), non potevano non riflettersi sull’eguale accesso di tutti alla parola filosofica (sokratikòs logos). Socrate è quindi per definizione, ed anzi a priori, l’unico filosofo che non poteva aver scritto nulla, perché il fondatore di uno spazio pubblico della pratica filosofica aperta a tutti coloro che la vogliono appunto “mettere in pratica” non può aver sostenuto qualcosa di particolare, ma può soltanto sostenere di sapere di non sapere, e con questo limitarsi ad un metodo di ironia e di maieutica.

Ho ripetuto qui cose già ampiamente sostenute nei primi capitoli per una ragione ben precisa. Si tratta infatti di sapere se l’esempio del grande sokratikòs logos possa essere ancora riproposto oggi, oppure se faccia parte di un passato tramontato per sempre. Ebbene, a mio avviso il mondo spirituale dei Greci non potrà mai tornare, perché i suoi presupposti storici e sociali non sono più in alcun modo riproponibili e restaurabili, in quanto il cristianesimo lo ha ucciso per sempre (e questo sia che questa uccisione sia valutata positivamente, alla Hegel, oppure invece negativamente, alla Nietzsche). E però, se il mondo complessivo dei Greci non potrà più tornare, purtroppo (il purtroppo è una mia esclusiva valutazione, di cui porto tutta la responsabilità), il sokratikòs logos invece non è morto, perché il sokratikòs logos è semplicemente l’equivalente antico di quello che Kant ha chiamato l’aspetto mondano della filosofia (Weltbegriff), quello per cui la filosofia è ciò che interessa necessariamente ad ogni uomo.

È questa l’angolatura con cui ho scelto di considerare il progetto di ontologia dell’essere sociale, il meno peggiore dei profili filosofici oggi presenti sul “mercato ideale” dei sistemi filosofici (Schulbegriff), e nello stesso tempo il meno peggiore dei sistemi filosofici il cui “risvolto pratico” può interessare ad ogni uomo (Weltbegriff). Per poterlo valutare con tutti gli elementi di conoscenza possibili, non si poteva fare a meno di ripercorrere tutta l’intera storia della filosofia occidentale, intesa nel senso datole a suo tempo da Hegel. La storia della filosofia non è in alcun modo un succedersi casuale di opinioni, ma è il riflesso sistematico della storia dell’autocoscienza umana. Con questo, non è affatto necessario “dare ragione” ad Hegel in tutte le sua valutazioni specifiche (personalmente, io non ne condivido moltissime), ma è sufficiente accettare come legittima la sua impostazione generale.

Il progetto di ontologia dell’essere sociale unisce insieme inscindibilmente l’elemento scolastico e l’elemento mondano della filosofia, e proprio per questa ragione non può fare a meno di assumere la forma di un sistema razionalistico alla Spinoza, Kant e Hegel. E proprio per questa ragione non poteva piacere a Cesare Cases, figlio di una generazione critica, che per questa stessa ragione era piuttosto attratta da filosofie puramente critico-negative, come l’innocuo messianismo testimoniale di Benjamin e come la dialettica negativa di Adorno. Ed è proprio per questa ragione che piace molto a me. Con tutto il rispetto per Benjamin ed Adorno, che rispetto molto, la loro critica negativa all’esistente, unita ad un innocuo discorso di principio sulla bontà astratta del messianismo, è qualcosa di totalmente compatibile con l’apologia dell’esistente, che è anzi compiaciuto narcisisticamente della sua capacità di “tollerare” l’enunciazione testimoniale di una negazione radicale dell’esistente, tanto radicale da non permettere alcuna “mediazione” (Vermittlung) a cui attaccare la leva di un possibile cambiamento.

Il sistema della odierna «tolleranza repressiva» (il termine è di Marcuse, e non si poteva sceglierne uno migliore) non ha nulla in contrario a che si formulino negazioni apocalittiche, messianiche e “totali”, mentre non sopporta assolutamente punti di vista, esposti in forma pacata e tradizionale, che mettano realmente in discussione la sovranità assoluta della riproduzione capitalistica riproponendo il carattere “fondazionale” della filosofia. Ma non scherziamo, signori! Il solo fondamento di oggi è la sovranità della merce capitalistica (quella che l’economista emiliano Romano Prodi chiama insistentemente «il giudizio dei mercati»)! Non esistono altri fondamenti! Mica sarete per caso tanto metafisici, conservatori ed arretrati dal riproporre la natura “fondazionale” della filosofia? Ah! Ah! Oh! Oh!

Il progetto di ontologia dell’essere sociale restaura la posizione classica di tutta la grande filosofia da Aristotele ad Hegel, e cioè l’unità ontologica delle categorie del pensiero e delle categorie dell’essere. Abbiamo visto in alcuni precedenti capitoli che Kant è l’unico grande filosofo tradizionale che la contrasta e la nega, ma per comprenderne la ragione ci soccorre la deduzione sociale delle categorie. Kant doveva infatti delegittimare le pretese normative della metafisica religiosa, e l’unico modo per farlo era appunto la separazione fra categorie del pensiero e categorie dell’essere, in quanto solo le prime erano dimostrabili (i fenomeni), mentre le seconde erano indimostrabili (il noumeno come cosa-in-sé o concetto-limite). Ma fu poi il successivo neokantismo che trasformò la gnoseologia in teologia, o più esattamente in equivalente borghese della teologia.

Il meccanismo della riproduzione capitalistica, infatti, è la sola ed unica cosa-in-sé rimasta, perché non è più cosa-per-noi pretendere di poterla trascendere e sostituire (gabbia d’acciaio di Weber, fine delle grandi narrazioni di Lyotard, fine della storia di Kojève, Gehlen e Fukuyama, fine delle illusioni di Furet, e così via sempre “finendo” qualcosa). È questa la ragione dell’irritata reazione di Habermas. Ma come, tanta fatica per seppellire Horkheimer ed Adorno, e adesso arriva un signore che vuole “ripristinare i grandi sistemi razionalistici, il che fa parte del passato filosofico”!

Ma chi decide che qualcosa faccia parte del passato filosofico, e non piuttosto del presente e del futuro? È evidente che questo, e solo questo, è il problema. E non è un problema di abilità argomentativa, perché le classi dominanti sono sorde a qualunque argomento razionale, se appena questo argomento mette in discussione una struttura di potere e di dominio. Ed è questo il maggiore contributo portato da Marx rispetto a Socrate. Socrate partiva ancora dal principio “dialogico” per cui in via di principio tutti possono essere convinti (anche se già nei suoi dialoghi alcuni si sottraggono andandosene prima di essere sconfitti nel confronto). Marx sa già che questo non può avvenire, a causa della natura classista dei rapporti sociali di produzione. Ma non è questo il sintomo di una “ammissione indiretta” dell’impotenza della filosofia? La questione merita una riflessione particolare di tipo ontologico-sociale.

Che il metodo dialogico in Socrate non fosse fine a se stesso, e non avesse come unica finalità il conoscere se stessi in senso psicologico-individualistico (gnothi seauton) a me sembra non possa essere realmente messo in dubbio. Il dialogo di Socrate aveva come sua finalità il convincimento razionale dell’interlocutore (e qui sta infatti il carattere normativo della filosofia – convincere razionalmente l’interlocutore), e questo può essere dimostrato in molti modi, di cui mi limiterò qui a segnalarne due. In primo luogo, il dialogo socratico non era per nulla una cortese e pluralistica discussione, ma era una faticosissima macchina argomentativa che implicava una attenzione spasmodica. Il sokratikòs logos aveva regole altrettanto ferree delle rappresentazioni tragiche e comiche. Iniziava con l’ironia (che non significava affatto “fare dello spirito” in senso moderno, ma ammettere preliminarmente di sapere di non sapere, e perciò di essere potenzialmente aperto a qualunque esito del confronto), procedeva con la maieutica (l’arte di far partorire le idee attraverso lo scambio dialogico e le domande ben poste) e mirava al consenso attraverso la definizione concordata (la cosiddetta omologhici). In molti dialoghi socratici il consenso non viene raggiunto, mentre in altri sì, ma è difficile dubitare che la struttura del dialogo socratico non mirasse ad un consenso sopra una definizione comune.

In secondo luogo (e questo secondo punto è molto più importante del primo), Socrate non viveva in una società individualistica liberale, per cui non ha senso retrodatargli il nostro atteggiamento (che risulta non certo dalla “natura umana”, ma da una svolta individualistica ed antimetafisica posteriore alla seconda metà del Settecento europeo), ma viveva in una società politica. Vivere in una società (Gesellschaft) e vivere in una comunità (Gemeinschaft) non è certamente la stessa cosa. Questo non significa affatto che non ci fosse ancora la libera individualità. Essa c’era già da tempo, perché già da tempo era stato rotto il legame tribale che pensava se stesso attraverso l’indistinzione fra macrocosmo naturale e microcosmo sociale. Ma non si trattava assolutamente dell’individuo (in-dividuum, non ulteriormente divisibile), nel senso che questo termine ha assunto dopo Hobbes e dopo Locke, oltre che dopo Cartesio e Kant.

Il sokratikòs logos non era ancora per nulla “filosofare” moderno, e questo non solo per l’ovvia ragione che è venuto prima di Galilei e di Newton, ma anche e soprattutto perché presupponeva una comunità che si trattava di convincere al bene e di distogliere al male. Chi “individualizza” Socrate, magari in perfetta buona fede, ed in questo modo lo tratta a tutti gli effetti come un nostro contemporaneo, non lo capirà mai, e crederà che il sokratikòs logos sia equivalente al dibattito fra gli illuministi, con l’unica differenza di essere in lingua greca anziché in lingua francese. In conclusione: è bene partire dal fatto che la filosofia, nella forma socratica del logos portato nell’agorà, intendeva essere conoscitiva e veritativa (il che non significa affatto normativa in senso autoritario, dispotico, amministrativo, poliziesco ed ideologico). Essa era quindi rivolta non tanto al convincimento in generale di individui, ma al convincimento comunitario.

E perché mai convincimento comunitario, e non solo convincimento in generale? Ma per il semplice fatto che non si trattava di convincere qualcuno di questioni irrilevanti, se siano più belle e seducenti le ragazze di Atene o quelle di Sparta (tema interessante certamente, ma privo di qualunque universalità), ma di che cosa sia il Bene, ossia il bene politico. Questo fu capito molto bene da Hegel, che non considerò mai la Repubblica di Platone una utopia irrealizzabile, ma l’espressione più alta del vero spirito dei Greci. Negare alla filosofia greca classica la finalità (telos) del convincimento comunitario significa precludersi la comprensione del mondo antico. Nello stesso tempo, è evidente che il pensiero epicureo non mira più al convincimento comunitario, ma al ripiegamento in un gruppo protetto di amici. E dopo il primissimo periodo di provocazione e di ostentazione di comportamenti asociali (anaideia), anche gli stoici si ricongiunsero alla tradizione del convincimento comunitario, sia pure nella forma della comunità cosmopolitica di tipo universalistico. È bene avere chiaro questo punto, perché oggi ci ritroviamo in una situazione analoga a quella stoica, e cioè in un terreno globalizzato di comunità di tipo universalistico.

C’è però un paradosso, che caratterizza la filosofia in quanto tale. Da un lato, la filosofia ha una vocazione irresistibile al convincimento comunitario, e perciò universalistico, veritativo e normativo. Non solo i sistemi filosofici antichi (Platone, Aristotele, ecc.), ma anche quelli moderni (Spinoza, Kant, Hegel, ma anche Marx), si muovono a mio avviso in base a presupposti ispirati al convincimento razionale come loro scopo intimo e naturale (telos). Il telos del dialogo del convincimento razionale, anche se il dialogo può dar piacere di per se stesso. La specie umana si riproduce infatti necessariamente attraverso il coito fra l’uomo e la donna, anche se è largamente noto che il coito può essere (e generalmente è oggi) un fine a se stesso. Questo vale anche per la filosofia. Il dialogo può essere un piacere per se stesso, ma la sua funzione resta sempre quella di essere il mezzo per un convincimento comunitario.

Dall’altro, però, vi sono oggettivamente due questioni, che non possono essere passate sotto silenzio, e cioè, nell’ordine, il fatto acclarato che l’argomentazione filosofica nei fatti non riesce a convincere quasi nessuno, per cui il convincimento è assai più l’eccezione della regola, e infine che oggi le comunità sembrano quasi del tutto scomparse, e quando ancora esistono, si muovono assai più sulla base di pregiudizi tesi ad escludere l’altro piuttosto che sulla base di un universalismo razionale. Affrontiamo queste due difficoltà, e solo dopo potremo veramente collocare il progetto di ontologia dell’essere sociale nel nostro tempo storico.

Iniziamo dal primo problema, che è anche un paradosso. Da un lato, la filosofia si pone come un sistema di conoscenze razionali strutturate in modo logico, che possono certo divertire e compiacere chi le elabora, ma che in ogni caso sono organizzate in modo da avere come telos il libero convincimento, e cioè inevitabilmente la vittoria di una tesi sull’altra. I Greci stessi la intendevano anche come lotta di tipo olimpico (agòn), e lo stesso Kant afferma che si tratta di un «campo di battaglia» (Kampfplatz).

Dall’altro, l’esperienza di più di duemila e cinquecento anni ci conferma che di regola questo convincimento è impossibile, ed il fatto che qualcuno cambi idea (metanoia), già di per se rarissimo, è piuttosto prodotto da esperienze-limite (pensiamo a Paolo di Tarso che diventa cristiano dopo un incidente ed una insolazione). In altre parole – per usare il lessico di Wittgenstein – la filosofia pretende di “dimostrare”, ma il massimo che riesce a fare è “mostrare”. Si mostra infatti qualcosa con il dito, ma non capita quasi mai che l’interlocutore fissi lo sguardo verso ciò che gli indichiamo. Ed è questo in definitiva il paradosso della filosofia: nata per dimostrare e per perseguire il convincimento razionale comunitario, deve ripiegare e deve accontentarsi di mostrare con il dito. Ed il passaggio dalla mente che dimostra al dito che mostra comporta quasi sempre l’effetto di un detto cinese: il saggio mostra da un lato con il dito, lo sciocco guarda soltanto il dito.

La potenza della filosofia si mostra dunque troppo spesso socialmente impotente. Di fronte a questa deprimente impotenza, è normale che si seguano scorciatoie che vorrebbero soggettivamente superare questa palese impotenza. Si può ripiegare appunto in gruppi protetti di parenti e di amici, rinunciando al telos del convincimento comunitario razionale (limitato alla polis nei classici, esteso all’oikoumene negli stoici). Si può credere che la violenza ideologica obbligatoria possa servire allo scopo (pensiamo alla Santa Inquisizione di Torquemada oppure al materialismo dialettico di Stalin). Si può credere che l’impotenza della filosofia possa essere curata con la fede religiosa e con il sentimento di appagamento che essa non può che comportare. Si può pensare, infine, che la soluzione definitiva sia la scienza ed il metodo scientifico, che dispongono di un sistema di protocolli osservativi e di metodi di verificazione e/o falsificazione, per cui finalmente non si “mostra” soltanto, ma si dimostra. Come si vede, le fughe dalla frustrazione dell’impotenza della filosofia a “dimostrare” qualcosa, e ad avere successo nel convincimento comunitario sono molte, anche se mi sono limitato a segnalarne solo quattro (ripiegamento in un gruppo protetto di amici co-senzienti, fuga in avanti nella costrizione ideologica considerata – erroneamente – come più performativa, approdo alla fede religiosa come medicina contro il tormentoso e frustrante dubbio permanente, scelta per la scienza e per i suoi metodi considerati finalmente sicuri, vincolanti ed “universalistici”).

Queste quattro operazioni possono riuscire perfettamente, e nello stesso tempo alla fine il malato è morto. Con il ripiegamento in una piccola comunità protetta certo riduciamo lo stress sociale, ma alla fine non ci salveremo lo stesso, se la comunità in cui viviamo sceglie la via della guerra e del massacro dell’ambiente naturale e sociale. Il pensare di poter “costringere” alla verità per via ideologico-inquisitoria non riesce mai (se non apparentemente per qualche secolo o decennio), in quanto la verità è per sua natura qualcosa cui nessuno può essere “costretto”, in quanto essa comprende costitutivamente non solo un “dato” fattuale (questo è il caso di altre dimensioni, come la certezza e l’esattezza), ma anche un libero convincimento razionale (anche se la filosofia è costellata di personaggi che non lo hanno capito, da Agostino a Stalin). La religione scalda il cuore con i suoi riti comunitari, così come la scienza rassicura con le sue procedure da laboratorio. Alla fine, però, il problema della razionalità del convincimento comunitario, libero ed universalistico, resta. Si può cercare in tutti i modi di espellere la filosofia, ed il modo oggi generalmente usato è spaventare la gente dicendo che è sorpassata e pre-moderna (la gente, infatti, è socialmente spinta a considerare buono il “nuovo” e “cattivo” il vecchio, ed a questo contribuisce in modo decisivo la dittatura della pubblicità e la coazione ad adeguarsi alla moda), ma alla fine essa salta sempre fuori come una molla goffamente compressa. La speranza che essa non si limiti a “mostrare”, ma riesca prima o poi anche a “dimostrare” quello che sostiene, non può essere eliminata dalla storia. Una congiuntura storica (come quella che stiamo vivendo) può affermarlo arrogantemente, ma bastano in genere pochi decenni per “rovesciare i verdetti” troppo affrettati ed arroganti.

L’oscillazione fra la vocazione irresistibile della filosofia al convincimento comunitario (che nell’antica filosofia classica ruotava intorno ai tre concetti interconnessi di logos, metron e katechon) e la palese impossibilità di ottenerlo, con conseguente ripiegamento dalla dimostrazione al “mostrare” con un dito, fa parte della sua essenza, e non può essere “guarita” con nessuna terapia. Tutte le illusioni di “risolvere il problema”, dall’imposizione ideologica all’illusione scientifica, restano infatti sempre illusioni. L’imposizione ideologica non è mai performativa, perché l’uomo è un essere autonomo e problematico, e non si può “costringere” qualcuno ad ammettere come “verità” qualcosa di cui non è intimamente convinto. La fuga nella scienza moderna non è mai una soluzione, perché la scienza può dirci che cosa è il certo, l’esatto, lo sperimentabile ed il verificabile, ma non potrà mai dirci che cosa è bene e che cosa è male, perché il suo metodo per principio non si pone queste domande. Bisogna quindi che il filosofo non si faccia intimidire dalle ingiunzioni ad essere moderno, ad essere postmoderno, ad essere scientifico, a non essere metafisico, ecc. Oggi la filosofia parte da un atto di coraggio. Senza questo atto di coraggio non solo non può svilupparsi, ma non può neppure cominciare.

Passiamo ora al secondo problema, che è ancora più decisivo ed importante del primo appena discusso. La filosofia è nata come portatrice di un convincimento comunitario potenziale (dynamei on), convincimento comunitario potenziale rivolto ad impedire la rovina portata necessariamente dall’infinitezza e dall’indeterminatezza (apeiron) delle ricchezze (chremata), ed i suoi tre concetti portanti non potevano che essere il freno di questo scatenamento crematistico (katechon), lo strumento razionale volto ad impedirlo (logos), ed infine il prodotto del logos stesso, la misura volta a dare ordine (nomos, taxis)alla realtà sociale (metron). Ma cosa può succedere oggi, in cui la comunità non esiste più, e l’unica comunità virtuale è la comunità del capitale, il che ovviamente equivale a nessuna comunità?

Questo è allora il problema di fondo: come riattivare il carattere razionale ed universalistico della filosofia, nata come pratica sociale del convincimento comunitario, e rimasta ancora fondamentalmente tale all’epoca dei cosiddetti grandi sistemi (Spinoza, Hegel e Marx), in un’epoca storica di frammentazione sociale di tipo individualistico? Senza affrontare questo problema, infatti, è impossibile pensare ad una collocazione sociale di una prospettiva di tipo ontologico-sociale. Cosa può infatti fare l’ontologia dell’essere sociale in un contesto storico e geografico in cui la sola “comunità” è la non-comunità del capitale, che come non-comunità si vanta di non avere alcun fondamento (se non appunto, il “nulla”), e dichiara che il solo assoluto possibile oggi è il relativo, non solo, ma che il relativo è buono, perché non ha alcuna imposizione ed alcuna normatività?

Il generale discredito che ha investito il metodo di Marx ed il marxismo, che le strutture ideologiche legate al potere ultracapitalistico hanno collegato in modo falso e protervo alla dissoluzione sociale e politica del comunismo storico realmente esistito (1917-1991), ha comportato negli ultimi due decenni (ma per quanto ancora? – nessuno lo sa!) una situazione spirituale malata e del tutto anormale, per cui il tipo di società che avrebbe meritato il massimo di critica è praticamente rimasta senza critica. Si tratta del paradosso maggiore dei nostri tempi. Potremmo formularlo così, in un modo espressivo che utilizza modalità hegeliane liberamente reinterpretate: l’epoca attuale sembra essere un’epoca di gestazione e di trapasso verso una forma di ipercapitalismo assoluto geograficamente globalizzato, sostanzialmente postborghese e postproletario; si tratta di un’epoca che potremo definire dell’alienazione compiutamente realizzata proprio sulla base della compiuta realizzazione della sovranità del valore di scambio su ogni altra forma di sintesi sociale umana comunitaria, il che verifica nei fatti l’ipotesi teorica dell’unità della teoria economica del valore e della teoria filosofica dell’alienazione; e proprio quando sarebbe socialmente necessario rilanciare il carattere veritativo della pratica filosofica essa è delegittimata come premoderna; e infine, proprio il tipo di società che meriterebbe il massimo di critica è rimasta di fatto senza critica; il nichilismo esprime l’assenza di ogni fondamento comunitario, che è diventato appunto “nulla”, e si afferma che questa mancanza di fondamento è bene, anzi benissimo, perché il sapere “moderno” sarebbe caratterizzato dalla mancanza di fondamenti; il relativismo esprime il fatto sociale per cui tutto è diventato relativo al valore di scambio ed alla sua solvibilità, e questa determinazione ontologico-sociale, che esprime il massimo di barbarie alienata, viene lodata come fine delle costrizioni, delle normatività metafisiche, dello Stato etico hegeliano e dell’utopia comunista.

Stando così le cose, l’epoca della compiuta peccaminosità di Fichte è finalmente realizzata. Viviamo infatti nell’epoca della realizzazione della compiuta peccaminosità.

Sarebbe ingenuo pensare che tutto questo a lungo andare (ed anche in alcuni casi a “corto andare” o a “medio andare”) non provochi reazioni o resistenze. E tuttavia per ora queste resistenze sono di tipo non-universalistico, di tipo prevalentemente religioso. Dal momento che queste resistenze sono pienamente giustificate (il che non implica evidentemente che se ne debbano approvare moralmente tutte le manifestazioni), non ha più senso a mio avviso continuare a dire che la religione è per sua natura “alienazione”. Forse un tempo lo è stata, ma ora non lo è più. Nel momento in cui la religione investe direttamente la legittimità morale del capitalismo, sia pure in forme che ci possono non piacere o addirittura respingere, essa automaticamente non è più alienazione. Ai loro tempi Feuerbach, Marx e Lenin potevano dirlo con qualche ragione, ma ora non più. Oggi il solo pensiero alienato è quello che sostiene, direttamente o indirettamente, la legittimità e l’intrascendibilità del capitalismo nella forma attuale, e della necessità di un unico impero militare mondiale. Questo, e solo questo, è il solo pensiero alienato. Non ci sono altri pensieri alienati. Non sono sicuro che Spinoza, Hegel, Marx e Lukács lo direbbero. Ma la filosofia è pensare con la propria testa, ed io mi sento di dirlo. Nessuno ovviamente sa come si svilupperanno le nuove contraddizioni di classe. Nella loro vecchia forma delle prime due età del capitalismo, la borghesia e il proletariato fanno parte del passato, anche se in altre parti del mondo esistono ancora. In Cina ed in India, ad esempio, soltanto adesso possiamo parlare veramente di scontro di classe borghesi-proletari così come noi lo abbiamo conosciuto nell’Ottocento e nel Novecento. Si formeranno certamente nuove contraddizioni dialettiche per ora ancora invisibili. Per cominciare, è improbabile che le classi medie sviluppatesi nel Novecento, ed ora in caduta verticale non solo di status e di aspettative, ma anche e soprattutto di condizioni di vita, potranno sopportare a lungo questo processo come fatale, laddove ovviamente non è per nulla fatale, ma provocato dal modello di sviluppo economico del potere delle oligarchie più abbiette, crudeli e schifose dell’intera storia mondiale dai Sumeri ad oggi.

Non tocca però alla pratica filosofica fare dilettantesche previsioni di tipo economico o sociologico. In questo senso, il futuro resta ampiamente imprevedibile, ed è questa imprevedibilità che fa cadere tutte le forme di pensiero teleologico, deterministico e messianico. La pratica filosofica deve invece strutturarsi non sulla (impossibile) prevedibilità, oppure sulla (ancora più impossibile) scientificità, ma su tre solidi fondamenti: il carattere dialogico-comunitario, la deduzione sociale della categorie, e l’ontologia dell’essere sociale. Chiariamo ancora una volta di che si tratta, e soprattutto il perché di questa insistenza.

Il carattere dialogico-comunitario deriva direttamente dalla pratica dell’ateniese Socrate. Nato sulla base dell’esigenza di conoscere se stesso (gnothi seautòn), si è sviluppato sulla base del telos del convincimento comunitario possibile. Il convincimento comunitario presuppone però il rischio (probabile) che non si riesca a perseguirlo, per il permanere degli interessi egoistici dei singoli (pleonektein). E tuttavia, è bene evitare la fuga in avanti nella tentazione della costituzione di una élite ideologico-politica, per il semplice fatto che la verità non può essere semplicemente dedotta, affermata e conosciuta ma deve anche essere condivisa. Nel mondo moderno, Spinoza è stato il primo che ha affermato esplicitamente che la democrazia, filosoficamente parlando, è la coesistenza dei saggi e dei non-saggi. Ma cosa può essere la saggezza se non la conoscenza della verità? Al di fuori di questa definizione, l’unica possibile, ci sono soltanto le regole dell’abilità, i consigli della prudenza, i riti sociali consentiti, il conformismo di ciò che di volta in volta è considerato il “politicamente corretto” che dà luogo all’accesso a posti di comando, i vari utilitarismi di gruppo, ecc. Ma il dialogo per sua stessa definizione, è interminabile solo idealmente ed astrattamente. Socialmente parlando, il dialogo deve di tanto in tanto determinarsi. La determinazione sociale del dialogo si chiama “etica”, mentre si chiama “morale” la problematizzazione interminabile programmaticamente impotente, e proprio per questo lodata da chi vuole che le cose rimangano come sono.

La deduzione sociale delle categorie è il metodo usato in tutto questo trattato storico della filosofia. Ogni generazione di filosofi deve riaggiornarla e rifarla, per cui non esiste, e non può esistere, una scoperta “definitiva” del quadro storico-strutturale in cui viene socialmente dedotta la produzione delle categorie. Ad esempio, tutte queste mie proposte potrebbero essere errate, e tutte meritevoli di correzione radicale (anche se non lo penso affatto – la mia autocritica ed il mio masochismo non arrivano a tanto!). Ma questa eventualità non cambierebbe nulla sull’utilità di questo metodo della deduzione sociale delle categorie. Si tratta infatti di una terapia vera e propria, attraverso la quale ci poniamo una serie di dubbi, sia metodici che iperbolici, sul nostro stesso apparato categoriale. Se infatti accettiamo il principio che certo pensiamo individualmente e con la convinzione di essere mossi dal nostro libero volere, ma non postuliamo questo libero volere (Cartesio, Kant, ecc.), ed invece lo inseriamo in una totalità sociale storicamente determinata, allora la tradizione «boria dei dotti» (l’espressione è di Vico) si indebolirà. Solo una vera deduzione sociale delle categorie, infatti, può permettere di dimostrare a dito che tutte le tronfie dichiarazioni di fine “moderna” della storia dell’ideologia contemporanea sono false, ed è quindi necessario dotarsi del coraggio di contrastarle, indifferenti alle calunnie ed alle incomprensioni.

L’ontologia dell’essere sociale (non parlo qui ovviamente dei libri di Lukács che hanno questo titolo) significa che l’essere sociale esiste (come del resto esiste la natura umana, e su questo punto Chomsky ha completamente ragione e Foucault completamente torto). Il fatto che l’essere sociale esista, e sia caratterizzato da categorie ontologiche specifiche, e non solo storico-relative (il sociologismo relativistico è la porta girevole verso il nichilismo), resta il solo baluardo credibile contro l’illimitata manipolazione che sorregge l’attuale epoca della compiuta peccaminosità. È quindi del tutto normale che questa ontologia dell’essere sociale si esprima preferibilmente nella forma dei vecchi sistemi filosofici. Il suo carattere mondano, che riguarda ciò che necessariamente interessa ad ogni uomo (Weltbegriff), non può fare a meno di prendere l’aspetto del sistema delle categorie e della loro connessione razionale (Schulbegriff). Quando dunque sentiamo dire che “è finita l’epoca dei sistemi” possiamo essere sicuri al cento per cento di una cosa: chi lo afferma con tanta sicumera vuole in realtà che un solo sistema esista e sia legittimato, il sistema della produzione ipercapitalistica postborghese e postproletaria della terza età del capitalismo.

A questo punto, possiamo mettere tranquillamente la parola “fine” a questo studio. Siamo tornati esattamente dove avevamo cominciato: il potere comunitario della filosofia, l’irriducibilità della sua funzione sociale all’ideologia e/o alla scienza, la deduzione sociale delle categorie, l’ontologia dell’essere sociale.

L’andare oltre toccherà ad ogni singolo lettore.

Marxismo e romanzo storico

30 domenica Nov 2014

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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di Guido Piovene

«La Stampa» 30 giugno 1965

La più importante opera critica di Giorgio Lukács Marxismo e romanzo storico

Per il filosofo, il romanzo vivo e classico è sempre “storico”: rievocando il passato (Manzoni) o rappresentando il presente (Balzac), fa della società la vera protagonista – Mancando questa coscienza, decade: da Dostoevskij a Kafka, il giudizio di Lukács è negativo

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Pubblicato e discusso nell’Unione Sovietica, dove il famoso pensatore ungherese risiedeva a quel tempo, pochi anni prima della guerra, Il romanzo storico di Giorgio Lukács è uscito ora presso Einaudi. Nella sua bella introduzione, Cesare Cases lo definisce «il libro più fuso e articolato che il Lukács critico e storico letterario abbia scritto»; ma ammette che il nostro interesse nel leggere qualche parte del libro è più storico che attuale; ci troviamo di fronte al monumento critico di un periodo «ormai concluso». Il marxismo di Lukács, ricordiamo qui di passaggio, suscitò controversie e riprovazioni settarie. Lukács fu imprigionato, poi liberato, dopo la rivolta di Budapest. Nel complesso Lukács ci ha dato l’espressione più vera e più completa della critica marxista di quel periodo, giacché non possiamo chiamare vera la critica di quelli che toglievano all’arte qualsiasi autonomia per farne un semplice strumento del potere politico. Il concetto su cui Lukács impernia il suo discorso è l’eccellenza, il valore esemplare del romanzo «classico» e, a contrasto, l’inferiorità di tutto quello che rientra nella categoria molto vasta del «decadente». L’apertura, o chiusura, all’ispirazione storica di chi scrive romanzi costituisce il criterio discriminante. Il titolo, Il romanzo storico, non deve indurre a credere che vi siano per Lukács altri generi di romanzi di pari dignità. Il romanzo che ammira e accetta è sempre storico, rappresenti la storia passata (Walter Scott, Manzoni, tenuto molto in alto), o «il presente come storia» (Balzac, Stendhal). Il romanzo, nel periodo d’oro, è stato l’epopea della società borghese ancora progressiva, e potrà esserlo domani di quella socialista, purché vi ritrovi lo stesso grado di libertà nel descrivere, senza sovrapporvisi arbitrariamente, tutte le varietà e i conflitti d’una società reale. I più grandi romanzi sono nati dall’affermarsi della «consapevolezza storicistica»; o il romanziere sente, rappresenta dal vivo, il moto e il dramma della storia, ed è realista e progressivo; o, se prende altra strada, esce dalla realtà, cade nel falso, fa opera reazionaria. La «consapevolezza storicistica», e il romanzo storico che ne deriva, hanno il loro grande prologo nella rivoluzione francese. Si apre il periodo d’oro del romanzo storico, anzi del romanzo tout court, che si chiude approssimativamente con la reazione successiva ai moti del 1848. Il romanzo storico sostituisce l’antica epopea perché la psicologia degli uomini, «le circostanze economico-morali della loro vita», si sono così complicate da rendere necessaria una descrizione vasta e differenziata. L’arte del grande romanziere come Balzac, che per Lukács costituisce il vertice, sta nell’essere dentro «la varietà e molteplicità d’aspetti della vita di un popolo», nel subbuglio delle «aspirazioni e tendenze individuali», ma di vederle miste al «contenuto sociale dei conflitti», da cui non si possono scindere. «Gli elementi complessi e capillari di tutta la società dell’epoca trovano il loro giusto posto nel quadro»; «lo sviluppo delle circostanze oggettive» emerge dal «graduale manifestarsi dei caratteri individuali che ne scaturiscono». Ma il grande romanziere, realista e non naturalista, non copia la realtà; la concentra nelle sue invenzioni, la esprime in individui tipici. Le grandi personalità della storia sono rappresentate nella loro giusta luce se il romanziere fa sentire com’esse sorgano dalle oscure correnti del popolo, a cui danno voce; sono, nel tempo stesso, dominatrici ed accessorie. La società coi suoi conflitti è la vera protagonista. Il secondo periodo, quasi del tutto negativo, si estende dalla reazione borghese dopo il 1848, che separa borghesia e popolo come «due nazioni diverse», alla soglia dei nostri giorni. Il senso della storia decade e si corrompe. Il romanzo la elimina, o la conserva come ambiente ornamentale-esotico di psicologie private, di destini personali chiusi. Nel soffio di tendenze destoricizzanti, metafisiche, mistiche, la storia d messa in causa solo per tradire se stessa. Un esempio cospicuo della «disumanizzazione» o «privatizzazione» della storia in un grande artista è Salammbô di Flaubert; l’immenso e indifferente scenario di Cartagine, in cui si accumula l’atroce, l’inumano, lo strano, l’anormale, il mostruoso, è costruito solo per fare da sfondo alle agitazioni isteriche della protagonista e per fuggire come in sogno l’odioso presente. Il popolo non è più fatto d’individui diversi e veri ma diventa una massa amorfa. Esistono gli scrittori dalla parte del popolo (Zola). Ma, costretti a rappresentarlo diviso dall’insieme della società, ne danno un’immagine falsa, astratta, generica, e cadono negli stessi vizi del romanzo borghese a cui vogliono contrapporsi. Vi è poi il terzo periodo, quello più vicino a noi. Anche tra i migliori, che aspirano a ritrovare il contatto col popolo, il rapporto tra idea e rappresentazione è «troppo diretto, troppo intellettualistico, troppo generale». Necessario, secondo Lukács, «il superamento della funesta eredità dell’evoluzione ideologica tardo-capitalistica», la sua «liquidazione artistica», il ricollegamento al romanzo storico classico della borghesia progressiva, (Balzac, Tolstoj, ecc.), ideologico senza forzature, solo perché sentiva la realtà dal suo interno. Il marxismo deve spiegare che l’intermezzo decadente ha dato opere senza verità, inadeguate anche artisticamente, anche quando si devono ad artisti con grandi doti. È una conclusione che certo non ci può rendere contenti. La visione di Lukács, conservando la propria forza, rivela oggi tutto quanto v’è in essa di antistorico e d’irreale. Tolstoj è glorificato; Dostoevskij, proprio in un libro imperniato sul grande romanzo dell’Ottocento, è taciuto. Negato ogni valore all’eccentrico, al soggettivo, e naturalmente al perverso. Il repertorio dei salvati e quello dei respinti, la graduatoria dei valori, non sono ammissibili. Si dà un peso eccessivo ad Anatole France, a Romain Rolland romanziere, a Gorkij («il più grande scrittore del nostro tempo»); Joyce e Musil sono citati di passaggio e soltanto a titolo di biasimo, e di Proust e di Kafka nemmeno e fatto il nome. Al loro posto compaiono nella scena scrittori comprimari o anche dimenticati. Anche nel mondo socialista ogni sforzo intellettuale autentico è volto a demolire questo genere di restrizioni. La realtà ha un numero troppo grande di stanze perché si possa aprirle tutte con una chiave sola, come in quel periodo s’illusero anche critici e storici dell’altezza di Lukács. Con i suoi criteri parziali, egli ne apre una parte; penetra a fondo nel romanzo, che gli è congeniale, della prima metà del secolo XIX; scrive pagine geniali e fertili su quel romanzo, sui rapporti tra romanzo e dramma, e su altri argomenti che qui dobbiamo sorvolare. Ma altri reparti gli rimangono chiusi. La stessa critica marxista successiva (vedi Edwin Perry Burgun) investe la letteratura forse con meno impeto e calore ideologico, ma anche con maggiore ricchezza di strumenti, il che la rende più prudente nell’eliminare i maestri. E rimane il fatto che i versi di Baudelaire citati da Lukács («Emporte-moi, wagon! enlève-moi, frégate!», con quel che segue) malgrado la «infinita e disperata, delusione» che esprimono, la loro ispirazione antistorica, bastano da soli a seppellire le buone intenzioni di cento romanzieri «storici» secondari.

Brecht vs. Lukács

18 martedì Nov 2014

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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avanguardia, Benjamin, Brech, Cases, Das Wort, Döblin, espressionismo, Fortini, Gallas, Linkskurve, Lukacs, maestri, Ottwald, personaggio, realismo


di Cesare Cases

Nota introduttiva a B. Brecht, Scritti sulla letteratura e sull’arte, Einaudi, Torino 1973.

Come molti scrittori – Karl Kraus diceva che uno scrittore che legge è uno spettacolo disgustoso come un cuoco che mangia –, Brecht non era un lettore disinteressato, salvo che di romanzi gialli. Hanns Eisler ci racconta che si accinse alla lettura di Balzac e di Joyce solo perché Lukács esaltava il primo e condannava il secondo, ed è probabile che non abbia mai letto fino in fondo nessuna opera del detestato Thomas Mann. Il suo spirito pragmatico lo induceva a leggere solo ciò da cui riteneva di poter ricavare qualche giovamento, e in questi limiti le sue letture furono certo assai estese. A differenza che in altri, tale atteggiamento istintivo dello scrittore divenne in lui parte di una ricerca programmatica. Nella sua esigenza della determinazione del cui prodest, il cui dello scrittore si identifica con la classe cui questi aderisce. «I critici estetici – scrive in certi appunti giovanili Istanze per una nuova critica — sono da accantonare a favore del valore d’uso». La medesima istanza pragmatica emerge nel suo rapporto con le arti figurative. Difende i cavalli azzurri di Franz Marc in nome dello sperimentalismo e contro i realisti a oltranza, ma poi si affretta ad aggiungere che non ha senso cercare di trasformare i lavoratori in partigiani dei cavalli azzurri, perché i lavoratori hanno a che fare con i cavalli reali: da essi «non ricavano soltanto delle impressioni, come capita a noi». Così nella parabola Della pittura e dei pittori (nel Me-ti) il giovane pittore figlio di battellieri riceve il consiglio di non considerare l’arte come fine a se stessa, ma di dipingere battellieri: «gli sfruttatori parlano di mille cose, ma gli sfruttati parlano dello sfruttamento». Con l’arte astratta Brecht non si conciliò mai.

Nonostante l’estrema riduttività di questa estetica, gli scrittori qui raccolti – un’ampia scelta delle Schriften zur Literatur und Kunst pubblicate in tre volumi nel 1967 da Werner Hecht – sono tra i più freschi ed acuti tra gli scritti teorici e critici di Brecht, spesso superiori agli scritti teatrali poiché l’autore è meno vincolato dalla volontà precisa di fondare nuove forme e di costituire un nuovo organo. Si tratta per lo più di scritti polemici, dettati dal fastidio per l’arte borghese o per quel marxismo che si appellava ad essa. Se si prescinde da quelli sulla radio e sul film, che hanno una posizione a parte, l’aspetto positivo, l’elaborazione dei principi del proprio lavoro, vi appare per lo più in negativo (un’eccezione sono i riferimenti a Gli affari del signor Giulio Cesare ai tempi degli attacchi a Lukács). Diversi per importanza e grado di consapevolezza, i due complessi polemici principali sono quelli degli scritti giovanili e della polemica sul realismo. In entrambi, la stessa insofferenza per il compiuto, il classico, il monumentale, per la psicologia e per lo «stile associativo», cioè quello in cui «ogni frase scaturisce dalla precedente». La seduzione, il golfo mistico della parola in cui il lettore sprofonda come in una poltrona, per Brecht appartengono irrimediabilmente all’Ottocento. «Gli ultimi pensieri che sono stati pensati sono quelli di gente che al massimo poteva muoversi a 60 km all’ora». Scienza e tecnica hanno fatto tabula rasa di tutti i presupposti della letteratura tradizionale. Quando nel 1926 Thomas Mann rispose all’attacco contenuto in questo volume (Se il padre con il figlio con l’«Uhu»…) sostenendo che, a suo avviso, il distacco tra la sua generazione e quella di Brecht era minimo, Brecht in un abbozzo di replica scrisse: «In proposito posso soltanto dire che a mio avviso in un’eventuale disputa tra una carrozza e un’automobile sarà certo la carrozza a trovare che la differenza è minima».

Queste immagini tecnologiche, vagamente futuriste – si ricordi l’influsso del futurismo italiano su Döblin, assai apprezzato da Brecht –, rientrano negli scritti giovanili in una generale spavalderia monellesca che invoca il caos. È proprio la scienza che «ha inventato microscopi per trasformare in un caos una normalissima goccia d’acqua che suscitava un’impressione d’armonia». Invece «tutti coloro che già oggi sono arrivati a una sorta d’armonia non hanno più niente a che spartire con noi» e «devono il loro successo all’inguaribile ottimismo di un ceto che nella sua inarrestabile decadenza non può più permettersi di pensare ai propri difetti». Ma quella razionalità che è solo posticcia se attribuita all’oggetto, diventa un requisito indispensabile all’esercizio della letteratura: quanto più la goccia d’acqua si trasforma in caos, tanto più acquista senso la corretta manovra del microscopio. Al vecchio ideale dell’opera d’arte «organica» si sostituisce quello dello schema, del plot prefissato, che proprio nella sua banalità costringe a inventare difficoltà e impacci, stimola al virtuosismo e all’acrobazia, all’elaborazione di nuove tecniche che mettono alla prova le capacità logiche dello scrittore. Il prototipo commerciale di questa nuova specie di arte per l’arte è il romanzo giallo. Perciò, di fronte alle ultime convulsioni della psicologia, di fronte alla pretesa di salvare l’individuo, di fronte all’arte come malia e lenocinio, «torniamo ai romanzi polizieschi», e a Stevenson loro precursore. Così lo spoglio di quattrocento poesie liriche partecipanti a un concorso farà giungere Brecht alla conclusione che sono tutte da buttar via mentre occorrerebbe ristampare un song che inneggia a un campione ciclista. Certo, alla pura esaltazione del disordine e della velocità, del giallo e dello sport, si accompagna ben presto il motivo dell’utilità di classe. Si veda ad esempio la parabola Lo scrittore, in cui questi viene paragonato a un medico che non deve accontentarsi di prescrivere medicine e dare istruzioni precise, ma deve fare una diagnosi esatta e volere la guarigione del paziente. «Non basta che uno sia medico, egli deve anche saper essere utile». È già una parabola degna di figurare nel Me-ti, e l’analogia con il medico mira forse all’amico Döblin, medico-scrittore, cui Brecht rimproverava, in un appunto di quegli anni (scritto peraltro prima di Berlin Alexanderplatz) di non fare «nulla che abbia rapporto con la vita». Ma resta il pericolo che anche la diagnosi utilitaria della società malata di capitalismo si trasformi a sua volta in una specie di arte per l’arte, in un arido virtuosismo come quello elogiato a proposito del giallo, e che bandendo ogni funzione catartica e consolatrice dell’arte anche il male della società si configuri come alcunché di cupamente e irrazionalmente fatale. È ciò che avverrà soprattutto nel Romanzo da tre soldi, in cui l’insistenza sull’analisi della ferocia del meccanismo sociale soffoca completamente l’inversione dialettica nell’utopia, come ha recentemente mostrato Franco Fortini in un bellissimo saggio1.

Se la concezione della società capitalista come una ferrea totalità del disumano poteva condurre a esiti statici proprio un teorico del mutamento e del «flusso delle cose», d’altra parte essa corrispondeva a un’esperienza reale che Brecht sentiva profondamente e che gli impediva di farsi illusioni sulla possibilità del recupero, propugnato da Lukács, del personaggio a tutto tondo. Gli scritti sul realismo sono la parte più importante di questo volume. L’origine immediata fu la polemica sull’espressionismo promossa dalla rivista «Das Wort» nel 1937-38, ma in realtà Brecht intendeva procedere alla resa dei conti con il suo vecchio avversario. Helga Gallas ha ricostruito con esattezza filologica, anche se con estrema parzialità d’interpretazione, le controversie che agitarono il campo degli scrittori comunisti intorno al 1930 durante la breve vita della rivista «Linkskurve»2, dimostrando che i due reali antagonisti furono Lukács e Brecht, anche se il secondo non intervenne direttamente in quanto Lukács se l’era presa, anziché con lui, con il suo compagno di strada Ottwalt. Nel 1937-38 Brecht restò di nuovo in ombra. Come spiegò a Benjamin, preferì non pubblicare i suoi attacchi a Lukács, sia perché considerava la sua «camarilla» troppo potente, essendo essa vicina alle concezioni ufficiali dello stalinismo, sia perché non voleva proclamare apertamente le proprie divergenze in un momento in cui era necessario mantenere l’unità degli intellettuali antifascisti. Ma questa volta egli scrisse molto, e questa polemica condotta per il cassetto si trascinò ancora per qualche anno. Essa gli serviva comunque a chiarire e difendere le proprie posizioni. Una volta pubblicata, essa costituì una delle più succulente novità degli inediti brechtiani, cadendo su un terreno particolarmente propizio poiché la stella di Lukács era in declino mentre si moltiplicavano i tentativi di riformulare un’estetica marxista fondandola su Brecht e Benjamin3.

Alcuni di questi scritti sono piccoli capolavori di arte polemica. La tecnica usata è quella della ritorsione verbale, in cui era stato maestro Karl Kraus. Lukács contrappone il realismo al formalismo, di cui accusa Brecht? Si tratterà di applicare a lui questa etichetta, in quanto fa coincidere il realismo con una determinata forma narrativa, quella del romanzo ottocentesco. Lukács parla di «capitolazione» degli scrittori d’avanguardia di fronte al capitalismo e della necessità di «superare» questi «residui»? Ed ecco che Brecht scrive in stile pseudolukacsiano: «Ciò che rende insoddisfacenti i lavori di Lukács, che pure contengono tante cose interessanti, è il momento della capitolazione, della ritirata… che egli certamente supererà». Lukács parla dell’«ampiezza e varietà» della vita rispecchiata dai classici (Brecht si fa spesso beffe, anche nei diari recentemente pubblicati, dell’abuso lukacsiano dei termini «vita», «vivente» ecc.), e Brecht intitola un saggio Ampiezza e varietà dello stile realistico. Il più compendioso, forse il migliore degli scritti antilukacsiani, I saggi di Georg Lukács, è tutto condotto sul filo dell’ironia. Nella prima metà, Brecht finge di condividere la critica lukacsiana della letteratura d’avanguardia mentre in realtà l’esposizione che egli ne dà è l’esposizione delle sue stesse teorie: gli scrittori «sembrano dare all’uomo minor rilievo, lo spingono a corsa folle attraverso gli avvenimenti, trattano la sua vita interiore come quantité négligeable»; essi «si adeguano ai “progressi” della fisica», abbandonando la causalità univoca per quella di tipo statistico e «dispongono perfino del principio d’indeterminazione di Schrodinger, a modo loro». Brecht dichiara ipocritamente che «si può certo essere d’accordo con Lukács con tutte queste constatazioni e sottoscrivere la sua protesta». Ma siccome queste constatazioni sono quello che Brecht considera l’imprescindibile presupposto di ogni ricerca attuale, la «parte positiva, costruttiva, normativa di Lukács», cui egli ora si rivolge, appare del tutto velleitaria e idealistica. Lukács vorrebbe che lo scrittore, tornando «agli antichi maestri», reintroducesse la causalità, frenasse la velocità degli avvenimenti, spingesse di nuovo il singolo al centro di questi avvenimenti ecc. Vorrebbe cioè qualche cosa di impossibile, mentre occorre anzi spingere avanti il processo, integrare l’uomo nella massa, la quale «si libererà della sua disumanità, e in tal modo l’uomo ridiventerà uomo (un uomo diverso da prima)». E Brecht inserisce qui il suo famoso monito, citato anche da Benjamin, di non riallacciarsi «alla bontà del vecchio ma alla cattiveria del nuovo».

È chiaro che, facendo di Lukács un semplice predicatore del vecchio, Brecht ne semplificava indebitamente il pensiero, espungendone la motivazione storico-sociale. Lukács non si limitava a additare gli «antichi maestri» (anche questo un termine più brechtiano che lukacsiano) perché erano grandi, ma ne spiegava la grandezza con la costellazione storica della borghesia in ascesa e vedeva nella prospettiva socialista la possibilità di recuperare in forme analoghe – ma non necessariamente identiche – quella fiducia nell’uomo che la «decadenza» borghese postquarantottesca aveva ottenebrato. Che questo in pratica accadesse assai di rado – in Thomas Mann, in alcuni pochi realisti socialisti salvati da Lukács –, non preoccupava minimamente il pensatore ungherese, che pensava in tempi lunghi, né era ragione sufficiente per tacciarlo di idealismo. Per intendere i motivi più profondi del conflitto bisogna abbandonare il campo delle idee estetiche per rifarsi alle opposte concezioni delle prospettive rivoluzionarie che vi soggiacevano. Le teorie di Lukács erano l’espressione, quanto mai coerente, della politica del fronte popolare antifascista e della continuità tra rivoluzione borghese e proletaria; quella di Brecht l’espressione, non meno coerente, della ripulsa totale della borghesia e dei suoi valori. Nel famoso discorso al I Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, già fatto conoscere in Italia da Franco Fortini e riportato in questo volume, Brecht aveva preso esplicitamente posizione contro l’ipotesi che si potesse dissociare la difesa dell’umanità contro il fascismo dalla lotta per il mutamento dei rapporti di proprietà. Se anche dovette poi piegarsi a compromessi per opportunità politica, nella sostanza rimase fedele a queste posizioni, che alla lunga dovevano rivelarsi giuste. Sta qui la forza del suo discorso aniilukacsiano. Là dove Lukács vedeva dischiudersi, inaugurato dall’unità antifascista, un periodo in cui lo scorpione del capitalismo avrebbe ceduto gran parte del suo veleno e la collaborazione con la borghesia democratica avrebbe permesso l’estensione e il rafforzamento del campo socialista, Brecht si atteneva alla realtà dei sensi che gli attestava l’onnipotenza e la ferocia del capitalismo e l’impossibilità di rovesciarlo se non attraverso una trasformazione rivoluzionaria. Nel primo caso lo scrittore avrebbe dovuto riflettere e «configurare in destini individuali» quel processo, nel secondo caso avrebbe dovuto escogitare nuovi mezzi per ridestare la coscienza di classe: non contrapporre al caos del capitalismo le armonie della ragione, che si sarebbe affermata «nonostante tutto», ma scorgere in essi il terreno naturale su cui si andava formando l’antitesi che avrebbe portato al nuovo ordine.

Certo, questo implicava un’accettazione iniziale della ferocia capitalistica che in taluni casi, come quello appunto del Romanzo da tre soldi, poteva rischiare di diventare fine a se stessa. Preso astrattamente, il postulato per cui occorre «spingere avanti» il processo capitalistico, aumentare la velocità, dissolvere sempre di più l’individuo, rimane alquanto generico, poiché non si vede il punto in cui avrà luogo l’inversione dialettica. «Non si tratta di demolire la tecnica, bensì di svilupparla», si dice alla fine di I saggi di Georg Lukács. Ma queste massime apodittiche non sono molto diverse dal «mormorio» in cui secondo Brecht si perdono «le modalità di esecuzione» del programma di Lukács. Per fortuna, Brecht non si limitava alle massime, ma dava dei «modelli» effettivi. Non solo quello teatrale e quello lirico (qui esposto nel notevole saggio Sulla lirica non rimata con ritmi irregolari). Questo volume ne contiene altri due, entrambi di estremo interesse. Il discorso ha radio come mezzo di comunicazione nella sua istanza di trasformare questo strumento «da mezzo di distribuzione in mezzo di comunicazione» è una delle più precoci e geniali analisi dei mass media, di un’attualità sconcertante in quanto anticipa sia le sconsolate constatazioni di Horkheimer-Adorno, sia le proposte alternative di un’appropriazione collettiva teorizzate ultimamente, per esempio, da Hans Magnus Enzensberger. Quanto al Processo da tre soldi, esso non si impone soltanto quantitativamente (è il più lungo del volume). Il titolo non è solo dovuto all’oggetto — il processo tra Brecht e la società produttrice del film desunto dall’Opera da tre soldi –, ma indica che si tratta di una vera e propria commedia della società borghese i cui protagonisti sono la sua amministrazione della giustizia e la sua concezione della produzione artistica. Anche qui sta al centro un nuovo mezzo di comunicazione, il film, con le sue potenzialità liberatrici e il suo asservimento al capitalismo. Come nel caso della radio, la conclusione di questo «esperimento sociologico» è che il nuovo mezzo non può sviluppare completamente quelle potenzialità all’interno del capitalismo, ma soltanto fornire ulteriori prove della necessità della sua soppressione. L’impasse in cui Brecht viene sempre a trovarsi è che il «cattivo nuovo» cui bisogna riallacciarsi non può diventare veramente buono se non mutano condizioni che sfuggono al controllo dell’artista. Ciò può rendere più indulgenti nei confronti di chi si appiglia alla «bontà del vecchio», e per esempio proclama che «il cinema ha bisogno dell’arte», mentre Brecht afferma giustamente che non ne ha bisogno, «a meno che non si crei una nuova concezione dell’arte stessa». A tale nuova concezione dell’arte come espressione non individuale ma collettiva, come superamento della separazione tra produttore e consumatore, Brecht ha dato dei contributi fondamentali nella teoria e nella prassi. Se questi contributi ebbero dei limiti ben precisi è perché il punto dell’inversione dialettica in cui il nuovo avrebbe perso ogni sua cattiveria si trovava al di là degli orizzonti raggiungibili, e al di qua il capitalismo continuava a premere e a deformare, trasformando la ricerca talora in compiacimento del cattivo, talora in predicazione astratta del buono, talora in gioco. Ma l’impasse non fu solo quella di Brecht; è anche, e a maggior ragione, la nostra.

1 Contenuto nel simposio Il romanzo tedesco del Novecento, Torino 1973.

2 Helga Gallas, Marxistische Literaturtheorie. Kontroversen im Bund proletarisch-revolutionärer Schriftsteller, Neuwied-Berlin 1971.

3 Tra le principali trattazioni dedicate alla controversia Brecht-Lukács ricordiamo: Werner Mittenzwei, Marxismus und Realismus. Die Brecht-Lukács-Debatte, in «Das Argument», n. 46, 1968 (pubblicato precedentemente in «Sinn und Form»); Klaus Völker, Brecht und Lukács. Analyse einer Meinungsverschiedenheit, n «Kursbuch», n. 7, 1966; Lothar Baier, Streit um den schwarzecn Kasten. Zur sogenannten Brecht-Lukács-Debatte, n «Text + Kritik», Sonderband Bertolt Brecht I, hrsg. v. H. L. Arnold, München 1972. Chi scrive si è occupato più estesamente della questione nell’introduzione alla parte estetica di un’antologia della critica su Lukács (Diskussion um Georg Lukács) n corso di pubblicazione presso l’editore Suhrkamp.

Il modello di un’arte-verità: Lukács 1933-1953

11 martedì Nov 2014

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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di Giuseppe Prestipino

in «Paradigmi. Rivista di critica filosofica». n. 12, 1986.

da Realismo e utopia, Editori Riuniti, Roma 2002.

«Da quando sono stato in grado di pensare», afferma Lukács ripercorrendo le vicende della propria vita, «io sono sempre stato contro il positivismo»1. In effetti, la critica del positivismo è uno dei motivi ricorrenti della sua riflessione, dagli esordi giovanili fino alla postuma Ontologia. E tuttavia, almeno fino a quando le grandi opere sistematiche della tarda maturità non avranno dipanato il contesto filosofico nel quale il suo realismo estetico tendeva a situarsi, il modello di un’arte e di una letteratura realista intrattiene in lui un rapporto piuttosto ambiguo con la tradizione del positivismo e del marxismo positivisteggiante.

Tra i molteplici vincoli di parentela con altre attività dell’uomo (arte e abilità artigiana, arte e impegno sociale, arte e devozione religiosa, arte e mondo magico, arte ed esercitazione linguistico-comunicativa, arte e scienza), la cultura del positivismo nella sua vocazione “scientista” aveva privilegiato l’affinità tra rappresentazione artistica e verità scientifica. Ho detto «la cultura del positivismo» perché quel concetto si ritrova, più che nelle teorizzazioni sull’arte dei filosofi di professione, in alcuni presupposti comuni a uomini di pensiero e di scienza, nelle poetiche di singoli artisti, romanzieri, autori o attori di opere teatrali e nel giudizio di fruitori e critici.

Il modello di un’arte-verità (scientifica), proposto dalla cultura del positivismo, rinviava a un’idea di scienza nella quale il dato di esperienza era — dalle teorie logiche, gnoseologiche ed epistemologiche del tempo — assunto come incondizionato, la raccolta dei dati era considerata operazione preliminare e il procedimento conoscitivo era fatto poggiare sull’induzione e sulla generalizzazione. Le generalità in tal modo ottenute erano vere di una verità che faceva tutt’uno con la asserita realtà dei dati empirici di base. (Era un’immagine della scienza molto distante da quella che noi oggi accogliamo, sulla scorta delle epistemologie post-positivistiche, o anche neo-positivistiche).

All’assolutezza delle basi empiriche, postulata nelle teorie della conoscenza scientifica, corrispondeva, nella concezione corrente dell’arte, il canone della “fedeltà” al reale, fino allo scrupoloso “rispecchiamento” della realtà stessa: dei comportamenti umani e del loro ambiente (naturalismo, verismo). Al procedere induttivo e generalizzante dell’indagine scientifica doveva corrispondere, nell’arte, una ricerca di tipizzazione in cui confluivano, assumendo nuovo significato, precedenti modelli di epoca classica (poetiche aristoteliche, commedia di caratteri ecc.). Tra il naturalismo descrittivo dei singoli comportamenti, nella loro ambientazione naturale o sociale, e la caratterizzazione generalizzante dei tipi permaneva, tuttavia, in linea di principio, una dualità irrisolta.

Lukács si convinse di averla risolta, facendo ricorso a uno strumentario categoriale mutuato dalla tradizione hegeliana: nel corso del ventennio 1933-1953 (dall’ascesa del nazismo in Germania alla morte di Stalin), il tipico in arte fu da lui concepito come mediazione e sintesi tra il singolare e l’universale, come quel “particolare” che, pur conservando i tratti della singolarità empirica, la innalza a universalità2 e che perciò esclude sia una resa superficialmente naturalistica, sia una pretesa purezza di forme astratte e comunque separate, semplicemente “allegoriche” nei confronti del sensibile3. Ma, in questo suo proposito antipositivista, Lukács si discostò da Hegel e recepì, suo malgrado, alcuni elementi della stessa cultura positivistica.

Si discostò da Hegel perché respinse la nozione di arte come conoscenza incompiuta, come rappresentazione dell’idea nella quale la forma sensibile costituisse sì una dote originale, ma anche un limite che dovesse essere oltrepassato o superato dal sapere assoluto, dalla scientificità insuperata dello stesso filosofare. Il valore conoscitivo, il valore di verità, nell’arte fu da lui giudicato uguale o maggiore che nella scienza o nella filosofia4 (almeno finché non intraprese la stesura della grande Estetica della tarda maturità). D’altra parte, nel rinviare il valore di verità dell’arte a un mondo situato “fuori” rispetto all’arte stessa, a una folla di esperienze oggettivamente date, fedelmente raccolte e realisticamente tipizzate, quindi nel ricondurre a un modello in qualche modo “scientista” anche la produzione artistica, egli si avvicinò inconsapevolmente all’aborrito positivismo.

Ma, come accennavo, il nesso arte-scienza (la cui emergenza è incontestabile, specie nell’età contemporanea) è uno dei nessi dell’arte, non il solo né il più autentico. Peraltro, l’arte contemporanea, pur rinunciando alla pretesa di superare il potere conoscitivo della scienza sullo stesso terreno della scienza, tende a “simulare” non una, ma diverse e successive modalità del fare scienza: ad esempio, quelle che celebrano la priorità epistemologica dell’astrazione, o della convenzione costruttivistica, della prefigurazione modellistica, o quelle che tendono a formalizzare e a concettualizzare entità fisiche o psichiche, rispettivamente, sub-sensibili o sub-conscie. Nel rapportarsi alle ideazioni e alle procedure della scienza, in breve, l’arte contemporanea guarda alle scienze e alle metodologie scientifiche quali si sono configurate dopo la fase positivistica.

Lukács non comprese appieno i nuovi indirizzi della scienza contemporanea e accreditò implicitamente un modello di scienza induttiva e generalizzante derivato da quella metodologia positivistica che aveva sempre respinto con risolutezza in sede teorica, senza riuscire a contrapporle una metodologia e una gnoseologia radicalmente diverse, anzi ostinandosi a bandire la gnoseologia in quanto tale dal novero delle discipline filosofiche rigorosamente fondate in senso storico-materialistico. Perciò non comprese che le avanguardie artistiche e letterarie perseguivano forse un “realismo” più adeguato5 ai percorsi sperimentati nel nostro secolo dal sapere in generale e dalla conoscenza scientifica in particolare. Combatté gli esponenti delle avanguardie perché, a suo giudizio, la loro «angoscia come affetto dominante», lungi dal testimoniare, con strumenti nuovi di conoscenza, il «caos» regnante nella società contemporanea, sarebbe soltanto l’«espressione emotiva» di una «incapacità di scorgere le leggi e la direzione dello sviluppo sociale», sottostanti al presunto «caos»6.

Dobbiamo constatare, d’altronde, che gli oppositori marxisti di Lukács, a loro volta, non riuscirono a dare una giustificazione efficace del favore accordato agli esperimenti dell’avanguardia artistica, musicale, letteraria, teatrale, e quindi non giunsero a scalfire, nello stesso Lukács, la sua radicata convinzione antimodernista. Proposero infatti una giustificazione essenzialmente sociologica dell’avanguardia; ossia privilegiarono il nesso arte-società anche in situazioni nelle quali quel nesso era piuttosto debole o problematico. Interpretarono i fenomeni artistici contemporanei in chiave di trascrizione simbolica (“allegorica”, secondo Lukács) del presunto decomporsi, disgregarsi, frantumarsi della società borghese. Più avvertiti, Bloch, Adorno, Brecht7 e altri ravvisarono nella perdita di senso del mondo borghese, e nella sua incapacità di ricreare una unità sensata del reale, la legittimità delle operazioni di un «montaggio» surrealistico, espressionistico, costruttivistico, o astrattizzante, dodecafonico-seriale, monologante e interiorizzante, o infine epico-estraniante. Giudicarono poco rilevanti le assonanze tra esperienze artistiche e nuove modalità della prassi lavorativa o tra elaborazioni artistiche e nuovi orizzonti dell’indagine scientifica: assonanze sulle quali avevano, invece, posto l’accento in vario modo il formalismo, il costruttivismo e il futurismo russo negli anni venti8, prima di essere travolti dall’azione discorde, ma oggettivamente convergente, del Proletkult e del realismo imposto dall’ortodossia stalinista. L’avversione all’«intelletto illuministico», alle «correnti fredde» del pensiero e alla ragione calcolatrice fu ben più tenace in loro che nel giovane Lukács. In ciò furono anch’essi, fatta eccezione per Benjamin, “antimodernisti”. Sfuggì alla loro osservazione una delle motivazioni significative dell’avanguardia contemporanea; perciò la loro risposta al realismo di Lukács, dicevo, fu meno efficace.

1. — Ripercorriamo brevemente le prime tappe dell’itinerario di Lukács. A suggerirgli il ripudio delle proprie opere giovanili fu il fanatismo del convertito a una fede missionaria? O la sottomissione ipocrita all’ortodossia politica? O il presunto inaridirsi di ogni originalità in un uomo intento alla «distruzione della propria ragione», secondo i sarcasmi feroci di Adorno? Le prove, in favore o contro simili ipotesi, sono solitamente ricercate nelle opere della maturità. È ormai tempo di rovesciare il procedimento dell’accusa, o della difesa, e di interrogare gli scritti e le testimonianze degli anni di gioventù. La vicenda della valigia di Heidelberg contenente più di 1600 lettere e appunti, che Lukács depositò il 7 novembre 1917 nella Deutsche Bank e poi dimenticò per sempre, ci svela forse implicitamente una congenita e originaria vocazione che quelle stesse lettere giovanili ora attestano in modo esplicito: la vocazione ad abolire e obliterare, in uno con la propria «vita vissuta», i «pensieri pensati» e perciò da lui sentiti come inattuali ed estranei.

L’Epistolario 1902-1917 di György Lukács, a cura di E. Karádi e E. Fekete è disponibile per il lettore italiano dal 19849. L’edizione italiana, che riproduce quella tedesca (Briefwechsel 1902-1917)10, è più ricca di quella francese (Correspondance de jeunesse)11 e, per certi aspetti, di quella ungherese. Il volume, comprende anche missive di Bloch, Jaspers, Simmel, Weber, Polányi, Balázs e altri, inserendosi così in un più ampio interesse editoriale per incontri e vicende personali di protagonisti della cultura novecentesca: si vedano ad esempio la ricostruzione storico-critica di Mary Gluck (Georg Lukács and his generation)12, la raccolta Ernst Bloch und Georg Lukács. Documente zum 100. Geburtstag13 e i due volumi Ernst Bloch Briefe 1903-197514.

In una lettera del novembre 1908, scritta e non spedita a Irma Seidler, Lukács preannuncia il suicidio. Lo preannuncia, non lo mette in atto (Irma, invece, si toglierà la vita davvero, senza darne preavviso). Quel mancato «suicidio» assume il valore di una prima ricusazione letteraria del proprio passato: la prima di una lunga serie. È vero che nella lettera egli mostra di non dubitare delle sue idee; che, anzi, si compiace, con ingenuo narcisismo, del «prevedibile riconoscimento delle [sue] idee più grandi da parte di grandi uomini di scienza». Ma altre lettere, scritte — e spedite — a vari interlocutori e amici (soprattutto al sensibile e fedele Leo Popper), ci illuminano sulla precarietà che egli via via avverte nei risultati della sua ricerca giovanile.

La sete di giudizi encomiastici tradisce un sentimento, insieme, di solitudine e di insicurezza intellettuale. Nell’aprile 1909 afferma di aver «gradito indicibilmente» le parole scrittegli da una donna: «non abbiate riguardo per le donne […]. Noi non stiamo lì a fare da ostacoli, ma da gradini attraverso cui gli uomini salgono più in alto» (affermazioni che oggi ci farebbero inorridire). Più tardi, la solitudine gli appare come uno stato che «si ottiene solamente attraverso e dopo i più profondi sentimenti di appartenenza» (1911). Ma «le cose realmente importanti accadono quando si è soli». Arte e vita (il pensato e il vissuto) sono mondi separati: in ciò trova la sua giustificazione anche l’egocentrismo di colui che ha scelto, come sua missione, il lavoro intellettuale e, perciò, paga il prezzo di un’esistenza dimidiata, priva di affetti.

Nell’ottobre 1909, difendendosi dalla ricorrente accusa di oscurità, dichiara: «i nostri contenuti non sono comunicabili»; solo la forma «può suggerire all’ascoltatore parimenti dei contenuti»; la forma è unitaria in quanto è unilaterale (o «unimateriale»), Leo Popper gli fa eco: la forma è destino, poiché è l’unico ponte tra le anime. La forma, scrive nel luglio 1911, è estranea alla vita perché gli elementi che vengono a conflitto nella vita non sono mai tra loro omogenei: avvertiamo, qui, l’eco delle categorie estetiche di Fiedler, la cui «logica del visibile» è pensata, scrive Weber a Lukács nel marzo 1913, come un «qualcosa di sovra-vissuto». Del resto, sostiene Lukács, il suo primo e più organico lavoro giovanile tratta della forma drammatica perché essa rinuncia a «descrivere» i contenuti e si limita a «stilizzare» il mondo. Anche Kant e Simmel lo confortano in questa opinione.

Le metafisiche razionalistiche si illudono di poter «vedere, sentire, vivere come unità il molteplice, il qualitativamente diverso e incommensurabile». In realtà, unificano un mondo già (da esse, aprioristicamente) unificato. «La filosofia razionalistica è perciò arte inconsapevole», egli afferma nel dicembre 1910. Lo stile «saggistico» è invece, per lui, il «tentativo» di una filosofia che sa i propri limiti e, facendosi critica d’arte, si libera per metà di quella inconsapevolezza. È una tappa, a mezza strada nel cammino che conduce alla «vera» filosofia; ed è, per altro verso, l’autocritica (della filosofia) come sola filosofia possibile. Del resto, la «forte affinità della filosofia con la critica» è sottolineata ancora in una lettera indirizzatagli da Mannheim nel 1912 e di quella affinità, come è noto, negli stessi anni, Croce elabora la sistematica, pur senza indulgere alle commistioni stilistiche tra le «distinte» forme della teoresi concettuale e dell’arte (Croce e la cultura italiana, specie di tendenza «attivistica», suscitano qualche interesse nel giovane Lukács, che rievoca più volte i suoi soggiorni fiorentini).

Ed ecco il senso della caducità di tutta la produzione giovanile: «credo che il Philippe sia stato l’ultimo saggio “anima e forme”. Adesso viene la “scienza”, lentamente. E viene forse, come indennizzo per l’abbandonato lirismo, la vera metafisica. Ma anch’essa lentamente. Comunque avrò la pazienza d’aspettare» (ottobre 1910). Nel settembre 1912 dirà del suo L’anima e le forme, libro-simbolo del «periodo che si usa chiamare giovinezza»: «In realtà per questo libro, che probabilmente è meno di un inizio, non dovrei sperare di essere compreso, e certo non potrei esigerlo (come può pretendere un atto dello spirito che sia oggettivo, conchiuso). È infatti pieno di sapere intuitivo su ciò che (per me) verrà, di pensieri la cui via e meta solo ora — quando il tutto e la sua forma mi sono divenuti assolutamente estranei — vanno diventando chiare».

Qual è la «meta»? L’Estetica di Heidelberg, sua prima e ancora malcerta opera sistematica, non è solo una prova suggeritagli da opportunità accademiche, secondo i consigli di Emil Lask trasmessigli da Weber nel 1916. Infatti, nella lettera-saggio a F. Bertaux del marzo 1913, ripensando alle tradizioni della grande cultura tedesca, egli ha già concepito una rinnovata fiducia nel prossimo ridestarsi della «volontà di sistema», dopo le prove fornite da una «saggistica» certo «raffinata», ma inappagante.

2. — Nella sua intervista autobiografica (Pensiero vissuto), il vecchio Lukács offre chiari esempi di una tendenza all’autocritica a lui congeniale anche quando non vi è costretto da pressioni politiche. Della sua trattazione giovanile sul dramma moderno, ispirato alla filosofia simmeliana, disapprova l’accento posto sul carattere sociale dell’arte. Di L’anima e le forme, scritto in ungherese e poi, fra il 1910 e il 1911, da lui stesso tradotto in tedesco, deplora lo stile «fortemente manierato e […] anche inaccettabile». Ammette di avere ricevuto da Weber (e da Kant) le maggiori suggestioni per la propria estetica giovanile, nella quale, tuttavia, gli sembrano ancora «parzialmente» valide una prima, embrionale problematica ontologica15 e le affermazioni che si riferivano al «medium omogeneo della qualità in arte»16.

Nel primo dei due manoscritti di cui la sua estetica di Heidelberg si compone, quello che nella traduzione italiana reca il titolo Filosofia dell’arte (1912-1914), Lukács scriveva che la stilizzazione propria dell’opera d’arte consiste in «una esagerazione contraddittoria e in una negazione altrettanto contraddittoria del dato individuale»17. Ne desumeva una sorta di primato dell’arte, tra le attività spirituali. In essa «si realizza ciò che alle altre espressioni umane viene negato», o accordato in maniera dubbia. L’arte soltanto riesce a eliminare «sia ciò che è astratto sia l’elemento esclusivamente personale, e l’assoluta unità di Individuale e Superindividuale sembra così raggiunta grazie alla conciliazione dei contrari, alla coincidentia oppositorum»18.

Queste enunciazioni si collocano, certamente, sulla linea di continuità tra il giovane Lukács e il Lukács maturo posta in luce soprattutto da Tertulian19. Esse offrivano una base filosofica generale al concetto estetico, che Lukács aveva derivato da Fiedler, del carattere unisensoriale della raffigurazione artistica autentica. Con l’affidarsi a un solo organo di senso, o a una sola qualità sensoriale, l’artista non sopprime, anzi intensifica l’esperienza dell’eterogeneo (delle differenti, individuate datità)20. Esperire artisticamente è scegliere un «“punto di vista” omogeneizzante», fare del «mezzo» sensoriale prescelto (ad esempio, il colore nella pittura) una diretta esperienza e, insieme, un «simbolo» capace di esprimere univocamente e unitariamente altre esperienze accostate per via indiretta (ad esempio, il peso, la materialità ecc.)21. Nel genere tragico, peraltro, il “punto di vista” essenziale non è offerto da una qualità sensibile, ma dalla considerazione della morte come l’approdo verso il quale appare proteso ogni istante della nostra vita e senza il quale la vita stessa sarebbe intollerabile: già nella sua prima opera, Storia dello sviluppo del dramma moderno, si era affacciato in chiave sociologica (l’epoca del dramma è l’epoca eroica della decadenza di una classe, del suo tramonto)22 quel concetto che, in un saggio di L’anima e le forme («Metafisica della tragedia») e poi nella stessa Filosofia dell’arte23, si sarebbe ripresentato come meditazione sull’esistenza individuale, anticipando le riflessioni heideggeriane24.

Nel secondo manoscritto, al quale il traduttore italiano ha dato il titolo Estetica di Heidelberg (1916-1918), il procedimento fiedleriano dell’isolare un determinato oggetto, o meglio un “punto di vista’ su di esso, era descritto in termini husserliani, come una fenomenologica «riduzione omogenea» che «mette in parentesi» gli altri oggetti o modi di esperienza25. Vedremo in seguito le tappe salienti della riflessione di Lukács sulle potenzialità rivelative e veritative del «punto di vista», da lui interpretato, nelle opere della maturità, dapprima come un prendere partito per la classe sociale in ascesa — conseguendo perciò una visione adeguata della realtà nel suo movimento storicamente oggettivo26 —, infine come un prefigurare l’unità del genere umano: conseguendo perciò la dispiegata autocoscienza che ci dischiuda la comprensione piena del movimento reale. Quest’ultima interpretazione del «punto vista» si riannoderà, nella grande Estetica, alla tesi giovanile che ravvisava nell’arte la felice assunzione della «realtà empirica» nella «sua possibilità utopica»27.

3. — Dopo il 1917 Lukács abbandonò per qualche tempo le questioni estetiche per i problemi «etici» in senso lato: o etici in quanto politici; così egli stesso ci presenta la “svolta”, nei suoi ricordi autobiografici28. A partire da Tattica e etica (1919) e da Storia e coscienza di classe (1923) fino alle Tesi di Blum (1928), la sua riflessione cercò di rispondere, sul terreno dei rapporti tra etica e politica, a un’esigenza teorica che, negli anni precedenti, come abbiamo visto, gli si era affacciata sul terreno estetico: l’esigenza di coniugare la realtà effettuale ed empirica con la normatività del valore, riscattando le angustie o le asprezze della prima e concretizzando l’astrattezza della seconda. La saldatura era stata sperimentata nel rapporto tra organizzazione e coscienza di classe29. Anche il nesso guerra-rivoluzione gli appariva esemplare: la possibilità di abbattere il capitalismo nel fuoco della guerra si era realizzata attraverso una vicenda che dalla lotta intransigente, ma isolata, di Liebknecht era culminata nel realismo rivoluzionario e risolutore di Lenin30.

Il divorzio tra i fatti e i valori, familiare anche alla scuola neokantiana, sotto la cui influenza egli stesso si era formato31, gli appare in seguito, sempre di più, un destino della cultura borghese che la prima guerra mondiale, l’avvento del fascismo e infine il secondo conflitto mondiale avrebbero reso tangibile e oltremodo temibile. A giudizio di Lukács, l’assolutismo positivistico dei nudi fatti32 si era rovesciato nel suo contrario apparente, ossia nell’esaltazione irrazionalistica o mistica33 di valori trascendenti e assoluti, per ripiegare infine di nuovo sul terreno (neo) positivistico, quando gli orrori della seconda guerra mondiale e la caduta del fascismo avrebbero reso ormai improponibili le filosofie apertamente irrazionalistiche34. Dirà molto più tardi, riferendosi ai misfatti dello stalinismo e alla sua sopravvivenza, che l’«irruzione neopositivistica nel marxismo attuale deve essere messa in rapporto con il predominio dei principi tattici sui principi teorici»35.

È questa, ritengo, la ragione etica e teorica più profonda (al di là del proposito contingente di facilitare un’intesa con la tradizione migliore del razionalismo borghese, durante la guerra di liberazione antifascista) del rifiuto che Lukács oppone alla perentoria antitesi zdanoviana tra materialismo e idealismo; antitesi che gli appare, verosimilmente, viziata dello stesso errore imputabile alla cultura positivistica, quando aveva nutrito la tragica illusione di poter sancire una separazione radicale tra i fatti e i valori. A giudizio dell’ultimo Lukács, l’assenza di mediazioni concrete caratterizzerà le tendenze deteriori da lui avversate nei campi più diversi: volgarmarxismo, economicismo, utopismo etico, “proletkult”, settarismo, schematismo, naturalismo, romanticismo rivoluzionario (come variante del simbolismo), volontarismo, soggettivismo, stalinismo, ecc.36.

Il proposito di invalidare l’esclusività dell’alternativa zdanoviana tra materialismo e idealismo e di contrapporle quella, resa particolarmente attuale dalle vicende storiche, tra razionalismo e irrazionalismo è, tra gli altri, un motivo ispiratore di La distruzione della ragione, scritta in gran parte durante la guerra e conclusa negli anni cinquanta37. L’intenzione antizdanoviana, che circola tra le righe dell’opera, non basta certo ad assolverla dalla rigidità e dallo schematismo con cui vi si condannano i più diversi orientamenti di pensiero. Tuttavia, in quegli anni, non dimentichiamolo, anche uno studioso come Cassirer lascia da parte il distacco accademico e mette sotto accusa correnti culturali diverse perché avrebbero preparato il terreno al dilagare della barbarie38; e similmente Popper traccia un confine perentorio tra razionalismo e irrazionalismo, assegnando tuttavia a quest’ultimo anche la ragione storica di Hegel e di Marx e spianando davvero la strada, in tal modo, all’odierno “neo-irrazionalismo” generalizzato: che cosa resta, infatti, al dominio della ragione se le è sottratto il mondo storico?

In una prospettiva storica ormai distanziata e diversificata, accade oggi ad alcuni studiosi di spiegare e di comprendere, se non anche di accettare, la visione provocatoriamente antidemocratica del grande Nietzsche, il filonazismo di Heidegger e di Carl Schmitt, il fascismo di Giovanni Gentile; e di giudicare invece con il metro della più rigida censura moraleggiante lo stalinismo (peraltro incongruo e contraddittorio) professato da Lukács negli anni trenta e quaranta. Eppure, tra coloro che infieriscono con particolare severità su Lukács, più d’uno potrebbe sedere sul banco degli accusati. Un libro di George Labica39 si apre con il motto felicemente derisorio

j’étais stalinien

Anonyme du XXe siècle

Anch’io vorrei, come Labica, che l’anonimo uscisse dall’anonimato. Lo ritroveremmo forse tra coloro il cui sano sdegno antidogmatico si esprime pur sempre con accenti dogmatici e persino fanatici. E potremmo fargli osservare come, nel suo antistalinismo di oggi, egli sia incapace di rendere (storicamente) giustizia ad alcune ragioni del proprio stalinismo di ieri. L’adesione di grandi personalità rappresentative della cultura europea e mondiale, che guardarono alla Russia di Stalin come all’alba travagliata di una nuova storia, non sarebbe comprensibile senza una qualche loro apprensione della drammatica necessità di una diga forte contro l’irruzione barbarica del nazismo. Perché, dunque, tra tanti intellettuali che condivisero allora quella scelta, soltanto Lukács è oggi obliato o, implacabilmente, sotto accusa? A me pare che la peculiare “sfortuna” di Lukács derivi dal fatto che egli solo, tra i grandi della cultura occidentale, fu laudatore di Stalin e, insieme, “inattuale” pensatore “hegelo-marxista” (Della Volpe, ad esempio, non lo fu); fu ossequiente allo stalinismo e insieme tenace avversario dell’«irrazionalismo» (tale non fu certo Ernst Bloch); fu “stalinista” e insieme antimodernista sul terreno estetico-artistico (Brecht, Eluard, Aragon, Neruda, Picasso furono in varia misura partecipi dei movimenti di avanguardia); infine, nessun altro grande intellettuale fu quanto lui condizionato, nella vita e nel pensiero, dalla disciplina di partito.

La condanna del Lukács apologeta di Stalin accomuna ed esaspera le condanne che gli vengono inflitte, a seconda degli accusatori, ora per la sua “partiticità”, ora per il suo realismo estetico, ora per la sua opzione razionalistica in filosofia, ora per la sua lettura ontologico-materialistica di Marx, ora per un marxismo che in lui si proclama ancora «erede della filosofia classica tedesca»: ossia per i molteplici aspetti che lo fanno apparire, alla maggior parte dei critici odierni, inattuale o superato e degno, appunto, di oblio. Le diverse e convergenti reiezioni o incriminazioni fanno ormai di Lukács, per così dire, un capro espiatorio dalle molte teste da recidere tutte insieme.

4. — Ritorniamo al pensiero estetico di Lukács e osserviamolo sin dagli inizi del suo periodo “staliniano”. Negli anni trenta, quando Stalin decide di ridimensionare la statura teorica di Plechanov, negandone la funzione mediatrice sulla linea Marx-Lenin, Lukács crede di poter cogliere in quell’operazione un intento antipositivistico e perciò di potere più facilmente condividere un generico orientamento staliniano40.Per inciso: in un’illusione analoga cadde, per poco, il Gramsci anti-buchariniano. In accordo con Lifsič, Lukács critica allora gli imprestiti di Plechanov dal positivismo francese, e quelli di Mehring dal kantismo e da Schiller, sostenendo che l’estetica in Marx è parte integrante e originale del suo sistema di pensiero.

Ma a Stalin le questioni estetiche e letterarie in quanto tali non interessano. D’altra parte, contro l’imperversare, all’ombra del suo potere, di opere piattamente propagandistiche, Lukács e la Usievič cercano, negli anni della repressione più acuta, di valorizzare la lettera (solo allora rinvenuta) che Engels aveva indirizzato a Miss E. Harkness nell’aprile 1888 sulla questione Balzac. La lettera suggerisce, come è noto, che a cattive ideologie può corrispondere una capacità artistica eccellente e la Usievič se ne serve (sulla Literaturnyi kritik, alla quale entrambi collaborano) per attaccare coloro che, viceversa, professano l’ideologia politica “buona”, ma producono pessima poesia e pessima letteratura. Malgrado l’asprezza dei suoi attacchi, la Usievič non finisce in carcere, farà notare Lukács41. Con la sua scelta in favore del realismo in arte, egli rifiuta, in sostanza, il criterio esplicitamente politico-propagandistico con cui la critica “ufficiale” pretende giudicare le opere degli artisti o degli scrittori e rifiuta le preferenze, implicite forse nello stesso Stalin, per un naturalismo letterario imparentato con un “romanticismo rivoluzionario”: il romanticismo è, secondo Lukács, la «cattiva coscienza del naturalismo»42.

Negli anni trenta e quaranta, il suo prevalente interesse per gli studi di estetica e per la saggistica critico-letteraria non rappresenta una fuga dalle esigenze teorico-filosofiche ed etico-politiche. Sono ormai note le nuove basi «ontologiche» di una riflessione estetica nutrita, dopo il 1930, dai riscoperti Manoscritti marxiani del 1844 e confortata dal sodalizio con Lifsič, che peraltro incoraggia in Lukács le tendenze antimoderniste43. La conoscenza della lettera di Engels sul caso Balzac, la rimeditazione degli spunti di Lenin a proposito di Tolstoj o di Gorkij e le altre occasioni che, tra il 1932 e il ‘33, lo inducono a riflettere su «Feuerbach e la letteratura tedesca» sono momenti essenziali attraverso i quali si va delineando la sua nuova concezione del realismo in letteratura. In questi anni, tuttavia, la sua battaglia critica è, in prevalenza, difensiva: la rivalutazione di un certo “positivismo sano”, adombrato da Feuerbach e presente sia nel vecchio Engels, sia in alcuni giudizi di Lenin, gli appare, per così dire, operazione necessaria a fronteggiare il positivismo torbido e il sensualismo decadente della letteratura borghese, ormai divenuta preda di richiami “irrazionalistici”.

Feuerbach aveva sostenuto, nei Principi di filosofia dell’avvenire, che oggetto dell’arte è il sensibile: «L’arte rappresenta la verità di ciò che è sensibile». Ma il difetto di Feuerbach e di coloro che a lui si richiamano nella cultura tedesca, afferma Lukács riecheggiando le Glosse marxiane e l’opuscolo engelsiano sulla filosofia classica tedesca, consiste nel trascurare lo sviluppo, la storicità dello stesso mondo sensibile umano. Dalle sensazioni, come fondamento esclusivo e destoricizzato di conoscenza, si può concludere anche all’idealismo e al solipsismo: è questo, sappiamo, un motivo ricorrente nella successiva polemica di Lukács contro il neo-positivismo, per l’inclinazione di quest’ultimo a volgere verso conclusioni idealistiche le premesse gnoseologiche dei primi indirizzi ottocenteschi, che avevano privilegiato l’apparenza sensibile. Nel sensualismo e nell’antropologismo feuerbachiani di Richard Wagner, ad esempio, si insinuava una versione idealistica che avrebbe, in campo artistico e letterario, condotto al decadentismo44. Si noti, a tal proposito, che Wagner rifiutava di fatto le tesi fiedleriane-lukacsiane sul «medium omogeneo» come superiore intervento cognitivo e fidava invece nel conglomerarsi dei diversi ingredienti sensoriali e rappresentativi che concorrono al suo «dramma totale». Secondo Lukács, il “realismo” artistico che sorge sulla base del sensualismo gnoseologico è, nel migliore dei casi, «una riproduzione esatta dei dettagli superficiali il cui nesso reale rimane sconosciuto»45.

Un primo paradosso del realismo estetico era affiorato proprio in Feuerbach, quando aveva detto che l’arte, da un lato, «rappresenta la verità di ciò che è sensibile» e, dall’altro, si differenzia dalla religione perché «non esige che si riconoscano le sue opere come realtà»46. Il paradosso di un realismo che non pretenda alcuna realtà per le sue opere (per gli oggetti o eventi immaginati ed esibiti) non sussiste più se, con Lukács e contro il naturalismo, diciamo che non sono reali, nell’arte, le singolarità di volta in volta individuate sensibilmente; è reale l’essenza “tipica” — in quanto sintetica di singolarità e di universalità — che esse concorrono a formare47. Già la lettera di Engels a Miss Harkness suggeriva una tale soluzione: «Realismo significa, secondo il mio modo di vedere, a parte la fedeltà nei particolari, riproduzione fedele di caratteri tipici in circostanze tipiche»48 (il corsivo è mio: G. P.). I caratteri tipici erano per Engels, evidentemente, caratteri individuali in quanto sociali. E le circostanze tipiche? Erano l’“ambiente”, l’ambiente naturale in quanto sociale, nell’accezione latamente positivistica che sarà poi condivisa da Plechanov in concorde discordia con Taine? In Engels, vi era forse un’intenzione simile. Del resto, da un altro passo risulta che egli si accostava a Balzac per «imparare» i fatti economici e i rapporti sociali, per impararli meglio che dagli storici, dagli economisti ecc.49

Secondo Lukács, non solo i «particolari» possono discostarsi dalla fedeltà al reale (nel senso del realmente accaduto), ma anche i «caratteri» e le «circostanze». Gli uni e le altre debbono infatti sconfinare in quegli «estremi» che raramente è dato incontrare nella realtà quotidianamente esperibile: così egli si esprime nella relazione introduttiva50 del dibattito moscovita del 1934-35, recuperando in certo modo il valore della stilizzazione, dell’«esagerazione» e dell’intensificazione che si accompagnavano al mezzo omogeneo nella sua estetica giovanile. Nella stessa relazione, e nel saggio del 1935 scritto per la Literaturnaja enciklopedija, valuta positivamente anche il «realismo fantastico», da Rabelais e Cervantes a Swift e Voltaire, come stile che nasce, «da un lato, dalla visione utopica delle grandi forze dell’epoca e, dall’altro, dalla comparazione satirica del vecchio mondo in dissoluzione e di quello nuovo che sta nascendo»51. Le «circostanze» tipiche, inoltre, si precisano come un contesto che travalica il cosiddetto ambiente sociale già dato, che si apre alla prospettiva del movimento prefigurabile52, che accoglie lo sviluppo e la storicità, ossia le istanze fatte valere da Lukács nel saggio su Feuerbach del 1932-33.

La versione lukacsiana del rapporto caratteri-circostanze è più agevolmente intelligibile se si confrontano, come suggerisce Parkinson, due opere pur distanti l’una dall’altra nel tempo, oltre che per l’ispirazione: Teoria del romanzo (1916) e Il romanzo storico (1955). In Teoria del romanzo Lukács aveva distinto il dramma dal romanzo (o dalla «grande epica» in genere) in quanto avrebbero di mira il primo la «totalità intensiva», il secondo la «totalità estensiva». Nel Romanzo storico chiarisce che il dramma tende a isolare e accentuare i caratteri, mentre il romanzo (il romanzo in generale, non quello storico soltanto) suole porre in speciale rilievo i processi di cambiamento che investono il cosiddetto ambiente sociale. Perciò, rispetto a Walter Scott, Balzac è migliore autore di romanzi (storici): perché in lui anche il presente è storia.

Sviluppo e storicità chiamano in causa le scelte di prospettiva: cioè l’elemento soggettivo senza il quale non si darebbe rappresentazione realistica, e quindi oggettiva, delle tendenze storico-sociali. Ed eccoci di fronte a un secondo paradosso del realismo: un paradosso presente in Engels e poi negli scritti occasionali di Lenin sulla letteratura. Nella lettera già ricordata, Engels scriveva: «Quanto più nascoste rimangono le opinioni dell’autore e tanto meglio è per l’opera d’arte». L’affermazione si può intendere alla luce di un’altra lettera dello stesso Engels (del novembre 1885, indirizzata a Minna Kautsky), nella quale egli aveva spiegato che «la tendenza deve sorgere dalla situazione e dalla azione stessa senza che vi si faccia esplicitamente riferimento»53. La raccomandazione non è soltanto un invito alla cautela per lo scrittore di drammi o di romanzi che cerchi udienza presso «circoli borghesi». Senonché, nella missiva alla Harkness, il realismo «può manifestarsi anche a dispetto delle idee dell’autore» ed anzi il «maestro del realismo di gran lunga maggiore di tutti gli Zola del passato, del presente e dell’avvenire» è proprio quel Balzac che, appunto, fa «dispetto» alle proprie idee legittimiste purché «trionfi» il realismo nelle sue rappresentazioni del mondo borghese in ascesa54.

Lenin, dal canto suo, considerava insuperato e forse insuperabile il realismo di Tolstoj, benché (o perché?)55 il suo punto di vista fosse quello patriarcale, ingenuo, e per molti aspetti retrogrado, del mondo contadino. E anteponeva Gorkij a ogni altro scrittore schierato con il proletariato, considerandolo maestro di realismo benché (o perché?) professasse una concezione del reale dal suo estimatore giudicata erronea e viziata di idealismo «machista» e «otzovista». Del resto, Thomas Mann non è forse il narratore più apprezzato da Lukács, nonostante il (o a motivo del) suo conservatorismo illuminato? Il paradosso dell’autore (realista) è più testardo, a quanto pare, del «paradosso dell’attore».

L’assenza di partecipazione simpatetica agli sviluppi storico-sociali rappresentati non ne preclude dunque la rappresentazione veritiera; anzi, talora, la facilita. Nel secondo paradosso del realismo così formulato ritroviamo forse un’eco dell’idea regolativa, illuministica prima che positivistica, di un osservatore imparziale, distaccato dall’oggetto preso in esame (e il più distaccato non è proprio colui che si sente estraneo al mondo osservato?). Ma allora il «realismo socialista» sarebbe impossibile. Solo la strada del «realismo critico» sarebbe percorribile.

Il secondo paradosso del realismo ripropone il dualismo irrisolto tra fatto e valore solitamente denunciato da Lukács nella cultura positivistica. Sulla base degli orientamenti di politica culturale che risalgono a Lenin, ad esempio, il “fatto” da tenere nel debito conto sarebbe la tradizione nazionale della migliore letteratura russa precedente, o il tradizionalismo delle masse cui la nuova letteratura si rivolge, mentre il “valore” risiederebbe nei nuovi modelli di vita proposti dalla rivoluzione alle masse popolari. Ma quel fatto e quel valore, troppo rigidamente separati, si convertono l’uno nell’altro: il fatto della tradizione letteraria da conservare sarebbe la sua forma — il realismo, appunto, riguardato nei suoi canoni o valori formali —, mentre i valori della nuova società rivoluzionaria sarebbero nient’altro che “fatti”, ossia contenuti nuovi che l’artista proletario deve comunicare al suo pubblico.

Della dissociazione tra forma e contenuto, in vero, troviamo anche in Lukács un’eco episodica. Nella ricordata relazione del ‘34, si legge, a proposito dell’eredità borghese, che l’assimilazione e la rielaborazione critica di questo retaggio svolgono […] una funzione importantissima nella soluzione del problema della forma nell’attuale fase di sviluppo del romanzo del realismo socialista»56. Ma, nella premessa all’edizione italiana del 1955 del suo La letteratura sovietica, egli chiarirà che ai nuovi contenuti della letteratura socialista dovranno corrispondere «nuove forme»57. Una concezione più coerente e più avvertita del rapporto forma-contenuto si trova in Gramsci. V. Spinazzola ne ha suggerito una interpretazione in termini quasi lukacsiani: Gramsci, tra le «chiusure retrive del municipalismo» e le «false aperture del cosmopolitismo», proporrebbe una sua «categoria mediatrice»58 nel carattere «nazionale-popolare» dell’arte da lui auspicata. La forma “nazionale” conferirebbe particolarità e concretezza a contenuti la cui “popolarità”, nella letteratura di tutti i tempi, deriverebbe dalla scelta di temi universalmente umani, e perciò ovunque umanamente comprensibili. E Lukács, nel libro su Il giovane Hegel (1938), facendo eco agli Scritti teologici giovanili del filosofo di Stoccarda (e alla Einleitung marxiana del 1857), scrive: «l’arte più elevata dell’antichità classica, quella dei Sofocle e dei Fidia, è stata un’arte popolare, capace di commuovere tutta la nazione»59.

5. — Lukács cerca risposte che gli consentano di uscire indenne da quel che ho chiamato il secondo paradosso del realismo (la soggettività, indispensabile a scegliere felicemente la tendenza oggettiva del reale, deve nondimeno starsene «nascosta», o addirittura deve risultare anacronistica e fuorviarne) e dalla connessa difficoltà di poter determinare in modo univoco, di fronte all’oggetto della rappresentazione, il soggetto che valuta e scruta (partito, classe, o umanità futura?), come “punto di vista” privilegiato nella conoscenza artistica del reale e del suo movimento60. Le risposte che egli insegue per tutta la vita e troverà alfine nell’età più tarda saranno risposte fortemente filosofiche e, nel quadro di una fondamentale riflessione ontologica e di una teoria generale della conoscenza, sposteranno ormai radicalmente i termini iniziali del problema suggeritogli da Engels e da Lenin.

Da Storia e coscienza di classe fino all’Estetica61 e all’Ontologia, corre un itinerario intellettuale lungo il quale l’illusione del «soggetto-oggetto identico» come garante di identità presso che immediata di valore e fatto (di verità-«coscienza» e realtà-«classe») sarà rimossa62; e sarà superata anche la successiva e più articolata concezione dialettica, presente in Beitrage zur Geschichte der Aesthetik (1954) e in Uber die Besonderheit als Kategorie der Aesthetik (1955), della «particolarità» oggettiva e della correlata «partiticità» soggettiva, come sintesi categoriali privilegiate che conferirebbero all’arte capacità di conoscenza superiore a quella scientifica. Sarà invece presupposta, dall’ultimo Lukács, una sorta di “fallacia” costitutiva della conoscenza artistica (della soggettività che vi interviene) nel suo, ormai giudicato irreparabile, punto di vista «idealistico», nel suo “deformante” sguardo all’indietro, dall’idealità alla realtà, dall’idealità che si protende talvolta verso il passato e lo trasfigura (rammentiamo che, in Gramsci, Dante è grande poeta perché insegue un’utopia che è nostalgia, «canto del cigno» di una età che volge al tramonto), o legge il passato alla luce degli esiti futuri. Sin da Il significato attuale del realismo critico (1955-56) Lukács riconoscerà, come peculiare dell’arte, una sorta di visione rovesciata della realtà: «se la letteratura vuol dare un’immagine artistica conclusa, adeguata nel suo contenuto, e unitaria nella forma, di questa realtà, deve anzitutto — nella creazione — invertire la successione naturale: mentre nella realtà il dove scaturisce dal donde, nella rappresentazione letteraria il dove determina il contenuto, la qualità, la scelta, la proporzione ecc. di ciò che del donde deve trovar posto nell’opera. Naturalmente l’opera compiuta è un’immagine del processo reale e della sua successione causale, ma perché ciò non resti una cronaca priva di verità, è indispensabile l’inversione or ora accennata nel processo creativo. Poiché è proprio la prospettiva, il dove, il terminus ad quem, [ciò] da cui viene determinata la concreta importanza o non importanza di tutti i momenti della rappresentazione, dalle situazioni e dai personaggi decisivi fino ai minimi particolari»63.

Nell’ultimo Lukács il dove, o il terminus ad quem, sarà una delle alternative possibili, non più la direzione infallibile del processo storico. Risulterà in lui rafforzato ed esplicitato, per conseguenza, il giudizio che attribuisce all’arte una visione idealistica, o idealizzante e dunque, per così dire, “deformante”. E nondimeno l’arte si porrà in una prospettiva sempre chiaroveggente, che per il vecchio Lukács non sarà più (o non sarà soltanto) quella della «classe» o del «prender partito» nelle lotte del presente, ma sarà la prospettiva del genere umano, “nostro prossimo” eppur “meta lontana”: l’arte, egli dirà, muove dalla «autocoscienza umana» e tende ad essa. L’ottica idealistica sarà allora una sorta di falsa coscienza costitutiva, non «a dispetto» della quale, ma grazie alla quale (come accadeva al quasi idealista Gorkij, al paternalista Tolstoj, al legittimista Balzac) è possibile fare arte realistica.

[per le note si faccia riferimento al volume qui disponibile, da cui questo saggio è tratto].

1 Lukács, 1983, p. 63. Sull’avversione al positivismo si veda anche negli appunti dal titolo «Pensiero vissuto», in fondo al volume, a p. 202. Lukács ricorda, a questo proposito, di essere stato contrario alla guerra, nel 1914: la caduta dei Romanov in Russia per una eventuale vittoria degli eserciti austriaci e tedeschi o la caduta degli Absburgo e degli Hohenzollern per la vittoria degli anglo-francesi gli potevano «andar bene», ma «chi ci avrebbe difeso dalla democrazia occidentale? Questo io mi domandavo. E qui si può vedere come la mia avversione per il positivismo aveva anche motivi politici» (p. 53). Perciò la «diversità» della rivoluzione del 1917 lo colpì così fortemente (p. 54). Almeno da questo punto di vista, Lukács può dichiarare al suo intervistatore: «Credo che nella mia evoluzione non ci siano elementi disorganici» (p. 104). Anche i giovani intellettuali ungheresi che con Lukács si radunarono nel “Circolo della domenica”, durante la prima guerra mondiale, furono accomunati da una profonda avversione al positivismo, come attestarono, nel 1918, K. Mannheim in un manifesto programmatico e B. Fogarasi in una conferenza tenuta presso la Società di sociologia di Budapest (cfr. Gluck, 1985, pp. 12 e 95). Il gruppo teatrale «Thalia», del quale Lukács fu animatore influente dal 1904, si era proposto di reagire contro lo stile declamatorio e contro il gusto naturalistico imperanti nella vita teatrale ungherese. Più tardi, nel dichiarare il suo appoggio al cosiddetto «post-impressionismo», il giovane Lukács ne aveva spiegato i motivi denunciando l’atomizzazione dell’esperienza e la passività assegnata al momento conoscitivo come caratteristiche del positivismo e delle correnti artistiche che ad esso, sia pure indirettamente, si ispiravano (Gluck, 1985, pp. 62 e 140).

2 Si rileggano le obiezioni rivolte al concetto lukacsiano della «particolarità» da un critico peraltro “realista” qual era C. Salinari (1960, pp. 19-20). Sul realismo di Lukács, cfr., tra gli altri, H. Arvon, 1970, pp. 157-160, e E. Bahr, 1972, pp. 43-56.

3 La lettura realistica di Hegel era stata avviata da Lukács nel saggio del 1926 su «Moses Hess e i problemi della dialettica idealistica»: cfr. l’Introduzione di Vittoria Franco a Lukács, 1984[b], p. 35. Secondo Oldrini (1983), la recensione al manuale di Bucharin e il saggio su Moses Hess costituiscono, sul finire degli anni venti, la preparazione filosofica della svolta di Lukács (p. 72). Nella poetica lukacsiana del realismo (in quanto si ispiri a Hegel) l’istanza della «totalità» tende a coincidere con la comprensione del «movimento» complessivo, sicché è «oggettiva» la rappresentazione scaturita dal punto di vista di colui che coglie, e condivide, la «tendenza» reale degli avvenimenti (ivi, pp. 81-82). Spunti e antecedenti della teoria del realismo si trovano, secondo Oldrini, in un articolo di Lukács su Balzac del 1922 apparso sulla «Rote Fahne» (ivi, p. 80).

4 Il torto di Schelling sarebbe, dopo la «svolta», di aver considerato «non più l’arte, ma la religione […] organo della filosofia» (Lukács, 1959, p. 155). «Abbiamo cercato di mostrare, soprattutto a proposito della categoria di totalità, come Lukács tenda a chiedere alla grande arte quello che è prerogativa del tipo di conoscenza messa in opera dal marxismo» (Vacatello, 1968, p. 107). C. Carbonara, da posizioni idealistiche, manifestava la propria adesione al concetto lukacsiano di un primato conoscitivo dell’arte e anticipava, in certo modo, gli sviluppiche esso avrebbe mostrato nella grande Estetica postuma di Lukács: «la vita dell’opera è destinata a sfociare nell’esperienza dell’umanità futura […]; l’arte trasforma l’essere in sé del mondo in un essere per noi del mondo rappresentato nell’opera d’arte determinata e, ciò facendo, arricchisce ed eleva l’uomo come autocoscienza» (Carbonara, 1960, pp. 104-105). Il giovane Lukács aveva considerato il «saggio» come unaforma superiore all’arte e alla filosofia (e come sintesi delle due). Aveva privilegiato il saggio «perché questa forma espressiva e comunicativa, che sta a metà tra le altre due, […] come la filosofia ricerca la verità, ma come la poesia la ricerca trattando forme e pervenendo a forme» (Asor Rosa, 1968, p. 68).

5 Vittoria Franco ci ricorda che Kandinskj in modo particolare rivendicava il realismo contenuto nelle forme più astratte della produzione artistica (cfr. Lukács, 1984[b], p. 66).

6 Lukács, 1957, p. 83.

7 Bloch (1938: lo scritto era incluso in Erbschaft dieser Zeit) accusava Lukács di servirsi di un concetto di totalità chiusa, senza discontinuità. La polemica con Brecht verteva soprattutto sulla azione trasformatrice che Brecht privilegerebbe nell’arte, secondo Lukács, a scapito della componente conoscitiva. Si veda ancora l’Introd. della Franco a Lukács, 1984[b], pp. 61-62, e, nello stesso volume, lo scritto di Lukács dal titolo «L’eredità di quest’epoca», nel quale, commentando il saggio di Bloch, Lukács dissente dalla considerazione del «montaggio» (nell’espressionismo, nel surrealismo, nei collages, in Joyce e anche in Brecht) come «il punto centrale delle attività artistiche e filosofiche attuali» e come conquista che la rivoluzione proletaria dovrebbe ereditare, perché esso partirebbe consapevolmente dalla sconnessione della realtà borghese odierna e non tenterebbe di mascherarla (Lukács, 1984[b], pp. 299-300). Su «Lukács e l’avanguardia», cfr. P. Chiarini, 1970, pp. 63 e sgg. Secondo F. Jameson (cfr. Bloch, Lukács, Brecht, Benjamin e Adorno, 1977, pp. 204-205), Brecht accosta l’arte alla scienza, ma concepisce la scienza secondo un modello galileiano, sperimentale, tecnico-meccanico, manuale: un modello lontano da quello che caratterizza la seconda rivoluzione industriale. Sul realismo di Lukács e su Brecht, Benjamin, Adorno ecc., cfr. Laing, 1978, pp. 46-68.

8 Cfr. Ambrogio, 1968.

9 Tradotto da A. Scarponi (cfr. Lukács, 1984[a]).

10 Stoccarda, Metzlerschen, 1982.

11 Parigi, Maspero, 1981.

12 Gluck, 1985.

13 Budapest, 1984.

14 Francoforte, 1985.

15 Lukács, 1983, pp. 39-49. Sull’ «oscurità» dei suoi scritti giovanili si veda la sua Prefazione alla raccolta di saggi dal titolo Cultura estetica (1977, con Introduzione di E. Garroni).

16 Lukács, 1983, p. 207.

17 Lukács, 1973[c], p. 61.

18 Lukács, 1973[c], p. 62.

19 Cfr. Tertulian, 1980.

20 Lukács, 1973[c], p. 72.

21 Ivi, p. 101.

22 Cfr. in G. Lukács, Arte e società, cit., I, p. 46.

23 Filosofia dell’arte, cit., p. 157.

24 Cfr. Heidegger, 1976, pp. 308 e sgg.

25 Lukács, 1974, p. 125. Tertulian (1980[b], pp. 108-109), trattando dell’Estetica di Heidelberg, indica il distacco di Lukács dal kantismo di Rickert e Windelband, i quali separavano i valori dalla loro realizzazione: per Lukács l’esperienza vissuta (das Erlebnis) si salda al valore dando luogo a un vissuto normativo.

26 Tertulian (1980[b], pp. 47-48) ci avverte che le riserve di Lukács sull’opera di Beckett non tradiscono una semplicistica predilezione per gli «eroi positivi», ma si richiamano alla necessità artistica di far valere una visione prospettica degli sviluppi storici, contro la presunta intemporalità del non-senso tematizzato in Beckett.

27 Lukács, 1973[c], p. 102, e Lukács, 1974, pp. 287-288.

28 Lukács, 1983, pp. 60 e 66.

29 Jacoby, 1981, pp. 74-89, ritiene che Pannekoek anticipi Lukács, nel considerare l’organizzazione inseparabile dalla coscienza di classe e quindi da una nuova attitudine spirituale (Geistiges) della classe. Per il Lukács di «Vecchia e nuova cultura» (1919), la dominanza dell’economico dovrà cessare, dando luogo a un rivolgimento pel quale la cultura non sarà più strumento per altro, ma scopo in sé. Del pari, l’organizzazione è, nel movimento proletario, più che semplice strumento; essa incorpora fermenti di libertà e di autonomia. Per gli scritti minori del periodo 1919-1928 si veda la raccolta Lukács, 1972[a].

30 Lukács, 1983, p. 68. Sul carattere, per la prima volta, universalmente distruttivo e insieme universalmente privo di idee che la guerra mondiale presentava e sul valore, pertanto, liberatorio della rivoluzione di ottobre, cfr. p. 208. È interessante lo scambio di lettere tra Lukács e Cases negli anni sessanta, sul problema della possibilità o meno dell’apocalisse nucleare. Lukács si dimostrerà ancora una volta ottimista. Cases gli risponderà di non ritenere che la bomba atomica abbia reso impossibile la guerra e, da quando l’apocalisse è divenuta una concreta possibilità, di aver cominciato a comprendere l’universalità di Kafka e della sua prospettiva nihilistica, a considerare Beckett in questa stessa chiave di lettura e a intendere meglio anche la visione, certo antistorica e dualistica, di Brecht (Cases a Lukács, 26 dic. ‘64, in Cases, 1985, pp. 187-189).

31 La scissione tra fatti e valori si ritroverebbe, secondo il Lukács del 1909 e di L’anima e le forme, anche nell’esteta e nell’estetismo (Gluck, 1985, p. 120).

32 Anche per Bloch (1980[a], p. 88) i seguaci dell’empirismo e del positivismo pretendono di cogliere la realtà obiettiva dei fatti, ma soggiacciono all’ «interesse annebbiarne della loro classe». Il marxismo, invece, grazie alla sua partiticità, «insieme con gli altri feticismi, ha cacciato via specialmente anche il feticismo dei fatti».

33 Il 15 maggio ‘64 Lukács scriverà: l’Austria è stata la «terra d’origine del neopositivismo, da Mach a Carnap e Wittgenstein. Anche lo stesso Musil fu in larga misura neopositivista. Certo con la particolare sfumatura — che si può trovare anche nel Tractatus di Wittgenstein — di una mescolanza polare di neopositivismo e di misticismo» (Cases, 1985, p. 176).

34 A proposito del pamphlet di Cases, Marxismo e neopositivismo (cfr. Cases, 1958), Lukács gli scrive (il 13 dic. ‘58) che il positivismo resta «l’ideologia dominante della borghesia reazionaria», essendo divenuto impossibile, dopo il crollo dell’hitlerismo, «un irrazionalismo in grande».

35 Abendroth, Holz e Kofler, 1968, p. 189.

36 Mészáros, 1972, p. 71. Nella dialettica razionale (e sia pure idealistica) di Hegel, la mediazione era «l’expression du mouvement qui unit le fini et l’infini»; di un movimento in cui «l’effectivité (wirklich) consiste dans l’actualisation d’un monde possible» (Niel, 1984, p. 375).

37 Lukács, 1983, pp. 132-133.

38 Cfr. Cassirer, 1946: nelle società primitive, come afferma E. Doutté, il mito è «le désir collectif personniefié»; ma anche quando subentra la razionalità politica è possibile che, in situazioni di crisi e di acuta instabilità, riaffiori la forza di coesione propria della forma mitica e una moderna idea di autorità o di dittatura acquisti il carattere e la funzione indicata dalla formula di Doutté (pp. 279-280). Cassirer chiama in causa Carlyle (gli «eroi»), Gobineau (la razza), Spengler per la sua concezione del «destino» e Heidegger per il concetto della Geworfennheit. «I do not mean to say that these philosophical doctrines had a direct dearing on the development of political ideas in Germany. Most of these ideas arose from quite different sources. […] But the new philosophy did enfeeble and slowly undermine the forces that could have resisted the modem political myths» (pp. 289-293). Sulle intenzioni e il contesto storico di La distruzione della ragione, ha riferito D. Losurdo nel Convegno tenutosi dal 13 al 15 febbraio 1985 nell’Università di Urbino (cfr. Losurdo, Salvucci e Sichirollo, 1986).

39 Cfr. Labica, 1984.

40 Lukács, 1983, pp. 111-112. Sul significato della contrapposizione a Plechanov e a Mehring si veda anche la prefazione del 1967 scritta da Lukács per la raccolta dal titolo Arte e società (Lukács, 1972[b], I, p. 12) e il saggio su «Letteratura di tendenza o letteratura di partito?» (ivi, p. 105: in Mehring la tendenza sarebbe il «dover essere»). Sulla presa di coscienza, già nel 1909-1910, del «fallimento del positivismo», cfr. Arvon, 1970, pp. 14-15.

41 E si vedano gli appunti «Pensiero vissuto» (Lukács, 1983, p. 221), ove leggiamo che nel realismo «si apre il varco la verità della storia» (il corsivo è mio: G. P.).

42 Lukács, 1957, p. 140. Sui rapporti con lo stalinismo si veda, tra gli altri, Löwy, 1975[a].

43 Lukács, ad esempio, vedeva la vetta della pittura moderna in Cézanne e in Van Gogh,
mentre Lifsič la vedeva nel rinascimento (Lukács, 1983, p. 113). Sulla complicità tra positivismo (logico), o strutturalismo, e irrazionalismo, anche Lifsič scriverà: «Nella nostra epoca la logica è spesso un ponte di passaggio all’alogismo, al non senso intenzionale. Per questo basta esagerare la purezza formale dell’ordine logico, trasformandolo in un nudo fatto, staccato dal contenuto reale. Così procede Lévi-Strauss, e per questo, suo malgrado, ottiene qualcosa di simile all’arte astratta o alla musica composta dai cervelli elettronici» (Lifsič, 1978, p. 54).

44 Cfr. «Feuerbach e la letteratura tedesca», in Lukács, 1984[b], pp. 145-149 e 169.

45 Cfr. «Grand Hotel ‘Abisso’», in Lukács, 1984[b], p. 208. «The originality of the concept of realism, however, lies in its claim to cognitive as well as aesthetic status» (Jameson, 1975, p. 198). Il naturalismo in Zola è assenza di «totalità», anche se Zola ha la pretesa di esporre le leggi sottostanti la vita sociale: ma quelle leggi sono un astratto-generale senza mediazioni rispetto ai fatti singoli. Per il naturalismo (di Zola o di Joyce, in ciò simili l’uno all’altro), tutti i dettagli sono insieme significanti o insignificanti. Si salva, secondo Lukács, Thomas Mann anche quando esprime l’(apparente) insignificanza delle cose, mentre Kafka indulge all’allegoria, che è, di nuovo, una forma di distacco tra il dato e la sua essenza nascosta (come ha osservato G. H. R. Parkinson). Il Lukács maturo riconosce a certo realismo, o «realismo critico» borghese la capacità, che (in Storia e coscienza di classe) aveva negato alla borghesia come classe e alla sua visione del mondo, di esprimere la totalità. L’espressione «realismo critico» è di Gorkij.

46 Lukács, 1984[b],p. 143.

47 Hoffmann, 1982, scrive: «Contro l’empirismo, Marx sottolinea l’unità dell’esperienza sensibile; contro il razionalismo, sottolinea la diversità dei campi sensoriali aperti ai diversi sensi umani» (p. 86). E Prokopczyk, 1980, nota che nello scritto di Engels su Feuerbach, quanto più entusiastica diviene la illustrazione della filosofia di Hegel, tanto più il nome di Hegel è sostituito da indicazioni generiche quali «questa filosofia dialettica», «questo modo di vedere le cose» e altre espressioni che Engels avrebbe potuto impiegare per designare la propria concezione filosofica (pp. 6-7).

48 Cfr. in appendice a Marx, 1976, p. 245.

49 Lo sottolinea anche Lukács nel suo saggio del 1935 su «Friedrich Engels teorico e critico della letteratura»; in Lukács, 1953, p. 144.

50 «Nei grandi romanzieri il tipico, sia nella costruzione dell’azione sia nella raffigurazione dei caratteri, non significa affatto media statistica; anzi, si tratta di un’energica costruzione delle contraddizioni che emergono in primo piano e si manifestano nei caratteri estremi e nelle situazioni estreme. Il pathos del “materialismo della società borghese” può essere adeguatamente espresso nella parola solo quando esso è elevato ai limiti estremi» (Lukács, Bachtin e altri, 1976[a], p. 10). «Le forze sociali colte dall’artista […] devono possedere una intensità di passione e una chiarezza di principi che mancano nella vita borghese quotidiana e nello stesso tempo devono essere presi per tratti individuali di un dato individuo» (ivi, pp. 147-148).

51 Lukács, Bachtin e altri, 1976[a], pp. 12 e 153-154. Sulla totalità intensiva e sulla forma come estremizzazione del contenuto, cfr. «Arte e verità oggettiva» (1934), in Lukács, 1972[b], I, pp. 159 e 174. E cfr. Leone de Castris, 1978, p. 94.

52 Cfr. «Reportage o rappresentazione?» (1932), in Lukács, 1972[b], I, p. 125. Negli anni trenta, Lukács giudica possibile e necessario il «rispecchiamento» artistico del movimento, o del processo, storico. In Storia e coscienza di classe (1967, p. 270), invece, come nota Vaiani (1971, p. 67), aveva criticato la teoria del rispecchiamento (e quindi la sua versione engelsiana) sostenendo che una conoscenza di tal fatta «trova di fronte a sé una serie di oggetti finiti, non risolubili in processi».

53 Marx, 1976, p. 244.

54 Marx, 1976, p. 246. Sui casi Balzac e Zola nel pensiero critico di Lukács, cfr. Lapointe, 1983, pp. 360 e 384-385.

55 «El valor estético o literario se acepta como algo dato, y Lenin no se plantea el oscuro problema de en qué medida ese valor se da “gracias a” o “a pesar de” la ideología»: così Sánchez Vázquez, 1984, p. 72. Sánchez Vázquez ridimensiona gli intenti teorico-critici di Lenin in campo letterario e artistico: la sua opzione in favore del realismo non discende dalla gnoseologia leniniana del “riflesso”; in lui prevalgono i problemi di una politica culturale adeguata ai compiti della rivoluzione e all’arretratezza delle grandi masse (ivi, pp. 66-67).

56 Lukács, Bachtin e altri, 1976[a], p. 17 (il corsivo è mio: G. P.).

57 Lukács, 1955, p. 9.

58 Cfr. Spinazzola, 1985, p. 29.

59 Lukács, 1960, pp. 71 e 140 (i corsivi sono miei: G. P.); e cfr. 1968, p. 85; si veda inoltre Abendroth, Holz e Kofler, 1968, p. 41.

60 Sulla capacità dell’intellettuale (dello scrittore) di uscir fuori dai limiti della propria classe e sul confronto con Mannheim, cfr. Rita Caccamo De Luca, 1977.

61 Per una analisi dei concetti fondamentali che si trovano nella grande Estetica di Lukács, mi sia consentito rinviare a Prestipino, 1974.

62 Sulla permanenza, nella tarda estetica di Lukács, del tema giovanile del soggetto-oggetto identico si sofferma, invece, Leone de Castris, 1978, p. 130.

63 Lukács, 1957, p. 63.

La rivoluzione estetica di Antonio Gramsci e György Luckás

11 martedì Nov 2014

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copL’arte possiede il grande merito, secondo Hegel, di liberare lo spirito umano dalle prigioni cognitive dell’empiria immediata. Questa elevazione spirituale conduce tuttavia, in alcuni casi, ad una deformazione di tipo sublimata della realtà effettuale e ad una levigatura iconica dei suoi conflitti.
Il libro indaga tale complesso rapporto tra bellezza e verità, con l’attenzione rivolta alle originali riflessioni di Antonio Gramsci e di György Lukács, le due voci più autorevoli del marxismo novecentesco. Il problema che ha interessato autori quali Giovanni Verga, Carlo Michelstaedter, Luigi Pirandello, Umberto Saba, ecc., sembra infatti aver trovato soltanto in quelle riflessioni i fondamenti per una risoluzione concreta.
Si tratta di un libro ricco e variegato che spazia da Elio Vittorini a Edward Said, da Franco Fortini a William Shakespeare, dall’engagement all’ideologia filologica, leggendo ogni questione attraverso le lenti dei due intellettuali hegelo-marxisti e ripercorrendo così le orme della loro rivoluzione estetica

“Il romanzo storico” di György Lukács in Italia.

10 lunedì Nov 2014

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di Andrea Manganaro

«Moderna : semestrale di teoria e critica della letteratura», VIII, 1 2, 2006.

 

Sono trascorsi poco più di quaranta anni dalla pubblicazione in Italia, nel 1965, de Il romanzo storico di G. Lukács: un’opera che già nel 1968, chi provava ad aggiornare un consuntivo sulla presenza di Lukács in Italia (quello, acutissimo, sul decennio precedente, era di Franco Fortini) disponeva sugli scaffali degli «ammirevoli classici», più che dei libri «utili per il presente». Anno centrale, nel nostro paese, per la storiografia e la critica letteraria, quel 1965 in cui apparvero anche Scrittori e popolo di Asor Rosa, Verifica dei poteri di Franco Fortini, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano di Timpanaro. Non era “nuovo” però il ponderoso saggio di Lukács edito da Einaudi con introduzione di Cesare Cases: proveniva infatti quasi da un’altra epoca e un altro mondo, Il romanzo storico, elaborato, attraverso varie stesure, a Mosca, durante i terribili anni trenta. E giungeva con notevole ritardo in Italia, un decennio dopo l’edizione della traduzione tedesca, di poco preceduto dalla pubblicazione di due opere giovanili (Teoria del romanzo, 1962 e L’anima e le forme, 1963) che attestavano concezioni fortemente divergenti da quelle della maturità e segnatamente da Il romanzo storico. Posizioni senz’altro antitetiche nella concezione del rapporto arte-scienza e quindi della forma saggio e della qualità della scrittura: «Felice il tempo nel quale la volta stellata è la mappa dei sentieri praticabili e da percorrere, che il fulgore delle stelle rischiara»: così iniziava Teoria del romanzo, il libro dell’inverno 1914-15 in cui tale genere si annunciava come la categoria centrale del pensiero estetico di Lukács, ma con la nostalgica evocazione di un utopico passato del mondo dell’epos e della sua totalità perduta – antecedente la scissione io-mondo della moderna (fichtiana) «epoca della compiuta peccaminosità». E risulta davvero difficile ravvisare, in questo incipit, identità autoriale con chi, lo stesso Lukács, avrebbe poi voluto «scriver male», premunirsi intenzionalmente da prelievi di luccicanti citazioni, bandire ogni approccio aforistico, non potendo più sottrarsi al «demone dell’oggetto», alla continua tensione alla totalità, ad indicare sempre «il rapporto d’insieme, lo sviluppo sistematico e storico».

Nel secondo decennio del Novecento Lukács d’altra parte si trovava nel pieno del cammino attraverso la svolta del destino, come ebbe a scrivere provando a fare la storia di se stesso. E la «svolta del destino», cui giunse, quasi ripercorrendo nella propria vicenda intellettuale e nelle due opere giovanili le tappe del pensiero classico tedesco, da Kant a Hegel, era l’incontro con Marx, cui approdava attraverso la catastrofe del primo conlitto mondiale e la rivoluzione russa, e che lo condusse alla partecipazione all’effimera esperienza della repubblica sovietica ungherese di Bela Kun, quindi alla geniale analisi della reificazione nell’utopica (e presto eretica) Storia e coscienza di classe. Un cammino (l’approdo al marxismo, alla militanza politica) che da una parte si tende a ignorare, non scorgendo alcuna svolta effettiva, appiattendo le varie fasi della sua opera su una invariante linea di continuità segnata da un presunto persistente idealismo. E, da altro punto di vista (e comunque con analoga assenza di storicizzazione) un cammino che non pochi (lettori o critici) eliminerebbero, se potessero: come attesta la diffusa e persistente opposizione assiologica del giovane Lukács al Lukács maturo, sul quale peserebbe non solo «l’assorbimento» di tematiche tipiche dell’era staliniana (quali il «concetto della lotta fra progresso e reazione»), ma anche una addebitata inevitabile compromissione o strumentalizzazione durante lo stalinismo. A nulla valendogli per un più ponderato giudizio le condanne subite, la partecipazione al 1956 ungherese dalla parte di Imre Nagy, l’esilio. E soprattutto, per quanto qui ci riguarda in primo luogo, il fatto, che sia i burocrati staliniani, sia uno dei più implacabili accusatori del «tradimento dei chierici comunisti», Czeslaw Miłosz de La mente prigioniera, si accorsero che non solo il filone non realista della letteratura borghese (dilatato da Flaubert, al decadentismo e all’avanguardia) era osteggiato da «questo teorico del realismo socialista immaginario» (Cases), ma lo stesso cosiddetto «realismo socialista [allora] esistente».

L’opera di Lukács non trovava un terreno obiettivamente predisposto alla sua ricezione in Italia. Le origini tedesco hegeliane del suo marxismo, il quadro di riferimento mitteleuropeo, il suo macrostoricismo volto a definire i processi essenziali di intere epoche per aree sovranazionali, la sua avversione al naturalismo, contrastavano con la ricerca italiana di una autoctona tradizione progressista italiana, con la chiusura entro limitati orizzonti nazionali, con la prevalente tendenza letteraria neorealistica Le sue prime pagine pubblicate in Italia, nel 1947, sul «Politecnico», furono accompagnate da una nota, forse di Vittorini, che presentandolo come il «maggior teorico marxista vivente», definiva la sua critica “quaderno dal fronte” più che “quaderno dal carcere”. Veniva così prefigurata quella futura, più o meno latente, opposizione Gramsci (meglio ancora De Sanctis-Gramsci) / Lukács, che avrebbe contrassegnato la cultura e la critica letteraria marxista italiana. E se a questo, individuato da Fortini, un altro volessimo aggiungerne, di iniziali giudizi premonitori delle linee tendenziali della ricezione di Lukács in Italia, potremmo indicare quello pronunciato nel 1949 da Benedetto Croce a proposito di Goethe e il suo tempo, e in particolare della valutazione storica del Faust. Alla «critica sociale» di colui che definiva con sarcasmo l’«insigne ripetitore» di Marx, Croce opponeva l’eterna «poesia» e scorgeva nella pubblicazione dell’opera dell’ungherese in Italia l’annunzio di una pervasiva invasione, da parte dei «neoscolari di Marx ed Engels e Lafargue», nel campo della «storia della poesia e dell’arte», per «farne governo a lor modo». Giudizio, questo, che in una cultura letteraria a lungo segnata (anche, più o meno consapevolmente, dentro la linea De Sanctis-Gramsci) dalla perdurante egemonia crociana e dalla astoricità dei suoi criteri estetici, può essere assunto come una predizione: prospettava infatti la diffidenza in Italia nei confronti della lukacsiana individuazione dei rapporti fra struttura socioeconomica e letteratura, ma anche la diffusa semplificazione sociologica nell’indagine dei rapporti fra storia e le forme letterarie. Taceva Croce su un’altra concezione presente in Goethe e il suo tempo antitetica alla sua estetica, alla sua negazione dei generi (e incompatibile col crocianesimo lungamente protrattosi in Italia): il saggio lukacsiano sul Carteggio fra Goethe e Schiller, del 1934, e pertanto contiguo cronologicamente all’originale stesura del Romanzo storico, poneva le basi, a partire dall’illuminismo tedesco e dalla rilettura di Aristotele sulle soglie della modernità, di una definizione dei generi letterari fondata su basi storico sociali, che avrebbe trovato sviluppo nell’ottica storico sistematica de Il romanzo storico

Quell’ intitolazione aggettivale, romanzo storico, potrebbe trarre in inganno e spiazzare chi pensasse di leggere o la trattazione specifica di un sottogenere o un manuale esaustivo. È ciò che in larga parte è avvenuto. Il tema affrontato nell’opera è infatti il nesso “romanzo e storia”, che forse sarebbe stato titolo meno esposto a fraintendimenti.. La sua possibile ambiguità fu segnalata in una recensione, nello stesso 1965, da Guido Piovene, che, oltre a riserve sulla lista di presenze e assenze, fornì come antidoto ai suoi lettori della «Stampa» l’avvertenza che comunque il romanzo ammirato da Lukács deve essere «sempre storico», sia che rappresenti «la storia passata», sia che rappresenti il «“presente come storia”» E coglieva nel vero, il recensore, per «il presente come storia», per il presente rappresentato cioè nella «necessità intrinseca del processo storico»: così in Stendhal, Balzac (e si potrebbe aggiungere, Verga, considerandolo un realista e non naturalista, secondo la terminologia lukacsiana). Semplificava però il recensore nel primo caso, poiché, come è noto, non è di per sé il passato (tempo della vicenda, esattezza dei particolari) a rendere «storici» per Lukács i romanzi di Scott, Manzoni o Puskin, ma la rappresentazione di momenti significativi (svolte e contraddizioni) del passato nazionale nel loro processo storico. Ed appunto alle oggettive condizioni della storia italiana, non alle sue «crisi», ma alla sua unica immutabile crisi, Lukács riconnetteva l’unicità dei Promessi sposi (nell’opera di Manzoni e nella letteratura italiana): non a condizioni soggettive dell’autore, ma alla scelta del contenuto, l’unica possibile per un romanzo che volesse essere effettivamente storico. La storia italiana non presentava infatti i processi di crescita, con le relative «crisi», che invece in Inghilterra avevano fornito una «base reale» al romanzo storico, ma «una situazione di perenne crisi», dovuta alla «divisione» del paese, al «carattere feudale-reazionario», alla «soggezione a potenze straniere». Scegliendo di rappresentare questa unica permanente crisi in un episodio concreto, Manzoni faceva sì che il «destino dei due protagonisti diventa[sse] la tragedia del popolo italiano», rendendo allo stesso tempo, per l’unicità della crisi rappresentabile, «necessariamente […] unico» ed irripetibile «questo romanzo».

Che su questo «penetrante» giudizio sui Promessi sposi fosse il caso di riflettere, dovette ammetterlo, in una semi-stroncatura sulle pagine dell’ «Unità», anche Carlo Salinari, sebbene il proposito non pare poi aver dato frutti. E non sembrano rintracciabili tracce evidenti di una attenzione a questa impostazione del problema neanche nel dibattito degli anni settanta sui manzoniani del “compromesso storico”. Salinari, non contestava la periodizzazione de Il romanzo storico: dapprima il sorgere del romanzo storico classico e poi del romanzo del presente come storia in seguito alla Rivoluzione francese, che aveva «aveva fatto della storia un’esperienza vissuta dalle masse»; poi, dopo il 48, la fine della fase progressiva della borghesia e della «storia come processo complessivo». Criticava invece la valutazione data da Lukács dei romanzi che di quelle fasi storiche erano il prodotto, non corrispondendo necessariamente a fase storica regressiva un romanzo esteticamente inferiore, non essendo possibile valutare Flaubert inferiore a Scott, che peraltro era stato giudicato dallo stesso Lukács esteticamente meno elevato di Manzoni, nonostante la più favorevole materia offertagli dai processi della storia inglese. Salinari puntava il dito su un aspetto problematico de Il romanzo storico, sulle aporie di alcune connessioni tra processi storici e valutazione estetica. È però anche vero che ciò che interessava a Lukács non era l’apprezzabilità della forma esteriore ma la possibilità conoscitiva consentita dalle condizioni storiche, dall’onestà dello scrittore, dalla sua fedeltà all’oggetto, dalla sua «capacità di abbracciare e di intendere integralmente l’orizzonte di cui si gode a un momento dato». Riducendo di fatto quell’opera di Lukács ad una «narrazione storica organica», Salinari ne attaccava però i principi teorici e la metodologia. I limiti dello studio di Lukács non gli apparivano riconducibili, come per Cases, alla congiuntura storica, alla politica dei fronti popolari degli anni trenta, ma ai suoi stessi fondamenti teorici: la dialettica fenomeno-essenza, la categoria del particolare e il tipico, la concezione di realismo fondata sul romanzo prequarattontesco elevato a norma e a metodo. Pur con qualche travisamento, Salinari coglieva effettivi limiti dell’impianto lukácsiano, che nel suo teleologico storicismo tendeva, come avrebbe detto Brecht, ad approfondìre la positività dell’antico rispetto alla negatività del nuovo e guardava al tramonto della narrazione e all’avvento postquarattontesco della descrizione naturalistica come a una decadenza, non valorizzando, come provò a fare Benjamin nel saggio su Nikolaj Leskov richiamato da Luperini, le possibilità conoscitive che in forme nuove i tempi nuovi offrivano.

Se il canone delle esclusione e delle eccellenze fissato in Il romanzo storico, o la periodizzazione storiografica hanno richiamato l’interesse dei comunque non molti lettori di quest’opera di Lukács, poco diffuso è stato l’interesse prestato in Italia alla teoria dei generi letterari, del loro storico e dialettico differenziarsi di cui Lukács si occupa nel II capitolo dell’opera. Fu in verità individuata, la centralità e l’importanza di tale argomento, nella prima recensione del volume apparsa in Italia, nel 1956, su «Società», la rivista diretta da Manacorda e Muscetta, a firma del germanista Paolo Chiarini, che aveva letto l’edizione tedesca dell’opera di Lukács, cogliendone il movente teorico, ancor più che storiografico, consistente nell’«identificazione dei modi entro cui si compie, in corrispondenza di una determinata base sociale, la differenziazione dei generi letterari». Si individuava come la distinzione dei generi, prendendo le mosse da Goethe e Schiller e ancor prima da Lessing, si fondasse sul piano categoriale e consistesse in modalità diverse del rispecchiamento della realtà, reso nel romanzo cona la rappresentazione della hegeliana «totalità degli oggetti», e nel dramma dalla rappressentazione della «totalità del movimento»]

La teoria dei generi letterari, veniva affrontata da Lukács muovendo dalla teoria dei motivi di Goethe (i motivi progressivi, regressivi, ritardanti dell’intreccio) per delineare come nel romanzo e nel dramma si configuri la dialettica tra necessità e libertà, Mostrando ad esempio, nell’intensificarsi, nel romanzo, dei motivi regressivi (quelli che fermano lo svolgimento dell’azione, parandosi come ostacoli) il configurarsi della forza propulsiva che spinge avanti i processi storici

Tale teoria dei generi letterari, storico sistematica, (non tipologico – classificatoria) delineata nel Romanzo storico, ha però avuto poca fortuna in Italia, sia per l’antica prevenzione di ascendenza crociana nei confronti dei generi letterari, sia per l’irruzione del descrittivismo strutturalista. Nuoceva certamente a Lukács la sua disattenzione agli aspetti formali (nel senso di forma esteriore) che otrebbe risultare frustrante al critico letterario. L’attenzione sua era volta al processo genetico dell’opera, al raffigurarsi in essa del contenuto storico, al farsi dell’opera, non al come è fatta. Anche nella sua teoria dei generi egli conduceva in eredità nella nostra epoca la «filosofia classica tedesca». L’elenco dei suoi auctores, con Marx, Hegel, Goethe, comprendeva, non certo ultimo, Aristotele. E non solo per la sua distinzione categoriale dei generi,il concetto di “azione”, ma perché, come scriveva già in Goethe e il suo tempo, citando Schiller «con senso pieno di attualità», Aristotele è «un giudice infernale per tutti coloro che si attengono servilmente alla forma esteriore o per quelli che si ritengono al difuori di ogni forma». L’importanza della teoria dei generi, ne Il romanzo storico, è stata però richiamata in tempi recenti da un libro di Margherita Ganeri, alla quale va anche il merito di aver ritrovato il valore attuale di quest’opera, nonostante i limiti nella comprensione della letteratura nel Novecento, nella sua concezione antiformalistica, nella valenza politica e ideologica del genere letterario. Le complesse questioni teoriche sui generi letterari affrontate nel II capitolo de Il romanzo storico anche in questo importante studio non sono però state assunte come centrali. Esse hanno invece di fatto costituito il costante punto di riferimento della ricerca e dell’insegnamento di metodologia letteraria, teoria della letteratura ed estetica condotta nell’ateneo catanese, fino alla sua recente scomparsa, da Gaetano Compagnino. Il genere si determinava per questo studioso, in una ottica storico sistematica lukácsiana, e pertante distante da ogni superficiale sociologismo o descrittivismo strutturalista, [cito] come «sistema dinamico di legalità formative aperto alla storia», al quale la singola opera è legata da un «nesso di specificazione-determinazione». E in una attenzione ovviamente privilegiata al romanzo ottocentesco, Compagnino recuperava, nell’ottica lukácsiana, la teoria goethiana dei motivi dell’intreccio e le categorie aristoteliche, per delineare come nelle modalità di costituzione del mythos si configurino le forze dei processi storici. Non nella referenzialità esterna (i temi o la materia), ma nelle omologie tra le dinamiche dell’intreccio e quelle dello sviluppo sociale che esso rappresenta.

Nella sua ricerca teorica volta alla definizione dei concetti fondamentali per l’analisi costitutiva del genere romanzo, questo studioso marxista risaliva a quella «filosofia classica tedesca» che Lukács nella sua prospettiva teleologica aveva compiuto il grande sforzo di trasmettere alla nostra epoca (e lui riteneva, al socialismo). Compagnino integrava il pensiero lukacsiano con concetti dell’hegeliano De Sanctis tendendo a trasferire, ad esempio, anche mediante Gramsci, il rapporto Scott-Balzac delineato ne Il romanzo storico nella relazione e nei nessi romanzo storico-verismo, Manzoni-Verga. E in particolare nell’analisi costitutiva del Mastro don Gesualdo riutilizzava la categoria del presente come storia e la dialettica moderna tra forma drammatica e forma romanzesca.

Nella direzione di ricerca di questo studioso che tenacemente rivisitava l’estetica di Lukács, il romanzo storico offriva un modello di trattazione storico sistematica del genere nella prospettiva di una letteratura non nazionale (italiana), ma europea: tale non per la comparatistica rilevazione dei cosiddetti temi o influssi, ma perché fondata sui nessi tra processi storici e forme letterarie, in uno spazio europeo articolato anche nelle diseguaglianze degli svolgimenti e quindi nella molteplicità dei tempi (quello della Russia di Tolstoj non essendo lo stesso sincronicamente cronologico della Francia e aggiungerei, il tempo della Sicilia di Verga non essendo lo stesso di Zola).

Al di là degli aspetti inattuali perché troppo connessi ad una atmosfera storica “irrecuperabile” (Cases), al di là dei limiti nella comprensione della letteratura del secondo ‘800 e del ‘900, il Romanzo storico di Lukács, ha, ritengo, ancora da insegnare a chi si pone il problema della storicità delle forme letterarie. E, in quest’ottica, ad una sua lettura, possono ancora risuonare nella mente i versi del Faust suggeriti da Fortini per comprendere Lukács: «come soltanto la mente che s’apprende a scialbe cose / non sgombra mai ogni speranza!”

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