Diavolo azzurro o diavolo giallo?

di György Lukács

[risposta di Lukács alle critiche rivolte da Umberto Barbaro all’articolo Lukács, il film e la tecnica, apparse sul quotidiano “L’Unità” il 22 gennaio 1959. Il testo è stato pubblicato su “Cinema nuovo”, n. 154, novembre-dicembre 1961]


Ne “L’Unità” del 22 gennaio Umberto Barbaro dedica un articolo ad alcune mie osservazioni provvisorie, in origine puramente epistolari (erano espresse in una lettera al mio ex-scolaro István Mészáros), intorno al film, che sono state pubblicate dalla rivista “Cinema nuovo”1. L’articolo stesso, come si mostrerà subito, non meriterebbe una replica. Tuttavia la sede in cui è apparso gli conferisce un certo peso, e può forse essere utile rimettere a posto i problemi che in quell’articolo sono stati interamente capovolti. Umberto Barbaro cita alcune righe della presentazione redazionale che introduceva le mie osservazioni senza nemmeno addentrarsi nel testo vero e proprio (il lettore vedrà che si tratta qui del metodo critico da lui costantemente adoperato). Egli cita dunque le parole della presentazione secondo cui io do ragione a Mészáros quando egli distingue la tecnica dalla forma, e aggiunge subito la conseguenza che io contesterei senz’altro l’importanza della tecnica nell’arte. Devo confessare che, benché non nutra un’opinione troppo alta della logica dei neopositivisti, questo volo pindarico mi ha egualmente sorpreso.

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Astrazioni per spiegare la realtà: “Saggi sul realismo” di Lukács

di Francesco Cerutti

«La Fiera letteraria» V,  n. 37, settembre 1950.

[Il peggiore articolo mai scritto su L.]


Una gustosa presa in giro della metodologia marxista applicata alla critica letteraria, si legge, fra sparse annotazioni, in un breve scritto del Croce, pubblicato di recente, Cose nuove che son vecchie, ed è l’interpretazione, appunto condotta secondo i rigidi canoni del materialismo storico, d’un canto dantesco, quello di Paolo e Francesca, che per la singolarità dell’impostazione rivela, diciamolo pure con le parole del Croce, «profondità ed abissi inesplorati e sembianze affatto nuove che i critici borghesi non vedevano o non volevano vedere». La bonaria ironia del Croce, non di rado più efficace della sua stessa stringente dialettica, e come tale maggiormente temibile, è nota, epperò d’interpretazione e suggerimenti di tal natura è naturale si finisca con il sorrider divertiti. Ma il sorriso sparisce ben tosto e cede a dubbiosa incredulità, ad accorata meraviglia, quando quegl’argomenti s’odan ripetere e bandire ex cathedra, non più per celia ma con la serietà che si conviene a chi fa professione di critico e d’insegnante, e i problemi della letteratura e dell’arte, ha l’esplicito dovere di conoscere. Intendere, dichiarare altrui. E questo è il caso di György Lukács, professore di estetica nell’università di Budapest, autore di svariate monografie letterarie fra cui spicca un celebrato saggio sul Goethe tradotto anche in italiano, che ha raccolto in volume alcuni suoi studi sui realisti francesi e russi dell’ottocento, e la cui opera, tradotta non sappiamo da chi, è uscita da poco in veste italiana per iniziativa dell’Einaudi, infaticabile divulgatore di quel che chiamasi – con qualche ottimismo – il pensiero marxista contemporaneo.

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N. Tertulian, Modernité et Antihumanisme. Les combats philosophiques de Georg Lukács (segnalazioni)

95603

Nicolas Tertulian

Modernité et Antihumanisme

Les combats philosophiques de Georg Lukács

Klincksieck, 2020

368 pages
coll. Critique de la politique
N° dans la collection : 20
Parution : 08/11/2019
EAN13 : 9782252043363

Ce livre rassemble des articles dont la rédaction s’étend sur plus de trois décennies. Il esquisse les linéaments d’une philosophie de la démocratie radicale, centrée sur la figure du penseur hongrois Georg Lukács (1885-1971).
À travers une critique rigoureuse des tendances antihumanistes du XXe siècle — et notamment des systèmes conceptuels développés par Martin Heidegger et Carl Schmitt —, Lukács a rappelé dès les années 1930 les exigences d’une pensée européenne responsable, désireuse à la fois d’assumer ses origines révolutionnaires et de tirer les conséquences des grandes catastrophes politiques du XXe siècle. Dans son oeuvre propre, Lukács pose les fondements philosophiques d’une pensée de l’égalité et de l’inclusion qui, sans rien perdre du mordant critique de sa matrice marxiste, s’efforce d’articuler les différents niveaux de manifestation d’une rationalité plurielle. La tâche ultime de la philosophie ne doit pas être de séparer, d’opposer et de discriminer, mais de retrouver dans la théorie de la connaissance, l’expérience quotidienne, la création artistique, l’instauration institutionnelle, l’unité d’un projet humain. Lukács revient ainsi au premier plan du combat pour une modernité ouverte et sans mépris, pour une véritable culture de l’égalité dans la démocratie.

Lire un extrait…

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Nicolas Tertulian, né en 1929 à Iaşi en Moldavie roumaine, est un philosophe, esthéticien et essayiste, installé en France depuis 1982. Spécialiste reconnu de la pensée de Georg Lukács, il a enseigné de 1982 à 2010 l’« Histoire de la pensée allemande (XIXe-XXe siècle) » à l’EHESS. Il est l’auteur, en français, de deux ouvrages consacrés à la pensée lukácsienne. D’innombrables publications, du Brésil au Japon, ont fait connaître ses travaux, notamment ses études critiques sur Heidegger et Schmitt. Nicolas Tertulian est décédé en septembre 2019 à Suresnes, sans avoir vu paraître ce livre.

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Table des matières

Présentation de Pierre Rusch

Première partie. Lukács et la pensée ontologique du XXe siècle
Chapitre 1 : Histoire de l’Être et révolution politique. Réflexions sur un ouvrage posthume de Heidegger
Chapitre 2 : Qui a peur du débat ? Réponse à M. de Beistegui
Chapitre 3 : Lukács et Heidegger – les deux ontologies (une confrontation)
Chapitre 4 : Le concept d’aliénation chez Heidegger et Lukács
Chapitre 5 : Nicolai Hartmann – Lukács, une alliance féconde

Deuxième partie. Lukács et le marxisme du XXe siècle
Chapitre 6 : Adorno – Lukács : polémiques et malentendus
Chapitre 7 : Distanciation ou catharsis ? (Sur les divergences entre Brecht et Lukács)
Chapitre 8 : Gramsci, l’Anti-Croce et la philosophie de Lukács
Chapitre 9 : Ernst Bloch – Georg Lukács, paradoxes d’une amitié
Chapitre 10 : Sartre : de l’intelligibilité de l’histoire

Troisième partie. Figures de l’antidémocratie
Chapitre 11 : Croce et Gentile – de l’amitié à l’hostilité
Chapitre 12 : Arnold Gehlen – la genèse de sa pensée
Chapitre 13 : Carl Schmitt : la théologie politique
Chapitre 14 : Carl Schmitt : le juriste et le Führer
Chapitre 15 : Scènes de la vie philosophique sous le IIIe Reich : Steding, Schmitt, Heidegger

Una storia di maschere?

di Franco Fortini

«Avanti!» 3 luglio 1949

[Avvertenza: riprendiamo il testo di questo articolo da una copia cartacea rovinata, per cui alcuni passi non sono leggibili. In quel caso è posta il simbolo […] ad indicare la mancanza. Inoltre – piccola nota filologica – quando Fortini usa l’aggettivo “virtuistico”, fa riferimento alla terminologia di Vilfredo Pareto e lo mutua dal suo maestro Giacomo Noventa, che ne fece grande uso. In generale l’aggettivo vale come “moralistico”, nel senso negativo del termine].


M’è avvenuto di leggere, nei giorni passati, la Breve storia della letteratura tedesca del critico e filosofo marxista Georg Lukács, tradotto in francese nelle edizioni Nagel. È questa una storia sociologica e politica della letteratura tedesca, un’essenziale discorso sulle vittorie e sugli errori di una cultura, espressa nelle forme letterarie, equivalenti, se non esattamente paralleli alle rare vittorie e ai molti funesti errori della evoluzione democratica tedesca. La leggevo con particolare attenzione, perché, da noi, si può dire quasi inesistente, o appena i suoi inizi, una critica letteraria di ispirazione marxista; e poi, perché è questo, di una critica letteraria ispirata a quei principi (ma bisognerebbe dire persino di una estetica rinnovata, di contro alla tradizione dell’idealismo; vedi l’importante lavoro di Galvano Della Volpe) uno degli argomenti di più frequente riso e critica, fra uomini non solo delle altre, ma anche delle nostre tendenze politiche.

E in questi giorni l’Avanti! ha ospitato una «Breve storia degli intellettuali italiani» che mi ha dato molto da riflettere. Iniziativa, quella di G. Peirce, lodevole, soprattutto se la sua forma giornalistica fosse stata la conseguenza di uno studio vero e proprio; ma, diversamente da quella del Lukács, molto pericolosa e ricca di equivoci. Diciamo subito che fare della critica “marxista” (metto deliberatamente tra virgolette questa parola per indicare il riferimento più o meno preciso al complesso della tradizione marxista, mentre parlando di marxismo tout court oggi, è impossibile non intendere il marxismo-leninismo nell’interpretazione stalinista, cioè comunista, e nelle sue applicazioni più recenti) non può voler dire cercare delle semplici corrispondenze e dei rapporti di causa-effetto tra fattori sociali e politici e strutture economiche, da una parte, e opere d’arte o di letteratura (espressioni delle sovrastrutture) dall’altra. Dire, come fa Peirce, e come molti dicono, che il movimento letterario e culturale rappresenta il tal momento politico o la tal altra esigenza di difesa o di offesa di classe (e dirlo, poi, con esasperante schematismo) non può non ridurre opere di pensiero e di letteratura a maschere ideologiche da “smascherare” secondo una locuzione troppo frequentemente e imprudentemente; in questo caso la storia di una letteratura sarà ridotta a una storia di maschere e di burattini; e la storia della filosofia ad una storia di ideologie, cioè di filosofia considerate soltanto nella loro fase di decadenza e di “applicazione” (e mi si permetto, a questo proposito lamentare che i socialisti stiano confermando l’uso improprio di chiamare “ideologica” ogni attività culturale e teorica di partito). Una critica di tal genere sembra covare in chiunque si illude che il marxismo sia una “riduzione all’economico” e in chi porta una intima incomprensione e forse un segreto dispetto e odio alla letteratura e all’arte, (che sono senza dubbio, uno dei più vistosi strumenti e aspetti della iniquità sociale e dello sfruttamento); una critica di tal genere non sarà una critica “partitica”, ma soltanto una critica virtuistica (e finalmente ingenua) che non potrà far altro se non “smascherare” falsità, menzogne, errori e brutture, tesa all’auspicio di una letteratura che…non mascheri nulla. Io mi permetto di consigliare (per qualche esperienza che ho di questo genere di discorsi) di stare molto attenti: si rischia di dire alcune clamorose sciocchezze, di ingannare dei compagni che mancano del modo di controllare i nostri errori, e di disgustarne inutilmente altri. Voglio dire che queste «storie brevi» sarebbe meglio considerarli saggi di sociologia delle lettere e delle arti. Se si dichiara che l’opera letteraria non ha altro senso che quello di rappresentare un momento della struttura economica e politica, non capisco perché si studino i grandi poeti e gli scrittori e non già la minore pubblicistica o le opere di mero successo che quei momenti rappresentano, documentano o denunciano tanto più chiaramente. Se invece (pur con la necessaria prudenza dopo i recenti abusi delle alleanze crociano-cattoliche e della critica idealistico-mistica) si maneggi il criterio della distinzione estetica, si arriverà forse ad una conclusione che si può sì compendiare come segue.

L’indagine dei rapporti fra la espressione artistica (nelle forme che siamo soliti chiamare «poesia» e «letteratura») e il mondo della società storica (indagine che non è nata con le ultime leve!) è una forma di filologia, serve cioè da strumento per una più esauriente comprensione di quella espressione, e, correlativamente, di quel mondo. Si tratta di stabilire anzitutto i limiti di questa, come di qualsiasi altro strumento di interpretazione. Cioè, se l’attività critica deve soltanto tradurre in termini di sociologia, di politica, di «sovrastrutture» l’opera letteraria, la categoria estetica sarà negata; se invece essa deve introdurre (e non sostituirsi), la sua indagine dovrà essere molto più profonda e delicata di quel che certa gente creda. Per fare un esempio: dire che la tal poesia di X è l’espressione della borghesia imperialista del paese Y nella fase Z è fare un giro inutile e costoso quando sarebbe infinitamente più semplice e redditizio ricercare altre forme di espressione della borghesia di Y in Z. Serve comunque a poco; e ci preclude […]biamente ogni possibile avvicinamento alla poesia di […] Bisognerà invece, servendosi naturalmente di tutti i mezzi filologici a nostra disposizione, avvicinarci alla differenza specifica che c’è tra l’espressione X, e le espressioni N, S, […] di Y in fase Z. Arriveremo molto probabilmente ad accertare in ogni espressione di arte e di poesia una certa particolare tensione ed equilibrio dinamico tra elementi volontari e involontari, fra plurimi significati ed echi fra valori «espressivi» e «comunicativi», ecc. in che facciamo consistere propriamente l’espressione artistica e (con le dovute distinzioni) quella cosiddetta letteraria. Insomma, per dirla molto grossolanamente, non si tratta di «passare» dal cosiddetto «contenuto» alla cosiddetta «forma»; ma da un contenuto esplicito ad uno implicito, e al rapporto tra i due. Vedremo che X «significa», « rappresenta», «maschera» Y in Z (e anche ben altro!) in modo, però, tale che, per comprenderlo e sentirlo convenientemente, (perché insomma il composto chimico, che X è, diventa disgregabile e assimilabile) è necessario un tempo diverso da quello che solitamente si impiega per comprendere manifestazioni e le espressioni, N.S.R… Tempo che nessuna sociologia può accelerare. Si potrà fabbricare il grano che, cresce in tre settimane ma non una autentica poesia capace di risolversi, di comunicarsi a favore della fretta dei distratti.

Affermazioni di questo genere ci paiono abbastanza ovvie, ed è abbastanza penoso che si sia ancora a doverle ripetere quando sarebbe tanto necessario lavorare molto seriamente a mettere in pratica critica una revisione, della nostra letteratura, specie contemporanea. Speriamo, paradossalmente, che la dichiarata fine delle speranze e delle illusioni di garibaldinismo culturale, il visibile trionfo della reazione culturale ci costringa a vendette non verbali, a serietà e furore di studi, per distruggere, ma davvero, quel che avevamo creduto sufficiente dimenticare, (e soprattutto per evitare che alcuni santoni naviganti eternamente fra due acque piangano le loro lacrime di coccodrillo sulla letteratura e sulla critica rivoluzionaria).

In quanto alle storie o alle cronache meramente sociologiche, esse sono necessarie, se condotte con l’opportuno senso dei loro limiti. E anzi bisognerebbe che le «piccole storie» dei letterati italiani fossero condotte fino ai nostri giorni, con fredda accettazione dello scandalo, descrivendo le subordinazioni economiche alle potenze politiche, i rapporti con il fascismo, con l’editoria, il costume, le bizze, i falsi scandali, le conversioni, i mestieri, i premi ecc. della casta letteraria. Proseguire Gramsci, insomma, non in modo aneddotico, naturalmente, ma come descrittiva di un «ceto» organico. Ma non dimenticavo davvero i fini di una simile indagine: una critica ad uomini-istituti, che non è, o non basta per essere, una critica alla loro poesia o letteratura. Apparirà allora chiaro quello che andiamo ripetendo da tanto tempo: che il mondo della cultura e della politica italiana seguitano, e volutamente, a giuocare con un equivoco; gli uni e gli altri, in fondo, lietissimi che l’equivoco si perpetui. «Impegnati» e «impegnatori», avversari o no dell’«impegno», tutti però concordi, in silenzio, su di un punto: gli uomini di cultura a non parlare mai della cultura dei loro politici, e i politici a non prender mai sul serio la cultura dei loro uomini di cultura. Questi solo desiderosi di lasciare la loro «organizzazione» in mano ai «pratici». E i «pratici», felicissimi, sempre, di tenersela.

Lukacs sui problemi del realismo

di Rosario Assunto

«Tempo Presente»,  I, n. 2 – maggio 1956

Una conferenza di Lukács sui problemi del realismo nella letteratura contempora­nea. Aula assai grande, gremita di ascoltatori; il pubblico traboccava dalla porta, si accalcava nei vani delle finestre; esaurite le sedie, quelli che non si rassegnavano a rimanere in piedi si contendevano due tavoli disposti in fondo alla sala. Dobbiamo chiederci che cosa cercas­sero, che cosa si aspettassero gli ascoltatori professionalmente e ideologicamente disponibili, che prestarono attenzione per due ore filate. Non credo che il nome di Lukács fosse, di per sé solo, un richiamo così potente, e nemmeno ritengo che la parola realismo basti da sola a spiegare un interesse così diffuso.

In termini opinabilissimi Lukács parlava di letteratura decadente e letteratura realista, e con­cluse indicando le condizioni alle quali deve sottostare uno scrittore che oggi voglia fare let­teratura realista, non senza collegare tutte le sue proposizioni a riferimenti politici, alla guer­ra, alla pace, alla lotta per la pace, al mondo borghese e al mondo socialista. Non cera molto di nuovo, per chi già conosceva, in tutto o in parte, l’opera di Lukács, le sue pagine felici e le sue pagine infelici (infelicissime fra tutte, forse, quelle sul Werther di Goethe, il saggio su Hölderlin…); e non possiamo dire che, ad ascoltarlo, la sua immagine si modificasse ri­spetto al ritratto che di lui traccia Victor Serge nelle Memorie di un rivoluzionario. Più di una volta, soprattutto verso la fine, la sua maniera di argomentare faceva tornare alla mente quel professore di filosofia del quale racconta, mi pare, il Croce, che usava dedurre i romanzi di Balzac a colpi di tesi antitesi e sintesi. Ma il pubblico era numeroso e prestava attenzione.

Se i ragionamenti di Lukács erano, e rimangono, opinabili, non meno opinabile è la nozione di realismo, che tanto inchiostro ha fatto versare. Letteratura della realtà, realtà della let­teratura? E quale realtà, quale letteratura? So­no questioni estremamente complesse, che ad affrontarle si rischia di perdersi dentro una spugna. Ma nessuno può negare che siano questioni importanti, se tanta gente accorre ad una conferenza nella quale esse vengono affrontate. Importanti, soprattutto, nella misura in cui l’in­teresse che esse suscitano va oltre il tema ri­stretto di realismo o no e investe quello dei rapporti fra letteratura e condizione umana.

La letteratura come interpretazione della condizione umana, uno sforzo dì capire e di aiutare a capire la condizione umana; e di capire aiutando a modificare. Uno sforzo di intervenire nella condizione che è sempre condizione situata, e attraverso la comprensione aiutarla a situarsi diversamente. Questo chiedono oggi i lettori, e non è improbabile che l’avvertenza più o meno esplicita di questa esigenza abbia condotto tanta gente, pubblico autentico, ad accalcarsi entro la sala in cui Lukács parlò così a lungo, il cinque maggio millenovecentociquantasei, a Roma. Non è azzardato supporre che se lo stesso oratore, o un altro ancora più noto di lui, avesse parlato intorno al bello e al brutto della letteratura contemporanea, proponendo un ulteriore criterio di antologizzazione, gli ascoltatori sarebbero stati un decimo di quelli
che erano. Lukács parlava da filosofo e da uomo interessato alla situazione, e come tale decifrava, a suo modo, la letteratura contemporanea. Per questo la gente era andata a sentirlo, e sopportava anche le soperchierie da lui usate agli autori e ai libri, il suo modo di tirare il collo a uno e di allungare le gambe a un altro, per farli corrispondere alle sue misure di realismo e di decadentismo.

Rileggendo Lukács

di Rosario Assunto

«Tempo presente», II/n.1 – gennaio 1957

Dove si trova, in quoti giorni, Giorgio Lukács? E le conclusioni del suo saggio Zur Konkretisierung der Besonderheit als Kategone der Aesthetik, di cui abitiamo letto la prima pane nella berlinese (Berlino-Est) Zeitschrift für Philosophie, sono state pubblicate? Queste domande sono oramai il contrappunto inevitabile di quel nec tecum nec sine te che è nota costante di tutte le nostre letture lukacsiane: anche, e particolarmente, quando ci troviamo di fronte ai saggi su Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna, recentemente pubblicati dall’editore Feltrinelli nella traduzione di Giorgio Dolfini. Per quello che può dipendere da noi, c’è da augurarsi che Concretizzazione della particolarità come categoria dell’estetica trovi presto un solerte traduttore; come vorremmo lo trovasse anche quelli Theorie des Romans che fece epoca, a suo tempo, nello spazio culturale centro-europeo e venne favorevolmente recensita da Karl Mannheim in un articolo, ancora oggi tutto da leggere, apparso su Logos, la rivista che una volta usciva a Tubinga sono l’autorità, fra gli altri, dello Husserl e del Vossler.

In più di una occasione ci è capitato di motivare il nostro dissenso da Lukács per certe sue inadempienze rispetto a quella che il Mannheim lodava nel 1920 (e che di recente ha lodata, con parole analoghe, e riserve da sottoscrivere, il nostro Garetti): una forza che non procede per deduzione da alcuni principi, ma intende quello che vi è di più essenziale e profondo in una forma d’arte e nello spirito da cui essa deve avere avuto origine… Questo dissenso, e la inadempienza che lo giustifica, sono patenti quando si aprano alcune pagine, davvero deduttive, del volume su Goethe e il suo tempo. Ma il volume su Mann è forse l’opera più indicativa a questo riguardo, nella misura in cui il lettore viene portato a meditare sulle doti e sui limiti di Lukács, sull’entità del suo apporto al pensiero contemporaneo, e sulla necessità di appropriarcene appunto prr accrescere le nostre difese contro gli errori nei quali uomini del talento di Lukács sono incorsi non certo per capriccio, ma per effetto di condizioni del nostro tempo e della nostra cultura delle quali, e dei conseguenti errori di Lukács e di altri, noi stessi portiamo una responsabilità che va investigata e chiarita.

La chiave di tutta l’estetica e del procedere critico di Lukács è nella costante ricerca di un rapporto, intrinseco all’opera d’arte e non ad essa artificiosamente imposto, fra qualità e significato. Di questa ricerca, il saggio berlinese recentissimo propone alcune premesse teoriche che ogni lettore di Croce non potrà non compiacersi di trovare in ambiente marxista-leninista, mentre gli scritti su Mann ne additano una puntuale applicazione concreta.

Il problema che Lukács affronta nello studiare Thomas Mann è quello di interpretare Mann pensatore e politico partendo dalla sua opera e non, come spesso si usa, viceversa. Non si tratta dunque di un problema di critica, nel senso di giudizio sul valore estetico dell’opera manniana, ma di un problema che diremmo di filosofia dell’arte: problema la cui legittimità è condizionata dal suo non gabellarsi, nemmeno per sottinteso, come ricognizione di valore, che in ultima analisi farebbe dipendere la qualità dal significato; e dal fatto che la ricerca del significato viene condotta nella regione che unicamente può autorizzarla in arte, nella regione della forma e dello stile, fuori della quale quello che Lukács chiama il rispecchiamento della realtà non avrebbe carattere artistico ma scientifico, dal momento che, come lo stesso Lukács scrive in Zur Konkretisierung der Besonderheit, oggetto della formazione artistica non è il pensiero in sé, nella sua immediata e oggettiva verità, bensì il modo come esso entra in opera in situazioni concrete di uomini concreti, quale concreto fattore di vita. Non c’è bisogno di attardarsi su certi crudi giudizi che Fadcev ebbe ad esprimere su Lukács: «…Molte cose della sua attività suscitano seri dubbi… nega la possibilità che il Partito diriga le cose dell’arte… egli cerca una giustificazione per la ideologia borghese e per la sua coesistenza con la nostra ideologia… Lukács tenta di disarmare i costruttori della cultura socialista nei Paesi di democrazia popolare… ».

A noi interessa qui rilevare, per meglio comprendere e discutere Lukács, come la politicità che egli sostiene sia di tutt’altra natura da quella di Fadeev: politicità, per lui, è la presa di posizione, plasmata nell’opera con mezzi artistici, rispetto al mondo rappresentato. E questa politicità egli cerca di individuare nell’opera di Thomas Mann, scrittore che effettivamente non è possibile leggere e apprezzare se non si tiene presente il nesso strettissimo, nella sua opera, fra qualità e significato: non certo nel senso che il significato determini dall’esterno la qualità, e il nostro apprezzamento qualitativo dipenda dalla misura maggiore o minore in cui accettiamo il significato, bensì nel senso più veritiero che qualità è la presentazione del significato nell’atto formale, creativo, in seguito al quale esso entra in opera, per ripetere qui le parole di Lukács, in situazioni concrete, di uomini concreti, quale concreto fattore di vita.

Dei cinque saggi che il volume comprende (oltre a un’introduzione e a una premessa), il più significativo, dal nostro punto di vista, è forse quello dedicato alla Tragedia dell’arte moderna, dove Lukács prende in esame il romanzo Dottor Faustus, nel quale la raffigurazione plastica e chiara del processo creativo di Adriano Leverkühn viene interpretata dal Lukács come raffigurazione dell’arte contemporanea in quanto espressione concentrata di decadenza. Una interpretazione plausibile, anche se, come suole accadere in simili casi, vuol essere integrata con altre che guardino da vicino altre facce della complessa realtà di questo romanzo.

«Dietro la musica di Leverkühn — osserva Lukács — si cela la disperazione più profonda di un vero artista nella socialità dell’arte, anzi addirittura nella società borghese del nostro tempo… Per quanto si possano decisamente rifiutare gli esperimenti nati in quest’epoca, spesso completamente vuoti, puramente artificiosi, quasi fossero escogitati in un laboratorio, pur è chiaro che questa tendenza… non è affatto stata una semplice stravaganza di letterati, bensì il rispecchiamento artistico (spesso deformato, di maniera, divenuto addirittura un giuoco) del rapporto dell’individuo, della sua vita personale, con il proprio ambiente sociale, più precisamente con l’epoca storica, con quel decorso storico, di cui una frazione, un momento è costituito da questo curriculum vitae individuale… quelle correnti oggettive che economicamente e culturalmente… preparano le due guerre mondiali, prendono, secondo il loro intimo modo di essere, la via verso la trasformazione del mondo in un caos sanguinoso, verso lo sfiguramento dell’umano nell’individuo singolo, nelle classi e nelle nazioni…». Il curriculum di Adriano Leverkühn mostra qui il suo significato, che si traduce, per Lukács, in una possibilità di comprendere l’arte cosiddetta della decadenza, invece di svillaneggiarla e metterla al bando alla maniera di quel Parsadanov per il quale (e si veda La lotta per il realismo in arte in Letteratura e arte nell’URSS) il compito dell’estetica e della critica letteraria si poneva come un analogo della polizia politica.

Ma questo significato trasformerebbe il romanzo in un saggio filosofico, se esso non emergesse nella qualità, in quanto fattore della qualità stessa che trasforma in soggettività individua e non ripetibile l’universalità oggettiva del senso dell’opera: le pagine nelle quali Lukács analizza la struttura temporale del Faustus, la duplicazione della prima persona – Zeitblom e della terza persona – Adriano, il differente caratterizzarsi dei due personaggi, il rapporto interno all’opera fra piccolo mondo e grande mondo come maniera di soggettivarsi del contenuto oggettivo dell’opera sono fra le più persuasive di tutto il libro, anche se non esauriscono la ricognizione della qualità — proprio in quanto metamorfosi estetica del significato — che per esser completa richiederebbe una investigazione stilistica come indagine portata alla presenza reale della qualità in linguaggio e parola.

Dicevamo, le inadempienze di Lukács. Ecco, quando Lukács nel saggio sul Dottor Faustus si appella alla risoluzione del Comitato centrale del partito comunista dell’Unione Sovietica sulla musica moderna, e saluta il romanzo di Thomas Mann come « un’amplissima fondazione artistica e spirituale di quella risoluzione», proprio allora viene al pettine la preminenza del significato sulla qualità, che revoca quasi per intero la finezza delle sue analisi e delle premesse sulle quali esse riposano. Lukács, come tanti altri, ha creduto che fosse possibile difendere e salvare la socialità dell’arte di fronte all’irrompente isolamento accettando una prevaricazione del significato, ed una riduzione della qualità ad appariscenza esteriore, che in ultima istanza equivaleva all’annientamento della qualità come tale. Certe sue successive prese di posizione, la stessa incertezza che oggi avvolge il suo destino, sono la dimostrazione più esauriente che la crisi del rapporto fra arte e società investe tutto intero il mondo contemporaneo, e se da una parte l’attenzione alla qualità fa dimenticare qualche volta che la qualità è tale in quanto significante, sul versante opposto il significato divora la qualità, per la quale potrebbe anche non esserci più posto.

La condizione dell’arte, in quanto arte è qualificazione del significato, potrebbe davvero essere insostenibile in un mondo tutto scientificizzato, fondato sul culto della verità oggettiva, vale a dire sulla preminenza di quella forma scientifica della quale Lukács scrive che «è tanto più elevata quanto più è generale e onnicomprensiva», mentre la categoria estetica è secondo lui quella che, determinando da un lato una generalizzazione della semplice immediata individualità delle apparenze viventi, dall’altro lato risolve in sé quella generalità che se non fosse risolta toglierebbe via l’unità artistica dell’opera. L’essenza, potremmo dire, verrebbe in quest’ultimo caso a ingoiare il fenomeno (sono termini, anche questi, adoperati da Lukács). E forse nel conflitto fra essenza-significato e fenomeno-qualità è da indagare il dramma dell’opera e del destino di Lukács. Un paradigma, probabilmente, della situazione in cui tutti versiamo, di questi tempi, qualunque sia il posto che per se stesso uno abbia scelto.

Tra possibilità e costrizione. L’Aesthetik di Lukács

di Edward W. Said

«Times Literary Supplement», 6 febbraio 1976.

da Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, Feltrinelli, Milano 2008.

The Aesthetics of György Lukács di Béla Királyfalvi è un lodevole tentativo di fare i conti con l’ultimo importante sforzo teorico del filosofo ungherese, la sistematica filosofia dell’arte elaborata nei due volumi di Die Eigenart des Aesthetischen, pubblicati nel 1963. Nonostante il respiro quasi goethiano (perché, alla fine della vita, Lukács inizia a pensare in termini di benessere, normalità e sviluppo virtuoso – ed è questa una delle ragioni per cui oggi appare tanto inattuale), l’Aesthetik lukácsiana è rimasta piuttosto in ombra in Occidente. Királyfalvi si concentra in particolare sulla versione ungherese dei lavori di ispirazione marxista di Lukács (senza però spiegarci quanto e se differiscano dalla loro versione tedesca, motivo per cui la scelta risulta alla fine arbitraria e ingiustificata) e ci restituisce un’interpretazione attenta e circostanziata, coprendo esaurientemente tutti i principali nodi teorici dell’Aesthetik.
E tuttavia, perlomeno due elementi centrali finiscono per smarrirsi. Il primo consiste nel fatto che Lukács procede tanto per un’esemplificazione e un’analisi concrete quanto per generalizzazioni filosofiche, laddove il quadro delineato da Királyfalvi è quasi del tutto epurato delle suggestive incursioni su lavori specifici tipiche della scrittura di Lukács. Un’ulteriore lacuna è determinata poi dalla decisione discutibile ma non del tutto infondata di limitare l’analisi del lavoro di Lukács esclusivamente alla produzione marxista. Perché Lukács non è interessante solo come marxista, ma anche per il tipo di marxismo che rielabora, che si rivela tanto eccentrico quanto, se solo si pensa alla sua fase premarxista, eclettico e inclusivo. Rispetto a questa dimensione del lavoro di Lukács, Királyfalvi si rivela piuttosto insensibile.
Tuttavia, anche solo per il fatto di essere la prima monografia in lingua inglese dedicata a una filosofia estetica contemporanea di stampo esplicitamente marxista, il libro di Királyfalvi esaurisce una prima importante fase del lavoro analitico sul filosofo ungherese. Adesso, infatti, abbiamo bisogno di saperne di più su tutto ciò che nella cultura filosofica e letteraria tedesca di fine Ottocento prelude al lavoro di Lukács, come pure sul rapporto, cui accenna Királyfalvi, che lo lega a determinati artisti ungheresi, e soprattutto dobbiamo studiare temi, motivi e immagini che ricorrono come un leitmotiv lungo i quasi sei decenni in cui si è sviluppato il suo lavoro. Perché anche i fraintendimenti e le cattive interpretazioni che costellano il lavoro di Lukács sono interessanti e fanno integralmente parte, non solo del marxismo, ma più in generale della cultura occidentale. E nondimeno, come presenza centrale in questo contesto, Lukács offre ai suoi lettori una massa di scrittura a dir poco problematica.
Si tratta di un corpus teorico sul quale ci si è accaniti fino all’inverosimile per quanto concerne malafede politica, viltà morale, compromissioni con lo stalinismo, autoaccuse e così via. Gli strali che George Lichtheim rivolge a Lukács, per esempio, non hanno comunque impedito che a sprazzi potesse svilupparsi un’analisi più argomentata sulla sostanza dell’intera opera filosofica e critica lukácsiana; ma anche in questo caso l’impressione è che a contare maggiormente non sia il lavoro di Lukács quanto il fatto di disapprovare o meno, più che l’impegno e le idee politiche, lo stile morale e politico dell’uomo. La sensazione che se ne ricava è che Lukács sopravviva riprovevolmente a ogni difficoltà, ed è sintomo più che altro del fatto che un comunista venga giudicato su standard morali che non si applicano mai per l’universo capitalista. Nessuno però ha spinto la disapprovazione nei confronti di Lukács su livelli di terrorismo intellettuale paragonabili a quelli raggiunti dalla lettura rancorosa di G. Zitta, il cui Georg Lukács Marxism, del 1964, individua nell’ortodossa dialettica marxista di Lukács la causa di ogni male possibile. Più di recente, in particolare grazie all’eccellente raccolta di saggi di G.H.R. Parkinson, Georg Lukács: The Man, His Work, and His Ideas del 1970, una lettura intellettualmente seria del lavoro del filosofo ungherese ha iniziato a emergere, impedendo che il comportamento politico sui generis di Lukács, e in particolare il sostegno allo stalinismo che diviene poi capacità di sopravvivergli, finisse per oscurare del tutto l’entità del suo lavoro intellettuale. Molti, se non addirittura tutti i principali lavori di Lukács sono stati tradotti in inglese, permettendo al lettore angloamericano di saperne di più sulla portata e il valore del suo pensiero che non sui giudizi di parte da lui espressi su Balzac e il realismo. Eppure, dalla sua scomparsa, nel 1971, la reputazione e l’influenza di Lukács hanno tristemente, e in un certo senso ironicamente, perduto ogni tipo di presa e di appeal sul discorso critico. Ma come è possibile che un intellettuale militante, precursore e inventore di concetti centrali come quelli di prototipo e avanguardia, non abbia quasi lasciato traccia di sé all’interno di un ambiente culturale, quello del pensiero critico, le cui parole d’ordine restano ancorate a un avanguardismo profetico e a uno stile intellettuale di radicale opposizione? Quel che resta del pensiero di Lukács appare decisamente démodé: in circoli intellettuali in cui si discute solo di formalismo, strutturalismo e decostruzione, il suo approccio pesantemente pedagogico, l’ostinazione apparentemente cieca che gli fa preferire addirittura Heinrich Mann a Kafka, le ripetizioni, le frequenti inesattezze e una pedanteria di stampo ottocentesco restituiscono l’impressione di un pensiero decisamente fuori luogo. Solo George Steiner sembra aver compreso e tematizzato la dimensione drammatica del lavoro di Lukács, senza però poter presagire in tutta la sua profondità il senso della confessione che Lukács stesso avrebbe rilasciato nel 1967 a Hans Heinz Holz a proposito di Ettore, “l’uomo che viene sconfitto, e sta nel giusto ed è il vero eroe”, risultando pertanto figura “decisiva per tutto lo sviluppo ultimo del mio lavoro”.

In ambito letterario Lukács guarda quasi esclusivamente all’Ottocento. La sua è davvero la cultura di Ettore, e in quanto tale si oppone a quella appassionante, intensa e vittoriosamente fugace di Achille. Nietzsche e Schopenhauer gli appaiono riprovevoli irrazionalisti, esempi di una modernità tristemente reazionaria. Immergersi nelle migliaia di pagine che Lukács ci ha lasciato permette di rendersi conto di come per lui, a contare davvero, non fossero gli scrittori eccentrici ma i grandi scrittori: Shakespeare, Goethe, Marx, Hegel, Balzac, Tolstoj e la cultura che li ha prodotti. L’impressione è che fosse incapace di appassionarsi ad autori come Rousseau o Artaud, il cui principale intento era di fare a pezzi i valori letterari, perché la sua era una cultura segnata da leggi complesse ma assertive, certificabili e uniformemente trasmissibili. Dopo la prima guerra mondiale è praticamente impossibile imbattersi in un testo di Lukács in cui si parli del significato della lettura o dell’esperienza di un dato autore, e tantomeno in considerazioni su ciò che impressiona o disorienta in un determinato romanzo. Eppure il suo percorso critico e filosofico esplora pressoché la totalità del campo semantico su cui si misura oggi il discorso critico: rappresentazione, riflessione, reificazione, ricezione, unità epistemica, dinamismo nell’arte, sistemi di segni, la relazione tra teoria e pratica, i problemi del “soggetto” o, come suggerisce sin dal titolo uno dei suoi primi articoli, rimasto poi intradotto, “La relazione soggetto-oggetto in estetica”. Come per Kenneth Burke, anche la critica lukácsiana copre questi nodi centrali senza però dar mai l’impressione di poter servire ad altri critici: entrambi ci restituiscono un lavoro tanto indefesso quanto eccessivamente esplicito, in un certo senso troppo definito per consentire di ricavarne idee e suggestioni da tradurre nella vulgata corrente. E questo tipo di lavori finisce per rappresentare valori ritenuti immodificabili e pietrificati: nel caso di Burke quelli ispirati a un eccentrico, genuino e favoloso eclettismo, per Lukács invece un testardo e indomito marxismo.
Perché è innegabile, Lukács è stato un “mastino” del marxismo. Dopo la sua “conversione”, nei primi anni venti, nessuna questione politica, culturale o letteraria gli apparve tanto sottile o recondita da impedirgli di ricavarne una lezione marxista. E questo a volte può restituire l’impressione di un impoverimento, una banalizzazione; di norma però avviene il contrario. Il saggio su Hölderlin contenuto in Goethe und seine Zeit, per esempio, sorprende per la portata della sua empatia umana e la sua comprensione politica. Riscattando Hölderlin da George, Gundolf, Dilthey e il nazionalsocialismo, Lukács ricollega il “tardo giacobinismo” del poeta alla tradizione di Hegel e della Rivoluzione francese. E così, anziché precursore di un misticismo irrazionale, Hölderlin viene individuato come quell’unico poeta privo di successori che Lukács riteneva fosse. Qui, come in molte altre circostanze, il criterio di gusto di Lukács sembra ostaggio di ciò che molti commentatori ingenerosi definirebbero senza dubbio come parzialità, nella misura in cui il marxismo verrebbe abilmente manipolato per permettere di rintracciare affinità di temperamento con questo o quell’autore. Può darsi. Ma perché si pensa sempre che il marxismo sia così rigidamente ottuso, o che funzioni solo (e per Lukács semmai è vero il contrario) come un crudo imprimatur su determinati aspetti della cultura?
Oggi sembra più corretto e logico affermare che il marxismo per Lukács non ha mai rappresentato una semplice silloge di verità prestabilite, né un metodo di analisi, ma una sorta di necessità, in primo luogo per correggere e quindi per trasformare e guidare il proprio rapporto col mondo. Di certo nulla può risultare più sorprendente e volubile dell’ardore (Sehnsucht) e dell’indefinita ironia che pervadono i lavori precedenti la sua conversione al marxismo. In questo atteggiamento di fondo, la presenza di Kant e Kierkegaard, che influenza le analisi potenti ma in fin dei conti retrospettive sulla lirica, il dramma, il saggio e il romanzo, viene comunque temperata dalla padronanza del Socrate platonico, un investigatore idealista e appassionato le cui tendenze romantiche sono tenute sotto controllo dalle discontinuità della vita e dal particolare stile di scrittura (il saggio), come del resto dal carattere farsesco e perlopiù ironico dei suoi esempi. Eppure, l’idea di Socrate come antidoto all’emozione incontrollata viene implicitamente rafforzata in Lukács dalla scoperta di un tempo futuro e potenziale, anche quando dà l’impressione di impantanarsi nei dilemmi morali senza sbocco del primo Novecento.
Verso la fine del primo saggio di Die Seele und die Formen, Lukács parla per la prima volta di un grande evento estetico destinato a rendere la scrittura saggistica e il suo autore del tutto impotenti per quanto riguarda chiarezza, autonomia e capacità di visione. E tuttavia, il saggio, come forma di scrittura, “sembra giustificare la propria esistenza in quanto strumento necessario al fine ultimo, come penultimo passaggio di questa gerarchia”. Troviamo qui le tre dimensioni del tempo di cui Lukács, ancor più di Georges Poulet e ben prima di Heidegger, è stato il filosofo e poeta, colui che ha saputo coglierne tecnicamente il pathos intrinseco: un impossibile desiderio di unità nel passato, un’insanabile frattura tra ideale e realtà nel presente, e un futuro destinato a imporsi e distruggere tutto. Perdita, alienazione e annullamento. Dopo il 1918 per Lukács il marxismo in realtà non rappresenta tanto la capacità di trasformare questa tripartizione temporale, quanto piuttosto la possibilità di ricavare una disciplina (la dialettica) e un luogo (il saggio) in base e attraverso i quali poter osservare, guidare e chiarire queste tre dimensioni del tempo storico: di oggettivarle anziché esserne soggetto, ma solo nella scrittura. Che parli del proletariato o del romanzo, Lukács in realtà sta sempre confrontandosi con la coincidenza di un momento particolare di queste tre fasi con la forma altrettanto particolare, statica o dinamica, della sua comprensione nella coscienza. Lessing e Marx gli insegnano a disincagliare queste coincidenze dall’apparente disordine degli eventi.
Si considerino per esempio le principali questioni, gli stili e le espressioni con cui si misura Lukács. Molti di questi hanno a che fare meno con la storia in quanto tale che non con ciò che rispetto alla storia risulta marginale o eccentrico, o con attribuzioni di senso e di possibilità nella storia. Da qui le idee di reificazione, coscienza di classe del proletariato, alienazione e totalità. Nel suo lavoro di metà anni venti, Lukács è stato attratto anche dalla separazione tra mondo vegetale (o naturale) e vita umana. Il marxismo quindi non ha che drammatizzato e specificato i riflessi del tempo e della storia nella coscienza umana. La scrittura marxista di Lukács intercetta la qualità, sempre insufficiente da un punto di vista esistenziale, del tempo storico – il suo carattere intermedio e sospeso, la sua corrosiva ironia, i suoi aspetti profetici e anticipatori – per fissarla in categorie identificabili. E nondimeno, quando Lukács affronta la realtà, e soprattutto momenti agognati della realtà come l’unità tra soggetto e oggetto, l’impressione è che le sia a un passo, che davvero la sfiori, riflettendo sui suoi riflessi. E sembra volerci dire che il marxismo tutt’al più è stato in grado di guidare uno scambio tra l’intelletto individuale o collettivo e la realtà bruta: non ha abbattuto barriere e confini, semmai li ha dissolti formalizzandoli incessantemente, proprio come la coscienza proletaria che (paradossalmente) esiste davvero solo quando una dimensione atomizzata e del tutto disumanizzata ha dissolto e spazzato via ogni forma di solidarietà umana. Solo una dialettica marxista di stampo pesantemente hegeliano poteva interrompere una simile rarefazione e negazione; solo un linguaggio in grado di significare ed essere quella dimensione per cui il tempo diviene una forma di assenza poteva in qualche modo tradurre quest’impasse. “La storia non è che la storia dell’incessante rovesciamento delle forme oggettive che modellano la vita dell’uomo.”
La combinazione di dogmatismo ed evasione, costante nel pensiero di Lukács, è in parte esito di tutto ciò. Il suo impegno politico non ha mai avuto lo stesso significato di quello, per esempio, che caratterizza Gramsci fino al 1930 – e Gramsci era l’unico altro grande teorico marxista non russo ad avere la statura intellettuale e il potere di Lukács. Ma se Gramsci, nonostante il successivo isolamento e i dissidi con il Comintern, aveva alle spalle una cultura italiana, il Partito comunista italiano e “L’Ordine Nuovo”, Lukács era invece, in modo quasi intermittente, continuamente dentro e fuori dall’Ungheria e dall’ungherese, dal tedesco e dalla Germania, dall’Unione sovietica e da numerose riviste, istituti e università dell’Europa orientale e occidentale. Entrambi, dunque, sono stati senza dubbio membri di una cultura antagonista, ma, a differenza di Gramsci, non è mai stato facile identificare Lukács con una situazione oggettiva e data o un movimento specifico all’interno di quella cultura, né prevedere, parlando figuratamente, la sua mossa successiva.
Il modo di procedere tipico di Lukács lo si potrebbe definire parahegeliano, dal momento che, più che tra antitesi e sintesi, si muove allontanandosi dall’immediato verso una “totalità” proiettata nel futuro. Si consideri per esempio questo passaggio di Storia e coscienza di classe:

Se si tenta di attribuire alla coscienza di classe una forma immediata di esistenza, si cade inevitabilmente nella mitologia: e come demiurgo del movimento si presenta allora un’enigmatica coscienza generica (tanto enigmatica quanto lo è lo “spirito del popolo” di Hegel), che si riferisce alla coscienza del singolo e agisce su di essa in un modo del tutto incomprensibile, che viene reso ancora più incomprensibile dal ricorso a una psicologia meccanico-naturalistica. D’altro lato, la coscienza di classe che nasce e si sviluppa con la coscienza della situazione e degli interessi comuni, presa in astratto, non è nulla di specifico per il proletariato. La peculiarità della sua situazione poggia sul fatto che l’oltrepassamento dell’immediatezza ha un’intenzione diretta alla totalità della società – ed è indifferente che questa intenzione sia già psicologicamente cosciente oppure resti in un primo tempo inconscia.

La logica qui è hegeliana, per la dinamica storica cui inerisce, ma è più radicale e politica di quella di Hegel sia nella sostanza che nel modo in cui aspira al futuro, e ben più radicale e sorprendente di ogni altra (fatta eccezione per l’odiato Nietzsche) per la sua fede nella totalità. Tutto ciò, afferma Lukács, sarebbe avvenuto grazie al “processo dialettico per cui ogni realtà immediata viene costantemente annullata o trascesa”.
All’assoluto intellettualismo di questo stile di scrittura (basti pensare alla cura con cui Lukács evita ogni tipo di potere o l’assunzione di potere) corrisponde una certa quale inafferrabilità. Con ciò intendo semplicemente dire che il nucleo duro dell’idea di coscienza di classe non può essere né provato né negato: non indica tanto una legge, quanto piuttosto un’aspirazione ontologica verso l’annullamento e la trascendenza come movimenti della vita. Non allude a chiari segni di miglioramento per le sorti di un derelitto proletariato, e possiede inoltre scarsa forza affettiva. Piuttosto, come l’Aschenbach di Mann, Lukács sembra pensare alla tensione (un pugno chiuso) alleviata da un altro movimento (un pugno aperto), se non fosse che l’annullamento e la trascendenza sono per lui termini dialettici in grado di esprimere quella tensione totale e quella aspirazione totale che fanno parte del suo universo. Qui, ancora una volta, interviene il marxismo, e tiene sotto controllo Lukács impedendo che questi totali opposti si disperdano e degenerino. La coscienza di classe, qualcosa che non si possiede mai definitivamente ma si cerca sempre di raggiungere, è quella disciplina sociale discreta di cui la storia non è che l’illustrazione cosmica.
Invecchiando, Lukács ha aggiunto un ulteriore impulso regolativo al suo lavoro: la tecnica della revisione e del ripudio, associata all’abitudine di ripubblicare quanto stava ripudiando. Tutto ciò rientra senza dubbio in quella costante attività di revisione critica del proprio lavoro che è lecito aspettarsi da un autore straordinariamente riflessivo come lui. A quanto ne so non esistono studi sistematici sulle ricusazioni e i ripudi di Lukács. Io stesso non sono mai riuscito a capire la prefazione del 1967 a Storia e coscienza di classe, né la recensione del 1926 a Moses Hess, in cui, attraverso Hess, Lukács attacca la sua stessa “dialettica idealista”. C’è da chiedersi se queste (auto)critiche ricorrano in momenti specifici della sua carriera. Oppure se davvero cancellino, migliorino o estendano le tesi contro cui si rivolgono, come quella sulla natura come categoria sociale. Sono forse dei tentativi attraverso cui Lukács intende apparire ancora più ortodosso? O sono invece requisiti immaginativi della dialettica stessa? E, ancora, non dimostrano forse come l’autocritica sia un’altra forma di insistenza, un ulteriore testo che si aggiunge alla serie infinita di commenti su commenti e riflessioni su riflessioni attraverso cui Lukács si tiene in vita?
Sono tutte domande che assumono una certa rilevanza quando ci si confronta con l’estetica lukácsiana. Dall’inizio alla fine, l’arte per Lukács è una forma di riflessione: dell’uomo, della società, di se stessa. A seconda del momento specifico della carriera che si prende in considerazione, si troverà Lukács sostenere con forza uno di questi tre elementi come oggetto privilegiato della riflessione dell’arte. E in ognuna di queste fasi si può rintracciare una squisita simmetria dialettica. All’inizio della carriera, l’interesse di Lukács si rivolge al carattere in un certo senso (auto)riflessivo dei generi letterari. In questa prospettiva, il romanzo poteva venire inteso in termini così generalizzati da dar l’impressione di essere essenzialmente un esercizio di riflessione su di sé e rivolto a se stesso. Alla fine della carriera Lukács ritorna sull’an sich (l’in sé e per sé) in estetica, ma, come specifica nella prefazione all’Aesthetik del 1963, con un metodo e un atteggiamento radicalmente opposti rispetto a quelli assunti in precedenza.
Ora infatti la principale categoria di arte, la sua identità propria e intrinseca (Eigenart), ogniqualvolta è chiamata in causa un’estetica rigorosa, risiede nella specificità, nella particolarità, nella concretezza (Besonderheit). Ma questo carattere non assume significati magici, religiosi o trascendentalmente inattingibili. Al contrario è qualcosa che inerisce oggettivamente e soggettivamente tanto all’uomo nella sua totalità quanto alla storia. Tra queste due polarità diametralmente opposte, del primo e dell’ultimo Lukács, si sviluppano le linee di fondo di un’ambiziosa pratica della critica marxista.
I principali esiti di questa critica sono abbastanza noti: includono i lavori sul realismo, il modernismo, l’irrazionalismo, l’esistenzialismo, il romanzo storico, come del resto ovviamente le frequenti analisi della tendenziosità nell’arte. E tuttavia l’aspetto più significativo dell’estetica dell’ultimo Lukács consiste nel modo specifico in cui vengono ricapitolate e risolte le tesi principali a cui Lukács era approdato negli anni trenta, quaranta e cinquanta. Il vecchio disprezzo nei confronti di un volgare principio di causalità e di un mimetismo grezzo e senza mediazioni permane. E l’insofferenza verso l’irrazionalità, l’alienazione e l’idealismo (in ogni sua manifestazione) propri del modernismo, addirittura si rafforza. L’allegoria viene attaccata con violenza, come del resto il consumismo. I concetti di totalità estensiva e intensiva vengono affinati e approfonditi. Ma l’idea di totalità diviene ora la categoria attraverso cui l’arte ha il sopravvento sulla mediazione infinita, e pone Lukács in contatto diretto sia con la realtà corporea, senza che questo provochi alcun imbarazzo o tentennamento teorico, sia con l’idea di una “liberazione dalla società di classe”. Si tratta in ogni caso di una ripresa sorprendente dei temi trattati nei primi lavori. Le novità consistono in un’estesa trattazione del linguaggio (con l’interessante introduzione del Signalsystem I, sintomo di quanto Lukács fosse al corrente delle evoluzioni della semiotica) e una risoluta consapevolezza di ciò che Ágnes Heller ha definito “il falso dilemma delle ricettività”. Sull’altro piatto della bilancia, le parti dedicate alla musica, al cinema e all’arte ornamentale appaiono di valore discutibile. E tuttavia lo spirito dell’intero lavoro, il modo in cui riattualizza e ridefinisce in termini antropocentrici e antropomorfi una critica aristotelica, è a dir poco incoraggiante e porta impressa l’impronta evidente di Ernst Bloch, la cui influenza, insieme del resto a quella di Max Weber, viene direttamente riconosciuta.
Per portata ed esiti l’Aesthetik lukácsiana quasi non ha rivali in questo secolo. Vengono in mente Croce e, per quanto riguarda la letteratura, Das literarische Kunstwerk di Ingarden. In ambito marxista non ci sono opere di analogo spessore, per quanto, se si considerano le possibili applicazioni della teoria marxiana, Le Dieu caché di Lucien Goldmann rappresenta sempre un vertice. E non è un caso che Goldmann sia stato studente e discepolo di Lukács. Ben pochi autori però hanno saputo mettere a fuoco come Lukács la centralità e l’onnicomprensività dell’esperienza estetica, quella capacità cioè di coinvolgere l’uomo e la società nella loro interezza, nobilitando ogni idea di lavoro. Pochi oserebbero confrontarsi con ogni aspetto della cultura come ha fatto Lukács. Credo che a dargli sicurezza non sia stata né l’erudizione né l’ortodossia marxista. Un primo fattore lo si rintraccia semmai nella consapevolezza, presente dappertutto nei due volumi della Aesthetik, di quanto il comportamento estetico, essendo di per sé un tipo (in senso weberiano) dell’attività umana, possa rappresentare la totalità dell’esperienza umana: non è necessario che l’arte sia tutto se essa può caratterizzare, essendone il tipo ideale, un aspetto simbolico della totalità. È questo, si potrebbe aggiungere, il modo in cui Lukács riesce a trasformare in immediatezza sensuosa una mediazione astratta e una dimensione marginale, in virtù del segno estetico e del potere semiologico che possiede la forma estetica. In secondo luogo, tra l’opera d’arte e le sue circostanze si crea una dialettica che è interamente controllata, e questa dialettica, dopo anni di tentativi ed esperimenti, rappresenta il più importante contributo teorico di Lukács, ciò che gli permette di muoversi con sicurezza tra costrizione e possibilità, le due forze contrapposte che definiscono il lavoro artistico e l’opera d’arte. In altre parole, Lukács è riuscito a sistematizzare il processo in base a cui la realtà penetra nell’arte ed è riflessa dall’arte. E dopo di lui il tempo appare una questione infinitamente meno problematica.

Croce et Lukács à propos du problème esthétique

di Nicolas Tertulian

«Rivista di Studi Crociani», I, gennaio-marzo 1974

On a récemment discuté, avec une insistance relative, surtout en Italie – mais le problème flotte dans les airs dans le contexte d’autres cultures aussi, où l’influence de Croce a été où reste considérable – de la question de «l’actualité ou de l’inactualité» de la philosophie et de l’estéthique crocienne.

La philosophie crocienne a-t-elle vraiment cessé d’être semina cogitationis dans le contexte de la pensée et de la culture contemporaines? La question peut paraître un acte d’impiété, ou même un geste irrévérencieux si nous l’adressons à ceux qui continuent de nourrir un culte toujours ardent et une admiration sans faille devant l’oeuvre de Croce (même s’ils représentent une minorité par rapport à ceux qui occupent les premiers plans sur la scène de la culture actuelle); elle ne m’en paraît pas moins digne d’être prise en considération, ne serait-ce que pour le simple motif qu’elle représente un fait historique, auquel nous nous sommes plus d’une fois heurtés.

Une réponse correcte à une pareille question ou à celle, plus générale, que nous avons rappelée au début, supposerait, de la part de qui la formule, une connaissance vaste, sinon exhaustive, de l’oeuvre de Croce, de ses articulations internes et de sa finalité réelle. Malheureusement, il n’en est pas toujours ainsi. A prendre les choses réellement au sérieux, quel sensé y a-t-il à discuter de «l’actualité ou de l’inactualité» de la philosophie crocienne, incorporée dans une oeuvre systématique, historique et polémique, d’une ampleur et d’une richesse exceptionnelles, si nous ne soumettons pas ses thèses fondamentales à un nouvel et véritable examen, avec les instruments philosophiques et critiques dont nous disposons et en mesurant, dans un dialogue effectif, selon les règles de la bonne tradition philosophique, ce que nous considérons être la force de nos points de vue? Cependant un pareil dialogue et un pareil ré-examen font défaut chez ceux qui se hâtent de nous assurer de «l’anachronisme» de la philosophie de Croce; reproche en une bonne mesure valable aussi pour les marxistes, bien que plusieurs décennies se soient écoulées depuis qu’Antonio Gramsci les exhortait à accomplir une pareille action, qu’il considérait d’une réelle importance pour le progrès de la pensée marxiste. Existe-t-il juqu’à présent, en Italie ou ailleurs, une ample analyse critique du système philosophique cro-cien, de toute sa «philosophie de l’esprit», de son esthétique et de sa logique, de ses théories économiques et de sa pensée éthique, de ses conceptions fondamentales dans le domaine de l’historiographie ou de la critique littéraire, existe-t-il une analyse effectuée depuis la perspective de l’état actuel de la pensée et de la culture contemporaines, et qui offre la plateforme d’une réponse autorisée aux susdites questions? Une étude objective des faits nous démontre qu’une pareille analyse n’existe pas, ce qui place sous le signe d’un doute grave la légitimité des sentences hâtives devenues aujourd’hui monnaie courante dans certains milieux, en ce qui concerne l’oeuvre et la pensée de Croce.

1.

Qu’il nous soit permis d’esquisser l’amorce d’une réponse, inévitablement modeste, à la première des questions, en partant de toute une série de considérations et de témoignages personnels. Mon premier contact sérieux avec l’ensemble de l’oeuvre de Croce, et surtout l’extraordinaire révélation intellectuelle qu’a été pour moi la lecture de la revue «La Critica», et de ce qui lui fait suite, Quaderni della «Critica», date du «dégel» timide de 1955 à 1957, consécutif à la longue nuit de l’époque stalinienne. Ce n’est pas une nouveauté que d’affirmer ici, à titre de remember, que la pratique stalinienne en ce qui regarde la politique culturelle s’est traduite par une grossière tendance autoritaire, visant à instrumentaliser l’art, à l’asservir à des buts politiques immédiats, d’un caractère simplement agitateur et purement pragmatique, ce qui se traduisait dans la littérature théorique de l’époque, par la culture d’un «sociologisme» et d’un «philosophisme» primaires, destinés à légitimer la pratique d’un art «illustratif», simple exemplification des thèses courantes (à noter que Georg Lukács a été parmi les premiers marxistes qui aient tenté d’analiser sérieusement les bases théoriques et les racines sociales des pratiques staliniennes; voir à se sujet la dernière partie de son oeuvre Wider ein missverstandenen Realismus, 1957); la nature véritable de l’art était violentée et sacrifiée, et quant aux véritables créations littéraires ou théoriques qui ont vu le jour en ces années-là, elles ont souvent paru autant d’actes d’opposition implicite à la politique dominante. Dans ces conditions, il est aisé de comprendre quel puissant ferment intellectuel devenait la découverte des thèses de Croce sur le caractère, par définition contemplatif et théorique de l’art, sur l’autonomie de l’imagination productive de l’artiste devant ses buts pragmatiques ou ses convictions intellectuelles, sur la liberté de l’inspiration artistique dans la conception de l’art comme «lyricité pure» ou comme «intuition lyrique»! Un pareil effet incitant et stimulant de l’esthétique crocienne, je dirais même effet de catharsis, dans un contexte culturel qui semble tellement loin du terrain d’origine du crocianisme, n’a en lui, si on lui accorde un regard philosophique attentif, rien de surprenant ni de paradoxal. La doctrine stalinienne, et surtout sa pratique, équivalaient sur le plan théorique à l’inévitable substitution de la dialectique dans la conception de la vie sociale et des formes de l’esprit, par une espèce de positivisme et de déterminisme simpliste, corollaire de son utilitarisme et de son pragmatisme politique; ajoutons immédiatement, afin de prévenir toute confusion, qu’une pareille vision des choses représente, d’un bout à l’autre, une perversion du marxisme authentique et de la philosophie genuine impliquée dans la doctrine de Marx. Mais c’est un fait historique notoire que la genèse de l’Esthétique de Croce (celle de ses thèses pour une esthétique générale, datant de 1900 et de son traité d’Esthétique de 1902) apparaît comme indissolublement liée à la volonté pragmatique d’une réaction anti-positiviste, à sa répulsion devant les théories associationistes, utilitaristes et vulgairement matérialistes, de l’Italie et de l’Europe des dernières décennies du siècle précédent (Son antipathie à l’égard de la pensée positiviste d’un Ardigò, par exemple, a été rappelée plus d’une fois, par le philosophe napolitain, en tant que fait significatif de sa biographie intellectuelle). Donc la ruse de l’histoire a été que, mutatis mutandis, la réaction antipositiviste et antiutilitariste dont s’autocon-stituait l’Esthétique de Croce à la fin du siècle dernier et au début du nôtre, connaisse une réaction sui-generis, sous le signe d’un tout autre climat spirituel, dans l’atmosphère de «dégel» antistalinien d’un pays oriental, tout au long des années 1950.

Cependant, ce serait exprimer une contrevérité que de cacher que l’incontestable pouvoir d’attraction et d’irradiation spirituelle exercée sur nous par les thèses esthétiques de Croce – dans le sens ci-dessus indiqué – se heurtait à de nombreuses résistances importantes, et engendrait dans notre conscience théorique un état de contrariété, un jeu d’antinomies, qui attendaient (et attendent peut-être encore), leur solution. Nous avions participé de tout notre être, à une révolution sociale importante et nous étions profondément convaincus que les transformations sociales radicales affectent, dans sa substance même, le développement! de la culture, celui de l’art et de la littérature y compris. En même temps, nous nourrissions une profonde horreur du pragmatisme stalinien en ce qui concerne l’attitude à l’égard de la cuit are et de l’art, et c’est ce qui expliquait l’avidité avec laquelle nous suivions et étudions, en lisant La Critica, les thèses et les polémiques crociennes concernant le problème de l’autonomie de l’art. Dans ma conscience, les sarcasmes de Croce à l’adresse de Taine trouvaient un écho tout particulier, parfaitement explicable dans le contexte culturel et théorique défini plus haut; Taine n’était-il pas le symbole d’une conception déterministe-sociologique, de caractère univoque, de l’art, esprit «astrattamente logico e privo di senso poetico», comme allait le stigmatiser à nouveau Croce, en exagérant peut-être, par une note écrite dans la dernière année de sa vie «De Sanctis e Taine», dans Terze Pagine Sparse, vol. 1, p. 156)? En particulier c’est un extrême intérêt qu’éveillait en moi, le problème des rapports Croce-De Sanctis: l’ambivalence de l’attitude de Croce devant son illustre prédécesseur me paraissait donner une réponse à mes propres contradictions et à ma tension théorique encore non-résolue: le perpétuel éloge adressé à la conception de De Sanctis sur l’indépendance de l’art, sur l’art comme «pura forma» et sur l’indivision contenu-forme, en art, impliquant souvent la critique aiguë du «contenuisme abstrait», de tout «idéologisme» et «philosophisme» – ce qui trouvait en moi un terrain ultra-réceptif – se combinait, chez Croce, à des réserves catégoriques devant les «vestiges de l’esthétique hégélienne dans la critique de De Sanctis», et devant sa tendance à maintenir une liaison nécessaire entre l’histoire de la poésie ou de la littérature et l’histoire sociale et politique («civile», comme l’appelait Croce.)

2.

Je me heurtais à l’observation de Croce selon laquelle l’école hégélienne en général (et aucun marxiste véritable ne saurait renier ses origines hégéliennes) et même jusq’à un certain point De Sanctis lui même, n’auraient pas discerné le caractère, par définition «sentimental et lyrique de l’art», et le fait que l’art, loin d’avoir la vocation d’exprimer «des idées», des vérités sociales ou philosophiques, n’est que tumulte passionnel exprimé en images, «une aspiration enfermée dans le cercle d’une représentation». La justesse frappante du noyau d’une pareille thèse (avec sa polémique implicite à l’adresse de tout «philosophisme» et de tout «sociologisme») exprimant une position tranchante à l’égard du problème de l’autonomie de l’art parmi les autres formes de l’esprit, se heurtait pourtant en moi à la convinction simultanée que l’on ne peut dissocier l’histoire de l’art et de la poésie, de l’histoire de la vie sociale, que «la matière» de la poésie et de l’art, loin d’être indifférente pour la détermination de la valeur esthétique, comme le soutenait Croce («l’indifferenza estetica délia materia dell’arte»), joue un rôle essentiel dans la formation intime des oeuvres, donc dans la détermination de leur valeur. Un mouvement spontané, quasi irrésistible, d’adhésion à la substance de la démarche de pensée de l’esthétique de Croce, et le fait que j’étais conquis par la clarté et la riguer de ses distinctions philosophiques entre «poesia» et «non-poesia» ou «anti-poesia», entre l’art et l’histoire, la morale ou la philosophie, s’accompagnaient en moi d’un état de malaise ou de mauvaise conscience théorique, dicté par un mouvement opposé, tout aussi puissant, qui me poussait à la résistance devant le déracinement de l’art, arraché à son sol social-historique, devant l’autonomisation de l’activité esthétique par rapport aux tensions sociales du moment historique générateur, préconisé par Croce. Comment sortir d’un pareil état d’ambiguité théorique? Etais-je condamné à me débattre dans une oscillation perpétuelle entre des extrêmes inconciliables, à devenir les prisonnier d’un éclectisme sans issue, comme l’aurait sans doute sévèrement qualifié Croce, ou bien était-il possible, cependant, de trouver un moyen de sortir du cercle de ces antinomies, véritable «danse des sorcières», selon l’expression d’un remarquable dramaturge roumain, Camil Petrescu?

La fameuse alternative: De Sanctis-Gramsci ou De Sanctis-Croce, intensément agitée dans les revues italiennes de gauche, et désavouée avec une énergie extrême par Benedetto Croce, qui la considérait dénuée de sens, et se considérait comme étant le seul autorisé à perpétuer la ligne de De Sanctis dans la culture italienne tout spécialement et dans l’esthétique en général – m’a semblé à un moment donné une possibilité de trouver une réponse à mes propres dilemmes. Lorsque Francesco Flora est arrivé à Bucarest – c’était le premier intellectuel italien venu chez nous après la pénible période de «la guerre froide» – j’ai eu la rare occasion d’entendre, à l’occasion d’une discussion, la voix du crocianisme authentique (cela se passait vers 1955, en présence de mon professeur d’esthétique, véritable fondateur d’école dans l’esthétique roumaine, Tudor Vianu; c’est par lui que j’ai eu pour la première fois entre les mais l’Aesthetica in nuce de Croce, joliment relié, dans la forme d’un opuscule séparé et une dédicace de l’esthéticien italien à mon maître); je me suis permis de demander à Flora, avec l’élan quelque peu intempestif de la jeunesse, une réponse claire à mon dilemme; la réserve – je dirais, la froideur – de mon interlocuteur devant l’idée d’une pareille alternative, m’ont fait comprendre son inconsistance du point de vue crocien. La vérité est que pour intéressants et pleins de suggestions que fussent les notes et les fragments de Gramsci, si profitable et féconde que fût leur lecture pour corriger les traces de dogmatisme et de sectarisme demeurés dans notre culture, tout cela était loin de nous offrir un système cohérent de thèses et de raisonnements sur les problèmes fondamentaux de la philosophie de l’esprit, comparable à la grandiose architecture de l’oeuvre crocienne. Ainsi donc, j’étais encore loin de la via media ou de la via regia recherchée.

3.

C’est sur le fond d’une pareille situation théorique contradictoire que s’est produit mon contact avec l’oeuvre de Georg Lukács. J’était séduit par la précision et par la rigueur des discriminations de Croce entre l’art et un simple «philosophème» ou une simple connaissance historique (sa formule dans son Aesthetica in nuce «l’opera poetica… è una creazione e non un riflesso, un monumento e non un documento», ne cessait de m’obséder); mais, comme je l’ai montré, il m’était difficile de croire que l’on puisse dissocier la structure de l’oeuvre d’art, de sa genèse sociale-historique. Lorsque j’ai lu pour la première fois «Essais sur le réalisme» et «Le Roman historique» de Georg Lukács, s’est ancrée en moi de plus en plus la conviction de me trouver devant la première tentative cohérente – dans le cadre du marxisme – de mettre en état d’accord et de fusion harmonieuse, l’analyse purement esthétique de la structure des oeuvres d’art et celle de leur genèse sociale et historique. La question qui, depuis des années, se dressait devant moi, était de savoir si je ne pouvais pas conserver ce qui me paraissait être des conquêtes réelles et des vérités valables dans les mémorables théorèmes crociens sur l’autonomie et l’idéalité de l’art, y compris la polémique contre le sociologisme et le philosophisme, sans abandonner pour autant ce qui m’avait été révélé comme vérité profonde et comme solution créatrice dans la démarche du marxiste Lukács. Sans doute ne m’était-il pas difficile de me rendre compte que, du point de vue crocien, une pareille tentative représentait une hybridation théorique de façons de penser absolument opposées, sinon une bizarre tentative de réaliser la quadrature du cercle.

L’influence de la pensée hégélienne sur la méthode d’analyse historico-sociale de la structure des ouvrages littéraires dans les études du marxiste Lukács, était une réalité de l’ordre de l’évidence; or, la «réforme de l’histoire historique et littéraire» préconisée par Benedetto Croce et l’étude célèbre qu’il a écrite en 1917 sous ce titre (reproduite dans le volume Nuovi saggi di estetica), était dirigée justement contre la perpétuation des influences de l’historiographie littéraire de la période «romantique et idéaliste», des influences hégéliennes en premier lieu (comprises dans l’Histoire de De Sanctis), avec la revendication de la dissolution de l’histoire littéraire dans une suite d’études et de monographies, dédiées à la physionomie individuelle des artistes, avec l’exclusion définitive des «schémas historiques et politiques» dans lesquels celles-ci étaient soumises à une «compression torturante» tout le long des histoires littéraires traditionnelles. Comment réaliser, alors, ce qui paraissait une véritable «synthèse impossible»?

La violente réaction de Croce devant les études de Lukács – le peu qu’il en a pu connaître avant sa mort – et surtout l’explosion d’indignation qui lui ont causée «Les Etudes sur Faust» du marxiste hongrois (ainsi qu’en témoigne la recensión de 1949 publiée dans Quaderni della «Critica»)1 n’étaient évidemment pas de la nature à m’encourager à suivre une pareille voie. Pour être objectif, il me faut reconnaître que Lukács a, lui aussi, manifesté un manque évident de compréhension, sinon une grave fausse-compréhension, surprenante et quasi exceptionnelle chez un esprit si rigoureux, à l’égard de l’oeuvre de Croce. Qu’il me soit permis de m’arrêter un instant sur ce carrousel des malentendus, car, leur dissipation est, jusqu’à un certain point, une condition nécessaire pour poser le problème dans ces données exactes. Je ne ferai pas ici l’historique des rapports théoriques entre l’oeuvre de Croce et celle de Lukács (par conséquent je ne m’arrêterai pas sur la recension significative et importante que le jeune Lukács dédiait en 1915 à la Teoria e Storia della Storiografia qui avait alors paru en allemand; cette recension de Lukács, publiée dans la revue de Max Weber, «Archiv für Sozialwissenshaft und Sozial-geschichte», a été commentée d’une façon intéressante en 1967 par un chercheur italien, Furio Cerruti, dans un petit article de la revue «Il Corpo». Cepedant je rappellerai tout d’abord la critique acerbe d’une célèbre thèse crocienne faite par Lukács dans une page de son Roman historique, thèse selon laquelle: «Toute histoire véritable est histoire du présent». Lukács nie qu’une pareille thèse exprime l’exigence légitime de ramener l’histoire du passé en liaison aux problèmes du présent, donc l’exigence légitime que le présent doit être considéré dans la perspective de sa préhistoire. Il soutient qu’une pareille thèse exprime au contraire un point de vue subjectiviste de l’histoire, la conception de l’histoire comme «du vécu» (Erlebnis); il cite, à l’appui, un passage de Croce où le philosophe italien montre que les événements du passé qui n’éveillent pas une réaction spirituelle déterminée dans la conscience de l’historien, ne peuvent devenir «de l’histoire», et demeurent lettre morte; mais s’ils entrent en contact avec une «nécessité spirituelle» du présent, ils peuvent redevenir la matière d’une véritable histoire. La conclusion de Lukács ne veut être très sévère: «Il suffirait de mettre cette théorie de l’histoire en vers pour obtenir une poésie de Hofmannsthal ou de Henri de Régnier» (Der historische Roman dans Problème des Realismus, III, Werke, Band 6 Luchterhand p. 219).

Tout lecteur attentif des textes de Croce, consacrés à l’exposé de sa conception historiographique, peut se rendre compte combien profonde est l’erreur de Lukács dans sa critique (j’avoue n’avoir pu identifier jusqu’ici le texte de Croce d’où Lukács a extrait sa citation; mais nous retrouvons cette même idée largement argumentée dans le livre fondamental de l’esthéticien italien: La Storia come Pensiero e come Azione, paru, il est vrai, en 1938, un an après que Lukács ait achevé, en URSS, son livre sur le roman historique). Observons tout d’abord que la thèse de Croce selon laquelle la genèse du processus historiographique serait nécessairement liée à «un besoin de la vie pratique», donc à un stimulus du présent, de même que sa polémique contre l’histoire anecdotique, de pure érudition ou d’un caractère archivistico, sont parfaitement synchrones au point de vue marxiste, qui montre la nécessité d’un circuit entre l’histoire du présent et l’histoire du passé. Il n’est nullement exclu que les thèses historiographiques de Croce soient nées sous l’impulsion de son contact fécond – datant du temps de sa jeunesse – avec la conception du matérialisme historique et avec les textes de Marx (ainsi que j’aurai l’occasion de le montrer plus tard). Deuxièmement, le point de vue de Croce est loin de se superposer – comme on pourrait le croire en se laissant leurrer par la lettre de l’un ou l’autre de ses textes – à la conception de l’histoire comme du pur «vécu», comme si Croce était une espèce de Lebensphilosoph ou un Ortega y Gasset avant la lettre: corrigeant son point de vue initial, celui de son mémoire de jeunesse ha Storia ridotta sotto il concetto dell’Arte (1893). Croce va affirmer sans relâche, à partir de sa Logica (1909) en continuant par sa Teoria e storia della Storiografia (1915) et en culminant par son oeuvre de synthèse La Storia come Pensiero e come Azione (1938) sa conception de l’histoire en tant qu’acte de pensée et non de ’vécu (esthétique), en soutenant même l’identité entre historiographie et philosophie et en définissant la philosophie «metodologia della storiografia». Je ne crois pas qu’il existe la possibilité d’une confusion entre le point de vue «actualiste» de l’histoire, dans l’esprit de Dilthey ou, plus récemment, dans le perspectivisme d’Ortega, et le point de vue semblable, en apparence seulement, de Croce. Celui-ci va soutenir la thèse du processus historiographique, vu comme l’énoncé et la solution apportée à un problème théorique, avec les instruments d’une philosophie de l’esprit, sur le fond d’un besoin ou d’un stimulus de la vie pratique. Il n’est pas question, dans l’intention de Croce, d’amener l’histoire au gabarit du présent, en l’actualisant, en la modernisant, mais de considérer les événements du passé dans la perspective des vibrations et des ondes propagées jusque dans la vie du présent, exigence que Lukács n’a pas de motif de repousser. «La storiografia non è fantasia ma pensiero» a écrit Croce; par conséquent la tentative faite par Lukács de présenter la conception historiographique de Croce comme une sorte de pendant de l’estétisme de Hofmannsthal ou de Henri de Régnier, me semble reposer sur une incompréhension totale de ses intentions plus profondes.

L’ironie fait que Lukács présente sa critique à l’adresse de Croce en prolongement direct des pages consacrées à une critique véhémente des conceptions de Burckhardt, Ranke et Nietzsche (ultérieurement, tout au long de son livre, parlant par exemple de la sympathie de Feuchtwanger pour les thèses de Nietzsche et de Croce, Lukács incrimine à nouveau la conception de Croce au sujet de l’histoire, qu’il rapproche même, à un moment donné, de celle de Merejkovski, ce qui me semble illustrer d’une manière flagrante l’incompréhension de son sens réel); or, la simple lecture des chapitres remarquables que Croce consacre à Ranke et à Burckhardt dans son livre La Storia come Pensiero e come Azione, est de nature à montrer combien la conception de Croce était opposée à la ligne de pensée conservatrice d’une certaine historiographie germanique, et combien réelle est la convergence entre la position de l’humanisme crocien et celle de la pensée marxiste, dans l’attitude profondément critique devant les conceptions qu’avaient de l’histoire Ranke, Burckhardt ou Nietzsche!

4.

Le point culminant de son incompréhension de Croce est atteint par Lukács dans le chapitre introductif de son livre Die Zerstörung der Vernunft (1954), chapitre intitulé De l’irrationalisme en tant que phénomène international. Rien que le fait d’intégrer la philosophie de Croce parmi les courants irrationalistes de la pensée de notre siècle, en prolongement de ceux de la seconde moitié du siècle précédent, à côté du pragmatisme de W. James ou de l’intuitionisme de Bergson, est de nature à soulever un mouvement de désapprobation énergique de la part de tout connaisseur de la philosophie de Croce. J’avoue très sincèrement n’avoir pas réussi à trouver une explication satisfaisante des distorsions auxquelles Lukács a soumis la pensée de Croce dans le livre en question, afin de pouvoir la stigmatiser comme «irrationaliste». Une première motivation évidente, mais d’une valeur partielle, pourrait être offerte par une connaissance très insuffisante de la pensée de Croce dans son évolution. Le fait devient transparent lorsque Lukács, reprenant les objections du Roman historique, reproche à Croce de concevoir l’histoire comme un art: «Geschichte wird zur Kunst, und zwar natürlich zu einer Kunst im Sinne Croces, in welcher sich eine rein formalistisch aufgefasste Vollendung mit der Intuition als angeblich alleinigem Organ der Produktivität und der adäquaten Rezeptivität paart». Il est tout d’abord frappant que Lukács attribue à Croce la conception de l’histoire comme «art» sans soupçonner que le philosophe italien avait depuis longtemps abandonné un pareil point de vue, soutenu dans le mémoire de jeunesse dont nous avons parlé et partiellement dans son Estetica de 1902; ensuite, le fait d’anathémiser l’esthétique de Croce comme «purement formaliste» est tout à fait inacceptable. C’est comme si Lukács était victime d’une espèce de fétichisme des mots, car il est probable qu’il ait tressailli irrité, devant la définition de l’art en tant que «pura forma» dans l’Estetica de Croce (j’ai vu dans sa bibliothèque un exemplaire de cette «Estetica» annoté vraiment très sévèrement à cet endroit). Le penseur marxiste n’a pas approfondi le sens réel de la définition de Croce, remaniement et réinterprétation du concept de la forme selon De Sanctis; il semble qu’il n’ait pas pris connaissance du développement de l’esthétique crocienne, de la théorie de l’art comme «sentiment contemplé en images» et «intuition lyrique» ou comme expression de «la totalité de l’âme humaine» et de son caractère «cosmique» (idée que mutatis mutandi, nous retrouverons dans l’Esthétique de Lukács) et donc il n’a pas pu apprendre que l’esthétique de Croce allait être accusée à son tour par les vrais formalistes, d’être trop «contenuïste». Les épithètes de Lukács trahissent une connaissance hâtive de la philosophie crocienne, sans exclure les réflexes sectaires-dogmatiques de sa conception à l’époque où il a écrit la «Destruction de la Raison». Il est très possible aussi que ses ressentiments contre Croce, dûs aux violences de langage de celui-ci devant le livre sur Goethe du philosophe marxiste, aient quelque peu influencé l’objectivité et la clarté de son jugement.

De même nous ne saurions être d’accord avec Lukács lorsqu’il affirme que chez Croce «la raison est bannie de tous les domaines de l’activité sociale de l’homme, à l’exception d’un domaine de la pratique économique, jouant un rôle subordonné dans le cadre du système, et d’une réservation de la logique et des sciences de la nature, elle aussi subordonnée dans le cadre du système et pensée indépendemment de la réalité proprement dite». («Die Zerstörung der Vernunft», Aufbau Verlag, 1955, p. 18-19). Lukács affirme que ce point de vue est symétrique à celui de Windelband-Rickert. Il est assez difficile de nous rendre compte sur quoi Lukács s’est appuyé pour une pareille caracté-risation: on sait, en effet, que Benedetto Croce attribue aux sciences de la nature la valeur d’un instrument purement pragmatique, au caractère strictement empirique, sans admettre que leurs résultats aient une importance philosophique («spéculative», dit Croce); on sait également que dans le cadre de la pratique économique, il admet la valeur empirique du «calcul» et de l’application exacte de la quantification mathématique; il n’en est pas moins évident que Benedetto Croce attribue à la logique un autre statut philosophique que celui qui est conféré aux sciences de la nature (leur amalgame dans le texte précité de Lukács est sans raison) et que le domaine de la pratique économique n’est par réduit, chez Croce, à la zone du calcul et de l’application des méthodes exactes. Si Georg Lukács avait dirigé sa critique contre la radicalisation, par Croce, de la distinction entre le plan «empirique» et le plan «spéculatif» de la pensée, il aurait vraiment touché, selon nous, l’un des points les plus vulnérables du système crocien. Mais l’on ne peut soutenir que Benedetto Croce ait «banni la raison» de tous les domaines de la vie spirituelle, à l’exception de ceux que mentionne Lukács (donc, du domaine de l’histoire, de la morale, de l’activité esthétique de l’esprit etc.). Y a-t-il un motif plausible d’accepter l’idée que l’idéalisme philosophique programmatique de Croce, dans sa conception des catégories de l’esprit, est synonyme de l’irrationalisme? Lukács aurait-il cédé à la tentation d’identifier abusivement les deux plans? J’ai l’impression que Lukács était trop peu familiarisé avec les articulations internes de la philosophie crocienne de l’esprit, pour se rendre compte à quel point l’idéalisme crocien était opposé aux courants irrationalistes, contre lesquels le philosophe marxiste dirigeait sa critique et ses attaques profondément légitimes (nous sommes loin de considérer, comme le font beaucoup, Adorno et Marcuse y compris, que Die Zerstörung der Vernunft, soit un livre faux ou erroné; Lukács m’a déclaré une fois qu’il le considérait comme ein Tendenzbuch, écrit d’ailleurs dans les conditions propres à la «guerre froide»; tout en appréciant, au contraire, et au plus haut degré sa valeur théorique et polémique, je ne puis m’empêcher de prendre mes distances, du point de vue critique, des pages où il me semble que la vérité est sacrifiée à des préjugés, comme cela se passe, par exemple, d’une façon qui me paraît flagrante, dans les pages consacrées à Croce).

Je n’aurais pas tellement insisté sur ce problème si Lukács n’avait pas reprise sa caractérisation de Croce, dans ses Conversations avec W. Abendroth, Leo Kofier et Hans H. Holz, datant de 1967, où il réitère celle de sa «Destruction de la Raison», et cette fois avec une allusion polémique à ceux qui essaieraient de disculper Croce de l’accusaion d’irrationalisme, en invoquant le programme théorique anti-irrationaliste du philosophe napolitain lui-même: en le rapprochant à nouveau du pragmatisme américain et de la philosophie de Bergson, comme exemples typiques de la propagation internationale de l’irrationalisme, Lukács affirme, d’une manière tranchante, que personne ne va nier «dass (ob er will oder nicht) Croce voll von irrationalistischen Momenten ist»… (Gespräche mit Georg Lukács, Rowohlt, 1967, p. 38). Une fois de plus, il me faut avouer qu’il m’a été difficile d’identifier la prolifération de pareils moments dans le système crocien. Lukács aurait pu nous citer la formulation crocienne: «Une loi historique, un concept historique, sont une véritable contradictio in adjecto» qu’il utilise comme argument dans les pages mentionnées de la Destruction de la Raison, ou la réforme crocienne de la dialectique hégélienne, dans laquelle ce que Croce donnerait comme «ciò che è morto» chez Hegel, serait, selon Lukács, justement «la dialectique et l’objectivité», «ciò che è vivo» restant, toujours selon Lukács, «ein liberal gemässtiger irrationalismus» (un irrationalisme libéral tempéré – ibid., p. 18).

Une étude tant soit peu attentive de la philosophie de Croce, et surtout une relecture de ses textes, dans la perspective ouverte par les travaux mêmes du dernier Lukács, L’Esthétique et l’Ontologie de l’existence sociale me paraissent mener à de tout autres conclusions, certaines d’entre elles surprenantes, peut-être, pour Lukács lui-même. Il serait absurde de nier que l’idéalisme crocien apparaît intièrement vulnérable dans la perspective du marxisme (de même que l’affirmation inverse apparaît tout à fait légitime, dans la perspective crocienne) comme, par exemple, la réforme crocienne de la dialectique hégélienne se situe, tout au moins en un point essentiel: la substitution du primat de la contradiction par celui des distinctions, à l’antipode de la réforme marxiste de la dialectique de Hegel. Observons, avant tout, que l’un des leit-motifs de la philosophie de Croce: la contestation perpétuelle de la tendance à sacrifier le mouvement naturel de l’histoire à une spéculative «philosophie de l’histoire», à logiciser son devenir authentique selon le modèle de la célèbre Geschichtphilosophie hégélienne), nous les retrouverons dans l’ouvrage final de Lukács, l’Ontologie de l’existence sociale, là où il oppose d’une façon extrêmement intéressante la vision originaire de Marx sur l’histoire, aux tendances d’Engels à logiciser, dans l’esprit de certaines réminiscences hégéliennes, la succession des formations économico-sociales (le texte de Lukács est un fragment du chapitre consacré à Marx dans son Ontologie; il est paru séparément, dans deux numéros de la revue «Neues Forum» de Vienne, en 1967). Soulignons une pareille convergence révélatrice, (loin d’etré la seule!), car elle nous ouvre une voie féconde pour pénétrer au coeur de la pensée de Croce et pour dissiper le malentendu au sujet de son prétendu irrationalisme. Il est hors de doute que Croce nie la validité du principe de causalité dans l’histoire, et conteste même la légitimité philosophique de la notion en cause. Il n’en est pas moins évident que Benedetto Croce identifie l’idée de causalité à la conception purement positiviste de la causalité (au psychologisme ou au naturalisme dans le sens philosophique, donc au biographisme, dans le domaine de l’histoire et de l’histoire littéraire) ce qui explique sa polémique contre la notion de «loi» en histoire, incriminée par Lukács, Croce identifiant «la loi» au concept positiviste et mécaniciste de la loi, mais explique aussi la tendance de Croce à trouver dans l’idéalité des catégories de l’esprit, la force motrice du processus historique. Si incontestable que paraisse le caractère idéaliste et spiritualiste de la conception crocienne des catégories de l’esprit, il nous faut observer que leur genèse et leur interaction sont conçues dans un esprit rationaliste et dialectique, quoique strictement idéaliste, sans faire la moindre concession à l’irrationalisme. Lukács aurait-il vraiment considéré qu’après l’apparition du marxisme, toute philosophie tendant à une correction de l’hégélianisme et du marxisme, dans l’esprit de l’idéalisme philosophique, serait inévitablement condamnée à glisser dans l’irrationalisme? Nous ne saurions attribuer au célèbre penseur marxiste une pareille compréhension simpliste et dogmatique de l’histoire de la philosophie moderne, car il a lui-même précisé clairement, dans le chapitre introductif de Die Zerstörung des Vernunft, que l’histoire de l’irrationalisme moderne est loin de coincider avec l’histoire de la philosophie bourgeoise moderne (sa forte sympathie, dans la dernière phase de sa pensée, pour l’oeuvre de Nicolai Hartmann illustre l’observation ci-dessus).

Le fait que Benedetto Croce allait statuer l’autonomie de l’activité pratique de l’esprit en rapport avec l’activité théorique, en postulant l’irréductibilité de la vie pratique à la vie théorique, en polémique explicite avec les théories intellectualistes, mais surtout le fait qu’il allait accorder à l’intérieur de la pratique, à l’activité économique de l’esprit, une primordialité de fait, sinon de droit, dans la constellation des activités de l’esprit (en contradiction avec la succession idéale postulée par lui-même, selon laquelle l’art précéderait la pensée, et cette dernière l’action pratique) m’autorise à fonder l’affirmation formulée plus haut, concernant la rationalité de la démarche philosophique de Croce. Combien une pareille conception est redevable aux rapports ambivalents de Croce avec le marxisme, c’est ce que nous verrons plus tard. Le fait que Benedetto Croce ait souligné avec insistance l’enracinement de l’activité esthétique et de l’activité morale de l’esprit dans l’activité pratique primaire, dans le strate des impulsions, des appétits, des passions et des actes volitifs (celui que Croce a nommé dans sa Filosofia della Pratica le strate de la vie prémorale ou amorale et auquel plus tard il a donné le nom générique de Vitalità), mais aussi l’égale énergie avec laquelle il a mis en valeur l’autonomie de l’activité esthétique et de l’activité morale, contre l’utilitarisme positiviste et contre des conceptions purement étéronomiques, ne peuvent qu’éveiller chez tout marxiste le plus vif intérêt. Disons, pour finir, que la viguer avec laquelle Croce a mis au centre de sa conception de l’histoire l’idée de «liberté», soit sous la forme de sa thèse principale sur le caractère par définition «éthico-politique» de l’histoire humaine, mais surtout la discrimination catégorique entre les actes historiques dictés par des buts strictement particuliers, sans valeur d’universalité humaine, et ceux qui s’inscrivent, quelles que soient leurs intentions immédiates, sur l’orbite de l’histoire, comme des actes destinés à assurer le progrès de l’espèce humaine, ne peuvent que susciter l’idée d’une analogie, mutatis mutandis, avec les idées fondamentales du dernier Lukács.

1 La recensione comparve esattamente sotto il titolo George Lukács, Goethe und seine Zeit, nel Quaderno 14 de «La Critica», e poi in Terze pagine sparse, II, pp. 47-50. (N.d.R.)

“Il romanzo storico” di György Lukács in Italia.

di Andrea Manganaro

in «Moderna: semestrale di teoria e critica della letteratura», VIII, 1 2, 2006.


Sono trascorsi poco più di quaranta anni dalla pubblicazione in Italia, nel 1965, de Il romanzo storico di G. Lukács: un’opera che già nel 1968, chi provava ad aggiornare un consuntivo sulla presenza di Lukács in Italia (quello, acutissimo, sul decennio precedente, era di Franco Fortini) disponeva sugli scaffali degli «ammirevoli classici», più che dei libri «utili per il presente». Anno centrale, nel nostro paese, per la storiografia e la critica letteraria, quel 1965 in cui apparvero anche Scrittori e popolo di Asor Rosa, Verifica dei poteri di Franco Fortini, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano di Timpanaro. Non era “nuovo” però il ponderoso saggio di Lukács edito da Einaudi con introduzione di Cesare Cases: proveniva infatti quasi da un’altra epoca e un altro mondo, Il romanzo storico, elaborato, attraverso varie stesure, a Mosca, durante i terribili anni trenta. E giungeva con notevole ritardo in Italia, un decennio dopo l’edizione della traduzione tedesca, di poco preceduto dalla pubblicazione di due opere giovanili (Teoria del romanzo, 1962 e L’anima e le forme, 1963) che attestavano concezioni fortemente divergenti da quelle della maturità e segnatamente da Il romanzo storico. Posizioni senz’altro antitetiche nella concezione del rapporto arte-scienza e quindi della forma saggio e della qualità della scrittura: «Felice il tempo nel quale la volta stellata è la mappa dei sentieri praticabili e da percorrere, che il fulgore delle stelle rischiara»: così iniziava Teoria del romanzo, il libro dell’inverno 1914-15 in cui tale genere si annunciava come la categoria centrale del pensiero estetico di Lukács, ma con la nostalgica evocazione di un utopico passato del mondo dell’epos e della sua totalità perduta – antecedente la scissione io-mondo della moderna (fichtiana) «epoca della compiuta peccaminosità». E risulta davvero difficile ravvisare, in questo incipit, identità autoriale con chi, lo stesso Lukács, avrebbe poi voluto «scriver male», premunirsi intenzionalmente da prelievi di luccicanti citazioni, bandire ogni approccio aforistico, non potendo più sottrarsi al «demone dell’oggetto», alla continua tensione alla totalità, ad indicare sempre «il rapporto d’insieme, lo sviluppo sistematico e storico». Continua a leggere