Tecnica, contenuti e problemi di linguaggio

di György Lukács

[Intervista di Yvette Biró e Szilárd Ujhelyi a Lukács apparsa sulla rivista ungherese “Film Kúltura” e poi in traduzione italiana su “Cinema nuovo”, n. 196, novembre-dicembre 1968]


Nei mesi scorsi il filosofo György Lukács ha assistito alla proiezione di quei nuovi film ungheresi che hanno ottenuto particolari riconoscimenti in patria e all’estero, e che sono considerati tra i più rappresentativi. Tra le opere di Miklós Jancsó, Igy jöttem (Sono venuto così), Szegénylegények (I disperati di Sandor), Csillagosok, katonák (Stellati, soldati [L’armata a cavallo, Ndr]) e Csend és Kiáltás (Silenzio e grido); tra quelle di András Kovács, Nehéz emberek (Uomini difficili), Hideg napok (I giorni freddi) e Falak (I muri); di István Szabó, Apa (Il padre); e di Zoltán Fábri, Húsz óra (Venti ore); di Ferenc Kósa, Tizezer nap (Diecimila soli). Il complesso dei film ungheresi con i loro temi variati solleva un grande numero di problemi sia artistici, sia legati alla nostra società di oggi, sui quali “Film Kúltura” ha posto alcune domande a Lukács. L’intervista – che pubblichiamo integralmente, per gentile concessione della rivista ungherese e nella traduzione di Ivan Lantos – ha avuto luogo il 10 maggio in casa del filosofo; le domande sono state poste dai redattori Yvette Biró e Szilárd Ujhelyi.

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Tribuno di popolo o burocrate?

di György Lukács

in Il marxismo e la critica letteraria

I testiIl marxismo e la critica letteraria>Tribuno di popolo o burocrate?


«La letteratura si corrompe solo nella misura in cui gli uomini diventano più corrotti».

GOETHE

I. Il significato generale dell’impostazione leniniana.

L’opera di Lenin Che fare? servì a smascherare la filosofia opportunistica, assai diffusa al momento della sua pubblicazione (1902), degli «economisti». Costoro protestavano contro l’unità del movimento rivoluzionario russo sul piano teorico e su quello organizzativo; secondo loro, la sola cosa che contava era la lotta dei lavoratori per i loro interessi economici immediati, la loro spontanea rivolta contro le rappresaglie dei padroni delle fabbriche. Essi limitavano il compito del rivoluzionario cosciente all’aiuto da dare ai lavoratori nelle lotte locali, immediate. Interpretare i singoli scontri di classe come parti della generale missione storica del proletariato; chiarire i singoli momenti della lotta, mediante la propaganda politica, alla luce della dottrina socialista; unificare i singoli movimenti di resistenza in un moto politico rivoluzionario diretto al crollo del capitalismo e al trionfo del socialismo: tutto ciò significava, per gli «economisti», «far violenza» alle masse lavoratrici, col pericolo di isolare gli intellettuali rivoluzionari dalle masse. Gli «economisti» assicuravano che il movimento spontaneo diventa consapevole attraverso il suo stesso processo di crescenza. Continua a leggere

Una storia di maschere?

di Franco Fortini

«Avanti!» 3 luglio 1949

[Avvertenza: riprendiamo il testo di questo articolo da una copia cartacea rovinata, per cui alcuni passi non sono leggibili. In quel caso è posta il simbolo […] ad indicare la mancanza. Inoltre – piccola nota filologica – quando Fortini usa l’aggettivo “virtuistico”, fa riferimento alla terminologia di Vilfredo Pareto e lo mutua dal suo maestro Giacomo Noventa, che ne fece grande uso. In generale l’aggettivo vale come “moralistico”, nel senso negativo del termine].


M’è avvenuto di leggere, nei giorni passati, la Breve storia della letteratura tedesca del critico e filosofo marxista Georg Lukács, tradotto in francese nelle edizioni Nagel. È questa una storia sociologica e politica della letteratura tedesca, un’essenziale discorso sulle vittorie e sugli errori di una cultura, espressa nelle forme letterarie, equivalenti, se non esattamente paralleli alle rare vittorie e ai molti funesti errori della evoluzione democratica tedesca. La leggevo con particolare attenzione, perché, da noi, si può dire quasi inesistente, o appena i suoi inizi, una critica letteraria di ispirazione marxista; e poi, perché è questo, di una critica letteraria ispirata a quei principi (ma bisognerebbe dire persino di una estetica rinnovata, di contro alla tradizione dell’idealismo; vedi l’importante lavoro di Galvano Della Volpe) uno degli argomenti di più frequente riso e critica, fra uomini non solo delle altre, ma anche delle nostre tendenze politiche.

E in questi giorni l’Avanti! ha ospitato una «Breve storia degli intellettuali italiani» che mi ha dato molto da riflettere. Iniziativa, quella di G. Peirce, lodevole, soprattutto se la sua forma giornalistica fosse stata la conseguenza di uno studio vero e proprio; ma, diversamente da quella del Lukács, molto pericolosa e ricca di equivoci. Diciamo subito che fare della critica “marxista” (metto deliberatamente tra virgolette questa parola per indicare il riferimento più o meno preciso al complesso della tradizione marxista, mentre parlando di marxismo tout court oggi, è impossibile non intendere il marxismo-leninismo nell’interpretazione stalinista, cioè comunista, e nelle sue applicazioni più recenti) non può voler dire cercare delle semplici corrispondenze e dei rapporti di causa-effetto tra fattori sociali e politici e strutture economiche, da una parte, e opere d’arte o di letteratura (espressioni delle sovrastrutture) dall’altra. Dire, come fa Peirce, e come molti dicono, che il movimento letterario e culturale rappresenta il tal momento politico o la tal altra esigenza di difesa o di offesa di classe (e dirlo, poi, con esasperante schematismo) non può non ridurre opere di pensiero e di letteratura a maschere ideologiche da “smascherare” secondo una locuzione troppo frequentemente e imprudentemente; in questo caso la storia di una letteratura sarà ridotta a una storia di maschere e di burattini; e la storia della filosofia ad una storia di ideologie, cioè di filosofia considerate soltanto nella loro fase di decadenza e di “applicazione” (e mi si permetto, a questo proposito lamentare che i socialisti stiano confermando l’uso improprio di chiamare “ideologica” ogni attività culturale e teorica di partito). Una critica di tal genere sembra covare in chiunque si illude che il marxismo sia una “riduzione all’economico” e in chi porta una intima incomprensione e forse un segreto dispetto e odio alla letteratura e all’arte, (che sono senza dubbio, uno dei più vistosi strumenti e aspetti della iniquità sociale e dello sfruttamento); una critica di tal genere non sarà una critica “partitica”, ma soltanto una critica virtuistica (e finalmente ingenua) che non potrà far altro se non “smascherare” falsità, menzogne, errori e brutture, tesa all’auspicio di una letteratura che…non mascheri nulla. Io mi permetto di consigliare (per qualche esperienza che ho di questo genere di discorsi) di stare molto attenti: si rischia di dire alcune clamorose sciocchezze, di ingannare dei compagni che mancano del modo di controllare i nostri errori, e di disgustarne inutilmente altri. Voglio dire che queste «storie brevi» sarebbe meglio considerarli saggi di sociologia delle lettere e delle arti. Se si dichiara che l’opera letteraria non ha altro senso che quello di rappresentare un momento della struttura economica e politica, non capisco perché si studino i grandi poeti e gli scrittori e non già la minore pubblicistica o le opere di mero successo che quei momenti rappresentano, documentano o denunciano tanto più chiaramente. Se invece (pur con la necessaria prudenza dopo i recenti abusi delle alleanze crociano-cattoliche e della critica idealistico-mistica) si maneggi il criterio della distinzione estetica, si arriverà forse ad una conclusione che si può sì compendiare come segue.

L’indagine dei rapporti fra la espressione artistica (nelle forme che siamo soliti chiamare «poesia» e «letteratura») e il mondo della società storica (indagine che non è nata con le ultime leve!) è una forma di filologia, serve cioè da strumento per una più esauriente comprensione di quella espressione, e, correlativamente, di quel mondo. Si tratta di stabilire anzitutto i limiti di questa, come di qualsiasi altro strumento di interpretazione. Cioè, se l’attività critica deve soltanto tradurre in termini di sociologia, di politica, di «sovrastrutture» l’opera letteraria, la categoria estetica sarà negata; se invece essa deve introdurre (e non sostituirsi), la sua indagine dovrà essere molto più profonda e delicata di quel che certa gente creda. Per fare un esempio: dire che la tal poesia di X è l’espressione della borghesia imperialista del paese Y nella fase Z è fare un giro inutile e costoso quando sarebbe infinitamente più semplice e redditizio ricercare altre forme di espressione della borghesia di Y in Z. Serve comunque a poco; e ci preclude […]biamente ogni possibile avvicinamento alla poesia di […] Bisognerà invece, servendosi naturalmente di tutti i mezzi filologici a nostra disposizione, avvicinarci alla differenza specifica che c’è tra l’espressione X, e le espressioni N, S, […] di Y in fase Z. Arriveremo molto probabilmente ad accertare in ogni espressione di arte e di poesia una certa particolare tensione ed equilibrio dinamico tra elementi volontari e involontari, fra plurimi significati ed echi fra valori «espressivi» e «comunicativi», ecc. in che facciamo consistere propriamente l’espressione artistica e (con le dovute distinzioni) quella cosiddetta letteraria. Insomma, per dirla molto grossolanamente, non si tratta di «passare» dal cosiddetto «contenuto» alla cosiddetta «forma»; ma da un contenuto esplicito ad uno implicito, e al rapporto tra i due. Vedremo che X «significa», « rappresenta», «maschera» Y in Z (e anche ben altro!) in modo, però, tale che, per comprenderlo e sentirlo convenientemente, (perché insomma il composto chimico, che X è, diventa disgregabile e assimilabile) è necessario un tempo diverso da quello che solitamente si impiega per comprendere manifestazioni e le espressioni, N.S.R… Tempo che nessuna sociologia può accelerare. Si potrà fabbricare il grano che, cresce in tre settimane ma non una autentica poesia capace di risolversi, di comunicarsi a favore della fretta dei distratti.

Affermazioni di questo genere ci paiono abbastanza ovvie, ed è abbastanza penoso che si sia ancora a doverle ripetere quando sarebbe tanto necessario lavorare molto seriamente a mettere in pratica critica una revisione, della nostra letteratura, specie contemporanea. Speriamo, paradossalmente, che la dichiarata fine delle speranze e delle illusioni di garibaldinismo culturale, il visibile trionfo della reazione culturale ci costringa a vendette non verbali, a serietà e furore di studi, per distruggere, ma davvero, quel che avevamo creduto sufficiente dimenticare, (e soprattutto per evitare che alcuni santoni naviganti eternamente fra due acque piangano le loro lacrime di coccodrillo sulla letteratura e sulla critica rivoluzionaria).

In quanto alle storie o alle cronache meramente sociologiche, esse sono necessarie, se condotte con l’opportuno senso dei loro limiti. E anzi bisognerebbe che le «piccole storie» dei letterati italiani fossero condotte fino ai nostri giorni, con fredda accettazione dello scandalo, descrivendo le subordinazioni economiche alle potenze politiche, i rapporti con il fascismo, con l’editoria, il costume, le bizze, i falsi scandali, le conversioni, i mestieri, i premi ecc. della casta letteraria. Proseguire Gramsci, insomma, non in modo aneddotico, naturalmente, ma come descrittiva di un «ceto» organico. Ma non dimenticavo davvero i fini di una simile indagine: una critica ad uomini-istituti, che non è, o non basta per essere, una critica alla loro poesia o letteratura. Apparirà allora chiaro quello che andiamo ripetendo da tanto tempo: che il mondo della cultura e della politica italiana seguitano, e volutamente, a giuocare con un equivoco; gli uni e gli altri, in fondo, lietissimi che l’equivoco si perpetui. «Impegnati» e «impegnatori», avversari o no dell’«impegno», tutti però concordi, in silenzio, su di un punto: gli uomini di cultura a non parlare mai della cultura dei loro politici, e i politici a non prender mai sul serio la cultura dei loro uomini di cultura. Questi solo desiderosi di lasciare la loro «organizzazione» in mano ai «pratici». E i «pratici», felicissimi, sempre, di tenersela.

Le contraddizioni di Lukács

di Fernaldo Di Giammatteo

«La fiera letteraria», 23 ottobre 1949, n. 43.

Può darsi che Gorki avesse profondamente ragione quando scriveva che: «Piegandosi all’attrazione delle due forze della storia – del passato piccolo-borghese e del futuro socialistico – gli uomini sono evidentemente indecisi: il principio emozionale attira verso il passato, quello intellettivo verso il futuro. Si grida molto forte ma non si sente la calma sicurezza di chi abbia scelto decisamente e fermamente una via ben determinata, benché essa sia sufficientemente indicata dalla storia»1. Propugnando l’istanza, in Russia tuttora fondamentale, del «realismo socialistico», Gorki rivolgeva un appello ai giovani intellettuali del suo paese per esortarli ad uscire da uno stato di indecisione nella scelta fra il «vecchio» e il «nuovo» che egli considerava quanto mai deleterio; ed è ovvio che por decidersi e por convincere gli altri che la decisione è avvenuta, non basta alzare la voce o simulare una sicurezza tanto più spavalda quanto meno sentita e sofferta. Perciò, l’appellò di Gorki rappresentava un «vi esorto alle storie» di nuovo genere, un invito a prendere innanzitutto coscienza della realtà delle cose (di una determinata realtà, che automaticamente si considerava obiettiva) per riservare ad un tempo successivo la vera o propria espressione – in forma concreta – dell’avvenuta decisione. Sarebbe stato, altrimenti, un parlare a vuoto, un inconscio accumulare confusioni e contraddizioni assolutamente sterili. O diciamo noi, ponendoci da un altro punto di vista, assolutamente retoriche.

Ora fatalmente accade che ogni novatore si senta invaso da una sorta di demoniaco furore, ed usi troppo spesso un linguaggio aspro e sprezzante – nel caso ch’egli non riesca ad ottenere il dominio razionale della propria materia – oppure cerchi malamente di ricoprire con un procedimento solo in apparenza (o solo qualche volta) logico e motivato la materia che gli si agita dentro, in tumultuosa ebollizione. In un caso e nell’altro, è impossibile evitare le contraddizioni, ed è estremamente difficile accingersi a costruire un sistema organico sulla base degli schemi appassionatamente accettati.

Ci sembra che l’opera di Georg Lukács – ritenuto il più vigoroso assertore di un’estetica marxista – costituisca la persuasiva dimostrazione di quella impossibilità e di quella estrema (e dolorosa e terribile) difficoltà. Ingegno troppo solido e mente troppo acuta per rientrare nella categoria dei distruttori e degli innovatori ad ogni costo, temperamento troppo critico e sottile per accettare come indiscriminatamente valido lo schema suggeritogli dall’impulso primitivo. Lukács si trova a combattere la sua battaglia su un terreno che sta in mezzo agli opposti campi, e credendo di combattere contro uno solo dei contendenti non si avvede di combattere contro entrambi e, ancora, contro se stesso. E non si creda che, per stare approssimativamente nel mezzo, egli abbia trovato la possibilità di una sintesi o quanto meno di un compromesso, perché, al contrario, è questa sua posizione che grossolanamente si vuole chiamare mediana a procurargli la maggiore instabilità, la più profonda incertezza, la più grave confusione. Sarebbe ora troppo facile, e sleale ricordare che proprio dal campo dell’ortodossia marxista sono partiti – di recente e, credo, per la prima volta – gli strali più feroci all’indirizzo della sua opera. Dinanzi alle accuse rivolte a Lukács («divisionismo», «cosmopolitismo», idealismo, riformismo, false teorie nel campo dell’arte, analisi superficiale della lotta di classe, e via dicendo), come non riconoscere, infatti, che ciò era inevitabile, e prevedibilissimo per poco che si fosse penetrati sotto la superficie dei saggi che egli era venuto dedicando alla critica della letteratura contemporanea? Quelle accuse non servono nemmeno – dinanzi ai nostri occhi – a dimostrare che la sintesi o il compromesso non sono stati trovati nonostante il lunghissimo e duro lavoro compiuto; la dimostrazione semmai era già contenuta in tutto questo lavoro e non aveva certo bisogno di sanzioni che le prestassero un significato «ufficiale». Il fatto poi che quelle accuse siano giunte a nostra conoscenza attraverso notizie sommarie ci impedisce di tenerne conto, se non come indicazione superficiale di un certo stato d’animo e di una certa evoluzione (o involuzione che sia) che sfuggono ad una comprensione esatta e che – seppure conosciuti esattamente – sarebbero con ogni probabilità estranei al problema.

L’analisi «estetica» che Lukács ha assiduamente compiuto dei fenomeni più singolari della letteratura del Novecento (dall’espressionismo a quel particolare realismo che ha per vessilliferi Thomas Mann e Massimo Gorki) ha sempre mostrato una naturale propensione per i valori contenutistici o, addirittura, per gli antefatti e la materia grezza dell’arte.

Il fondo della realtà sul quale, volontariamente o involontariamente, negativamente o positivamente, riposano le opere d’arte (e le pseudo-opere d’arte) esaminate, ha per Lukács un’importanza grandissima e spesso – lo si comprende – frastornante e in un certo senso ingannatrice. Ma, tutto sommato, questi giudizi sono ancora impropri, fino a quando non si metta in rilievo che il mutamento dell’angolo visuale non proviene da una diversa concezione dell’arte, ma da una diversa concezione della realtà.

Partendo da una concezione rigorosamente marxista della realtà, Lukács crede che – per il fatto stesso di avere assunto tali premesse e per la certezza di non averle travisate – egli possa gettare le basi di una concezione dell’arte di pari ortodossia marxista. Poiché questo passaggio gli sembra inevitabile, e la rispondenza fra luna e l’altra concezione (o, meglio, tra le due facce della stessa concezione) quasi automatica, egli si preoccupa di dimostrare implicitamente la esattezza del processo inverso, per fornire in tal modo la controprova della validità «totale» della concezione originaria. Il fatto è curioso e complicatissimo. Leggendo i saggi di Lukács si ricava questa impressione: se gli interessa stabilire che si può valutare marxisticamente un’opera d’arte (tanto che si sforza di porgere al critico i mezzi per tale valutazione), infinitamente di più gli interessa mostrare che una valutazione marxista dell’opera d’arte dovrebbe rendere un segnalato servizio al marxismo, prestandogli inconsuete e preziose armi per la sua critica sociale. In questa maniera – si potrebbe anche dire – Lukács tenta di mascherare la propria indecisione. Sta di fatto però il risultato di tale fatica non è mai pienamente positivo, in nessuno dei due campi. Anzi, non essendolo nel primo, lo è ancor meno nel secondo: così si può affermare genericamente, ma rientrando il secondo nell’ambito politico, noi non abbiamo la capacità di sondarlo come si dovrebbe. E poi, quella che qui specificatamente interessa, è la prima faccia dell’atteggiamento di Lukács.

Quando la possibilità di esaminare marxisticamente l’opera d’arte sia data quasi per dimostrata, o almeno per innegabile, come fa Lukács, l’accento del discorso cade sul contenuto e non so ne distacca. I cardini del marxismo vengono accettati in tutta la loro pienezza: ammesso questo fatto preliminare, Lukács può passare alla critica di ciò che nella letteratura appare – alla luce di quel marxismo – condannabile in quanto frutto della degenerazione borghese. «Le correnti letterarie moderne del periodo capitalistico – è un concetto che Lukács ha, con poche variazioni, infinite volte ripetuto – che rapidamente si susseguono le une alle altre, dal naturalismo al surrealismo, sono tutte simili, poiché assumono la realtà come essa immediatamente appare allo scrittore e ai suoi personaggi. Questa forma di presentazione (unmittelbare Erscheinungsform) muta nel corso della evoluzione sociale. Ciò avviene oggettivamente, a seconda del mutamenti delle forme obiettive di presentazione immediata della realtà capitalistica e a seconda di come gli spostamenti delle classi e la lotta di classe provocano le varie rifrazioni della realtà. Questi mutamenti generano soprattutto la rapida successione e l’aspra lotta fra le varie correnti. Ma tutte questo correnti si arrestano – sia dal punto intellettivo che sul piano sentimentale – a tale loro immediatezza e non scavano per raggiungere l’essenza, e cioè la reale connessione esistente fra le loro esperienze e la vita reale della società, né per scoprire le cause recondite che provocano queste esperienze ed i rapporti che uniscono le esperienze stesse della obiettiva realtà della società. Esse invece – con maggiore o minore consapevolezza – elaborano spontaneamente il loro stile artistico sulla base di questa «immediatezza». Siamo al punto di frattura. Data per dimostrata la possibilità dell’analisi marxista dell’antefatto, del substrato reale dell’opera d’arte, Lukács si vede costretto a dare per parimenti dimostralo il processo successivo, il passaggio dall’antefatto all’espressione, dalla materia dall’arte stessa. Introduce il concetto di «stile artistico», ma non approfondisce.

Individuato nella concretezza (come riflesso della intima connessione esistente fra la vita reale della società e l’opera d’arte) l’unico modo possibile di espressione secondo uno schema marxista, resta scoperto il secondo problema, il più grave: quello appunto della natura e del significato dell’espressione. Lukács sente la gravità della lacuna.

Due vie ora gli si aprono dinanzi, e da ogni sua pagina ci ci accorge che egli le vede entrambe con molta chiarezza. Ma da ogni sua pagina ci si accorge pure che – paralizzato da un curioso timore astratto – nessuna delle due egli vuole imboccare risolutamente. Condurre sino alle ultime e più coerenti conseguenze l’analisi di tipo marxista che ha iniziato (e questa per lui sarebbe l’unica via logica), oppure ripiegare su .una concezione diversa che giustifichi a suo modo – non marxisticamente – l’espressione artistica. Dinanzi a due vie chiare e sicure, ne sceglie una terza, nebulosa e incerta. «Naturalmente – egli ammette – senza astrazione non vi è arte: come potrebbe altrimenti nascere il tipico? Ma – soggiunge – il processo dell’astrazione ha, come ogni movimento, una direzione, od è ciò che qui importa. Ogni valido realista (s’è già visto che Lukács non concepisce l’arte se non come realismo) elabora – anche con i mezzi dell’astrazione – la materia della propria esperienza, onde raggiungere la legittimità della realtà obiettiva, onde impadronirsi del rapporti profondi, nascosti, mediati, non immediatamente percepibili della realtà sociale. Poiché questi rapporti non si trovano immediatamente alla superficie, poiché questa legittimità si afferma confusamente, senza regola e articolandosi in varie tendenze, al realista incombe la necessità di un immenso lavoro, di un lavoro doppio – sul piano dell’arte e sul piano della Weltanschauung – ossia deve in primo luogo occuparsi del rinvenimento intellettuale della elaborazione artistica di questi rapporti, ed in secondo luogo (tale processo è indissolubilmente legato al primo) del rinvenimento artistico dei rapporti astrattamente elaborati: l’eliminazione dell’astrazione. Da questo doppio lavoro nasce una nuova immediatezza mediata attraverso l’elaborazione, una superficie «elaborata» della vita, la quale – pur lasciando chiaramente emergere ad ogni istante la sua essenza (ciò che non avviene affatto nell’immediatezza della vita) – appare come immediatezza, come superficie della vita. Più precisamente: come l’intera superficie della vita in tutte le sue determinazioni essenziali, e non soltanto un momento soggettivo avvertito ed astrattamente ingigantito ed isolato dal complesso di questi rapporti. È questa l’unità artistica di sostanza ed apparenza. Quanto più essa è molteplice, ricca, complessa, «scaltra» (Lenin), quanto più racchiude la vivente contraddizione della vita, la vivente unità del contrasto fra ricchezza e unità delle determinazioni sociali, tanto più grande e profondo diventa il realismo».

È un passo significativo, per la contorsione del ragionamento e la notevole incertezza nell’affrontarne la parte essenziale; la definizione del valore estetico. Come già prima per lo «stile artistico», così ora per i «mezzi dell’astrazione» e per «l’elaborazione artistica dei rapporti», i concetti restano pressoché imperscrutabili. Proprio nel momento in cui avrebbe dovuto rifondere alle domande fondamentali giunte finalmente alla luce dopo tanto discutere di «materia» e di «contenuti» (quali sono i mezzi dell’astrazione e che valore hanno? Che cos’è l’elaborazione artistica?), Lukács salta a piè pari alla conclusione la quale, pur essendo esatta, non può non risultare manchevole della dimostrazione che la giustifichi. Nella fase intermedia – che è poi quella decisiva – la teoria marxista invocata da Lukács si è mostrata sorda ad ogni sollecitazione, e l’autore ne ha avuto chiarissima la coscienza. Ma, come è stato detto, non aveva altra via per uscire dal cerchio chiuso, e di fatto non ne è uscito.

1 Ettore Lo Gatto ha inserito lo scritto nell’antologia L’estetica e la poetica in Russia, Firenze, Sansoni 1947.

Tra Hegel e Marx l’estetica di Lukács

di Ferruccio Masini

«Il Contemporaneo-Rinascita», n. 6, 5 febbraio 1971.


Pubblicato in italiano il fondamentale studio del filosofo ungherese

«(…) Soltanto apparentemente la storia della cultura rappresenta un balzo in avanti della comprensione, e nemmeno apparentemente un balzo in avanti della dialettica. Ciò che le manca è il momento distruttivo, il quale garantisce l’autenticità del pensiero dialettico come l’autenticità dell’esperienza del dialettico. Certo, essa accresce il peso dei tesori che gravano sulle spalle dell’umanità. Ma non dà a quest’ultima la forza di scuoterseli di dosso e quindi di farli suoi. Lo stesso vale del lavoro culturale socialista verso la fine del secolo, che seguiva appunto la guida della storia della cultura»1. Questo pensiero di Walter Benjamin potrebbe essere assunto come l’espressione più matura, nell’avanguardia, di una dialettica marxista rivoluzionaria volta a rovesciare quella autocomprensione del fenomeno estetico in termini di giustificazione storicistica della cultura e quindi dei momenti eterni, «classici», dello sviluppo umano, alla quale approda la gigantesca costruzione lukacsiana della prima parte (Die Eigenart des Aesthetischen) dell’Estetica (1963)2.

A chi conosce le importanti prese di posizione teoriche, di critica e di scienza della letteratura del filosofo marxista ungherese – dalla lontana discussione epistolare con Anna Seghers (1938-1939) ai Contributi a una storia dell’estetica (1952) fino ai Prolegomeni ad una estetica marxista e ai Significato attuale del realismo critico (1957) – non potrà passare inosservato il fatto che le linee maestre del pensiero estetico di Lukács confluiscono nella imponente architettura sistematico-concettuale dell’Estetica senza sostanziali squilibri e ulteriori ripensamenti, raggiungendo una integrazione d’analisi che tradisce, nel vecchio filosofo, un’ambizione costruttiva di vasto respiro. Quella cioè di elaborare, sulla base dei materialismo storico, e dialettico, una sintesi fondativa delle categorie strutturali e dei processi genetici propri di un’estetica normativa marxista. Va da sé che per quanto si possano avanzare non poche riserve sulle ambiguità e sulle contraddizioni dell’estetica lukacsiana (basti rinviare ai giudizi accentuatamente critici di Galvano della Volpe, ripresi e arricchiti con finezza d’osservazioni da Giuseppe Bedeschi nella sua recente Introduzione a Lukács), un’opera tanto vasta e impegnativa come questa non può non costituire un indispensabile polo di riferimento per chi voglia misurare le tappe di tutta quella vasta elaborazione teorico-scientifica delle categorie estetiche marxiste che dalle tesi engelsiane sul «realismo» dell’opera letteraria e sulla sua distinzione dal concetto di «tendenza», dalla polemica di Marx-Engels contro Lassalle sul concetto rivoluzionario dell’eroe tragico alla, nozione leninista di «particità» e di «rispecchiamento» (Tolstoj specchio della rivoluzione russa) rappresenta lo sfondo su cui si muove la problematica di questo libro.

Pur tuttavia, il limite più evidente della trattazione sta nella preoccupazione sistematica d’inverare e di superare, in una sorta di sintesi hegeliana, gli elementi peculiari di un’eredità storica singolarmente e anche fecondamente ricca di contrasti, e quindi nella funzione frenante che esercita il modello «teoretico» nell’ambito per sé dinamico di una metodologia marxista. Privilegiare i problemi categoriali, per cui la sfera estetica è vista come «un caso di rispecchiamento unico nel sistema delle relazioni tra l’uomo e la realtà oggettiva»3 potrebbe far nascere, infatti, il sospetto di uno slittamento della dialettica della coscienza, sia pure materialisticamente interpretata come Widerspiegelung (rispecchiamento) dell’essere sociale, sul piano ontologico-fondativo, con il rischio di una possibile identificazione strutturale di coscienza ed essere4 e quindi con la riemergenza dell’elemento quietistico-contemplativo che si annida in ogni ontologia, sia essa о no di carattere immanentistico. Prima ancora di questo «sospetto», già il confronto con Hegel sembra orientare sul piano di un transfunzionamento piuttosto che di un rovesciamento delle categorie hegeliane la stessa articolazione storico-sistematica dell’opera. La quale appunto si muove in vista di una fondazione della «verità» dell’opera d’arte concepita piuttosto che sulla base dialettica degli antagonismi di classe e della demistificazione anti-ideologica della catarsi e dell’«universale» estetico, come astratta autocoscienza dell’umanità proiettata nell’eterno presente di un’immanenza dei valori (le «qualità categoriali essenziali dell’opera d’arte»: «il carattere definitivo, l’autonomia, la perfezione immanente, l’ubiquità»)5 articolati come concrezioni tipiche della «particolarità». Ma proprio perché il momento della rottura, della tensione creativa interna al divenire storico della lotta di classe e della stessa costruzione del socialismo vengono spostati sullo sfondo delle operazioni genetico-categoriali si direbbe che per Lukács sia l’arte (al posto della filosofia, come accade invece in Hegel) la nottola di Minerva che si leva nell’ora del crepuscolo, quando la realtà è giunta al suo compimento e quello che «doveva» essere fatto è già dietro le nostre spalle e può quindi essere «pensato» (nel senso del theorein). Non a caso tutta la ricchezza estremamente pregnante e non di rado esemplare, dal punto di vista critico-letterario, delle esemplificazioni storiche è profusa da Lukács con preminente riguardo al passato e ai suoi autori classici prediletti, da Goethe a Balzac a Tolstoj.

In questo senso, sebbene densa di articolazioni, specie per quanto attiene la individuazione genetica dei modi di rispecchiamento all’interno dell’orizzonte immanente della storia, la «posizione estetica» teorizzata da Lukács non riesce a sottrarsi all’ipnosi di una superiore «conciliazione» già presente in Hegel nella forma di saldatura speculativa tra componente idealistico-conservatrice e dialettico-storicista potenzialmente rivoluzionaria. Indubbiamente in Lukács questa «conciliazione» – trasferita, come ovvio, in una problematica ideologica interna al marxismo – corrisponde all’importante fase di passaggio (e anche di crescita) dell’estetica marxista dopo il XX Congresso, allorché alla rigida antitesi tra le prospettive ottimistico-dogmatiche di una rappresentazione «positiva» della realtà e i processi dissolutivi-nichilisti della letteratura d’avanguardia subentrava una mediazione sul terreno concreto di esperienze difformi e pluralistiche, sia in campo «occidentale» che in campo socialista, capace di restituire alla riflessione estetica quella tensione dialettica tra il politico e l’artista, tra il realismo dell’arte e il realismo della politica da cui scaturisce il fermento espansivo di una cultura socialista egemone nel senso gramsciano.

Quando Lukács afferma che il realismo «(…) non è uno stile speciale tra molti altri», ma è «la base artistica di ogni creazione valida», in quanto esso soltanto vale come perfetto rispecchiamento dei «momenti essenziali della realtà, riferiti al contenuto di umanità», o meglio come coincidenza della «forma estetica» con «la forma di un contenuto concreto determinato»6, viene riconfermata, a mio parere, l’assunzione di un concetto, quello appunto di realismo, che nella sua estrema genericità potrebbe benissimo essere accolto in quella estetica desanctisiana-crociana per la quale «la forma non è a priori, non è qualcosa che stia da sé e diversa dal contenuto, quasi ornamento o veste e apparenza o aggiunta di esso; anzi è essa generata dal contenuto, attivo nella mente dell’artista: tal contenuto, tal forma»7.

L’equivoco di Lukács sta nel vedere il realismo come polo opposto all’avanguardia e cioè nel collegare a determinati mezzi espressivi, che vengono poi ipostatizzati, la possibilità o meno di uno stile realistico. Nell’avanguardia si ha la decomposizione dell’«essere per sé dell’opera d’arte» e cioè una visione mutila o deformata della realtà, appunto perché sono abbandonati quei determinati mezzi espressivi su cui si impianta la categoria normativa del «tipico», che sono i soli, secondo Lukács, a consentire uno stile realistico. Si ha così la riduzione di una nozione «aperta» del realismo (Brecht) alla cristallizzazione categoriale di un modello che pur nel mutare dei mezzi espressivi – come riconosce lo stesso Lukács – taglia fuori tutti quegli approcci alla realtà che non passano attraverso la sua intelaiatura storicamente esemplare. La mancata problematizzazione del concetto di realismo inteso come fedeltà statica all’essere e all’essenza dell’oggetto, dalla quale è escluso il momento della rottura e quindi della sperimentazione delle possibilità dialettiche operanti nel divenire di quello (compresa dunque la benjaminiana politicizzazione dell’arte), riflette lo scotto pagato da Lukács alla sua giusta lotta contro il formalismo degli estetologi borghesi (W. Kayser, Ingarden), ma anche al suo fraintendimento delle ragioni storiche (crollo dei contenuti borghesi) che spingevano l’avanguardia a radicalizzare l’inimicizia borghese contro l’arte rivolgendola, per così dire, contro se stessa, a questo punto si comprenda come solo attraverso la liquidazione di una Kulturgeschichte borghese-occidentale, capace d’infiltrarsi negli stessi procedimenti storico-deduttivi di una fondazione materialista dell’opera d’arte, è possibile il ricupero di quell’autenticità del pensiero dialettico di cui parlava Benjamin come di uno strumento necessario per integrare la soggettività in una totalità in progress; non predeterminata in configurazioni categoriali offerte dal passato come «immagine eterna». In tal modo anche il momento della riflessione estetica potrà risolvere la sua specificità nella nuova dimensione storica di un’esperienza per la quale le stesse opere d’arte «divengono», cioè nel continuo confronto creativo della coscienza rivoluzionaria del proletariato e delle sue realizzazioni politico-sociali con i movimenti contraddittori e diversi, una pur sempre carichi di futuro, della realtà.

1 W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, trad. it. di E. Filippini, Torino 1966, p. 92.

2 György Lukács, Estetica, 2 voll., trad. it. di A. Marietti Solmi e F. Codino, Torino, Einaudi, 1970, pp. XLII-1612 (Biblioteca di cultura filosofica).

3 Ivi, II, p. 1564.

4 Si vedano a questo proposito le aspre accuse d revisionismo mosse a Lukács, non senza ingiustificata malevolenza, da Wilhelm R. Beyer, «Marxistische Ontologie – eine idealistische Modeschöpfung», in Deutsche Zeitschrift für Philosophie, 17 (1969), II, p. 1310 e ss.

5 Estetica, it., II, p. 1564.

6 Ivi, pp. 1573-1574.

7 La citazione desanctisiana (dai Nuovi saggi critici) sta in B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione, ecc. Bari 1928, II, p. 409.

Lukács, Benjamin e il problema delle avanguardie

di Ferruccio Masini

«Il Contemporaneo-Rinascita», 30 luglio 1971.

In un’intervista a Der Spiegel, apparsa in Italia nel 1970, György Lukács dichiarava: «Lenin ha sempre affermato che non esiste una muraglia cinese tra rivoluzione borghese e rivoluzione proletaria. Infatti nel 1917 una rivoluzione socialista nacque proprio dal fatto che non erano state soddisfatte alcune rivendicazioni borghesi rivoluzionarie, quali la pace e la distribuzione delle terre ai contadini»1. È in questa prospettiva di giudizio storico-politico che, sia pure contraddittoriamente, tende a collocarsi il Lukács critico-teorico dell’estetica e della letteratura allorché denuncia il «settarismo pseudomarxista» – che «ha cancellato dalla storia tedesca tutto quello che non è immediatamente attinente alla rivoluzione proletaria» – e l’altro «settarismo», quello dei «buongustai “d’avanguardia”, che mettono nello stesso sacco la scultura negra e Fidia, i disegni degli alienati e Rembrandt, e magari preferiscono i primi ai secondi»2.

A questa presa di posizione, in sé corretta, non si riconnettono coerentemente le valutazioni sostanzialmente omogenee, anche se con parziali rettifiche di mira, espresse da Lukács in ordine alla letteratura d’avanguardia, giacché proprio quello schematismo ottimistico-contenutista che talora egli rimprovera agli «ingegneri dell’anima» è alla base dei suoi fraintendimenti e delle sue drastiche condanne. È nota l’incomprensione lukacsiana per Proust, Joyce, Kafka, condizionata appunto dall’ipnosi dei modelli realistico-ottocenteschi e, più in generale, la perentoria scomunica degli autori d’avanguardia presi in un fascio, nei quali si compirebbe quel la «diffamazione della realtà» che eliminando il tipico, attraverso l’allegoria, involge la distruzione del particolare, base della letteratura realistica. Indubbiamente l’ossessione di Lukács per lo spettro della decadenza che in varie guise mistificanti (la falsa autocritica, l’apologia indiretta della reazione, ecc.) contrabbanda ideologie e preconcetti borghesi e piccolo-borghesi all’interno della stessa avanguardia rivoluzionaria antifascista, ha le sue precise motivazioni storiche che se riguardano, per un certo aspetto, la posizione radicalmente e sinceramente autocritica dello stesso Lukács nei confronti del suo periodo «protoesistenzialistico» (da L’anima e le forme alla Teoria del romanzo) fino alla svolta marxista di Storia e coscienza di classe, affondano peraltro le loro radici nella necessaria intransigenza degli anni di lotta contro il fascismo. Ed è innegabile che proprio questa intransigenza, la cui severa venatura morale ricorda il rigorismo estremistico-tragico del giovane Lukács de L’anima e le forme, ha avuto il merito di sgombrare il campo da molti feticci metodologici (come quello dell’apartiticità dell’arte o l’altro della neutralità ideologica della teoresi) in un tempo in cui l’unico antidoto alle suggestioni irrazionaliste e neoromantiche era costituito proprio da quella mancanza di «timida prudenza» con cui il critico marxista deve «gettarsi a corpo perduto nella mischia mandando al diavolo le preoccupazioni per la sua reputazione, per la sua “infallibilità”, per la sua “fama”, pur di compiere un’opera utile battendosi contro tendenze nocive e contribuendo alla indispensabile chiarificazione»3.

A distanza di anni l’affettuoso ammonimento di Anna Seghers acquista, ciononostante, tutta la sua forza e vale a richiamare la nostra attenzione anche sul limite teorico-rivoluzionario di quella dura intransigenza: «Lukács, caro Lukács, non ti arrabbierai se ti dico che nel ricorso a una citazione qualsiasi [in questo caso un passo di Gorkij], pur imponente che sia, c’è sempre qualcosa che ricorda la scopa fatata. In altre parole, c’è ancora la possibilità di illudersi che siccome un uomo saggio e prudente ha finalmente trovato la chiave di una certa porta, sarà possibile servirsene per aprire tutte le porte simili a questa»4.

Il confronto con Walter Benjamin – al quale Lukács dedicherà alcune pagine singolarmente equilibrate e penetranti della sua Estetica5 – potrà forse essere istruttivo proprio per rilevare i termini di una questione che trascende, in definitiva, la stessa posizione lukacsiana, quella, cioè, delle avanguardie dai punto di vista di una analisi marxista.

Giustamente – ci sembra – Ernst Bloch rilevava in Benjamin una caratteristica macroscopicamente assente in Lukács: la straordinaria sensibilità per il dettaglio marginale, per la sfumatura significativa, per «i freschi elementi che partendo di qui si dischiudono nel pensiero e nel mondo»6, per quelle singolarità che spezzano in maniera inconsueta e paradossale la levigata superficie di un tutto, la capacità, insomma, di costruire i problemi attraverso un «montaggio reale» di parti in apparenza estranee o irrilevanti o lo «smontaggio» di quanto sembra, a prima vista, strettamente connesso. La secolarizzazione della preghiera nella «attenzione» (lo diceva Scholem a proposito di Benjamin) sta in questa acribia del dettaglio, in questa «micrologia filologica» che coglie nel particolare la chiave interpretativa di un intero processo, o meglio, si vale di quel particolare, risolvente in sé una pregnanza emblematica di rimandi, per cristallizzare quel processo in un evento carico di significati. Sotto questo punto di vista il metodo storiografico lukacsiano, disteso per scorci panoramici e ampie campate sistematico-concettuali, è ben distante da quello sinuoso e flessibile di Benjamin, in cui il pensare critico è sempre un pensare «per figure», un pensare semantico-dialettico dove alla presa «soggettiva» dell’interprete si sostituiscono le fluide articolazioni dell’oggetto che si espone da sé, nell’ambito di una prospettiva «tendenziosamente» determinata.

Lukács avverte acutamente che nella teoria benjaminiana della allegoria, in cui l’analisi del dramma barocco tedesco ribalta esemplarmente in quella delle avanguardie con temporanee, si nasconde la «autodissoluzione dell’estetico»7. Ed è evidente che siffatta «dissoluzione» risulta inaccettabile per il filosofo marxista al quale importa una fondazione materialistica dell’estetico che, chiusa nella fortezza del realismo, costituisca una barriera insormontabile per le tendenze reazionarie dell’arte d’avanguardia, prigioniera dei suoi inframondi nichilistici e dei suoi cieli orribilmente vuoti. Lukács, in realtà, non sa rassegnarsi di fronte ad una «dissoluzione dell’estetico» che tende a coinvolgere, in una sorta di apocalittico e macabro naufragio, la visione paradigmatica di un’arte che rispecchia le mediazioni sociali «porta; te» dai particolari e quindi reintegra in se stessa l’ideale di una humanitas sottratta alla reificazione. Per questo egli rimprovererà a Benjamin di limitarsi a «descrivere», affermando che «in un contesto allegorico anche l’emblema non esprime altro che una feticizzazione acriticamente approvata»8. Ma nella descrizione benjaminiana, che è poi – come osserva Bloch – un descrivere includente in un cerchio, e cioè in una costellazione di significati, proprio quella feticizzazione comporta la dissoluzione dell’estetico, cioè il problematizzarsi della stessa progettazione artistica aggredita dalle implicazioni ideologiche, vale a dire dai fantasmi della falsa e anche cattiva coscienza. Quella feticizzazione è, nella trasparenza critica in cui la fa emergere Benjamin, precisamente la crisi di quell’immagine universale dell’uomo o, in altre parole, di quel «contenuto universale di umanità che – secondo Lukács – implicite è presente e dappertutto nel rispecchiamento estetico»9. Per Benjamin questo contenuto e questo rispecchiamento sono comunque indistinguibili dalla falsificazione ideologica di una società divisa in classi, dall’interno sfacelo di quel patrimonio culturale» che lo storicismo ha canonizzato mentre si tratta invece di mostrare come lo scheletro dell’allegoria realizza appunto l’autodecomposizione di quel contenuto, scoprendo l’oggettiva deformazione di quei rispecchiamento.

La descrizione di Benjamin non è dunque solo una «descrizione»: essa decifra il geroglifico marxiano della merce trasferito in quelle ipostasi ormai vacillanti e disgregate della falsa coscienza che sono appunto nascoste negli emblemi strutturali-allegorici dell’avanguardia, cogliendo al tempo stesso la temperatura critica della decadenza in quel momento di choc che la distacca, con una salutare estraneazione, dall’approdo finale di un’arte che non è più pacificazione nella humanitas e non può più assorbire le lacerazioni della realtà.

In questo senso i procedimenti allegorizzanti dell’avanguardia – al cui inventario di morti oggetti il nano piccolo e brutto della teologia10 dà una mano preziosa, alleandosi nella lotta di classe – mettono la borghesia contro se stessa, smantellando i suoi alibi storicisti, l’ipocrisia della sua fede «socialdemocratica» nel progresso. È evidente che sono gli stessi strumenti categoriali presenti nella officina critico-estetica del Lukács a impedire a quest’ultimo, diversamente da quanto avviene per Benjamin, di «decifrare» il paesaggio per geroglifici e monogrammi dell’avanguardia. Esso si presenta agli occhi del filosofo di Budapest come quell’inferno della compiuta peccaminosità borghese in cui Benn si incontra “con Kafka, Musil con Joyce, e sul quale grava la caligine del «nichilismo estetico»11, dove – ahimè – tutte le vacche sono nere. Ma è proprio l’avanguardia che, mettendo in questione tutto il passato, mette implicitamente in questione «le vittorie dei dominatori». Sotto il patrimonio culturale, di fronte al quale – dirà Benjamin – «il materialista storico non potrà comportarsi come un osservatore distaccato», ci sono appunto queste vittorie, c’è un’origine a cui quest’ultimo «non può pensare senza orrore»: quel patrimonio, infatti, «deve la propria esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che lo hanno creato, [sembra quasi di ascoltare il discorso brechtiano sui grandi condottieri della storia], ma anche alla schiavitù senza nome dei loro contemporanei»12. È al preciso scopo di reimpostare, in termini di unità teoria-prassi il discorso sull’arte, che Benjamin utilizza la teologia al servizio della lotta di classe, giacché il tema messianico della redenzione di un mondo contaminato dalla colpa della soggettività diventa il catalizzatore di un processo rivoluzionario in cui l’arte può giustificarsi solo in via negativa come allegoria di un «cattivo sguardo» – che è anche uno sguardo critico sulla decadenza – e, al tempo stesso, come allegoria utopica di un rovesciamento liberatore.

È ancora una volta, questo, il discorso sulla prospettiva. Il problema della prospettiva costituisce un discrimine fondamentale, in Lukács, per identificare nell’ambito del realismo socialista la fonte dello schematismo («configurazione meccanica», «meccanica definizione della prospettiva»). Ma si potrebbe ricondurre a una questione di prospettiva anche il problema dell’avanguardia, così come si configura in Benjamin, per cui potremmo dire, rovesciando le parole di Lukács, che le tragedie individuali non escludono l’ottimismo storico-universale13. È quanto fa Benjamin, che radicalizza appunto la tragedia individuale nell’ambito di una prospettiva dove il materialismo storico si incontra con la speranza utopica, «la piccola porta» da cui può entrare il Messia14, la tempesta spirante dal paradiso, che spinge irresistibilmente nel futuro l’angelus novus, l’«angelo della storia»15. Mentre la prospettiva lukacsiana privilegia il momento dell’evoluzione sociale oggettiva, che sul piano letterario si manifesta oggettivamente nello sviluppo di una serie di caratteri agenti in situazioni determinate»16, e quindi si riconduce a modelli storico-letterari desunti dai classici del realismo (Tolstoj), quella di Benjamin è una «costellazione carica di tensioni»17 in cui sta la possibilità di una «chance rivoluzionaria nella lotta per il passato oppresso»18. Evidentemente la categoria benjaminiana del «tempo-ora» (Jetztheit) gioca nella dialettica rivoluzionaria un ruolo di primo piano proprio nell’ambito della liquidazione dei modelli, che è poi la liquidazione di una determinata «aura» umanistico-borghese.

Il passato, «carico di tempo-ora», non è «giudicato» nel senso hegeliano di una verità-totalità che privilegia il «risultato» dell’accadere; la dialettica della prassi storica rivoluzionaria spezza quel continuum e non si sottomette al ritmo di un processo che vede nel presente il frutto maturo del passato, il realizzarsi della sua verità. «Al concetto di un presente che non è passaggio, ma è in bilico nel tempo ed immobile, il materialista storico non può rinunciare»19.

Non riteniamo sia nostro compito, in questa sede, confrontare Lukács a Benjamin in rapporto al dibattito sul «marxismo occidentale» o sul «materialismo storico», magari andando alla ricerca del «vero Marx», che non è in ogni caso quello dei professori o dei pretenziosi depositari di «verità rivelate», ma l’altro, ben più vivo, incarnato nella teoria-prassi dei partiti storici della classe operaia. La legittima diffidenza di Lukács per l’intelligenza borghese critica ed evoluta, che di fronte alla nuova situazione mondiale determinata dalla Rivoluzione d’ottobre, dal crollo del fascismo e dalla costituzione di nuovi Stati socialisti, si foggia o tenta di foggiarsi armi adeguate al suo «panico elementare di impotenza» o alla sua angoscia nullificante, tende spesso a risolversi in una formula monolitica di giudizio sui prodotti artistici dell’avanguardia, non sufficientemente mediato dall’analisi delle fasi storiche della lotta di classe a cui corrispondono momenti diversi nel processo d’ideologizzazione e quindi di riassesto o di disintegrazione soprastrutturale. A questa angustia di prospettiva sulla letteratura del Novecento a cui – come giustamente è stato notato – concorre «l’attaccamento tenace ad un certo tipo di narrativa epica e ad un certo tipo di letteratura che, in un secondo tempo, avrebbe consentito la saldatura con certe componenti caratteristiche del marxismo lukacsiano (umanesimo, gnoseologia)»20, corrisponde l’ipoteca formalistica nascosta nel concetto di «realismo critico» in T. Mann e nel conseguente disinteresse per le stesse posizioni progressiste-materialiste dell’avanguardia (Brecht, Maiakovskij).

Questo atteggiamento si riconduce al cardine centrale dell’estetica lukacsiana per il quale esiste una «grande letteratura» il cui valore paradigmatico-catartico è di sempre. «La grande letteratura ha sempre ottenuto i suoi effetti catartici rivelando le contraddizioni centrali di una fase dell’evoluzione dell’umanità sotto forma di conflitti tipici di figure umane elevate alla tipicità poetica»21. La stessa partiticità dell’arte si giustifica, per Lukács, solo attraverso questa mediazione catartica, nel senso che l’oggettività estetica, su cui si impianta il rispecchiamento di una «totalità intensiva» della realtà, è strettamente connessa alla necessità di prender partito di fronte alla dialettica fondamentale, al movimento e alle contraddizioni profonde di questa realtà. Ma l’errore di Lukács non sta tanto, a nostro avviso, nelle implicazioni riduttive della sua «problematica contenutistica» (Galvano della Volpe), quanto nel fatto che a queste si aggancia una predeterminazione forrnale-strutturale del fenomeno estetico come cosmo in se stesso conchiuso, nel senso che precostituisce il margine in cui la storicità stessa della realtà può investire la storicità delle categorie estetiche. Beninteso, lo stesso Lukács sottolinea giustamente che «un’autentica storicità non può mai consistere in una mera trasformazione dei contenuti, mentre le forme resterebbero perfettamente identiche, le categorie sarebbero assolutamente immutabili»22; ma, di fatto, egli riconduce alla «oggettiva struttura-categoriale dell’opera d’arte», come conversione nella immanenza di «tutti i movimenti della coscienza verso il trascendente»23, e quindi alla priorità del simbolo sull’allegoria, il limite invalicabile del realismo, al di là del quale non può esistere che uno «sperimentalismo problematico», destinato a restare, nella migliore delle ipotesi, confinato nell’assolutizzazione dell’immediatezza. «L’avanguardia fa di un – necessario – riflesso soggettivo una realtà, anzi la realtà autentica, un’oggettività presuntamente costitutiva, e dà quindi un’immagine deformata della realtà considerata nel suo complesso»24. E tuttavia questo «sperimentalismo problematico», che pure riflette, come variante deformata e deformante del realismo, la realtà, può riproporre, sotto l’allegoria della trascendenza, una conversione ad un’immanenza divenuta sempre più enigmatica ed insondabile e può dialettizzarsi al di là del codice linguistico di un realismo incapace di accogliere nelle sue procedure gnoseologiche-selettive (il tipico) l’esperienza di nuove articolazioni semantiche.

Il fatto che questa dialettica, imposta, tra l’altro, dal terreno di lotta su cui si muove l’offensiva neocapitalistica dell’industria culturale, possa spostare e non soltanto mutare di funzione la nozione stessa dell’arte o addirittura comprometterla radicalmente sulla base del movimento di una realtà non sussumibile in un concetto di «totalità» ancora per molti riguardi legato alla tradizione umanistico-borghese, riapre il problema di fondo del superamento rivoluzionario della cultura attraverso una reinvenzione del suo senso e quindi mediante il passaggio dall’accentuazione gnoseologico-sistematica a quella critico-ideologica dei marxismo.

1 G. Lukács, Cultura e potere, a cura di C. Benedetti, Roma, 1970, p. 170.

2 Id., «Una discussione epistolare tra A. Seghers e G. Lukács», in G. Lukács, Il marxismo e la critica letteraria, trad. it. di C. Cases, Torino, 1964, p. 397.

3 Ivi, p. 398.

4 Lettera di A. Seghers. del febbraio 1939, ivi, p. 402.

5 G. Lukács, Estetica, 2 voll., trad. it. di A. Marietti Solmi, Torino, 1970, II, pp. 1502-07; ma si veda anche Il significato attuale del realismo critico, trad. it. di R. Solmi, Torino, 1957, pp. 45-48 e passim.

6 In AA. VV., Uber Walter Benjamin, Frankfurt a.M., p. 17.

7 G. Lukács, Il significato attuale, cit., p. 51.

8 Estetica, cit., II, p. 1506.

9 Ivi, p. 1505.

10 W. Benjamin, «Tesi di filosofia della storia» in Angelus Novus, Saggi e frammenti, trad. it. e introd. di R. Solmi, p. 72.

11 G. Lukács, Estetica, cit., II, p. 1511.

12 W. Benjamin, «Tesi di filosofia della storia», in op. cit., pp. 75-76.

13 G. Lukács, «Il problema della prospettiva», in Il marxismo, cit., p. 460 e 464.

14 «Tesi di filosofia», in op. cit., p. 83.

15 Ivi, pp. 76-77.

16 «Il problema della prospettiva», in op. cit., pp. 460-61.

17 «Tesi di filosofia», in op. cit., p. 81.

18 Ivi, p. 82.

19 Ivi, p. 81.

20 M. Vacatello, Lukács da “Storia e coscienza di classe” al giudizio sulla cultura borghese, Firenze 1968, p. 105.

21 G. Lukács, Estetica, cit., II, p 1598.

22 Ivi, prefazione, p. XXVI

23 Ivi, pp. XXX-XXXI.

24 Il significato attuale, cit., p. 58.

Il modello di un’arte-verità: Lukács 1933-1953

di Giuseppe Prestipino

in «Paradigmi. Rivista di critica filosofica». n. 12, 1986.

da Realismo e utopia, Editori Riuniti, Roma 2002.

«Da quando sono stato in grado di pensare», afferma Lukács ripercorrendo le vicende della propria vita, «io sono sempre stato contro il positivismo»1. In effetti, la critica del positivismo è uno dei motivi ricorrenti della sua riflessione, dagli esordi giovanili fino alla postuma Ontologia. E tuttavia, almeno fino a quando le grandi opere sistematiche della tarda maturità non avranno dipanato il contesto filosofico nel quale il suo realismo estetico tendeva a situarsi, il modello di un’arte e di una letteratura realista intrattiene in lui un rapporto piuttosto ambiguo con la tradizione del positivismo e del marxismo positivisteggiante. Continua a leggere

Arte e verità oggettiva

di György Lukács

Apparso in Internationale Literatur, 1934.

da Arte e società, Editori Riuniti, Roma 1968

1. La oggettività della verità nella gnoseologia del marxismo-leninismo

La base di qualsiasi corretta conoscenza della realtà, e non importa che si tratti della natura o della società, è il riconoscimento della oggettività del mondo esterno, cioè della sua esistenza indipendente dalla coscienza umana. Ogni interpretazione del mondo esterno non è altro che un rispecchiamento, da parte della coscienza umana, del mondo che esiste indipendentemente dalla coscienza. Questo fatto basilare della relazione fra coscienza ed essere vale ovviamente anche per il rispecchiamento artistico della realtà.

La teoria del rispecchiamento è la base comune di tutte le forme di padroneggiamento teoretico e pratico della realtà da parte della coscienza umana, ed è quindi la base anche della teoria del rispecchiamento artistico della realtà, cosicché compito delle seguenti considerazioni sarà di elaborare lo specifico del rispecchiamento artistico nell’ambito della teoria generale del rispecchiamento.

La corretta, completa teoria del rispecchiamento è sorta soltanto nel materialismo dialettico, nelle opere di Marx, Engels, Lenin e Stalin. Per la coscienza borghese una corretta teoria dell’oggettività, del rispecchiamento nella coscienza umana della realtà che esiste indipendentemente dalla coscienza, una teoria materialistico-dialettica del rispecchiamento è impossibile. Ovviamente nella prassi della scienza e dell’arte borghesi vi sono innumerevoli casi di corretto rispecchiamento della realtà e anche nella teoria non sono poche le puntate in direzione di una impostazione o di una soluzione corretta. Tuttavia, non appena il problema viene posto in termini gnoseologici, qualsiasi pensatore borghese o s’impegola nel materialismo meccanicistico o sprofonda nell’idealismo filosofico. Lenin ha caratterizzato e criticato questi limiti del pensiero borghese in ambedue le direzioni con insuperabile chiarezza. Del materialismo meccanicistico egli dice che

il suo guaio fondamentale sta nell’incapacità di applicare la dialettica alla Bildertheorie1, al processo e allo sviluppo della conoscenza2.

Ed ecco come, correlativamente, caratterizza l’idealismo filosofico:

Viceversa, dal punto di vista del materialismo dialettico, l’idealismo filosofico è lo sviluppo (la dilatazione, il rigonfiamento) unilaterale, esagerato, überschwengliches3, … di uno dei tratti, lati, limiti della conoscenza in un assoluto, avulso dalla materia, dalla natura, divinizzato… Il carattere rettilineo e unilaterale, l’irrigidimento e l’ossificazione, il soggettivismo e la cecità soggettiva, voilà le radici gnoseologiche dell’idealismo4.

Questa duplice insufficienza della gnoseologia borghese si esprime in tutti i campi e in tutti i problemi del rispecchiamento della realtà da parte della coscienza umana. Non possiamo però trattare qui né la gnoseologia per intero né la storia della conoscenza umana. Dovremo limitarci a rilevare soltanto alcuni momenti importanti della gnoseologia del marxismo-leninismo, quelli che sono di particolare peso per il problema della oggettività del rispecchiamento artistico duella realtà.

Il primo problema importante che deve occuparci qui è quello delle immagini speculari immediate del mondo esterno. Ogni conoscenza poggia su di esse, sono il fondamento, il punto di partenza di qualsiasi conoscenza. Ma per l’appunto sono soltanto il punto di partenza e non esauriscono la totalità del processo conoscitivo. Marx si esprime su tale questione con inequivocabile chiarezza:

Ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero5.

E Lenin, che ha analizzato a fondo tale questione nei suoi appunti sulla logica di Hegel, ne dà allo stesso modo questa formulazione:

La verità non sta all’inizio, ma alla fine, o, più esattamente, nella continuazione. La verità non è l’impressione iniziale6,

e illustra questo pensiero, perfettamente nel senso delle enunciazioni di Marx, con un esempio tratto dall’economia politica:

Il valore è una categoria che des Stoffes der Sinnlichkeit entbehrt7, ma essa è più vera che non la legge della domanda e dell’offerta8.

E da questo punto di partenza Lenin procede per determinare la funzione delle categorie astratte, dei concetti, delle leggi, ecc., nella totalità della conoscenza umana della realtà, per determinarne il posto nella teoria realizzata del rispecchiamento, nella teoria realizzata della conoscenza oggettiva della realtà.

Come la forma semplice del valore, il singolo atto di scambio di una data merce con un’altra, include già in sé in forma non sviluppata tutte le principali contraddizioni del capitalismo: così la più semplice generalizzazione, la prima e più semplice formazione di concetti (giudizi, sillogismi, ecc.), già significa la conoscenza della sempre più profonda connessione oggettiva del mondo da parte dell’uomo9.

Su questa base egli può dire sintetizzando:

L’astrazione della materia, della legge di natura, l’astrazione del valore ecc., in breve, tutte le astrazioni scientifiche (corrette, serie, non assurde) rispecchiano la natura in modo più profondo, fedele e compiuto. Dalla vivente intuizione al pensiero astratto e da questo alla prassi: ecco il cammino dialettico della conoscenza della verità, della conoscenza della realtà oggettiva10.

Lenin quindi, analizzando il posto delle diverse astrazioni nella teoria della conoscenza, rileva con la massima acutezza la loro duplicità dialettica. Dice:

Il significato dell’universale è contraddittorio: esso è morto, impuro, incompleto, ecc., ecc., ma esso soltanto è anche un gradino per la conoscenza del concreto, poiché noi non conosciamo mai completamente il concreto. La somma infinita dei concetti generali, delle leggi, ecc. dà il concreto nella sua pienezza11.

Soltanto questa duplicità chiarisce la dialettica di fenomeno ed essenza. Lenin dice:

Il fenomeno è più ricco della legge12.

E riallacciandosi a una determinazione di Hegel svolge così tale pensiero:

È questa una definizione stupendamente materialistica e notevolmente precisa (l’aggettivo «ruhige»13). La legge prende ciò che è quieto: e quindi la legge, ogni legge, è ristretta, incompleta, approssimativa14.

In tal modo, penetrando a fondo l’incompletezza della riproduzione mentale della realtà, sia nel rispecchiamento immediato dei fenomeni e sia nei concetti e nelle leggi (quando vengono considerati unilateralmente, non dialetticamente, quando non vengono considerati nel processo infinito della loro dialettica azione reciproca), Lenin perviene a superare materialisticamente tutte le false impostazioni della gnoseologia borghese. Ogni gnoseologia borghese infatti ha unilateralmente sottolineato la priorità di un solo modo d’intendere la realtà, di un solo organo della sua riproduzione nella coscienza. Lenin invece ne presenta concretamente il cooperare dialettico nel processo conoscitivo.

La rappresentazione è più vicina alla realtà che non il pensiero? Sì e no. La rappresentazione non può cogliere il movimento nella sua totalità, non afferra, per esempio, il movimento a una velocità di trecentomila chilometri al secondo, ma il pensiero lo coglie e deve coglierlo. Il pensiero tratto dalla rappresentazione rispecchia anch’esso la realtà15.

Viene così dialetticamente superata la sottovalutazione idealistica delle facoltà conoscitive «inferiori». Proprio per l’orientamento rigorosamente materialistico della sua gnoseologia, per essersi attenuto incrollabilmente al principio della oggettività, Lenin può cogliere nel loro vivo movimento il corretto rapporto dialettico dei modi in cui l’uomo percepisce la realtà. Così parla a proposito del ruolo della fantasia nella conoscenza umana:

L’accostarsi dell’intelletto (dell’uomo) alla singola cosa, il trarre da essa una copia, (= concetto) non è un atto semplice, immediato, specularmente inerte, ma un atto complesso, sdoppiato, a zig-zag, racchiudente in sé la possibilità del volo della fantasia dalla vita… Infatti anche nella generalizzazione più semplice, nell’idea generale più elementare (il «tavolo» in generale) è contenuta una piccola dose di fantasia. (Viceversa: è assurdo negare la funzione della fantasia anche nella scienza più rigorosa.)16

L’incompletezza, l’ossificazione, l’irrigidimento di ogni concezione unilaterale della realtà possono essere superati soltanto mediante la dialettica. Solamente mediante una corretta e consapevole applicazione della dialettica possiamo giungere a superare tale incompletezza nel processo infinito della conoscenza e ad avvicinare il nostro pensiero alla infinità, ricca di movimento e di vita, della realtà oggettiva. Lenin dice:

Non possiamo rappresentare, esprimere, misurare, raffigurare il movimento, senza interrompere la continuità, senza semplificare e involgarire, senza smembrare e mortificare il vivente. La raffigurazione del movimento da parte del pensiero è sempre un involgarimento, una mortificazione; e non solo per opera del pensiero, ma anche per opera della sensazione, e non solo del movimento, ma anche di ogni concetto. Sta qui la sostanza della dialettica. Questa sostanza viene espressa anche nella formula: unità, identità degli opposti17.

Il legame della dialettica materialistica con la prassi, il suo sorgere dalla prassi, il suo controllo mediante la prassi, il suo ruolo primario nella prassi dipendono da questa profonda comprensione dell’essenza dialettica della realtà oggettiva e della dialettica del suo rispecchiamento nella coscienza umana. La teoria leniniana della prassi rivoluzionaria poggia per l’appunto sul riconoscimento che la realtà è sempre più ricca e varia della migliore e più completa teoria che possa essere configurata su di essa. Ma insieme sulla consapevolezza che in virtù della viva dialettica è sempre possibile imparare dalla realtà, comprenderne con il pensiero le nuove determinazioni essenziali e convertirle in prassi. La storia, affermava Lenin, in particolare la storia della rivoluzione, è sempre stata più ricca di contenuto, più varia, più multilaterale, più viva, più astuta, di quel che i migliori partiti, l’avanguardia più ricca di coscienza di classe delle classi più progredite, s’immaginino. L’enorme elasticità della tattica di Lenin, la sua capacità di adattarsi alle svolte improvvise della storia in modo straordinariamente rapido e di cavare da esse il massimo raggiungibile, poggia appunto su tale profonda comprensione della dialettica oggettiva.

Questa connessione tra rigoroso oggettivismo della gnoseologia18 e strettissimo legame con la prassi è uno dei momenti essenziali della dialettica materialistica del marxismo-leninismo. L’oggettività del mondo esterno non è una oggettività morta, irrigidita, che determina fatalisticamente la prassi umana, essa sta invece – proprio nella sua indipendenza dalla coscienza umana – nel più stretto, indissolubile rapporto d’interazione con la prassi umana. Già nella prima giovinezza Lenin rifiutava come falso e come tale da indurre all’apologia ogni modo di concepire l’oggettività che fosse rigidamente fatalistico, non concreto e non dialettico. Nella battaglia contro il soggettivismo di Michajlovskij, egli critica infatti contemporaneamente il rigido e apologetico «oggettivismo» di Struve. Egli intende giustamente e profondamente l’oggettivismo del materialismo dialettico come oggettivismo della prassi, della partiticità. Il materialismo, dice Lenin riassumendo le sue obiezioni a Struve,

racchiude in sé, per così dire, la partiticità, imponendo, nella valutazione di ogni avvenimento, l’accettazione diretta e aperta del punto di vista di un determinato gruppo sociale19.

 

2. La teoria del rispecchiamento nell’estetica borghese

Questo fondamento contraddittorio del modo in cui l’uomo concepisce il mondo esterno, questa contraddizione immanente nella struttura del rispecchiamento del mondo esterno da parte della coscienza umana è presente in tutte le concezioni teoriche della riproduzione artistica della realtà. Se esaminiamo bene la storia dell’estetica sulla base del marxismo-leninismo, riscontriamo continuamente l’emergere unilaterale delle due tendenze così profondamente analizzate da Lenin: da un lato l’incapacità del materialismo meccanicistico «di applicare la dialettica alla teoria delle immagini» e, dall’altro, l’errore di fondo dell’idealismo allo stato originario: «l’universale (il concetto, l’idea) è un’essenza particolare». Ovviamente anche nella storia dell’estetica queste due tendenze di rado si mostrano nella loro piena purezza. Il materialismo meccanicistico, la cui forza consiste nel fatto che esso mantiene ferma l’idea del rispecchiamento della realtà oggettiva conservandola viva nell’estetica, in conseguenza della sua necessaria incapacità di capire i problemi del movimento, della storia, ecc., si rovescia in idealismo, come ha già persuasivamente mostrato Engels. Nella storia dell’estetica s’incontrano poi grandiosi tentativi di idealisti oggettivi (Aristotele, Hegel) di superare dialetticamente l’incompletezza, l’unilateralità e ossificazione dell’idealismo. Tuttavia, poiché tali tentativi vengono effettuati su base idealistica, possono certamente in singoli aspetti recare formulazioni dell’oggettività importanti e pertinenti, ma i sistemi nel loro insieme devono cadere vittima dell’unilateralità dell’idealismo.

Qui noi possiamo illustrare le contraddittorie e unilaterali, le incomplete vedute del materialismo meccanicistico e dell’idealismo servendoci di un esempio classico e pregnante. Scegliamo le opere dei classici perché in questi tutte le idee vengono espresse senza diplomazia, con brusca e sincera franchezza, contrariamente alle eclettiche e apologetiche irresolutezze e insincerità degli estetici del periodo di decadenza dell’ideologia borghese.

Diderot, uno dei principali rappresentanti della teoria meccanicistica della imitazione immediata della natura, esprime nella forma più netta tale teoria nel romanzo Les bijoux indiscrets. La sua eroina, che qui è insieme la portavoce delle sue idee, critica nei termini seguenti il classicismo francese:

Ma io so che soltanto il vero piace e commuove. So inoltre che la perfezione d’uno spettacolo consiste nell’imitazione talmente esatta d’una azione, che lo spettatore, ininterrottamente ingannato, s’immagina d’assistere all’azione stessa.

E per non far sorgere dubbi sul fatto che qui illusione vuol dire imitazione completa, fotografica della realtà, Diderot fa immaginare alla sua eroina il caso di un uomo a cui sia stato narrato il contenuto di una tragedia come un vero intrigo di corte e che poi vada a teatro per sentire gli ulteriori sviluppi di questo reale avvenimento:

Io lo conduco in una loggia munita di inferriata di dove vede il teatro, che egli prende per il palazzo del sultano. E voi credete che, a dispetto di tutta la serietà che io affetterei, l’illusione di quest’uomo durerebbe un solo istante? Al contrario…20.

Con il che, per Diderot, è stato pronunciato su tale dramma un giudizio estetico distruttivo. È chiaro che, sulla base di una tale teoria, la quale vorrebbe conseguire il massimo grado di oggettività dell’arte, non può essere risolto nessun problema reale dell’oggettività specificamente artistica. (Il fatto che Diderot nella sua teoria come, in particolare, nella sua prassi artistica imposti e risolva correttamente tutta una serie di problemi, non rientra in questo discorso, in quanto egli può risolvere tali problemi solamente quando, senza eccezione, diviene infedele a questa sua rigida teoria.)

Come estremo opposto possiamo considerare l’estetica di Schiller. Nell’interessantissima prefazione alla sua Braut von Messina Schiller ci dà una critica pertinente dell’insufficienza della teoria estetica dell’imitazione. Egli pone all’arte giustamente il compito «di non accontentarsi semplicemente dell’apparenza della verità», ma di erigere il proprio edificio «sulla verità stessa». Tuttavia, da idealista autentico, Schiller non ritiene che la verità sia un rispecchiamento della realtà oggettiva più profondo e più completo di quello costituito dall’apparenza, egli invece isola la verità dalla realtà materiale, ne fa un’essenza autonoma e contrappone in modo rigido ed esclusivo la verità alla realtà. Dice: «La natura stessa è solo un’idea dello spirito, che non cade mai sotto i sensi». Perciò il prodotto della fantasia artistica agli occhi di Schiller è «più vero di ogni realtà e più reale di ogni esperienza». Questo rigonfiamento e ossificazione idealistici del momento della legge, al di là dell’immediatezza, distruggono tutte le giuste e profonde osservazioni di Schiller. Egli sostiene – tendenzialmente – una cosa giusta quando dice «che l’artista non può usare nessun elemento della realtà così come lo trova», ma esagera già nella formulazione, in quanto intende come reale solo il dato immediato e nella verità vede un principio soprannaturale, non un rispecchiamento più profondo e più vasto della stessa realtà oggettiva, in quanto dunque le contrappone idealisticamente come rigidamente escludentisi l’un l’altra. Egli quindi da osservazioni giuste perviene a conclusioni sbagliate, e proprio attraverso il principio in virtù del quale vuole fondare l’oggettività dell’arte in modo più profondo del materialismo meccanicistico, egli sopprime ogni oggettività dell’arte.

Negli sviluppi moderni dell’estetica possiamo ritrovare i medesimi due estremi: da un lato si resta incollati alla realtà immediata, dall’altro si isolano dalla realtà materiale quei momenti che conducono oltre l’immediatezza. Tuttavia, siccome l’ideologia della borghesia in decadenza si è universalmente convertita in un idealismo ipocrita e menzognero, ambedue i principi hanno subito notevoli mutamenti. La teoria della riproduzione immediata della realtà va perdendo sempre più il suo carattere meccanico-materialistico, il suo carattere di teoria del rispecchiamento del mondo esterno. L’immediatezza viene sempre più fortemente soggettivizzata, sempre più fortemente viene intesa come funzione indipendente e autonoma del soggetto (come impressione, stato d’animo, ecc., che nella mente vengono staccati dalla realtà oggettiva che li suscita). Naturalmente anche in questo periodo la prassi dei realisti di rilievo resta orientata sulla riproduzione artistica della realtà. In genere però non più con quell’audacia e (relativa) coerenza dei realisti del periodo di ascesa della borghesia. E nelle loro teorie prende sempre più spazio la mescolanza eclettica di un falso oggettivismo con un falso soggettivismo. Isolano l’oggettività dalla prassi umana, le tolgono ogni movimento e vitalità, e poi la contrappongono rigidamente, fatalisticamente, romanticamente, alla soggettività altrettanto isolata. La celebre definizione dell’arte data da Zola: «un coin de la nature vu à travers un temperament»21, è un esempio classico di tale eclettismo. Un pezzo di natura dovrebbe essere riprodotto meccanicisticamente, cioè in modo falsamente oggettivistico, e quindi diventare poetico per il fatto di apparire alla luce di una soggettività semplicemente contemplante, isolata dalla prassi, dalla interazione pratica. La soggettività dell’artista qui non è più, come nei vecchi realisti, mezzo per il rispecchiamento il più possibile completo del movimento di una totalità, ma un ingrediente aggiunto dall’esterno per la riproduzione meccanica di un pezzo di essa staccato casualmente.

La soggettivizzazione coerente della riproduzione immediata della realtà si compie in pratica nello sviluppo del naturalismo e riceve le più diverse espressioni teoriche. La più nota e quella di più larga influenza è la cosiddetta Einfühlungstheorie. In essa si nega qualsiasi riproduzione della realtà indipendente dalla coscienza. Il più noto rappresentante moderno di tale teoria, Lipps, dice ad esempio: «La forma di un oggetto è sempre il venir formato attraverso me, attraverso la mia attività interna». E corrispondentemente conclude: «Il godimento estetico è l’autogodimento oggettivato». L’essenza dell’arte consiste perciò nell’introdurre i pensieri, i sentimenti, ecc., umani nel mondo esterno pensato come inconoscibile. Questa teoria rispecchia fedelmente la soggettivizzazione costantemente crescente della prassi artistica, che si esprime nel trapasso dal naturalismo all’impressionismo, ecc., nella crescente soggettivizzazione della tematica e del metodo creativo, nel progressivo allontanarsi dell’arte dai grandi problemi della società.

Così la teoria del realismo del periodo imperialistico mostra una dissoluzione e decomposizione crescenti delle premesse ideologiche del realismo. Ed è chiaro che le reazioni apertamente antirealistiche contro questo realismo finiscano per spingere al culmine, anche sul piano teorico, i momenti idealisticamente soggettivi in modo assai più estremo rispetto all’idealismo precedente. Questo carattere estremo della ossificazione idealistica viene ulteriormente accresciuto dal fatto che l’idealismo del periodo imperialistico è una concezione di parassitismo imperialistico. Mentre i grandi idealisti classici cercavano di dominare realmente nel loro pensiero i grandi problemi del proprio tempo, anche se a causa del loro idealismo li formulavano in modo stravolto, poggiandoli sulla testa, questo nuovo idealismo è una ideologia della reazione, della fuga dai grandi problemi dell’epoca, una tendenza ad astrarre dalla realtà. Il noto e assai seguito estetico Worringer, fondatore della cosiddetta «teoria dell’astrazione», fa derivare il bisogno dell’astrazione da un «orrore spirituale dello spazio», da un «enorme bisogno di quiete» nell’uomo. Di conseguenza rifiuta anche il realismo moderno, in quanto troppo illustrativo, troppo vicino alla realtà. Egli fonda la sua teoria su una «assoluta volontà d’arte», intendendo questa come una «latente esigenza intima che, del tutto indipendentemente dall’oggetto… esiste per sé e si atteggia a volontà di forma». Il fatto che questa teoria abbia la pretesa, secondo la moda, di fondare la massima oggettività dell’arte, è assai significativo per le teorie del periodo imperialistico, che non si mostrano mai apertamente, ma presentano sempre le loro tendenze sotto un mascheramento. Lenin, nel caratterizzare la «lotta» dei machisti contro l’idealismo, svela fino in fondo questa manovra dell’idealismo del periodo imperialistico. La teoria dell’astrazione, divenuta più tardi la base teorica dell’espressionismo, è una vetta dello svuotamento soggettivistico dell’estetica, è una teoria dell’ossificazione e decadenza soggettivistiche delle forme artistiche nel periodo del capitalismo putrescente.

 

3. Il rispecchiamento artistico della realtà

Il rispecchiamento artistico della realtà trova il suo punto di partenza nelle medesime contraddizioni da cui parte qualsiasi altro rispecchiamento della realtà. La sua specificità consiste nel fatto che esso per risolverle cerca una strada diversa da quella del rispecchiamento scientifico. Questo specifico carattere del rispecchiamento artistico della realtà potremo caratterizzarlo nel modo migliore partendo nel ragionamento dalla meta già conseguita e di qui chiarire i presupposti di tale conseguimento. La meta è, in ogni grande arte, dare un’immagine della realtà nella quale l’opposizione di fenomeno ed essenza, di caso particolare e legge, di immediatezza e concetto, ecc., sia risolta in modo tale che ambedue, nell’immediata impressione dell’opera d’arte, convergano verso una unità spontanea, che per il recettore costituiscano una unità inscindibile. L’universale appare come qualità del singolare e del particolare, l’essenza diviene visibile e sperimentabile nel fenomeno, la legge si manifesta come causa agente specifica del caso particolare specificamente rappresentato. Engels esprime assai chiaramente tale carattere della costruzione artistica quando, a proposito dei personaggi del romanzo, dice:

Ciascuno è un tipo, ma è anche, ad un tempo, un individuo perfettamente determinato, un «costui», per dirla con l’espressione del vecchio Hegel, e così deve anche essere22.

Ne deriva che ogni opera d’arte deve fornire un contesto concluso, incurvato in sé, compiuto in sé, e precisamente un contesto tale il cui movimento e la cui struttura siano immediatamente evidenti. La necessità di questa immediata evidenza si rivela nel modo più chiaro proprio nella letteratura. Le interrelazioni reali e più profonde per esempio di un romanzo o di un dramma possono essere svelate soltanto alla fine. Rientra nell’essenza della loro costruzione e della loro efficacia che solamente la fine faccia reale e completa chiarezza sull’inizio. E tuttavia la loro composizione sarebbe del tutto sbagliata e inefficace se la strada che porta a questa vetta finale non avesse, a ogni tappa, una evidenza immediata. Le determinazioni essenziali del mondo rappresentato da un’opera d’arte letteraria si svelano quindi in una successione e in un crescendo artistici. Ma questo crescendo deve compiersi all’interno dell’inscindibile e fin dall’inizio immediatamente presente unità di fenomeno ed essenza e in una crescente concretizzazione di ambedue i momenti deve renderne sempre più intima ed evidente l’unità.

Questa conclusa immediatezza dell’opera d’arte ha come conseguenza che ogni opera d’arte deve svolgere in modo autonomamente creativo tutti i presupposti dei personaggi, delle situazioni, degli avvenimenti, ecc., che appaiono in essa. L’unità di fenomeno ed essenza può divenire esperienza immediata solo se il recettore esperimenta immediatamente ciascun momento essenziale della crescita o del mutamento insieme con tutte le cause essenzialmente determinanti, solo se non gli vengono mai offerti risultati compiuti, ma invece viene guidato a partecipare immediatamente al processo che porta a tali risultati. Il materialismo spontaneo degli artisti grandissimi (senza pregiudizio della loro concezione del mondo spesso a metà o totalmente idealistica) si esprime appunto in ciò, che essi sempre configurano con chiarezza quelle premesse e condizioni essenziali a partire dalle quali sorge e si sviluppa la coscienza dei personaggi da loro rappresentati.

Ogni opera d’arte significativa crea in tal modo un «mondo proprio». I personaggi, le situazioni, il procedimento, ecc. hanno una qualità particolare, che non è rintracciabile in nessun’altra opera d’arte, che è assolutamente diversa dalla realtà quotidiana. Quanto più l’artista è grande, quanto più la sua energia plasmatrice compenetra tutti i momenti dell’opera d’arte, con tanta maggiore pregnanza emerge in ogni particolarità questo «mondo proprio» dell’opera d’arte. Balzac dice, a proposito della sua Comédie humaine:

La mia opera ha la sua geografia, come ha la sua genealogia e le sue famiglie, i suoi luoghi e le sue cose, le sue persone e i suoi fatti; come anche possiede la sua araldica, i suoi nobili e i suoi borghesi, i suoi artigiani e i suoi contadini, i suoi politici e i suoi dandies e il suo esercito, in breve il suo mondo.

Ma, determinata così la specificità dell’opera d’arte, non ne viene soppresso il carattere di rispecchiamento della realtà? Niente affatto. In tal modo viene anzi rilevata nettamente la singolarità, la specificità del rispecchiamento artistico della realtà. L’apparente isolamento dell’opera d’arte, la sua apparente inconfrontabilità con la realtà, riposa proprio sul fondamento del rispecchiamento artistico della realtà. Perché tale inconfrontabilità è appunto soltanto un’apparenza, anche se necessaria, anche se inerente all’essenza dell’arte. L’efficacia dell’arte, il completo perdersi del recettore nell’effetto dell’opera d’arte, la sua completa adesione alla specificità del «mondo proprio» dell’opera d’arte, derivano per l’appunto dal fatto che l’opera d’arte offre un rispecchiamento della realtà per sua essenza più fedele, più completo, più vivo, più mosso di quello posseduto dal recettore, dal fatto dunque che l’opera d’arte, sulla base delle esperienze del recettore, sulla base del concentramento e astrazione della sua precedente riproduzione della realtà, lo conduce oltre i confini di tali esperienze, verso una visione più concreta della realtà. È quindi solo un’apparenza che l’opera d’arte stessa non sia un rispecchiamento della realtà oggettiva, che inoltre il recettore non interpreti il «mondo proprio» dell’opera d’arte come un rispecchiamento della realtà e non lo confronti con le sue proprie esperienze. Egli, anzi, lo fa di continuo, e l’efficacia dell’opera d’arte cessa istantaneamente quando il recettore vi nota una contraddizione, quando sente l’opera d’arte come un rispecchiamento falso della realtà. Ma questa apparenza è ciò nondimeno necessaria. Infatti nella coscienza non viene posta a confronto una singola esperienza isolata con un singolo tratto isolato dell’opera d’arte, il recettore invece, sul fondamento della sua esperienza totale concentrata, si abbandona all’effetto totale dell’opera d’arte. E il confronto tra i due rispecchiamenti della realtà resta inconsapevole fin quando il recettore è trascinato dall’opera d’arte, cioè fin quando le sue esperienze della realtà vengono ampliate e approfondite dalla rappresentazione dell’opera d’arte. Per questo Balzac non contraddice la sua asserzione citata prima sul suo «mondo proprio» quando afferma:

Per diventare fecondi, occorre soltanto studiare. La società francese dovrà essere lo storico, e io solo il suo segretario.

La compattezza dell’opera d’arte è dunque il rispecchiamento del processo vitale nel suo movimento e nel suo mosso contesto concreto. Tale fine se lo pone ovviamente anche la scienza. Questa raggiunge la concretezza dialettica avanzando sempre più profondamente verso le leggi del movimento. Engels dice che la legge generale del cambiamento di forma è molto più concreta di qualsiasi suo singolo esempio «concreto». Questo movimento della conoscenza scientifica della realtà è un movimento infinito. Vale a dire: in ogni corretta conoscenza scientifica viene correttamente rispecchiata la realtà oggettiva; entro questi termini essa è una conoscenza assoluta. Ma poiché la realtà stessa è sempre più ricca, più varia di ogni legge, fa parte della natura della conoscenza che essa debba essere sempre perfezionata, approfondita, arricchita, che l’assoluto appaia sempre nella forma del relativo, di ciò che è giusto solo in via d’approssimazione. Anche la concretezza artistica è una unità di assoluto e relativo. Tuttavia una unità oltre la quale nel quadro dell’opera d’arte non si può andare. L’ulteriore sviluppo oggettivo del processo storico, l’ulteriore sviluppo della nostra conoscenza di questo processo, non sopprimono il valore artistico, la validità e l’efficacia delle grandi opere d’arte che hanno correttamente e profondamente rappresentato la loro epoca.

Vi si aggiunge, come seconda importante differenza tra rispecchiamento scientifico e rispecchiamento artistico della realtà, che le singole conoscenze scientifiche (legge, ecc.) non esistono indipendentemente l’una dall’altra, ma formano un sistema interrelato. E questa interrelazione è tanto più stretta, quanto più è sviluppata la scienza. Ogni opera d’arte invece deve sussistere per se stessa. Naturalmente vi è uno sviluppo dell’arte; naturalmente tale sviluppo ha una interrelazione oggettiva ed è conoscibile, con tutte le sue leggi. Ma questa interrelazione oggettiva dello sviluppo artistico, in quanto è una delle parti del generale sviluppo sociale, non toglie il fatto che l’opera d’arte diviene tale solo perché possiede questa compattezza, questa capacità di agire di per sé.

L’opera d’arte quindi deve rispecchiare in una interrelazione corretta e correttamente proporzionata tutte le determinazioni essenziali, oggettive, che oggettivamente determinano il brano di vita da essa configurato. E deve rispecchiarle in modo tale che questo brano di vita sia comprensibile e risperimentabile in sé e a partire da sé, che esso appaia come una totalità di vita. Ciò non significa che ogni opera d’arte debba porsi il fine di rispecchiare l’oggettiva totalità estensiva della vita. Al contrario: la totalità estensiva della realtà oltrepassa necessariamente i possibili confini di qualsiasi rappresentazione artistica; essa può venir riprodotta nel pensiero soltanto dal processo infinito della scienza complessiva in una approssimazione costantemente crescente. La totalità dell’opera d’arte è piuttosto una totalità intensiva: il contesto incurvato e compiuto in sé di quelle determinazioni che – oggettivamente – sono d’importanza decisiva per il brano di vita configurato, che determinano la sua esistenza e il suo movimento, la sua qualità specifica e la sua collocazione nell’insieme del processo vitale. In questo senso il più piccolo Lied è una totalità intensiva tanto quanto il poema più poderoso. La quantità, qualità, proporzione, ecc. delle determinazioni che vengono in luce dipendono dal carattere oggettivo del brano di vita configurato, il quale opera insieme alle leggi specifiche del genere adatto a configurarlo.

La compattezza significa dunque in primo luogo che il fine dell’opera d’arte è di rappresentare, di rendere vive in un mosso rispecchiamento quell’«astuzia», quella ricchezza, quella inesauribilità della vita, di cui parlava Lenin. Non importa che l’opera d’arte abbia intenzione di configurare l’insieme della società oppure soltanto un caso particolare artificialmente isolato, ogni volta essa mirerà a configurare l’intensiva infinità del suo oggetto. Cioè: mirerà a immettere configurandole nella sua rappresentazione tutte le determinazioni essenziali che nella realtà oggettiva formano oggettivamente la base di tale caso o complesso di casi. E tale immissione configurativa significa che tutte queste determinazioni appaiono come caratteri personali dei personaggi in azione, come qualità specifiche delle situazioni rappresentate, ecc., cioè appaiono nell’unità sensibilmente immediata di singolare e universale. Di vivere la realtà in tal modo sono capaci pochissimi uomini. Costoro giungono alla conoscenza delle determinazioni universali della vita soltanto abbandonando l’immediatezza, soltanto mediante l’astrazione, soltanto mediante il confronto astraente delle esperienze. (È ovvio che anche l’artista non è una rigida eccezione. Il suo lavoro consiste piuttosto nell’elevare alla forma artistica, all’unità formata di immediatezza e legge, le sue esperienze conseguite anche per via normale.) Plasmando uomini particolari e situazioni particolari, l’artista suscita l’apparenza della vita. Quando egli dà loro la forma di uomini e situazioni esemplari (unità di individuale e di tipico), quando rende immediatamente sperimentabile una ricchezza il più possibile grande di determinazioni oggettive della vita come tratti particolari di uomini e situazioni individuali, sorge il suo «mondo proprio», che è il rispecchiamento della vita nella sua mossa complessità, della vita come processo e totalità, proprio perché intensifica e soverchia nella sua complessità e nei suoi particolari l’usuale rispecchiamento dei fatti della vita da parte dell’uomo.

Questo dar forma all’«astuzia» della vita, alla sua ricchezza soverchiante l’esperienza usuale, è però solo un lato della forma specifica del rispecchiamento artistico della realtà. Se nell’opera d’arte si desse forma solamente alla ricchezza traboccante dei tratti nuovi, solamente a quei momenti che, come novità, come «astuzia», vanno al di là delle astrazioni consuete, al di là della normale esperienza della vita, l’opera d’arte sbalordirebbe il recettore, invece di trascinarlo, allo stesso modo in cui tali momenti in generale sbalordiscono e confondono l’uomo quando si presentano nella vita stessa. È quindi necessario che in questa ricchezza, in questa «astuzia» venga contemporaneamente in luce la nuova legge che sopprime o modifica le vecchie astrazioni. Anche questo è un rispecchiamento della realtà oggettiva. Infatti la nuova legge non viene affatto intrusa nella vita, ma invece ricavata mediante la riflessione, il confronto, ecc., dalle nuove esperienze della vita. Nella vita vera e propria si hanno sempre due atti: si viene sorpresi, magari talvolta soggiogati dai nuovi fatti, e soltanto allora si ha bisogno di rielaborarli nel pensiero applicando su di essi il metodo dialettico. Questi due atti nell’opera d’arte coincidono. Non nel senso di una unità meccanica (perché così verrebbe di nuovo soppressa la novità dei singoli fenomeni), ma nel senso di un processo, di modo che in quei nuovi fenomeni, in cui si manifesta l’«astuzia» della vita, già fin dall’inizio traluca la loro legge e nel corso dello sviluppo artisticamente potenziato venga in primo piano con sempre maggiore evidenza e chiarezza.

Questa rappresentazione di una vita che è insieme più ricca e più nettamente articolata e ordinata di quel che siano in generale le esperienze di vita dell’uomo, è strettissimamente collegata con la funzione sociale attiva, con l’efficacia propagandistica delle opere d’arte autentiche. Gli artisti sono «ingegneri delle anime» (Stalin) innanzi tutto perché hanno la capacità di rappresentare la vita in tale unità e moto. È impossibile infatti che tale rappresentazione sia la morta e falsa oggettività di una riproduzione «imparziale», senza presa di posizione, senza tendenza, senza appello all’attività. Noi sappiamo già attraverso Lenin che questa partiticità non viene arbitrariamente immessa nel mondo esterno dal soggetto, ma è invece una forza motrice intrinseca alla realtà stessa, la quale viene portata alla coscienza e introdotta nella prassi mediante il corretto, dialettico rispecchiamento della realtà.

Questa partigianeria della oggettività non può dunque non ritrovarsi potenziata nell’opera d’arte. Potenziata nel senso della chiarezza e dell’evidenza; perché il materiale dell’opera d’arte viene consapevolmente raggruppato e ordinato dall’artista proprio a tal fine, in direzione di tale partigianeria. Ma potenziato anche nel senso dell’oggettività; infatti la creazione di un’opera d’arte autentica finisce appunto per dar forma alla partigianeria come qualità della stessa materia rappresentata, come energia motrice che le è intrinseca, che si sviluppa da essa organicamente. Quando Engels chiaramente e risolutamente prende posizione per la tendenza nella letteratura, egli intende sempre – come dopo di lui Lenin – questa partiticità dell’oggettività e rifiuta nel modo più deciso ogni tendenza introdotta soggettivamente, «montata» soggettivamente:

Secondo me la tendenza deve sorgere dalla situazione e dall’azione stesse senza che vi si faccia esplicitamente riferimento23.

A questa dialettica del rispecchiamento artistico della realtà rimandano tutte le teorie estetiche che si occupano del problema della apparenza estetica. La paradossalità dell’efficacia dell’opera d’arte consiste nel fatto che noi ci abbandoniamo all’opera d’arte come a una realtà posta davanti a noi, che l’accettiamo come realtà, l’accogliamo in noi, quantunque sappiamo sempre perfettamente che non è una realtà, ma una particolare forma di rispecchiamento della realtà. Lenin dice giustamente:

L’arte non esige che si riconoscano le sue opere come realtà24.

L’illusione generata dall’arte, l’apparenza estetica, poggia quindi da un lato sulla compattezza da noi analizzata dell’opera d’arte, sul fatto che questa nella sua complessità rispecchia il processo complessivo della vita e non presenta nei suoi aspetti singoli rispecchiamenti di singoli fenomeni della vita che possano essere nella loro singolarità confrontati con la vita, con il loro modello reale. L’inconfrontabilità in questo senso è il presupposto dell’illusione artistica, che viene immediatamente lacerata da ogni confronto di tal genere. Dall’altro lato, fatto inscindibilmente connesso con il precedente, questa chiusura dell’opera d’arte, la nascita della apparenza artistica, è possibile solamente se l’opera d’arte rispecchia in modo oggettivamente corretto l’oggettivo processo complessivo della vita.

Questa dialettica oggettiva del rispecchiamento artistico della realtà non è comprensibile alle teorie borghesi, le quali perciò finiscono sempre per cadere completamente o in determinati punti delle loro esposizioni preda del soggettivismo. L’idealismo filosofico, come abbiamo visto, finisce per isolare dalla realtà materiale, oggettiva, il tratto caratteristico dell’opera d’arte, la compattezza, il suo soverchiare la realtà consueta, esso finisce per contrapporre la compattezza, la compiutezza formale dell’opera d’arte, alla teoria del rispecchiamento. Quando l’idealismo oggettivo, ciò nonostante, vuol salvare e fondare teoricamente l’oggettività dell’arte, finisce inevitabilmente per cadere nel misticismo. Non è affatto casuale che la teoria platonica dell’arte, dell’arte come rispecchiamento delle «idee», abbia avuto storicamente una così lunga durata, giungendo fino a Schelling e Schopenhauer. Infatti gli stessi materialisti meccanicistici, quando a causa della necessaria insufficienza del materialismo meccanicistico nella interpretazione dei fenomeni della società cadono nell’idealismo, sono soliti passare dalla teoria della riproduzione meccanico-fotografica immediatamente a un qualche platonismo, a una teoria della imitazione artistica di «idee». (Ciò è chiaramente visibile in Shaftesbury, talvolta anche in Diderot.) Ma questo oggettivismo mistico si rovescia sempre e inevitabilmente in soggettivismo. Quanto più i momenti della compattezza dell’opera d’arte e del carattere attivo della elaborazione e trasformazione artistiche della realtà vengono contrapposti alla teoria del rispecchiamento, e non sono fatti derivare dialetticamente da essa, tanto più si isola dalla vita il principio della forma, della bellezza, dell’artisticità; tanto più questo diviene un principio inspiegabile, soggettivamente mistico. Le platoniche «idee», che nell’idealismo del periodo ascendente della borghesia erano talvolta rispecchiamenti enfiati e rigonfiati, artificialmente isolati dalla realtà sociale, di problemi sociali decisivi, che dunque, a dispetto del loro stravolgimento idealistico, erano tuttavia dotati di contenuto e non privi di contenuto giusto, queste «idee» con la decadenza della classe vanno perdendo sempre più tale caratteristica. L’isolamento sociale dell’artista soggettivamente sincero in una classe in decadenza si rispecchia in questo rigonfiamento mistico-soggettivistico del principio formale che nega ogni nesso con la vita. L’originaria disperazione, che artisti autentici sentono per tale stato di cose, si trasforma sempre più nella parassitaria rassegnazione e sufficienza dell’art pour l’art e della sua teoria artistica. Baudelaire canta la bellezza in una forma ancora disperata, soggettivo-mistica:

Je trône dans l’azur comme un sphinx incompris25

Nel successivo l’art pour l’art del periodo imperialistico questo soggettivismo si svolge nella teoria di una altezzosa, parassitaria separazione dell’arte dalla vita, nella negazione di ogni oggettività dell’arte, nell’apoteosi della «sovranità» dell’individuo creatore, nella teoria dell’indifferenza del contenuto e dell’arbitrio della forma.

Abbiamo già visto come la tendenza del materialismo meccanicistico sia opposta. Restando incollato alla imitazione meccanica della vita immediatamente percepita nei suoi aspetti particolari percepiti altrettanto immediatamente, esso deve negare la specificità del rispecchiamento artistico della realtà, altrimenti cadrebbe nell’idealismo con tutti i suoi stravolgimenti e le sue tendenze soggettivanti. Tuttavia la tendenza all’oggettività del materialismo meccanicistico, della riproduzione meccanicamente immediata dell’immediato mondo fenomenico, si rovescia necessariamente in soggettivismo idealistico perché esso non riconosce l’oggettività delle leggi e interrelazioni profonde, non percepibili in modo immediatamente sensibile, perché esso non vede in queste un rispecchiamento della realtà oggettiva, ma solo un espediente tecnico per raggruppare perspicuamente i tratti particolari della percezione immediata. Questa debolezza dell’imitazione immediata della vita nei suoi tratti particolari finisce per accrescersi ulteriormente, finisce per rovesciarsi in un idealismo soggettivistico privo di contenuto con intensità tanto maggiore, quanto più il generale sviluppo ideologico della borghesia trasforma le basi filosofico-materialistiche di questo genere di riproduzione artistica della realtà in un idealismo agnostico (Einfühlungstheorie).

L’oggettività del rispecchiamento artistico della realtà poggia sul corretto rispecchiamento della interrelazione complessiva. La correttezza artistica di un dettaglio non ha quindi nulla a che fare con la questione se nella realtà abbia mai corrisposto a tale aspetto particolare un altrettale aspetto particolare. Nell’opera d’arte l’aspetto particolare costituisce un rispecchiamento corretto della vita se è un momento necessario del corretto rispecchiamento del processo complessivo della realtà oggettiva, indipendentemente dal fatto che l’artista l’abbia osservato nella vita o che l’abbia creato con fantasia artistica a partire da immediate o non immediate esperienze di vita. Per contro, la verità artistica di un dettaglio che corrisponda fotograficamente alla vita è puramente casuale, arbitraria, soggettiva. Cioè, quando l’aspetto particolare non diviene evidente immediatamente come momento necessario a partire dal contesto, esso come momento dell’opera d’arte è casuale, la sua scelta come aspetto particolare è arbitraria e soggettiva. È quindi perfettamente possibile che un’opera venga «montata» con rispecchiamenti del mondo esterno fotograficamente veri e che, ciò nonostante, il tutto sia un rispecchiamento scorretto, soggettivamente arbitrario della realtà. Infatti la giustapposizione di mille casi non potrà mai produrre di per sé una necessità. Perché il casuale entri in una interrelazione corretta con la necessità, quest’ultima deve già essere intrinsecamente attiva nella casualità stessa, cioè nei dettagli stessi. Il dettaglio deve essere selezionato e plasmato a priori in modo tale che in esso sia intrinsecamente attiva questa interrelazione con il tutto. Questa selezione e disposizione dei dettagli poggia solamente sul rispecchiamento artisticamente oggettivo della realtà. L’isolamento dei dettagli dal contesto complessivo, la loro selezione secondo il criterio della corrispondenza fotografica a un dettaglio della vita, trascura appunto il più profondo problema della necessità oggettiva, anzi rinnega l’esistenza di questa. L’artista che operi in questo modo sceglie e organizza il suo materiale dunque non a partire dalla necessità oggettiva della cosa stessa, ma a partire da un punto di vista soggettivo che nell’opera si manifesta come selezione e disposizione oggettivamente arbitrarie.

Che ignorare la più profonda necessità oggettiva nel rispecchiamento della realtà significhi sopprimere l’oggettività, viene in evidenza anche nell’attivismo dell’arte che opera in questo modo. Già in Lenin ed Engels abbiamo potuto vedere come la partiticità anche nell’opera d’arte sia una parte integrante della realtà oggettiva e del suo rispecchiamento artisticamente corretto e oggettivo. La tendenza dell’opera d’arte si esprime a partire dal contesto oggettivo del mondo plasmato dell’opera d’arte; è il linguaggio dell’opera d’arte, quindi, – mediato dal rispecchiamento artistico della realtà, – il linguaggio della realtà stessa, non l’opinione soggettiva dell’autore che si manifesta nuda e cruda come commento soggettivo, come argomentazione soggettiva. La concezione dell’arte come propaganda immediata, concezione che nell’arte moderna è sostenuta particolarmente da Upton Sinclair, trascura quindi proprio le più profonde, oggettive possibilità di propaganda dell’arte, trascura il senso leniniano di partiticità, e mette al suo posto una propaganda puramente soggettivistica, che non si sviluppa organicamente dalla logica dei fatti stessi plasmati, ma resta una semplice enunciazione soggettiva delle opinioni dell’autore.

 

4. L’oggettività della forma artistica

Ambedue le tendenze soggettivanti che abbiamo ora analizzato lacerano l’unità dialettica di forma e contenuto nell’arte. In linea di principio non ha grande importanza che sia la forma oppure il contenuto ad essere tolto dalla interrelazione dell’unità dialettica per venir gonfiato in fatto autonomo. In ambedue i casi va perduta la concezione dell’oggettività della forma. In ambedue i casi cioè la forma diviene uno «strumento» maneggiato in maniera soggettivamente arbitraria; in tutt’e due i casi essa perde il suo carattere di rispecchiamento, d’un determinato tipo, della realtà. Lenin si esprime in modo straordinariamente netto e chiaro a proposito di tali tendenze nella logica:

Oggettivismo: le categorie del pensiero non sono un sussidio dell’uomo, ma sono espressione delle leggi della natura e dell’uomo26.

Questa formulazione straordinariamente giusta e profonda costituisce la base naturale per lo studio della forma anche nell’arte, dove ovviamente vengono in primo piano i caratteri specifici del rispecchiamento artistico, ma sempre nell’ambito di tale definizione materialistico-dialettica dell’essenza della forma.

La questione dell’oggettività della forma è una delle più difficoltose e meno studiate parti dell’estetica marxista. La gnoseologia marxista-leninista indica, è vero, in modo non equivoco il senso in cui è da ricercare la soluzione. Ma taluni influssi delle concezioni dell’attuale borghesia sulla nostra teoria e prassi letteraria hanno suscitato proprio su questo punto una certa confusione, un qualche ritegno a impostare il problema in modo corretto, in modo realmente marxista, un ritegno a vedere nella forma artistica un principio oggettivo. Questo ritegno – che si esprime nel timore di ricadere nell’estetismo borghese quando nell’arte si sottolinei l’oggettività della forma – ha la sua base gnoseologica in un fraintendimento dell’unità dialettica di forma e contenuto. Hegel definisce tale unità sostenendo che

il contenuto non è niente altro che il convertirsi della forma in contenuto, e la forma nient’altro che il convertirsi del contenuto in forma. (Enciclopedia, § 133.)

L’espressione è evidentemente astratta, ma vedremo in seguito che Hegel ha qui definito correttamente il rapporto reciproco di forma e contenuto.

In verità, soltanto per quel che riguarda le loro relazioni reciproche. Anche qui bisogna materialisticamente rimettere Hegel «dalla testa sui piedi», e precisamente ponendo con energia al centro della nostra considerazione il carattere di rispecchiamento sia del contenuto e sia della forma. La difficoltà sta proprio nel capire che la forma artistica è un tipo di rispecchiamento della realtà allo stesso modo in cui lo sono, come Lenin ha persuasivamente dimostrato, le categorie astratte della logica. Come nel processo di rispecchiamento della realtà da parte del pensiero le categorie esprimono le più generali, le più lontane dalla superficie del mondo fenomenico, dalla percezione, ecc., insomma le più astratte leggi tanto della natura quanto dell’uomo, cosi avviene anche per le forme dell’arte. Si tratta solo di chiarire che cosa questo massimo grado d’astrazione voglia dire nell’arte.

Il processo astrattivo, il processo di generalizzazione compiuto dalle forme artistiche, è un fatto noto da lungo tempo.

Già Aristotele contrappone poesia e storiografia secondo questo criterio, dove c’è da avvertire, per il lettore odierno, che egli con storiografia intende il racconto cronachistico di fatti particolari alla maniera di Erodoto. Aristotele dice:

Lo storiografo e il poeta non sono diversi perché l’uno scrive in prosa e l’altro in versi… La differenza sta piuttosto nel fatto che l’uno narra ciò che è realmente accaduto, l’altro qualcosa che può accadere. Per questo inoltre la poesia è più filosofica della storiografia. Infatti la poesia ha come oggetto l’universale, la storiografia narra il particolare.

È senz’altro chiaro che cosa intenda Aristotele dicendo che la poesia esprime l’universale e quindi è più filosofica della storiografia. Egli vuol dire che la poesia nei suoi caratteri, situazioni e azioni non imita semplicemente singoli caratteri, situazioni e azioni, ma invece porta ad espressione in essi il momento della legge, l’universale, il tipico. Engels, in pieno accordo con questa tesi, dice che compito del realismo è di dar forma a «caratteri tipici in circostanze tipiche». La difficoltà, quando si voglia intendere teoricamente ciò che la grande arte nella sua pratica ha fatto da sempre, è duplice: in primo luogo occorre evitare l’errore di contrapporre il tipico, l’universale, il momento della legge, al singolare, l’errore di lacerare teoricamente l’inscindibile unità di singolare e universale, che è sempre stata presente nella pratica di tutti i grandi poeti da Omero a Gorkij. In secondo luogo bisogna comprendere che tale unità di singolare e universale, di individuale e tipico, non è una qualità del contenuto della letteratura considerato isolatamente, per cui la forma artistica sarebbe soltanto un «espediente tecnico» per esprimerla, ma è invece un prodotto di quella interazione fra contenuto e forma la cui definizione astratta abbiamo appena udito da Hegel.

Il primo problema può essere risolto solo a partire dalla concezione marxista dèi concreto. Abbiamo visto come tanto il materialismo meccanicistico quanto l’idealismo – ciascuno a suo modo e in forme diverse nel corso dello sviluppo storico – contrappongano in maniera rigida il rispecchiamento immediato del mondo esterno, questa base di ogni conoscenza della realtà, e l’universale, il tipico, ecc. A causa di tale contrapposizione il tipico appare come prodotto di una operazione soggettiva puramente mentale, come un’aggiunta puramente mentale, astraente, insomma puramente soggettiva al mondo quale appare nella sua immediatezza, e non invece come parte integrante della stessa realtà oggettiva. Partendo da una tale contrapposizione non è possibile pervenire alla comprensione teorica dell’unità di individuale e tipico nell’opera d’arte. Al centro dell’estetica viene posto o un falso concetto del concreto o un altrettanto falso concetto della astrazione, o al massimo si giunge a proclamare un eclettico come-così-pure. Marx dà una definizione straordinariamente chiara del concreto:

Il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni ed unità, quindi, del molteplice. Per questo esso appare nel pensiero come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, benché sia l’effettivo punto di partenza e perciò anche il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione27.

E noi all’inizio abbiamo brevemente mostrato come Lenin indichi la via dialettica per giungere al rispecchiamento teorico del concreto nella gnoseologia marxista.

Il compito dell’arte è di ricostituire il concreto – nel citato senso marxiano – in una evidenza immediatamente sensibile. Vale a dire, devono essere svelate e rese sensibili nel concreto stesso quelle determinazioni la cui unità appunto fa del concreto il concreto. Ora però, nella realtà stessa ogni fenomeno si trova in una interrelazione estensivamente infinita con tutti gli altri fenomeni passati e presenti. L’opera d’arte – riguardata sul piano del. contenuto – non dà mai altro che un ritaglio più o meno grande della realtà. Tuttavia, il compito del formare artistico è di fare in modo che questo ritaglio non operi come ritaglio di una totalità, cosicché per comprenderlo e perché abbia efficacia sarebbe necessario il contesto con tutto il suo ambiente spazio-temporale, ma al contrario che riceva il carattere di un tutto concluso, il quale non abbia bisogno di nessuna integrazione dall’esterno. Se dunque l’elaborazione mentale a cui l’artista sottopone la realtà, e che precede la nascita dell’opera d’arte, in linea di principio non si diversifica da un’altra elaborazione mentale della realtà, tanto più ciò vale per il suo risultato: l’opera d’arte medesima.

Siccome l’opera d’arte deve operare come un tutto concluso, siccome in essa dev’essere ricostituita in modo immediatamente sensibile la concretezza della realtà oggettiva, ciò vuol dire che in essa devono essere rappresentate nella loro interrelazione e nella loro unità tutte quelle determinazioni le quali oggettivamente fanno del concreto il concreto. Nella realtà stessa queste determinazioni si presentano, sul piano sia quantitativo che qualitativo, in modo straordinariamente diversificato e disperso. La concretezza di un fenomeno dipende per l’appunto da tale interrelazione complessiva estensivamente infinita. Nell’opera d’arte invece tale interrelazione dev’essere rappresentata nella sua concretezza, cioè nell’unità di tutte le determinazioni in essa essenziali, da un ritaglio, un avvenimento, un essere umano, o magari da un momento della sua vita. Queste determinazioni quindi in primo luogo devono essere totalmente presenti nell’opera d’arte, in secondo luogo devono apparire nella loro forma più pura, più chiara, più tipica, in terzo luogo il rapporto proporzionale delle diverse determinazioni deve corrispondere a quella oggettiva partiticità da cui l’opera d’arte è animata. In quarto luogo però, tutte queste determinazioni che, come abbiamo appena visto, sono presenti in una versione più pura, più profonda, più astratta che in qualsiasi caso particolare della vita, non devono costituire l’opposto astratto del mondo fenomenico immediatamente sensibile, ma al contrario devono apparire come qualità concrete, immediate, sensibili delle singole persone, situazioni, ecc. Quindi il processo artistico, che corrisponde al rispecchiamento teorico della realtà in virtù dell’astrazione, ecc., che sembra portare con sé sul piano artistico un «sovraccarico» per il caso particolare di tratti tipici quantitativamente e qualitativamente spinti all’estremo, finisce per avere come conseguenza un accrescimento di concretezza. Il processo del formare artistico, la via della generalizzazione, finisce dunque, per quanto possa apparire paradossale, per portare con sé un accrescimento di concretezza rispetto alla vita.

Se ora, a partire da questo punto, passiamo al nostro secondo problema, alla funzione della forma in tale concretezza, forse al lettore non sembrerà più cosi astratta la precedente citazione hegeliana sul rovesciarsi del contenuto in forma e della forma in contenuto. Si pensi alla nostra precedente discussione sui caratteri dell’opera d’arte, che senza eccezione abbiamo derivato dalla versione più generale della forma artistica, dalla compattezza dell’opera d’arte: cioè, da un lato, l’infinità intensiva, l’apparente inesauribilità dell’opera d’arte, l’«astuzia» della sua condotta, con la quale essa fa ricordare la vita nelle sue forme di manifestazione più intense; dall’altro lato il fatto che, in questa inesauribilità e in questa «astuzia» analoga alla vita, essa contemporaneamente svela le leggi di questa vita proprio nella loro novità, nella loro inesauribilità, nella loro «astuzia». Tutti questi caratteri sembrano puramente di contenuto. E lo sono anche. Ma insieme – e addirittura prima – sono caratteri che emergono, divengono visibili, mediante la forma artistica. Sono il risultato del rovesciarsi del contenuto in forma e hanno come risultato un rovesciarsi della forma in contenuto.

Cerchiamo di chiarire con alcuni esempi questo importantissimo stato di cose nell’arte. Si prenda un esempio semplice, si potrebbe quasi dire puramente quantitativo. Quali che siano le obiezioni che possono farsi ai Tessitori di Gerhart Hauptmann come dramma, è certo che in esso si riesce sempre a risvegliare in noi l’illusione di aver a che fare, non con alcune persone particolari, ma con la grigia e confusa massa dei tessitori slesiani. La rappresentazione della massa in quanto massa è appunto il grande risultato artistico di questo dramma. Se però riflettiamo al numero di persone con cui Hauptmann effettivamente rappresenta questa massa, giungiamo al risultato assai sorprendente che si tratta della rappresentazione di dieci o dodici tessitori, un numero di personaggi cioè presente in moltissimi altri drammi, senza che in questi si sia neppure inteso creare un effetto di massa. Tale effetto sorge quindi dal fatto che le poche persone rappresentate vengono scelte, caratterizzate, poste in una situazione, collocate in un rapporto reciproco, ecc., in modo tale che da queste relazioni, da queste proporzioni formali sorga la parvenza estetica di una massa. Quanto poco tale parvenza estetica dipenda dalla quantità dei personaggi in azione, risulta assai chiaramente dal dramma del medesimo autore sulla guerra dei contadini, Florian Geyer, dove Hauptmann mette in scena un numero di persone incomparabilmente maggiore e in parte, prese singolarmente, le rappresenta molto bene, ma dove però solo a tratti sorge l’impressione di una reale massa, perché appunto non gli riesce di rappresentare quella relazione reciproca fra le persone che rende percettibile il loro coesistere come massa, che alla massa, alla massa artisticamente configurata, dà una propria fisionomia artistica, una propria qualità attiva.

Tale importanza della forma risulta ancora più chiara in casi più complessi. Prendo come esempio la rappresentazione del tipico nel Pére Goriot di Balzac. Balzac vi rappresenta le contraddizioni della società borghese, i necessari antagonismi interni che si manifestano in qualsiasi istituzione della società borghese, le varie forme di ribellione consapevole o inconsapevole degli uomini contro queste loro forme di vita, che li asserviscono e storpiano, ma dal cui fondamento essi non sanno staccarsi. Ogni singola forma fenomenica di queste contraddizioni in un uomo o in una situazione Balzac, con una logica crudele, la spinge all’apogeo. Appaiono persone in ciascuna delle quali si presenta sempre al grado estremo tale carattere di perdizione, di rivolta, di volontà di violenza, di corruttela: Goriot e le sue figlie, Rastignac, Vautrin, la viscontessa di Beauséant, Maxime de Trailles. E gli avvenimenti, in cui tali caratteri si rivelano, producono un accumulo estremamente improbabile – guardando isolatamente al contenuto – di esplosioni in sé già poco probabili. Si rammenti tutto ciò che accade contemporaneamente nel corso dell’azione: la definitiva tragedia familiare di Goriot, la tragedia amorosa della Beauséant, lo smascheramento di Vautrin, la tragedia organizzata da Vautrin in casa Taillefer, e cosi via. Eppure, anzi meglio, proprio per questo il romanzo ha l’effetto di un quadro della società borghese suggestivamente vero e tipico. La premessa di tale effetto è, ovviamente, che i tratti tipici messi in evidenza da Balzac sono realmente tratti tipici della contraddittoria società borghese. Ciò è tuttavia soltanto la premessa, anche se necessaria, e non l’immediato effetto in sé. Questo effetto si produce invece proprio attraverso la composizione, proprio attraverso il riferimento reciproco dei casi estremi, attraverso il quale riferimento questa eccentrica estremità dei casi viene reciprocamente soppressa. Si tenti d’immaginare una di tali catastrofi staccata dal complesso totale della composizione, si otterrà una improbabile novella fantastico-romantica. Invece, in questo riferimento reciproco dei casi estremi prodotto dalla composizione di Balzac, il comune sfondo sociale emerge proprio in conseguenza della estremità dei casi, della estremità della rappresentazione portata fin dentro al linguaggio. Che Vautrin e Goriot sono allo stesso modo vittime della società capitalistica e ribelli contro le sue conseguenze, che il fondamento delle azioni di Vautrin e della viscontessa di Beauséant sta in un analogo, giusto a metà, modo d’intendere la società e le sue contraddizioni, che il salotto raffinato e la galera si distinguono l’uno dall’altra solo quantitativamente e casualmente e posseggono profondi tratti comuni, che Ta morale borghese e l’aperto crimine insensibilmente trapassano l’una nell’altro, ecc. ecc., tutto ciò può essere rappresentato proprio e soltanto in virtù di questi improbabili casi spinti all’estremo. Anzi, più ancora: per l’accumularsi di casi estremi e sulla base del corretto rispecchiamento di quelle contraddizioni sociali che sono il fondamento di essi proprio nella loro estremità, sorge un’atmosfera in cui l’estremità e l’improbabilità si annullano da sé, in cui da tali casi e attraverso di essi la verità sociale della società capitalistica viene in luce con una virulenza e completezza che altrimenti sarebbe impossibile percepire e sperimentare.

È chiaro dunque che l’intero contenuto dell’opera d’arte deve farsi forma perché giunga ad efficacia artistica la sua vera qualità di contenuto. La forma non è altro che l’astrazione massima, il grado massimo di condensazione del contenuto, di estremizzazione delle sue determinazioni, non è altro che il costituire proporzioni giuste fra le singole determinazioni, una gerarchia d’importanza fra le singole contraddizioni della vita rispecchiate dall’opera d’arte.

Naturalmente questo carattere della forma dovrebbe essere studiato anche rispetto alle singole categorie formali dell’arte, e non soltanto rispetto a quelle generali della composizione, come noi abbiamo fatto finora. Qui, visto che il nostro obiettivo è la determinazione generale della forma e della sua oggettività, ci è impossibile analizzare le singole categorie formali. Anche in questo caso prenderemo soltanto un esempio, quello dell’azione, della favola, che a partire da Aristotele sta al centro della dottrina sulla forma della letteratura.

Che la struttura dell’epica e della drammatica sia basata su una favola è una esigenza formale. Ma è realmente solo una esigenza formale, un’esigenza che astrae dal contenuto? È precisamente il contrario. Se questa esigenza formale l’analizziamo proprio nella sua astrattezza formale, giungiamo alla conseguenza che solo attraverso l’azione è possibile esprimere la dialettica di essere e coscienza nell’uomo, che solo mentre l’uomo agisce può manifestarsi in forma artistica sperimentabile il contrasto tra ciò che egli oggettivamente è e ciò che egli s’immagina di essere. Altrimenti il poeta, o sarebbe costretto a prendere i personaggi cosi come essi pensano di essere, cioè a rappresentarli dalla limitata prospettiva della loro soggettività, oppure dovrebbe semplicemente asserire il contrasto tra immaginazione e essere, cioè non potrebbe renderlo sensibilmente sperimentabile. L’esigenza di configurare il rispecchiamento artistico della realtà sociale nella forma di una favola, non è stata dunque escogitata dagli estetici, ma è scaturita dalla prassi – spontaneamente materialistica, spontaneamente dialettica – dei grandi poeti (nonostante la loro concezione del mondo spesso idealistica), l’estetica l’ha soltanto formulata e sostenuta come postulato formale, senza riconoscere in tale forma postulata il più generale, più astratto rispecchiamento di un fatto basilare della realtà oggettiva. Sarà compito di una estetica marxista scoprire concretamente questo carattere di rispecchiamento nei momenti formali dell’arte. Qui noi abbiamo potuto soltanto indicare il problema, che in verità, anche nel caso della favola, è molto più complicato di quanto non sia stato possibile mostrare in questa breve esposizione. (Si pensi, ad esempio, all’importanza della favola come mezzo per raffigurare il processo.)

Tale dialettica di forma e contenuto, tale loro reciproco rovesciarsi dell’una nell’altro, può essere esaminato ovviamente in tutti i punti della nascita della struttura e dell’effetto dell’opera d’arte. Di nuovo indicheremo soltanto alcuni punti importanti. Se, ad esempio, prendiamo il problema della tematica, al primo sguardo abbiamo a che fare con un problema di contenuto. Ma quando esaminiamo un po’ più da vicino tale questione, vediamo che la sua ampiezza e profondità si rovesciano immediatamente nel decisivo problema della forma. Anzi, studiando la storia delle singole forme, si può vedere assai chiaramente come il presentarsi e l’affermarsi di una nuova tematica suscita una forma con leggi interne sostanzialmente nuove, a partire dalla composizione giungendo fino al linguaggio. (Si pensi alla battaglia per il dramma borghese nel secolo XVIII e alla nascita di un tipo del tutto nuovo di dramma di Diderot, Lessing e nel giovane Schiller.)

Questo rovesciarsi del contenuto in forma e viceversa è ancora più evidente nel risultato delle opere d’arte, specialmente se lo esaminiamo in lunghi tratti di storia. Proprio quelle opere nelle quali questo rovesciarsi reciproco di forma e contenuto è più perfezionato, nelle quali cioè l’operazione formale ha raggiunto il massimo grado di completezza, proprio quelle risultano estremamente «naturali» (si pensi a Omero, Cervantes, Shakespeare, ecc.). Questa «mancanza di arte» nelle più grandi opere d’arte chiarisce non soltanto il problema del rovesciarsi reciproco di forma e contenuto, ma insieme anche il significato di questo rovesciamento: la fondazione dell’oggettività dell’opera d’arte. Quanto più «priva d’arte» è un’opera d’arte, quanto più risulta semplicemente vita, natura, tanto più chiaramente appare che essa è appunto il rispecchiamento concentrato della sua epoca, che in essa la forma ha soltanto la funzione di esprimere questa oggettività, questo rispecchiamento della vita nella massima concretezza e chiarezza delle contraddizioni da cui quest’ultima è mossa. Per contro, ogni forma che perviene alla coscienza del recettore come forma, proprio perché conserva una determinata autonomia rispetto al contenuto e non si rovescia completamente in contenuto, risulterà necessariamente espressione della soggettività del poeta e non interamente rispecchiamento della cosa stessa (Corneille e Racine al confronto con i tragici greci o con Shakespeare). E abbiamo già visto come il contenuto, quando si presenta autonomamente, ha un carattere altrettanto soggettivistico del suo opposto polo formale.

Agli estetici importanti dei periodi precedenti non è ovviamente sfuggita questa interrelazione tra forma e contenuto. Schiller, per esempio, riconosceva con chiarezza e formulava con precisione un lato di questa dialettica quando affermava che compito dell’arte è di far si che la forma cancelli la materia. Ma in tal modo egli dava una formulazione idealisticamente unilaterale, una formulazione soggettivistica del problema. Infatti, il semplice trapassare del contenuto in forma, senza il corrispettivo dialettico, deve necessariamente condurre a una autonomia enfiata della forma, alla sua soggettivazione, come mostra non solo la teoria, ma non di rado anche la prassi poetica di Schiller.

Ancora una volta sarebbe compito di una estetica marxista mostrare concretamente l’oggettività della forma come momento del processo del fare artistico. Gli appunti dei grandi artisti del passato ci offrono a tale proposito un materiale quasi inesauribile, che noi finora non abbiamo neppure cominciato a elaborare. L’estetica borghese è riuscita a concludere assai poco con questo materiale, perché, quando ha riconosciuto l’oggettività delle forme, ha saputo intenderla solo in modo mistico e quindi è stata costretta a trasformare l’oggettività della forma in una sterile mistica della forma. Sarà compito di una estetica marxista mostrare, conoscendo il carattere di rispecchiamento delle forme, come nel processo del fare artistico questa oggettività si affermi come oggettività, come verità indipendente dalla coscienza dell’artista.

Questa indipendenza oggettiva dalla coscienza dell’artista inizia già nella tematica. In ogni tema si nascondono determinate possibilità artistiche. È ovvio che l’artista è «libero» di scegliere una di queste possibilità oppure di trasformare quel tema nel trampolino di un’espressione artistica altrimenti fatta. In questo caso però non può non sorgere una contraddizione fra il contenuto del tema e l’elaborazione artistica, che non potrà essere eliminata da nessun trattamento, per quanto ingegnoso. (Si pensi alla pertinente critica da Maksim Gorkij rivolta a Tenebre di Leonid Andreev.) Questa oggettività invece oltrepassa la connessione fra il contenuto, la tematica e la raffigurazione artistica.

Quando avremo una teoria marxista dei generi, potremo vedere come ogni genere abbia sue determinate leggi oggettive di rappresentazione artistica, che nessun artista può trascurare, pena la distruzione della sua opera. Ad esempio, nel romanzo L’oeuvre Zola prese la struttura costruttiva fondamentale dalla magistrale novella di Balzac Le chef d’oeuvre inconnu allargando la propria rappresentazione fino alla misura di un romanzo. Ebbene il suo fallimento mostra nel modo più chiaro con quale profonda consapevolezza artistica Balzac avesse scelto la forma della novella per rappresentare questa tragedia d’artista.

La forma novellistica nasce in Balzac dall’indole del tema e della materia stessa. La tragedia dell’artista moderno, la tragica impossibilità di creare un’opera classica con gli specifici mezzi d’espressione dell’arte moderna, che sono soltanto rispecchiamenti dello specifico carattere della vita moderna e della concezione del mondo che ne deriva, Balzac la condensa in uno spazio strettissimo. Egli raffigura semplicemente il crollo di tale artista, e vi pone a contrasto soltanto due altri importanti tipi d’artista, meno coerenti e perciò non tragici. Cosicché egli concentra tutto in quest’unico problema, qui decisivo, che trova espressione adeguata nell’azione concisa, ma mossa, nell’autodissolversi del creare della figura centrale mediante il suicidio e nella distruzione della sua opera. Per un trattamento non novellistico, un trattamento romanzesco di questo tema si dovrebbe scegliere una materia del tutto diversa, un’azione di natura del tutto diversa. Si dovrebbe infatti dispiegare e raffigurare con larga completezza l’intero processo necessario attraverso cui tutti questi problemi artistici nascono dall’essere sociale della vita moderna (come ha fatto lo stesso Balzac nelle Illusions perdues per la moderna relazione fra letteratura e giornalismo). A questo scopo però bisognerebbe andare oltre il carattere catastrofico della materia novellistica, troppo angusto e magro per tali fini, si dovrebbe cioè trovare una materia che sia adatta a trasporre adeguatamente in azione viva l’ampiezza e la varietà delle determinazioni da raffigurare. Tale trasposizione manca in Zola. Vero è che egli ha introdotto nella sua rappresentazione una serie di altri motivi, per poter dare al tema novellistico l’ampiezza della forma del romanzo. Ma questi nuovi motivi (lotta dell’artista con la società, contrasto fra l’artista autentico e quello arrivista, ecc.) non derivano dalla dialettica interna dell’originario tema novellistico e perciò anche nella attuazione rimangono reciprocamente esterni, non si connettono all’ampio, vario contesto che forma la base della configurazione del romanzo.

La medesima indipendenza dalla coscienza dell’artista mostrano le figure e le favole artistiche una volta tracciate. Quantunque siano nate nella testa del poeta, esse hanno la loro propria dialettica, che il poeta deve ricalcare e condurre a termine se non vuole distruggere la sua opera. Engels ha con grande profondità fatto notare tale vita propria dei personaggi di Balzac e dei loro destini, indicando come la dialettica del mondo configurato da Balzac ha portato questi, come poeta, a conseguenze diverse da quelle che formavano la base della sua concezione del mondo consapevole. L’esempio opposto è dato da poeti fortemente soggettivistici come, ad esempio, Schiller e Dostoevskij. Nella lotta fra la concezione del mondo del poeta e la dialettica interna dei suoi personaggi, assai spesso vince la soggettività del poeta e distrugge ciò che di grande egli ha tracciato. Cosi per esempio Schiller stravolge sulla base di motivi morali d’origine kantiana il grande antagonismo oggettivo, da lui stesso tracciato, fra Elisabetta e Maria Stuarda (la lotta tra Riforma e Controriforma), cosi Dostoevskij, come ha notato Gorkij, giunge al punto di calunniare i suoi stessi personaggi.

Questa oggettiva dialettica della forma è però, appunto a causa della sua oggettività, una dialettica storica. Il rigonfiamento idealistico della forma si rivela con evidenza proprio nel fatto che esso rende le forme non semplicemente momenti misticamente autonomi, ma anche essenze «eterne». Tale destoricizzazione idealistica della forma non può non togliere a questa ogni concretezza, ogni dialettica. Essa diviene un modello fisso, un rigido esempio scolastico, che deve essere imitato in un modo inanimatamente meccanico. Tuttavia gli estetici importanti del periodo classico molto spesso sono anche andati oltre questa concezione non dialettica della forma. Lessing, ad esempio, ha riconosciuto con grande chiarezza le profonde verità della Poetica di Aristotele in quanto enunciazione di determinate leggi della tragedia. Ma insieme ha visto chiaramente che importante è l’essenza viva, l’applicazione sempre nuova, sempre modificata di queste leggi, e non la loro osservanza meccanica. E quindi spiega in maniera viva e coerente che Shakespeare, il quale non si attiene ad Aristotele in nessuno degli elementi esterni, il quale probabilmente neppure conosceva Aristotele, rispetta in modo continuamente nuovo quello che, secondo la concezione lessinghiana delle leggi più profonde del dramma, è l’essenziale di tali leggi, mentre i discepoli dogmatici, schiavi della parola di Aristotele, i classicisti francesi, trascurano proprio i problemi essenziali, l’eredità viva di Aristotele.

Tuttavia una corretta formulazione storico-dialettica, storico-sistematica, dell’oggettività della forma e la sua concreta applicazione alla realtà storica costantemente mutevole sono divenute possibili soltanto con la dialettica materialistica. Nella introduzione, giuntaci frammentaria, a Per la critica dell’economia politica, Marx ha definito con profondità e chiarezza, prendendo spunto dal caso dell’epos, i due grandi problemi che sorgono dalla dialettica storica della oggettività della forma. Egli indica in primo luogo che ogni forma artistica nella sua nascita e nel suo sviluppo è legata a determinate premesse sociali e, come prodotto della società, ideologiche, che solamente a partire da queste premesse possono sorgere quella tematica e quegli elementi formali che portano alla massima fioritura una forma determinata (la mitologia come fondamento dell’epos). Anche a fondamento di questa analisi delle condizioni storiche, sociali, necessarie perché nascano le forme artistiche c’è per Marx la concezione dell’oggettività delle forme artistiche. La sua forte sottolineatura della legge dello sviluppo ineguale, del fatto «che determinati suoi [dell’arte] periodi di fioritura non stanno assolutamente in rapporto con lo sviluppo generale della società»28, mostra che egli in tali periodi di fioritura (i greci, Shakespeare) vede dei culmini oggettivi dello sviluppo artistico, che egli considera il valore artistico come oggettivamente conoscibile, oggettivamente determinabile. Qualsiasi metamorfosi di questa profonda e dialettica teoria marxiana in una volgare sociologia relativistica significa che si è trascinato il marxismo nel pantano della ideologia borghese.

Ancora più chiaramente viene in evidenza l’oggettività dialettica nel secondo problema posto da Marx in riferimento allo sviluppo artistico. Ed è assai indicativo del rozzo stadio iniziale della nostra estetica marxista, della nostra arretratezza rispetto allo sviluppo generale della teoria marxista, che questo secondo problema abbia goduto una popolarità assai scarsa fra gli estetici marxisti e che in pratica non sia mai stato affrontato prima che apparisse lo scritto di Stalin su talune questioni di linguistica. Marx dice:

Ma la difficoltà non sta nell’intendere che l’arte e l’epos greco sono legate a certe forme dello sviluppo sociale. La difficoltà è rappresentata dal fatto che essi continuano a suscitare in noi un godimento estetico e costituiscono, sotto un certo aspetto, una norma e un modello inarrivabili29.

Qui il problema dell’oggettività della forma artistica viene enunciato con grande chiarezza. Se Marx nel primo problema si è occupato della forma artistica al momento della nascita, in statu nascendi, ora egli solleva il problema dell’opera d’arte formata, il problema della validità oggettiva dell’opera d’arte formata, della forma artistica, e lo fa certo ponendo come compito lo studio di tale oggettività, ma senza lasciare dubbi sulla oggettività stessa (ovviamente nel quadro di una concreta dialettica storica). Il manoscritto di Marx s’interrompe purtroppo nel mezzo delle sue profonde spiegazioni. Ma il discorso conservato mostra del tutto chiaramente che egli anche qui fa scaturire le forme dell’arte greca dai contenuti specifici della vita greca, che per lui la forma nasce dal contenuto storico-sociale ed ha il compito di elevare questo contenuto al livello di una oggettività artisticamente configurata.

L’estetica marxista può partire soltanto da questo concetto della oggettività dialettica della forma artistica nella sua concretezza storica. Vale a dire: deve ripudiare ogni tentativo di relativizzare con criteri sociologici le forme artistiche, di trasformare la dialettica in sofistica e di cancellare la distinzione fra periodo di fioritura e decadenza, la distinzione oggettiva fra arte alta e ciarlataneria, insomma di togliere alla forma artistica il suo carattere di oggettività. Ma altrettanto risolutamente deve rifiutare ogni tentativo di attribuire alle forme artistiche una pseudo oggettività astratta, formalistica, costruendo la forma artistica, la distinzione tra configurazioni formali, in modo astratto, indipendente dal processo storico, a partire da momenti puramente formali.

Tale concretizzazione del principio di oggettività nella forma artistica può essere compiuta dall’estetica marxista solo lottando costantemente contro le correnti estetiche borghesi oggi, dominanti e contro la loro influenza sui nostri estetici. Insieme alla elaborazione dialettica e critica della grande eredità che ci è venuta dal periodo di fioritura della storia della teoria e prassi artistiche, si deve condurre una lotta rigorosa contro le tendenze alla soggettivazione dell’arte oggi dominanti nell’estetica borghese. Rispetto al risultato è indifferente che la forma venga soggettivisticamente negata e trasformata nella pura espressione della cosiddetta grande personalità (scuola di Stefan George), che venga esagerata in modo mistico-oggettivo e gonfiata in una essenza autonoma (neoclassicismo), oppure che venga negata e svalutata secondo un criterio meccanico-oggettivistico (teoria del montaggio). Tutte queste tendenze alla fin fine giungono a scindere la forma dal contenuto, a situarli in una rigida contrapposizione reciproca e quindi a distruggere il fondamento dialettico dell’oggettività della forma. In queste tendenze noi dobbiamo riscontrare e smascherare il medesimo carattere imperialistico-parassitario che la gnoseologia marxista-leninista ha già da tempo scoperto e smascherato nella filosofia dell’epoca imperialistica. (In questo senso la concretizzazione dell’estetica marxista è rimasta indietro rispetto allo sviluppo generale del marxismo.) Bisogna mostrare come dietro la decomposizione della forma artistica nel periodo di decadenza della borghesia, dietro le teorie estetiche di questo periodo che glorificano questa decomposizione soggettivistica o l’altrettanto soggettivistica ossificazione delle forme, si esprime il processo di putrefazione della borghesia nel periodo del capitalismo monopolistico allo stesso modo che in altri settori ideologici. Significherebbe stravolgere in una caricatura relativistica la profonda teoria di Marx dello sviluppo ineguale dell’arte, se la si utilizzasse per decantare tale decomposizione come sviluppo di una nuova forma.

Un’eredità particolarmente importante, perché particolarmente diffusa e deviante, lasciataci da queste tendenze alla soggettivazione dell’arte, è la confusione oggi di moda tra forma e tecnica. La concezione tecnologica del pensiero nell’epoca moderna è divenuta dominante anche nella logica borghese, dove la logica è intesa come strumento formalistico. Ma la gnoseologia marxista-leninista ha riconosciuto e smascherato tutte le tendenze di questo genere come idealistico-agnostiche. L’identificazione di tecnica e forma, la concezione dell’estetica come mera tecnologia dell’arte, sta sul piano gnoseologico . esattamente al medesimo livello ed è espressione di analoghe tendenze ideologiche di carattere soggettivistico-agnostico. Il fatto che l’arte abbia un lato tecnico, che questa tecnica debba essere imparata (in realtà può essere imparata solo dal vero artista), non ha niente a che fare con tale questione, con la pretesa identità di tecnica e forma. Anche per pensare correttamente occorre un addestramento, una tecnica da apprendere, da dominare; ma soltanto con criteri soggettivistico-agnostici se ne può far derivare il tecnicistico carattere di strumento delle categorie del pensiero.» Ogni artista ha bisogno di una tecnica artistica altamente perfezionata per rappresentare in maniera artisticamente persuasiva l’immagine speculare del mondo che egli ha in mente. L’apprendimento e il dominio di questa tecnica sono compiti estremamente importanti.

Tuttavia, per non far sorgere qui nessuna confusione, è assolutamente necessario determinare correttamente, con criteri dialettico-materialistici, la posizione della tecnica nell’estetica. Anche qui Lenin, nelle sue annotazioni sulla dialettica del fine e dell’attività soggettivamente finalizzata dell’uomo, ha dato una risposta del tutto chiara e insieme, affermando la interrelazione oggettiva, ha smascherato le illusioni soggettivistiche che da tale interrelazione sorgono. Egli scrive:

In realtà, i fini dell’uomo sono generati dal mondo oggettivo e lo presuppongono: lo trovano come dato, come presente. Ma all’uomo sembra che i suoi fini siano fuori del mondo e da esso indipendenti30.

Le teorie tecnicistiche che identificano tecnica e forma partono tutte, senza eccezione, da questa parvenza soggettivisticamente ipostatizzata, cioè non vedono l’interrelazione dialettica di realtà, contenuto, forma e tecnica, non vedono che l’indole e il modo di operare della tecnica sono necessariamente determinati da questi fattori oggettivi, non vedono che la tecnica è un mezzo per esprimere il rispecchiamento della realtà oggettiva attraverso il reciproco rovesciarsi l’una nell’altro di forma e contenuto, che dunque la tecnica è solo un mezzo per questo fine e solo a partire da questa interrelazione, a partire dalla sua dipendenza da questa interrelazione può essere intesa correttamente. Quando poi la tecnica sia definita cosi, nella sua corretta dipendenza dal problema oggettivo della forma e del contenuto, il suo carattere necessariamente soggettivo diviene un momento necessario della complessiva interrelazione dialettica dell’estetica.

Solo quando la tecnica viene ipostatizzata, solo quando essa in tale ipostatizzazione viene messa al posto della forma oggettiva, sorge il pericolo di soggettivare i problemi dell’estetica, e in duplice senso: in primo luogo la tecnica, isolatamente intesa, si stacca dai problemi oggettivi dell’arte, appare come uno strumento autonomo, liberamente diretto dalla soggettività dell’artista, con il quale ci si può accostare a qualsiasi materiale e trarne qualsiasi forma. La ipostatizzazione della tecnica può assai facilmente degenerare nella ideologia del virtuosismo formale soggettivistico, del culto della «perfezione formale» esteriore, dell’estetismo. In secondo luogo, e in stretta connessione con ciò, l’esagerazione della rilevanza nella rappresentazione dei problemi puramente tecnici occulta i problemi del vero e proprio formare artistico, che sono dislocati più in profondità e che è più difficile percepire con immediatezza. Tale occultamento è sorto nell’ideologia borghese parallelamente alla decomposizione e ossificazione delle forme artistiche, parallelamente al perdersi del gusto per i veri problemi della forma artistica. I vecchi grandi estetici hanno sempre messo in primo piano i decisivi problemi della forma, rispettando cosi la giusta gerarchia all’interno dell’estetica. Già Aristotele diceva che il poeta deve mostrare la sua forza più nell’azione che nei versi. Ed è molto interessante osservare come la sprezzante avversione di Marx ed Engels per le «piccole diarree d’ingegno» (Engels) dei vuoti virtuosi della forma loro contemporanei, dei vacui «maestri della tecnica», arrivava al punto di far loro trattare con indulgenza persino i brutti versi del Sickingen di Lassalle, perché in questa tragedia egli aveva fatto il tentativo – in verità fallito e da essi appunto giudicato fallito – di addentrarsi fino ai reali, profondi problemi del contenuto e della forma del dramma. E questo tentativo venne lodato da quel Marx il quale, come mostra la sua amicizia con Heine, aveva una conoscenza talmente approfondita, non soltanto dei problemi essenziali dell’arte, ma anche dei dettagli della tecnica artistica, da essere in grado di dargli consigli tecnici concreti per migliorare i suoi versi.

[1934]

1 Teoria delle immagini o del rispecchiamento.

2 V.I. Lenin, Quaderni filosofici, in Opere complete, V. XXXVIII, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 365.

3 Esaltato.

4 Ibidem, p. 366.

5 K. Marx, Il capitale, III, Roma, Editori Riuniti, 1965, p. 930.

6 V.I. Lenin, op. cit., p. 158.

7 Manca della materia della sensibilità.

8 Ibidem, p. 159.

9 Ibidem, pp. 165-166.

10 Ibidem, pp. 157-158.

11 Ibidem, p. 281.

12 Ibidem, p. 143.

13 Quieto.

14 Ibidem, p. 142.

15 Ibidem, pp. 212-212.

16 Ibidem, p. 374.

17 Ibidem, p. 262.

18 L’oggettivismo qui è inteso non nel senso di chi pretende di lasciar valere in modo imparziale tutti i punti di vista, ma nel senso di chi è persuaso della rigorosa oggettività della natura, della società e delle loro leggi, (n.d.a.)

19 V.I. Lenin, II contenuto economico del populismo, in Opere complete, v. I, Roma, Editori Riuniti, 1955, p. 412.

20 Dal capitolo XXXVIII, intitolato «Colloquio sulle lettere» (cfr. D. Diderot, Oeuvres romanesques, Paris, Garnier, 1962, pp. 142, 144).

21 Un angolo della natura visto attraverso un temperamento.

22 F. Engels, Lettera a Minna Kautsky, del 26 novembre 1885, in K. Marx-F. Engels, Sull’arte e la letteratura, cit., p. 32.

23 K. Marx-F. Engels, Sull’arte e la letteratura, cit., p. 32.

24 V.I. Lenin, Quaderni filosofici, cit., p. 69.

25 Io troneggio nell’azzurro come una sfinge incompresa.

26 V.I. Lenin, Quaderni filosofici, cit., p. 90.

27 K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 189.

28 K. Marx, Per la critica dell’economia politica, cit., p. 198.

29 Ibidem, p. 199.

30 V.I. Lenin, Quaderni filosofici, cit., p. 175.