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György Lukács

~ il primo blog in progress dedicato a Lukács

György Lukács

Archivi tag: democratizzazione

Intervista sconosciuta del 1968

14 sabato Mar 2020

Posted by György Lukács in I testi, interviste

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Tag

Africa, America Latina, Cina, classe operaia, colonialismo, Comintern, consumismo, crisi economica, democratizzazione, Egitto, Engels, formazione economico-sociale, Gramsci, imperialismo, lassallismo, Lenin, Mao, Marx, metodo, Napoleone, Occidente, ontologia, partito, Partito Comunista Italiano, Partito socialista operaio ungherese, pianificazione, previsione, questione nazionale, sindacato, socialismo, soviet, stalinismo, strategia, studenti, tattica, teoria, Togliatti, transizione, ungheria, Unione Sovietica, unità movimento operaio internazionale, Vietnam, XX Congresso


 

di György Lukács

da Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2019.

Traduzione di A. Infranca


Dal 1967 Lukács aveva ripreso la tessera del Posu, il Partito socialista operaio ungherese. György Aczél, l’allora segretario del Comitato Centrale gli chiese di collaborare con i membri dirigenti del partito, sviluppando le sue opinioni sulle questioni politiche e teoriche del momento. Così si preparò la presente intervista, a titolo informativo, fatta pervenire ai membri del Comitato Centrale il 22 luglio 1968.

Lukács e i dirigenti del partito erano arrivati a un comune accordo: in tal modo le questioni trattate e le sue opinioni potevano essere ascoltate, ma non potevano essere rese pubbliche.

La prima parte della presente intervista è dedicata alla personalità politica e teorica di Palmiro Togliatti e, a questo proposito, Lukács si occupa delle questioni teoriche e politiche a lui connesse. Il punto saliente è la prospettiva di una possibile alternativa di sinistra in Europa, analizzando l’articolo di Togliatti su “Capitalismo e riforme di struttura” (Rinascita, 11 luglio 1964), che contiene gli appunti, scritti qualche ora prima della sua morte, sull’unità del movimento operaio internazionale. L’intervista è a cura di Ferenc Fehér. Continua a leggere →

L’ultima intervista

10 martedì Mar 2020

Posted by György Lukács in I testi, interviste

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austromarxismo, burocrazia, democratizzazione, democrazia, dialettica, dialettica della natura, dialettica della socità, direzione, Engels, Etica, intellettuali, Jugoslavia, Lenin, Mao-tse Tung, Marx, Masse, ontologia, particolarismo, partito, questione nazionale, Sartre, socialdemocrazia, socialismo, soviet, spontaneismo, Stalin, storia, Storia e coscienza di classe, Trotsky, Unione Sovietica, universalismo, valori


di György Lukács

Intervista registrata il 16 aprile 1971, in una località non distante da Budapest. Tale intervista fu pubblicata per la prima volta in francese, in versione ridotta, da Yvon Bourdet nella rivista L’Homme et la société, n. 20, 1971, pp. 3-12.

da Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2019.


Bourdet – La ringrazio di cuore per aver accettato di parlare con me in francese.

Lukács – Deve sapere però che parlo francese molto male, con accento ungherese e una grammatica tedesca. (Lukács ride divertito)

Bourdet – Non è vero. Ho presente la sua intervista alla televisione francese e devo dire che lei si esprime benissimo.

I. Giudizi di Lukács sull’austromarxismo

 

Bourdet – Vorrei prima di tutto porle alcune domande sull’austromarxismo: quando lei andò a Vienna, dopo la prima guerra mondiale e dopo la sconfitta della Repubblica ungherese dei consigli, ha avuto rapporti con i socialisti austriaci?

Lukács – Sì. Sono stato in ottimi rapporti con Otto Bauer. Non bisogna tuttavia dimenticare la situazione di allora: eravamo dei fuoriusciti coi quali, voglio dire contro i quali, il regime poteva, in ogni momento, prendere delle misure anche illegali. Ognuno di noi aveva dovuto dare alla polizia la propria parola d’onore di non immischiarsi minimamente negli affari della politica interna austriaca. Nonostante ciò, come spesso avviene nei circoli dei fuoriusciti, ero stato incaricato, dal Partito comunista ungherese, di tenere certi rapporti, e in particolare il Partito mi aveva ordinato di prendere contatto con Otto Bauer ogni volta che uno di noi fosse, per esempio, minacciato di estradizione, e anche per discutere tutta una serie di altri problemi. Continua a leggere →

Il desiderio addomesticato della libertà

29 sabato Feb 2020

Posted by György Lukács in I testi, Traduzioni italiane

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Tag

concezione trotskista del sindacato, democratizzazione, democrazia formale, Lenin, numero parlamentari, partito, Polonia, rapporto rappresentati e rappresentanti, sciopero spontaneo, sindacato, ungheria


di György Lukács  

«il manifesto» 3 gennaio 2004.

Brani tratti da Intervista per il Partito apparso in Testamento politico (gennaio 1971), Edizioni Punto Rosso, Milano, 2015.


Se devo dare la mia opinione riguardo a quanto accaduto prima, durante e dopo il X Congresso [del Partito Operaio Socialista Ungherese], posso semplicemente asserire che, se bastasse porsi sul piano del puro desiderio, allora si potrebbe dire che sono al cento per cento d’accordo su tutto. Mi sembra invece che molte cose sono pensate come se fossero reali, ma restano per noi solo un desiderio lontano. Questo ha a che vedere principalmente con tutte le questioni relative alla democratizzazione. In realtà formalmente c’è una certa democratizzazione, ma non dimentichiamo che questo aspetto è presente in ogni dittatura; formalmente nell’era di Rákosi [segretario del Partito Comunista Ungherese fino al 1956] eleggevamo «liberamente» un deputato (e dico «liberamente» tra virgolette), come avviene adesso. E posso giudicare ciò a partire dal mio atteggiamento di allora: consideravo una questione importante il fatto che le percentuali elettorali registrassero il maggior numero possibile di votanti, quindi partecipai a tutte le votazioni, consegnando la mia scheda; ma devo ammettere che, in 25 anni, neanche una volta ho prestato attenzione al nome che compariva nella scheda. Credo che questo, in qualche modo, sia una fotografia di quanto fosse democratico il sistema di votazione: non è affatto democratico il fatto che a me non importasse assolutamente chi mi rappresenti alla Camera dei Deputati. Debbo ammettere che avevo la stessa sensazione durante il governo di István Tisza [Primo Ministro al tempo dell’impero asburgico]. Continua a leggere →

Una pratica radicale per la libertà

29 sabato Feb 2020

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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Tag

democratizzazione, democrazia della vita quotidiana, individuo, libertà, società


di Marco Gatto

«il manifesto» 13 luglio 2013.


Da poco rientrato nel Partito ungherese di ispirazione socialista dopo una lunga pausa politica, nel 1968 il massimo rappresentate del cosiddetto marxismo occidentale, György Lukács, stava lavorando alla ciclopica stesura dell’Ontologia dell’essere sociale : circa due migliaia di pagine che, nell’intenzione dell’autore, dovevano rimettere in gioco le sorti del marxismo, sganciandolo dalle paludi dello stalinismo e dall’integrazione forzata (la famosa «coesistenza») con il capitalismo liberale. Continua a leggere →

Lettera al signor Carocci

07 sabato Nov 2015

Posted by György Lukács in I testi, Traduzioni italiane

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Tag

Bucharin, burocrazia, Chruščëv, Cina, citatologia, coesistenza, culto della personalità, democratizzazione, dissenso, economia, Engels, formazioni sociali, guerra atomica, Hitler, industrializzazione, intellettuali, Krupskaja, Lenin, letteratura, Marx, mediazioni, NEP, oggettivismo, oggettività, partitarietà, Plechanov, rivoluzione russa, scienza, Seconda Guerra Mondiale, settarismo, Stalin, stalinismo, strategia, tattica, teoria, Trotskij, uomini reali, XX Congresso


di György Lukács

«Nuovi Argomenti», n. 57-58, 1962 [in G.L., Marxismo e politica culturale, trad. di Anna Solmi Marietti, Einaudi, Torino 1968].


Caro signor Carocci,

sarei molto tentato di rispondere diffusamente ai problemi che lei pone nelle sue otto domande: poiché vi si trova concentrato praticamente tutto ciò che da anni occupa e interessa molti di noi. Purtroppo le circostanze in cui mi trovo mi obbligano a rinunciare a questa intenzione. Ma poiché non le voglio tacere del tutto le mie idee in proposito, mi limito ad una semplice lettera privata, che naturalmente non ha affatto la pretesa di trattare sistematicamente tutte le questioni essenziali.

Comincio con l’espressione «culto della personalità». Va da sé che ritengo assurdo ricondurre la sostanza e la problematica di un periodo così importante della storia del mondo al carattere particolare di un individuo. È vero che, quand’ero studente, si insegnava nelle università tedesche: «Männer machen die Geschichte» [«Le forti personalità fanno la storia»]. Ma già il mio sociologismo simmeliano o maxweberiano di allora bastava a farmi sorridere di queste dichiarazioni retoriche. E che dire ora, dopo decenni di educazione marxista?

Già la mia prima reazione al XX Congresso, quasi ancora puramente immediata, si rivolgeva, oltre la persona, all’organizzazione: all’apparato che aveva prodotto il «culto della personalità», e che lo aveva poi fissato in una sorta d’incessante riproduzione allargata. Mi raffiguravo allora Stalin come il vertice di una piramide che, allargandosi sempre più verso il basso, era composta di tanti «piccoli Stalin»: i quali – visti dall’alto – erano gli oggetti, e – visti dal basso – i produttori e garanti del «culto della personalità». Senza il funzionamento regolare e incontrastato di questo meccanismo, il «culto della personalità» sarebbe rimasto un sogno soggettivo, un fatto patologico, e non avrebbe mai potuto raggiungere quell’efficacia sociale che esercitò per decenni.

Non occorreva riflettere molto per capire che quell’immagine immediata, senza essere falsa, poteva dare solo un’idea frammentaria e superficiale delle origini, del carattere e degli effetti di un periodo importante. Per gli uomini pensanti, e veramente dediti alla causa del progresso, sorgeva necessariamente il problema della genesi sociale di questa fase evolutiva, problema che Togliatti formulò esattamente per primo, dicendo che bisognava mettere in luce le condizioni sociali della nascita e del consolidamento del «culto della personalità», naturalmente in base alla dinamica interna della rivoluzione russa; Togliatti aggiungeva, altrettanto esattamente, che a questo lavoro erano chiamati in primo luogo i sovietici. Naturalmente non si tratta solo di un problema storiografico. La ricerca storica trapassa necessariamente in una critica della teoria e della prassi che si sono così determinate. E una siffatta indagine approfondita – ne fui convinto fin dall’inizio – doveva mettere in luce tutto ciò che vi era di falso nell’ideologia connessa al «culto della personalità» e da esso prodotta. Dovrebbe succedere, a questi studiosi, come alla signora Alving negli Spettri di Ibsen, che ne descrive così la «svolta ideologica»: «Volevo toccare solo un nodo, ma quando lo ebbi tirato, tutta la storia mi si sciolse tra le mani. E allora mi accorsi che era solo cucita a macchina». Questo risultato non dipende, in primo luogo, dall’atteggiamento di coloro che affrontano il problema; è la conseguenza organica del materiale trattato.

Questa ricerca è rimasta, a tutt’oggi, solo un postulato per il vero marxismo, e lei non si può attendere da me, che non sono uno specialista in questo campo, nemmeno un semplice tentativo di soluzione; tantomeno in una lettera, che ha necessariamente un carattere ancora più soggettivo e frammentario di quello che avrebbe un saggio sull’argomento. In ogni caso deve essere chiaro, per ogni uomo pensante, che il punto di partenza può essere solo la situazione interna e internazionale della rivoluzione proletaria russa del 1917. Da un punto di vista oggettivo, bisogna pensare alle devastazioni della guerra, al ritardo industriale, alla relativa arretratezza culturale della Russia (analfabetismo, ecc.), alla serie di guerre civili, di interventi, da Brest-Litovsk a Vrangel’, eccetera. Come elemento soggettivo (spesso trascurato), bisogna aggiungere la posizione di Lenin nella possibilità di tradurre in pratica le sue giuste teorie. Oggi – poiché in quegli anni le sue decisioni finirono sempre per imporsi – si tende spesso a dimenticare quali resistenze egli dovette superare all’interno del proprio partito. Chi conosce anche solo in parte gli antefatti del 7 novembre, della pace di Brest-Litovsk, della NEP, capirà che cosa intendo dire. (Circolava più tardi un aneddoto su Stalin, che avrebbe detto, ai tempi, delle discussioni interne sulla pace di Brest: «Il compito più importante è quello di assicurare a Lenin una maggioranza sicura nel Comitato centrale»).

Dopo la morte di Lenin era bensì terminato il periodo delle guerre civili e degli interventi stranieri, ma, specialmente per quanto riguarda questi ultimi, senza la minima garanzia che non potessero rinnovarsi da un giorno all’altro. E l’arretratezza economica e culturale appariva come un ostacolo difficilmente superabile ad una ricostruzione del paese, che doveva essere insieme, edificazione del socialismo e garanzia della sua difesa contro ogni tentativo di restaurazione capitalistica. Con la morte di Lenin, naturalmente, le difficoltà all’interno del partito non fecero che aumentare. Poiché l’ondata rivoluzionaria che era stata scatenata dal 1917 era passata senza instaurare una stabile dittatura del proletariato anche in altri paesi, occorreva affrontare risolutamente il problema della costruzione del socialismo in un solo paese (arretrato). È in questo periodo che Stalin si rivelò uno statista notevole e lungimirante. L’energica difesa della nuova teoria leniniana della possibilità di una società socialista in un solo paese contro gli attacchi soprattutto di Trotskij, rappresentò, come non si può fare a meno di riconoscere oggi, la salvezza dell’evoluzione sovietica. È impossibile giudicare in modo storicamente giusto il problema Stalin, se non si considerano da questo punto di vista le lotte di tendenza del Partito comunista; Chruščëv ha già trattato come si deve questo problema in occasione del XX Congresso.

Mi permetta ora una breve digressione sul significato delle riabilitazioni. Va da sé che tutti coloro che negli anni trenta e più tardi furono ingiustamente perseguitati, condannati, assassinati da Stalin, devono essere riabilitati da tutte le «accuse» inventate contro di loro (spionaggio, sabotaggio, ecc.). Ma ciò non implica affatto che debbano andare soggetti a «riabilitazione» anche i loro errori politici, le loro false prospettive. Questo vale soprattutto per Trotskij, che fu il principale esponente teorico della tesi che la costruzione del socialismo in un paese solo è impossibile. La storia ha confutato da tempo la sua teoria. Ma se ci trasportiamo nell’epoca immediatamente successiva alla morte di Lenin, questo punto di vista genera necessariamente l’alternativa: allargare la base del socialismo con «guerre rivoluzionarie», o ritornare alla situazione sociale anteriore al 7 novembre; e cioè il dilemma di avventurismo o capitolazione. Qui la storia non consente in alcun modo una riabilitazione di Trotskij; sui problemi strategici allora decisivi, Stalin ebbe pienamente ragione contro di lui.

Altrettanto ingiustificata mi pare la leggenda diffusa in Occidente, che se Trotskij fosse giunto al potere, avrebbe avviato uno sviluppo più democratico di Stalin. Basta pensare alla discussione sui sindacati del 1921, per capire come si tratti di una pura leggenda. Trotskij sostenne allora, contro Lenin, la tesi che bisognava statalizzare i sindacati per incrementare più efficacemente la produzione, che significa poi, obiettivamente, che essi dovevano cessare di essere organizzazioni di massa con una vita propria. Lenin, che partiva dalla situazione concreta, dalla posizione dei sindacati fra il partito e il potere centrale, nel senso della democrazia proletaria, assegna loro persino il compito di difendere gli interessi materiali e spirituali dei lavoratori, ove occorra, anche contro uno stato burocratizzato. Non voglio e non posso, qui, affrontare diffusamente questo problema. Ma è certo che Stalin, negli anni seguenti, ha proseguito de facto (anche se non nell’argomentazione) la linea di Trotskij, e non quella di Lenin. Se quindi Trotskij, più tardi, rimproverò a Stalin di essersi appropriato del suo programma, si può ben dire che, in questo, egli aveva per molti aspetti ragione. Ne consegue, per il mio giudizio sulle due personalità, che ciò che oggi consideriamo come dispotico e antidemocratico nell’epoca staliniana, ha rapporti strategici assai stretti con le idee fondamentali di Trotskij. Una società socialista guidata da Trotskij sarebbe stata almeno altrettanto poco democratica di quella staliniana, solo che si sarebbe orientata strategicamente sul dilemma: politica catastrofica o capitolazione, anziché sulla tesi sostanzialmente esatta di Stalin, della possibilità del socialismo in un solo paese (le impressioni personali che ho tratto dai miei incontri con Trotskij nel 1921, hanno suscitato in me la convinzione che egli, come individuo, era portato al «culto della personalità» ancor più di Stalin). Quanto a Bucharin, ritengo inutile scriverne diffusamente. Verso la metà degli anni venti, quando la sua posizione non era attaccata da nessuno, ho già fatto notare quanto fosse discutibile il suo marxismo, proprio in rapporto ai suoi fondamenti teoretici.

Torniamo ora al tema principale. Le vittorie meritate nelle discussioni degli anni venti non hanno fatto sparire le difficoltà della posizione di Stalin. Quello che era obiettivamente il problema centrale, il ritmo fortemente accelerato dell’industrializzazione, era, con ogni probabilità, difficilmente risolubile nel quadro della normale democrazia proletaria. Sarebbe vano, oggi, domandarsi se e in che misura Lenin avrebbe saputo trovare una via d’uscita. Retrospettivamente vediamo, da un lato, le difficoltà della situazione oggettiva, e, dall’altro, che Stalin, per dominarle, superò vieppiù, col passare del tempo, i limiti dello strettamente necessario. Mettere in luce le proporzioni esatte sarebbe appunto il compito di quella ricerca che Togliatti ha detto di attendersi dalla scienza sovietica. Si ricollega strettamente a questo problema (senza perciò identificarsi con esso) quello della posizione di Stalin nel partito. È certo che egli ha costruito a poco a poco, durante e dopo il periodo delle discussioni, quella piramide di cui parlavo all’inizio. Ma non basta costruire un simile meccanismo, bisogna anche tenerlo continuamente in funzione; esso deve reagire sempre nel modo desiderato, e senza possibilità di sorprese, ai problemi quotidiani di ogni genere. Si dovette così elaborare, a poco a poco, quel principio che oggi si suole chiamare «culto della personalità». Anche qui la storia dovrebbe essere riesaminata a fondo da studiosi sovietici competenti di tutta la materia (compreso il materiale finora inedito). Quel che si poteva constatare anche dall’esterno, era anzitutto la liquidazione sistematica delle discussioni interne di partito, in secondo luogo l’accrescersi di misure organizzative contro gli oppositori, in terzo luogo il passaggio da queste misure a provvedimenti di carattere giudiziario e statale-amministrativo. Quest’ultimo crescendo fu accolto naturalmente con muto spavento. Durante la seconda fase agiva ancora il tradizionale umorismo dell’intelligentsia russa. «Qual è la differenza tra Hegel e Stalin?», era la domanda. E la risposta: «In Hegel ci sono tesi, antitesi e sintesi, in Stalin rapporto, controrapporto e misure organizzative». Per il giudizio storico su questo sviluppo Chruščëv ha già dato una giusta indicazione al XX Congresso, definendo i grandi processi degli anni trenta come politicamente superflui, poiché la forza effettiva di ogni opposizione era già stata allora pienamente stroncata.

Non mi ritengo affatto competente a descrivere questo sviluppo e le sue forze motrici. Anche dal punto di vista teoretico bisognerebbe mostrare come Stalin, che negli anni venti difese ancora con abilità e intelligenza l’eredità di Lenin, venne sempre più a trovarsi, in tutti i problemi importanti, in opposizione a lui: circostanza a cui non cambia nulla il suo attaccamento verbale alle dottrine di Lenin. Anzi: poiché Stalin seppe ottenere, sempre più efficacemente, di essere considerato come il legittimo erede di Lenin, come il suo unico autentico interprete, e che si riconoscesse in lui il quarto classico del marxismo, finì per consolidarsi sempre più il fatale pregiudizio dell’identità delle teorie staliniane coi principi fondamentali del marxismo. Ripeto che non può essere mio compito esporre scientificamente questa situazione e le sue origini. La prendo così com’è nella realtà, come un fatto, e cerco, nelle pagine che seguono, di metterne in rilievo le conseguenze teoriche e culturali, come il metodo ad essa immanente, sulla scorta di alcuni fatti importanti, di alcuni punti nodali. Dove premetterò subito che non m’interessa di sapere se e in che misura determinate teorie debbano ricondursi positivamente allo stesso Stalin. Nella centralizzazione spirituale da lui creata, era comunque impossibile che si affermassero stabilmente delle teorie che non fossero almeno da lui autorizzate; la sua responsabilità nei loro confronti è quindi in ogni caso evidente.

Comincio con una questione di metodo in apparenza estremamente astratta: la tendenza staliniana è sempre quella di abolire, ovunque possibile, tutte le mediazioni, e di istituire una connessione immediata fra i dati di fatto più crudi e le posizioni teoretiche più generali. Proprio qui appare chiaramente il contrasto fra Lenin e Stalin. Lenin distingueva molto esattamente fra teoria strategia e tattica, e ha sempre studiato accuratamente e tenuto conto di tutte le mediazioni che le collegano tra loro (spesso in modo estremamente contraddittorio). Mi è naturalmente impossibile, in una lettera (per quanto mi si venga allungando nello scriverla), anche solo toccare per accenni questa prassi teoretica di Lenin. Mi limito a prendere, da questo grande complesso, un solo esempio: il concetto così importante per Lenin del ripiegamento tattico. È una regola metodologica affatto ovvia che la necessità e utilità di una ritirata può essere intesa solo sulla base dei concreti rapporti di forza di volta in volta esistenti, e non dei principi teoretici più generali; questi determinano – più o meno mediatamente – gli obiettivi ecc. dell’azione attuale, e hanno una grande importanza per la ritirata stessa in quanto contribuiscono a determinarne il modo, la misura, ecc., facendo sì che non diventi un ostacolo a una nuova avanzata. Che per realizzare elasticamente la ritirata si richieda la conoscenza di tutto un sistema assai intricato e complesso di mediazioni, è chiaro senza bisogno di altre spiegazioni. Stalin, che non disponeva dell’autorità di Lenin, prodottasi in virtù di grandi azioni e importanti realizzazioni teoriche, e diventata ormai qualcosa di «naturale», trovò il modo di dare una giustificazione immediatamente evidente di tutte le sue misure, presentandole come la conseguenza diretta e necessaria delle dottrine marxiste-leniniste. A questo scopo bisognava sopprimere tutte le mediazioni, e la teoria e la prassi dovevano essere collegate immediatamente fra loro. È per questo che tante categorie di Lenin scompaiono dal suo orizzonte; anche il ripiegamento appare in lui come un’avanzata.

La mancanza di scrupoli di Stalin giunse qui fino al punto di alterare, se necessario, anche la teoria, per venire incontro alle sue pretese di autorità. Ciò appare, in modo particolarmente grottesco, nel problema cinese, dove il grottesco nasce dal fatto che Stalin, questa volta, da un punto di vista tattico aveva pienamente ragione. (Anche la critica più severa non deve mai farci dimenticare che Stalin fu una figura politica di prim’ordine). Trotskij e i suoi seguaci sostenevano la tesi che, poiché in Cina predominavano i rapporti asiatici di produzione studiati teoricamente da Marx, una rivoluzione democratico-borghese (corrispondente al passaggio del feudalesimo al capitalismo in Europa) era superflua, e bisognava attendersi lo scoppio immediato di una rivoluzione proletaria. Stalin comprese esattamente la falsità e pericolosità politica di questa posizione. Ma, anziché confutarla con un’analisi concreta della situazione cinese contemporanea e dei compiti tattici che ne scaturivano, espunse, sic et simpliciter, dalla scienza i rapporti asiatici di produzione, e stabilì l’esistenza di un feudalesimo cinese (e asiatico in genere). Tutta l’orientalistica, nell’Unione Sovietica, fu così costretta a porre alla «base» di tutte le sue ricerche una formazione inesistente.

La stessa metodologia appare in un altro caso, molto più noto. Mi riferisco al patto di Stalin con Hitler nel 1939. Anche qui, a mio avviso, Stalin prese una decisione – da un punto di vista tattico – sostanzialmente giusta, che ebbe però tragiche conseguenze perché anche qui, anziché trattare come tale il ripiegamento tattico imposto dalle circostanze concrete, egli fece delle sue misure dettate dalla necessità, senza nessuna mediazione teoretica, criteri di principio della strategia internazionale del proletariato. Non voglio affrontare qui l’arduo nodo problematico dei vantaggi e svantaggi (di carattere politico e morale) prodotti dal patto del 1939. Il suo senso immediato fu quello di rinviare la minaccia di un imminente attacco di Hitler, e di un attacco che, probabilmente, sarebbe stato appoggiato, apertamente o di nascosto, da Chamberlain e Daladier. L’ulteriore prospettiva tattica era che, se Hitler – come effettivamente accadde – avesse sfruttato il patto con l’Unione Sovietica come occasione favorevole per una offensiva contro l’Occidente, più tardi, nel caso di una guerra fra la Germania e l’Unione Sovietica, per quest’ultima l’alleanza con le democrazie occidentali (già tentata ai tempi di Monaco) avrebbe acquistato caratteri di estrema probabilità; anche qui i fatti hanno confermato la previsione tattica di Stalin.

Fatali per tutto il movimento operaio rivoluzionario furono le conseguenze di carattere teorico-strategico che ne trasse Stalin. Si dichiarò che la guerra fra la Germania di Hitler e le potenze europee era una guerra mondiale imperialistica come la prima. E cioè che le formule strategiche di Lenin, allora esatte («Il vero nemico è nel tuo paese», «Trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile», ecc.), dovevano valere immutate per i paesi che volevano e dovevano difendersi contro il fascismo hitleriano. Basta leggere il primo volume del ciclo «I comunisti» di uno scrittore ortodosso come Aragon, per vedere chiaramente le conseguenze internazionali disastrose di questa «generalizzazione staliniana» di una mossa tattica. Ma le conseguenze più nefaste trascendono i casi particolari, per quanto enormi. La grande autorità del marxismo ai tempi di Lenin si basava sul fatto che l’unità dialettica di fondatezza teoretica, stabilità di principi ed elasticità tattica era avvertita da tutti. Questa nuova «metodologia» di Stalin fece sì che ampi circoli, e non sempre a priori ostili al marxismo, d’ora in poi non videro altro, nelle affermazioni teoretiche di Stalin, che «giustificazioni» spesso sofistiche, in molti casi pseudoteoretiche, di misure puramente tattiche di validità spesso assai contingente. Stalin venne incontro così ai voti teorici di molti pensatori borghesi, per cui il marxismo sarebbe solo un’«ideologia» politica come tutte le altre. Se oggi formulazioni profonde ed esatte di Chruščëv (evitabilità della guerra imperialistica, coesistenza, ecc.) sono interpretate per molti aspetti in modo analogo, è anche questo un frutto dell’eredità staliniana. Una liquidazione radicale e di principio di tale metodologia (e non solo di errori singolarmente presi) è quindi un’«esigenza del giorno» anche nel senso pratico più urgente.

Gli errori qui elencati sono naturalmente casi estremi. I loro principi furono però universalmente applicati nella prassi quotidiana. Dove non bisogna dimenticare, accanto ai motivi finora menzionati, che una parte notevole della vecchia intelligentsia di partito era in opposizione a Stalin (che non significa, naturalmente, che tali opposizioni rappresentassero un punto di vista metodologicamente e oggettivamente giusto). Stalin aveva bisogno di una precisa esecuzione delle sue decisioni da parte dell’apparato, ed anche, se possibile, dell’approvazione delle grandi masse; anche per questo semplificò radicalmente le sue enunciazioni teoretiche. La soppressione delle mediazioni, il collegamento diretto dei principi più generali alle esigenze concrete della prassi quotidiana, appariva in questo senso un mezzo assai idoneo. Anche qui non si concretizzò la teoria applicandola alla prassi, ma, viceversa, si semplificarono e volgarizzarono i principi secondo le esigenze (spesso solo presunte) della prassi. Anche qui mi limito a fare un solo esempio particolarmente tipico (ma se ne potrebbero fare infiniti altri). Nella sua ultima opera economica Stalin «scoprì» ciò che era «sfuggito» a Marx, Engels e Lenin, che ogni formazione economica ha una «legge fondamentale» che può essere sintetizzata in una breve proposizione. È così semplice che anche il funzionario più limitato e incolto la capisce subito; e, anzi, è messo in grado, col suo aiuto, di condannare senz’altro, nelle sue deviazioni «di destra» o «di sinistra», ogni lavoro di scienza economica di cui non capisce oggettivamente nulla. Marx, Engels e Lenin sapevano che le formazioni economiche costituiscono sistemi mobili e complicati la cui essenza è definibile solo mediante un rilievo esatto di tutte le loro determinazioni importanti, le loro interazioni reciproche, proporzioni, ecc. Le «leggi fondamentali» di Stalin enunciano pure banalità, non spiegano un bel nulla, ma danno ad alcuni circoli l’illusione di sapere tutto in anticipo. In questa direzione, della volgarizzazione mediante la soppressione dei termini medi, si situa l’enunciazione di Stalin nel suo saggio sulla linguistica, per cui la scomparsa di una formazione economica determina anche quella della sua ideologia, ecc. ecc.

I diversi momenti del metodo staliniano formano un’unità sistematica all’interno della quale trapassano l’uno nell’altro. Avrà già fatto certamente caso al soggettivismo nella posizione di Stalin. Esso costituisce, effettivamente, un momento fondamentale in questo sistema: ma assume la sua forma pura nella concezione staliniana della partitarietà. Anche qui si tratta di un importante elemento della concezione teoretica di Lenin. Già nelle sue opere giovanili egli si occupò di questo problema, e ne elaborò i momenti soggettivi e oggettivi. Il momento soggettivo è chiaro e semplice: una presa di posizione risoluta nella lotta di classe. Ma quando Lenin critica l’oggettivismo degli studiosi borghesi, si riferisce ad un certo tipo di determinismo, che può rovesciarsi facilmente in un’apologetica dei fatti intesi come necessari. Poiché la partitarietà materialistica indaga gli avvenimenti in modo più profondo e concreto, a partire dalle loro forze motrici reali, è più rigorosamente oggettiva dell’«oggettivista», valorizza l’oggettività in forma più profonda e completa. Con Stalin viene completamente a cadere questo secondo momento, e ne risulta una condanna radicale di ogni impulso all’oggettività: che è bollato col marchio dell’«oggettivismo» e dichiarato spregevole. Poiché Stalin era un uomo intelligente, si spaventò, a volte, delle conseguenze del soggettivismo da lui scatenato, per esempio nell’economia. Ma non poté né volle mai eliminarlo stabilmente, poiché questo atteggiamento era troppo profondamente radicato nel metodo da lui introdotto.

Poiché Stalin vuol mantenere ad ogni costo la continuità «citazionale» con l’opera di Lenin, ne conseguono deformazioni non solo dei fatti, ma anche dei testi leniniani. L’esempio più evidente è quell’articolo di Lenin del 1905, dove egli si proponeva di far ordine – nelle nuove condizioni della legalità – nella stampa e nelle edizioni di partito. Ma sotto Stalin quell’articolo divenne a poco a poco la Bibbia della «partitarietà» in tutto il campo della cultura e anzitutto della letteratura, allo scopo di trasformare lo scrittore in una semplice rotella del grande meccanismo. E sebbene N. Krupskaja, moglie e collaboratrice strettissima di Lenin, abbia richiamato l’attenzione, in una sua lettera, sul fatto che quell’articolo di Lenin non si riferisce minimamente alla letteratura, non mancano ancora oggi le tendenze a lasciare che la Bibbia… resti la Bibbia. Qualcosa di simile accadde per Hegel al tempo della seconda guerra mondiale, quando, per esigenze propagandistiche della lotta contro la Germania hitleriana, lo si fece passare per ideologo dell’opposizione reazionaria alla rivoluzione francese. A prescindere affatto dal contrasto in cui questa tesi si trova con quelle di Marx, Engels e Lenin, è abbastanza comico ricordare che nello stesso periodo, per analoghe esigenze propagandistiche, il generale zarista Suvorov divenne un rivoluzionario. Che Suvorov abbia condotto campagne militari contro la rivoluzione francese, mentre Hegel, fino alla fine della sua vita, prese entusiasticamente le sue difese, non disturbava minimamente la «partitarietà» staliniana; il riconoscimento dei fatti sarebbe stato un «oggettivismo».

Il punto culminante di questa tendenza è rappresentato dalla Storia del partito, diffusa in molti milioni di copie. Qui la «partitarietà» del funzionario supremo è il demiurgo che crea o fa sparire i fatti, e, secondo le esigenze, conferisce essere e valore a uomini ed eventi, oppure li annulla. È una storia di lotte di correnti, che non sono, però, rappresentate o sostenute da uomini, di opposizioni anonime, ecc., una storia dove, a parte beninteso Lenin, solo Stalin possiede un’esistenza. (Nella prima edizione c’era bensì un’eccezione: vi compariva anche Ežov, «il nostro Marat», il primo organizzatore dei grandi processi; dopo la sua caduta anche il suo nome venne cancellato).

In tutto ciò si rivela un altro aspetto metodologico. Per i classici del marxismo era ovvio che la scienza fornisse il materiale e i punti di vista in base ai quali vengono prese le decisioni politiche. Propaganda e agitazione ricevono il loro materiale della scienza, dalla prassi scientificamente elaborata. Stalin rovesciò questo rapporto. Per lui, in nome della «partitarietà», l’agitazione è il momento primario. Le sue esigenze determinano (come ho già mostrato sulla base di alcuni esempi) ciò che la scienza deve dire e il modo in cui deve dirlo. Anche qui un esempio può chiarire questo stato di fatto. Nel celebre capitolo quarto della Storia del partito Stalin definisce l’essenza del materialismo dialettico e di quello storico. Trattandosi di un libro popolare per un pubblico di massa, nessuno potrebbe rimproverare a Stalin di aver ridotto le considerazioni assai sottili e complesse dei classici su questo tema ad alcune definizioni elencate una dopo l’altra in forma schematica e manualistica. Ma il destino delle scienze filosofiche dopo la pubblicazione di quest’opera mostra che si tratta di una metodologia cosciente e di una politica culturale deliberata, e proprio nel senso che ho indicato prima. E cioè le semplificazioni (spesso volgarizzazioni) propagandistiche di Stalin divennero subito la norma unica, imperativa e il limite invalicabile dell’indagine filosofica. Chi osava, richiamandosi, per esempio, ad annotazioni filosofiche di Lenin, andare oltre le definizioni del quarto capitolo, o semplicemente integrarle, andava incontro alla condanna ideologica e non poteva pubblicare le sue ricerche. Non per nulla, al XX Congresso Il’ičëv ha constatato che, negli ultimi decenni, filosofia, economia e storiografia sono rimaste stagnanti.

Queste forme di subordinazione non si limitarono al capitolo quarto e alla filosofia. Tutta la scienza e tutta la letteratura dovevano servire esclusivamente alle esigenze propagandistiche formulate dall’alto, dallo stesso Stalin. La comprensione ed elaborazione autonoma della realtà attraverso la letteratura era bandita sempre di più. La letteratura «partitaria» non deve già rispecchiare creativamente la realtà oggettiva, ma illustrare in forma letteraria le decisioni del partito. Torna ad onore del critico letterario Elena Usevič aver preso posizione, già negli anni trenta, contro l’obbligo della letteratura illustrativa. Nel suo discorso al XXII Congresso il poeta Tvardovskij ha proseguito questa lotta anche oggi necessaria. Si tratta di un problema cruciale della letteratura. Essa può pervenire ad una rappresentazione autentica solo se prende le mosse da problemi reali di uomini reali, e se rispetta la dialettica interna dell’evoluzione che scaturisce da quelle premesse. L’obbligo dell’illustrazione pone a base dell’opera una verità generale astratta (ammesso che si tratti di una verità), e gli uomini ed i loro destini devono adeguarsi ad ogni costo a questa tesi.

Tutto ciò non era naturalmente fine a se stesso. Nasceva dalla posizione di Stalin, dal suo bisogno di un’autorità indiscussa. Devo ripetere anche qui, come prima, che solo indagini approfondite di studiosi competenti potranno stabilire quale parte vi ebbero le difficoltà oggettive e quale le reazioni inadeguate di Stalin. Vi fu senza dubbio, negli anni trenta, un inasprimento oggettivo della situazione: all’interno, oltre che all’industrializzazione accelerata, anche in seguito alla collettivizzazione dell’agricoltura, in politica estera in seguito all’ascesa al potere di Hitler e alla minaccia di un attacco portato all’Urss dalla Germania fascista. Se la lotta di classe nel paese, nonostante tutte le difficoltà economiche, si sia realmente inasprita in modo decisivo, è un problema su cui potranno dare un giudizio competente solo indagini precise di studiosi della materia. Stalin, comunque, trovò presto la parola d’ordine della semplificazione-generalizzazione propagandistica: l’incessante inasprimento della lotta di classe è necessario nella dittatura del proletariato, stavo per dire: è la sua «legge fondamentale».

Questa tesi, di cui già il XX Congresso ha smascherato la falsità, mette in luce le conseguenze più nefaste del metodo staliniano. Essa intende suscitare un’atmosfera di continua diffidenza reciproca, di vigilanza di tutti contro tutti, un clima da stato d’assedio in permanenza. Posso accennare qui solo in breve e frammentariamente alle conseguenze secondarie: la paura, spinta oltre ogni limite, di nemici, spie e sabotatori, e un sistema di segretezza ossessiva per tutto ciò che abbia qualcosa a che fare con la politica. Così, per esempio, la statistica divenne una scienza «strettamente segreta», i cui risultati erano accessibili solo alle persone assolutamente fidate; i lavoratori scientifici dell’economia appartenevano solo in casi eccezionali – e mai per ragioni scientifiche – a questa ristretta cerchia di eletti.

Il quadro del metodo staliniano acquista così un tratto complementare che ancora gli mancava: tutto ciò che in una situazione rivoluzionaria acuta, dove è effettivamente in gioco l’essere o il non essere di una società, è obiettivamente inevitabile, fu arbitrariamente eretto da Stalin a fondamento della prassi quotidiana sovietica. Non voglio soffermarmi qui a parlare dei grandi processi. È questo il tema che è stato trattato finora più diffusamente, e nel suo discorso al XXII Congresso Šelepin ne ha analizzato assai esattamente le conseguenze per il diritto sovietico e la giurisprudenza socialista. Vorrei solo attirare brevemente l’attenzione su alcune conseguenze di ordine culturale. Già la soppressione delle mediazioni contiene in sé la tendenza a trattare come blocchi monolitici tutti i fenomeni della vita. La permanenza della situazione rivoluzionaria acuta intensifica ulteriormente questa tendenza. Ciascuno si risolve senza residui – nella totalità della sua esistenza, in tutte le determinazioni della sua personalità e della sua opera – nella funzione che svolge (o si pretende che svolga) momentaneamente in una vita così concepita. Così, per prendere un esempio dalla logica dei processi: poiché Bucharin, nel 1928, si oppose al piano staliniano della collettivizzazione, è certo che nel 1918 egli partecipò ad una congiura per uccidere Lenin. Questo è il metodo di Vyšinskij nei grandi processi. Ma questa metodologia si estende anche a metodo di giudizio della storia, della scienza e dell’arte. Anche qui è istruttivo contrapporre il metodo di Lenin a quello di Stalin. Lenin, per esempio, ha criticato duramente e aspramente la politica di Plechanov nel 1905 e nel 1917. Ma insieme – e questo «insieme» non implica alcuna contraddizione per Lenin – egli insiste sul fatto che bisogna utilizzare l’opera teoretica di Plechanov per la diffusione e l’approfondimento della cultura marxista nel socialismo, e ciò benché, anche sul piano puramente teoretico, egli sollevasse contro Plechanov varie e importanti obiezioni.

Eccetera eccetera, devo scrivere a questo punto, perché non ho affatto esaurito l’argomento. Ma anche queste note brevi e frammentarie le mostreranno che nel caso Stalin non si tratta affatto (come per molto tempo si volle far credere da parte di alcuni) di errori particolari e occasionali, ma di un falso sistema di idee che si costituì a poco a poco, di un sistema i cui effetti nocivi si fanno sentire tanto più dolorosamente, quanto meno le condizioni sociali attuali sono paragonabili a quelle di cui il sistema staliniano appare il rispecchiamento deformato e deformante. Anche qui i fatti decisivi sono noti a tutti. Mi limito quindi a elencarli brevemente: gli eventi successivi alla seconda guerra mondiale hanno trasformato il socialismo in un solo paese, come l’arretratezza economica e culturale dell’Urss, in una reminiscenza storica; come appartiene al passato anche la possibilità di un accerchiamento capitalistico. A questi fatti si aggiunge la vittoriosa emancipazione dei popoli coloniali e la radicale trasformazione della tecnica bellica con l’introduzione di razzi e bombe nucleari. Per tutti questi motivi anche l’inevitabilità delle guerre imperialistiche ha cessato di essere una necessità. È gran merito del XX e del XXII Congresso aver preso atto di questa nuova situazione e averne tratto le principali conseguenze teoriche e pratiche. Naturalmente gli animi si dividono anzitutto secondo il loro atteggiamento verso la guerra e verso la pace. È intorno a questo problema che si acuiscono al massimo anche i problemi ideologici. Senza poter qui nemmeno sfiorare i problemi politici fondamentali, devo sottolineare che, in campo culturale, l’accentuazione del pericolo di guerra, la sottovalutazione del peso delle forze che operano a favore della coesistenza pacifica, sono rivolte, nella maggior parte dei casi, piuttosto verso l’interno che verso l’esterno; e cioè mirano assai più a conservare o a far sorgere un’atmosfera di guerra, che a preparare o scatenare effettivamente una guerra. Dove è evidente la sopravvivenza di tendenze staliniane negli ambienti del settarismo aperto o mascherato. Pochi manterranno oggi, con le stesse parole, la tesi staliniana del fatale inasprimento della lotta di classe. Per conservare lo status quo staliniano all’interno, basta constatare ogni volta, per il momento presente, l’esistenza di questo inasprimento, e conservare così, in uno stato di acuta tensione, anche il controllo centralizzato di tutte le manifestazioni culturali; il «momento» può essere naturalmente prolungato a piacere. È questa la base dell’alleanza presente de facto fra le tendenze estremistiche nel capitalismo e nel socialismo. Entrambe mirano, in ultima analisi, a conservare inalterati i metodi staliniani. Gli ideologi borghesi, perché un marxismo ridotto a Stalin possiede una forza d’attrazione assai minore di quello genuino, e quelli che si pretendono socialisti, perché è molto più comodo governare coi metodi staliniani che coi metodi di Marx e di Lenin. Perciò Enver Hodja e Salvador de Madariaga agiscono oggi (paradossalmente, a prima vista) nello stesso senso: si battono entrambi, in fin dei conti, per l’integrità del sistema staliniano.

D’altra parte la coesistenza implica necessariamente un’intensificazione anche dei rapporti culturali reciproci fra capitalismo e socialismo, e quindi una sfida, per la cultura socialista, a uscire vittoriosa da una competizione viva con quella capitalistica. Il settarismo fa di tutto, non solo per indebolire le condizioni di una concorrenza vittoriosa, ma anche per mascherare la situazione reale. Che è in realtà molto più favorevole che negli anni venti, quando i metodi staliniani non erano ancora perfezionati né applicati sistematicamente a tutti i prodotti culturali. Il critico della Germania occidentale Walter Jens descrive così la letteratura tedesca di quel periodo: «Nessuno dubiterà, alla fine, che non sia stato proprio e in ultima analisi l’interesse per l’Unione Sovietica a improntare di sé l’arte degli anni venti». E così si esprime sugli effetti del metodo staliniano trionfante: «Gli intellettuali divennero, e per sempre, senza patria». Il grande compito della cultura socialista, è quello di additare agli intellettuali, e oltre di essi alle masse, una patria spirituale. Negli anni venti, politicamente ed economicamente così difficili, essa vi riuscì in larga misura. Che in seguito queste tendenze si siano nettamente indebolite nell’arena internazionale della cultura, è una conseguenza del periodo staliniano. Ma queste forze possono ridestarsi, se si eliminano le condizioni sfavorevoli al loro dispiegamento. Un film come La ballata di un soldato di Cuchraj mostra chiaramente che il regime staliniano ha potuto solo conculcare, ma non già spegnere, le energie creative. Con questa constatazione non voglio certo sottovalutare le difficoltà del periodo di transizione. Poiché gli apparati culturali dei paesi socialisti sono ancora in larga misura detenuti dai seguaci dogmatici di Stalin (che, nel migliore dei casi, si adeguano esteriormente alle novità), poiché parti notevoli dei nuovi quadri sono state educate e formate nello spirito staliniano, poiché il sistema è un paradiso per tutti quelli che mancano di talento e si adattano senza sforzo, e poiché anche molti degli elementi più dotati non hanno potuto resistere alla lunga pressione senza risentirne gravemente nella capacità e nel carattere, e via dicendo: il passaggio ad una situazione culturale che promuova realmente la scienza e l’arte sarà con ogni probabilità contraddittorio, difficile, pieno di ricadute.

Il XX Congresso ha fornito, fra l’altro, una serie di importanti relazioni sulla situazione attuale. Ho già citato alcune di queste voci. Ma la cosa più interessante, oggi, non è ciò che avviene direttamente nel campo della cultura, ma sono quelle misure economiche e politiche che introducono nella realtà sociale una generale democratizzazione in senso comunista. Qui la necessità di riforme è assai più immediata e imperiosa che in campo culturale. Con tutti i suoi errori, l’industrializzazione staliniana ha saputo creare le condizioni e i requisiti tecnici della guerra vittoriosa contro la Germania di Hitler. Ma la nuova situazione mondiale pone l’Unione Sovietica, in campo economico, di fronte a compiti del tutto nuovi: essa deve creare un’economia che superi, in tutti i settori della vita, il capitalismo più sviluppato, quello degli Stati Uniti, che elevi il tenore di vita della popolazione sovietica a un livello superiore a quello americano, e che sia insieme in grado di prestare un aiuto economico di ogni genere, sistematico e permanente, sia agli altri stati socialisti che ai popoli economicamente arretrati in via di emancipazione. A tale scopo sono necessari metodi nuovi, più democratici, meno burocraticamente centralizzati, di quelli che poterono svilupparsi fino ad oggi. Il XXII Congresso ha avviato qui un insieme grandioso e molteplice di riforme. Mi limito a ricordare il deliberato, di estremo interesse e importanza, che nelle elezioni alle cariche di partito il 25 per cento dei vecchi dirigenti non possano essere rieletti. Solo un rinnovamento democratico sistematico di tutta la vita può fornire una base sana alla rinascita culturale nel socialismo.

La resistenza ad una critica radicale e di principio del periodo staliniano è tuttora molto forte. In essa si raccolgono i motivi più disparati. Ci sono, per esempio, gli ingenui e i benintenzionati che temono che dalla denuncia spietata degli errori del sistema staliniano deriverebbe una perdita di prestigio per il comunismo. Essi dimenticano che proprio in ciò si afferma la forza irresistibile del comunismo: i movimenti storici maturi non possono essere ritardati indefinitamente da misure per quanto sfavorevoli. La loro espansione, il loro raggio d’azione possono essere ridotti, ma non già il loro sviluppo e il loro consolidarsi definitivo. E c’è ancora questo da osservare: una riflessione imparziale non potrà mai trascurare quanto vi fu di positivo nell’attività di Stalin; io stesso ho accennato qui alla sua meritata vittoria nei dibattiti degli anni venti, e si potrebbero fare senza dubbio molti altri esempi. Ma l’«esigenza del giorno» è la liberazione del socialismo dalle catene dei metodi staliniani. Quando Stalin farà parte della storia, del passato, e non sarà più – come oggi – il principale ostacolo all’evoluzione futura, sarà possibile, senza troppe difficoltà, formulare su di lui un giudizio storico esatto. Io stesso ho fornito vari spunti di una valutazione storica equanime; ma essa non deve intralciare il lavoro di riforma, oggi così importante.

Si tratta di liberare quelle forze che sono contenute nel giusto metodo di Marx, Engels e Lenin. Nel suo discorso di Bucarest, Chruščëv ha chiarito l’opposizione fra metodo leniniano autentico e affermazioni dogmatiche e contingenti nel senso di Stalin, con la felice immagine che oggi Lenin tirerebbe le orecchie a chi volesse servirsi di citazioni dai suoi scritti e discorsi per proclamare l’inevitabilità delle guerre ai nostri giorni. Ma il ritorno al metodo autentico dei classici del marxismo è anzitutto un fare i conti col presente e col futuro. L’ultima ricerca marxista originale in campo economico, l’Imperialismo di Lenin, è apparsa nel 1917; l’ultima in campo filosofico, l’analisi leniniana di Hegel, è stata scritta negli anni 1914-15 e pubblicata negli anni trenta. Ma se la nostra teoria si è irrigidita, il mondo non si è fermato. Il ritorno ai metodi dei classici del marxismo serve appunto a cogliere marxisticamente il presente, qual esso è in realtà, per desumere così il criterio della condotta e dell’azione, della creazione e della ricerca, dalla realtà esattamente conosciuta, e non da una schematica «citatologia». Naturalmente questo processo è tutt’altro che semplice (anche a prescindere dagli ostacoli posti dalle istanze burocratiche). Fa parte dell’essenza dell’indagine scientifica – e della creazione artistica – che esse non possano raggiungere, per lo più, un’approssimazione massima alla realtà senza passare attraverso errori e peripezie molteplici. Poiché nel periodo staliniano l’istanza centrale doveva essere infallibile, dovevano essere ugualmente «perfette» anche le applicazioni effettuate dai piccoli Stalin. (Che questa «perfezione» e «definitività» fosse quanto mai effimera, che non di rado, dopo breve tempo, fosse condannata come deviazione, è un’altra caratteristica di questo periodo. Anche qui c’è una battuta umoristica che documenta lo stato d’animo dell’intelligentsia russa all’inizio degli, anni trenta. Usciva allora, ogni anno, un volume dell’Enciclopedia letteraria, sempre redatto nel senso della più rigorosa «perfezione». Ma prima che il testo fosse finito di stampare, quasi tutte le verità dogmaticamente fissate diventavano errori altrettanto dogmaticamente stabiliti. Così quell’opera era chiamata da tutti «Enciclopedia delle deviazioni»). Rinunciare a questa «definitività» burocraticamente decretata, discutere apertamente e pubblicamente le divergenze effettive nella scienza e nell’arte, imprimerebbe al marxismo, all’interno, uno slancio superiore ad ogni previsione, e (a differenza di quanto pensa la burocrazia culturale staliniana) non farebbe che accrescere, all’esterno, l’autorità degli studiosi e degli artisti marxisti veramente capaci.

Nel 1789, in una discussione sui cambiamenti costituzionali nel Württemberg, il giovane Hegel scriveva: «Se ha da esserci un mutamento, qualcosa ha da essere mutato». Queste parole si attagliano benissimo alla situazione attuale, e permettono di distinguere con sicurezza i due schieramenti. Poiché, dopo il XXII Congresso, è ormai impossibile evitare del tutto la critica al periodo staliniano. Questa critica è ormai generale. Ma c’è chi dice: «Sì, questo e quest’altro era sbagliato, ma la scienza e l’arte sono già in piena ripresa». E chi dice invece: «Abbiamo cominciato con la critica del passato; ora si tratta, sulla base di questa critica tuttora in corso, di creare le basi ideali e organizzative di una ripresa futura». È chiaro che i primi vogliono «cambiare» in modo che tutto resti com’era: si tratta solo di dare un’etichetta nuova a cose vecchie. Naturalmente, nel secondo caso, non si vuol dire che si debba condurre a termine un’opera di riforma i cui risultati saranno visibili solo in seguito, ad opera finita. No. Un’opera sincera di riforma può produrre nuovi risultati nella scienza e nell’arte già nel corso della lotta per gettare le fondamenta. Ma si tratta di un processo lungo, complicato e contraddittorio.

Caro signor Carocci, mi accorgo che la mia lettera è diventata spaventosamente lunga, anche se ho detto solo una piccola parte di ciò che le sue domande hanno suscitato dentro di me. La prego quindi di scusare, sia la lunghezza, che il carattere frammentario di questa lettera.

Coi miei cordiali saluti                                                                                Georg Lukács

L’essere esiste soltanto nella sua processualità storica

14 venerdì Nov 2014

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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democratizzazione, democrazia, essere sociale, Etica, Lukacs, ontologia, partito, poesia, processualità storica, stalinismo


di Alberto Scarponi

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Il maggiore pensatore marxista del Novecento aveva compreso all’altezza del ’68 che l’esperimento rivoluzionario bolscevico-sovietico era fallito e che occorreva rigenerare la teoria marxiana attraverso una visione etica ed ontologica che sormontasse la pura concezione economicista del cambiamento. Per il filosofo ungherese soltanto adesso il ‘divenir-uomo dell’uomo’ può trovare le condizioni per cui il soggetto sociale nella sua prassi si identifichi nella compiutezza del ‘genere umano’. La forma politica di quest’epoca e di questa lotta deve essere, secondo lui, la ‘democrazia della vita quotidiana’.

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Cinque giorni dopo la morte, avvenuta il 20 maggio 1990, è stata tradotta in italiano (laRepubblica, 25 maggio 1990) l’ultima intervista dello scrittore (extra)sovietico Venedikt Erofeev, oggi considerato un maestro e un mito da molti giovani scrittori del suo paese. Assai singolare il drastico giudizio negativo che vi si dà circa la situazione culturale odierna dell’Urss («non c’è né crisi né cultura. Un deserto completo»). Singolare non tanto per la drasticità – l’estremismo anche verbale può non sorprendere in uno scrittore che dalle circostanze e dalle sue proprie scelte di vita venne indotto a trascorrere trent’anni nei bassifondi della società sovietica e il cui capolavoro s’intitola Mosca sulla vodka – quanto, invece, perché da un intellettuale d’opposizione ci si aspetterebbe il contrario: in un contesto attuale tanto dinamizzato verso il cambiamento, ci si aspetterebbe un atteggiamento in qualche modo positivo, di speranza, e, coerentemente, una tollerante simpatia verso chi tale cambiamento ha in qualche modo voluto o preconizzato, per esempio i suoi lettori. Niente di tutto ciò. Persino i suoi lettori vengono da lui tacciati di vuotezza culturale: «Il senso di quello che scrivevo interessava loro poco; era soltanto importanteche quella lettura aveva il sapore di un frutto proibito».
Il quadro di desolazione culturale che promana da queste parole richiama i giudizi accesi e sferzantiche su tale stato di cose, vigente in tutti i paesi del socialismo reale, vennero emessi da György Lukács nei suoi ultimi anni di vita, vale a dire dal 1968 al 1971. Convergenza paradossale, almeno a prima vista, fra due opposti umani oltre che ideologici. Lukács infatti non soltanto passa per uno sviscerato sostenitore ideologico del socialismo reale (in virtù di una tesi da lui mai ripudiata, anzi ribadita persino nella sua ultima intervista, apparsa poche settimane dopo la morte: la tesi secondo cui il peggior socialismo sarebbe comunque migliore del miglior capitalismo), ma è noto inoltre per uno stile di vita del tutto privo di eccentricità, a meno di non considerare eccentrica la sua passione per la concentrata esistenza dello studioso, per il lavoro filosofico inteso come tutt’uno con quello politico, per «l’Opera» contrapposta alla «Vita», secondo la lucida scelta esistenziale compiuta nel 1911 (quando inizia anche la sua agorafobia).
Va comunque precisato che le cose della cultura, persino nei paesi dell’ex socialismo reale, sono ovviamente più complicate di quanto non dicano tali rapide esplosioni polemiche, le quali, dunque, sono da apprezzare per quello che sono, appunto dei giudizi, per giunta trancianti e volutamente provocatori, non vanno confuse con la realtà. Ma è certamente interessante questa convergenza di giudizio fra estremi. Forse, a scavare, si scoprirebbero strane coincidenze di mete. Non è tuttavia questo l’aspetto su cui soffermarci ora.
Più interessante per il momento sembra il paradosso interno al pensiero di Lukács medesimo: come poteva il filosofo ungherese, che per decenni era stato il difensore, per esempio, del «realismo socialista», vale a dire di una letteratura intesa a nutrire proprio la cultura del socialismo reale, atteggiarsi ora a critico di quella stessa situazione culturale che aveva contribuito a creare?
La risposta è più agevole di quanto non appaia a prima vista: per Lukács il sistema sovietico, di cui anche il suo paese è parte, non va difeso in quanto tale, in quanto «sistema», ma solo in quanto esperimento storico, il cui grado di riuscita si può misurare su alcuni criteri, i quali sono poi i principi ispiratori dell’epoca ovvero, altrimenti detto, le forze spirituali e gli interessi materiali storicamente prodottisi e che nel loro storico esistere configurano questa epoca determinata.
Lukács dunque non si atteggia mai a ingenuo difensore del sistema sovietico. Il suo schierarsi risoluto (right or wrong, my party, come gli capiterà di dire qualche volta – per esempio nelPostscriptum 1957 a La mia via al marxismo, (in G. Lukács, Marxismo e politica culturale, Einaudi, Torino, 1968, p. 19) va sempre e soltanto riferito a ciò che egli, significativamente, in genere preferisce chiamare «movimento» e non «partito», perché lo intende come un complesso di forze umane solidalmente intenzionate a generalizzare nel mondo – come vedremo più avanti – il grado attuale di umanizzazione dell’uomo, forze che possono anche, ma non necessariamente, essere organizzate in un partito e potrebbero anche produrre esperimenti storici fallimentari.
Proprio per questo – sia detto di passata – proprio perché verte su un punto di forza della originale visione delle cose lukacciana, risulta del tutto credibile la testimoninaza di István Eörsi, suo allievo e traduttore (dal tedesco in ungherese) e intervistatore, secondo cui nell’autunno del 1968, dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia a reprimere l’esperimento della Primavera di Praga (con alcuni tratti del quale, d’altronde, il filosofo non era d’accordo), Lukács avrebbe esclamato: «Probabilmente l’intero esperimento iniziato nel 1917 è fallito, e bisogna ricominciare tutto da capo un’altra volta in un altro luogo» (Cfr. István Eörsi, Un ultimo messaggio, in G. Lukács, Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo, intervista di István Eörsi. A cura di Alberto Scarponi, Editori Riuniti, Roma, 1983, p. 8).
Allo stesso modo – tanto per continuare nelle digressioni (che mirano tuttavia a illuminare meglio aspetti troppo facilmente dati per evidenti e generalmente considerati quindi come non revocabili in dubbio) – è bensì vero che Lukács fu un sostenitore del «realismo socialista», ma lo fu attraverso una elaborazione critico-teorica che lo conduceva a respingere come pessimo naturalismo oleografico ciò che la politica culturale sovietica sosteneva invece come ottima letteratura. Agli inizi degli anni Trenta, infatti, con la rivista Literaturnyi kritik si era opposto alle teorizzazioni della Rapp e del Lef, in quanto sia da parte degli scrittori «proletari» sia da parte dei sostenitori del Fronte di sinistra delle arti «si proclamava… il carattere ideologico della letteratura, ma si riconoscevano come “ideologia” solo le risoluzioni più recenti del partito… purché l’autore fosse fedele al partito, si proclamava come arte di alto livello anche il peggior naturalismo» di regime (Lukács, Arte e società, I, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 17). Non per nulla, quando avrà modo di leggerlo, egli sarà un entusiasta recensore del Solženycin di Una giornata di Ivan Denisovič.
Ma a tale proposito va ricordato qualcosa che, mentre prima facie sembra un punto a favore dei detrattori di Lukács, a favore di chi lo accusa di aver sottomesso l’attività artistica e intellettuale ai bisogni della politica, ci dà invece, in un miglior approfondimento, la chiave per comprendere quale sia, anche più in generale, il vero discorso di questo filosofo. Un discorso che legittimamente può essere contestato da chi non sia d’accordo, ma soltanto dopo averlo inteso nei suoi termini autentici (e non tanto per ragioni di correttezza filologica, quindi intellettuale, quanto per dare senso alla stessa discussione con lui, che altrimenti viene ad essere fatua o, come il più spesso è, surrettizia e ideologica, nel significato cattivo di questa parola).
Va ricordato, dunque, che Lukács fu persino sostenitore, almeno a un certo momento, della poesia di partito. Eppure il suo modo di impostare il ragionamento è l’opposto di quel che è noto come ždanovismo. Per Ždanov e per Stalin gli artisti, in particolare gli scrittori, erano semplicemente «ingegneri delle anime», essi preparavano queste ultime alla rivoluzione socialista, definita nei suoi aspetti strategici e tattici dal Partito (cioè dal Comitato centrale, cioè dal Segretario generale del Partito, da Stalin). Il sillogismo è perfetto e perfettamente funzionale alla ideologia del poterestaliniano. Il suo punto forte (o debole, a seconda da come lo si guardi) è la riduzione dell’intellettuale a specialista, a tecnico privo di competenza quanto alle questioni prime e fondamentali. Se è narratore narri, se è poeta poetizzi, insomma se è artista esteticizzi la realtà detta dallo specialista delle cose generali, la politica, il Partito.
Lukács nel 1945, nella temperie psicologica delle grandi speranze dopo la vittoria antifascista e al momento del ritorno a casa, in Ungheria, dove si poteva e doveva cominciare un discorso concreto nuovo richiamandosi alle tradizioni autoctone anche letterarie del paese, non esita ad accogliere in pieno il concetto di poeta di partito.
Il saggio Poesia di partito venne scritto, nel 1945, in connessione con una iniziativa del Partito comunista ungherese per celebrare il poeta Attila József, morto suicida nel 1936. Attila József, che viveva a Budapest, già non ben visto a causa del suo modo di affrontare i propri problemi (si sottoponeva a cure psicoanalitiche), era stato per le sue opinioni eccessivamente aperte (aveva proposto – in anticipo sulle decisioni ufficiali – l’unità con i socialdemocratici) dapprima durissimamente attaccato sugli organi del partito pubblicati a Mosca e poi «abbandonato», vale a dire – nelle condizioni di semiclandestinità politica – espulso. (Per una ricostruzione del pensiero anche politico di questa importante figura della storia culturale ungherese, vedi Attila József, La coscienza del poeta, a cura di Beatrix Töttössy, Lucarini, Roma, 1988.) Ora, nel 1945, in vista di una azione unitaria con i socialdemocratici, che portò poi effettivamente alla unificazione dei due partiti, e nel proposito di avviarsi a una ricostruzione del paese fondata su una viva tradizione culturale nazionale, il partito comunista cercava di chiudere il «caso József». Ed è in tale contesto che Lukács interviene per proporre la sua visione antistalinista del rapporto fra intellettuali e partito con il saggio Poesia di partito (vedi Marxismo e politica culturale, pp. 43 sgg.).
Una volta però accolto il pericoloso principio, egli lo spinge a significare altro da quel che lo ždanovismo pretende. Il «vero poeta» di partito, dice, si riconosce soltanto nella «missione storica» del partito, se si vuole si riconosce al massimo nella «grande linea strategica definita dal partito», ma niente di più, perché il poeta interpreta da sé i contenuti concreti di quella missione storica e di quella linea strategica, accollando a sé, alla sua opera, ogni responsabilità per tale autonoma interpretazione.
Insomma, nella grande battaglia storica per l’affermazione del socialismo (e vedremo che cosa significa socialismo, secondo Lukács), il poeta, l’intellettuale, persino quello che si vuole «di partito», non è né un ufficiale né un soldato semplice dell’esercito che la sta combattendo, è «un partigiano». E in quanto tale non solo non è, non può essere, legato nella sua azione – pena il naufragio proprio come poeta, come artista – da gerarchie e discipline organizzative (tanto più che, a suo avviso, «la disciplina di partito è… un grado superiore, astratto, di fedeltà», è una semplice «relazione ideologica verso una tendenza storicamente data»), ma – quel che è più importante – l’artista (leopardianamente filosofo, diremmo noi) si lascia guidare soltanto dai valori e princìpi di base, in sostanza dalla propria valutazione dei caratteri del «movimento», dal proprio giudizio su un punto: se è poi vero che «il nostro movimento è espressione dell’altezza fin qui raggiunta da quella grande linea alla quale conducono tutti i movimenti del passato che aspirano alla liberazione» delle forze antropiche dell’essere umano, cosicché per converso «la fedeltà consiste nell’aderire all’essenziale anche quando i fenomeni del momento sembrano contraddirlo» (Marxismo e politica culturale, pp. 67 e 66).
Queste due ultime idee sono importanti perché ci permettono di cogliere, persino in un testo militante (ma, nella filosofia di Lukács, che cosa non è militante?), la ricerca teorica da cui deriva l’intero comportamento pratico-politico di Lukács, con le sue luci e le sue ombre e con le contraddizioni cui abbiamo accennato all’inizio. Non è questa la sede, giacché occorrerebbe un documentato studio d’impegno prevalentemente storiografico, per verificare la derivazione di ogni singolo atto dell’uomo (soprattutto politico) e dell’intellettuale da tale nucleo teorico. Possiamo invece vedere più da vicino quale fosse l’elaborazione filosofica che, dopo una svolta avvenuta nel suo pensiero agli inizi degli anni Trenta e definita «ontologica», rende la riflessione dell’ultimo Lukács assolutamente originale, ma soprattutto – almeno a parere di chi scrive – utile per decifrare le forze in campo nell’epoca presente della storia del mondo, dove quindi il crollo del socialismo reale appare solo come l’esaurirsi storico d’un fenomeno saliente d’un’epoca passata.

È forse opportuno ricordare qui che nel percorso intellettuale di Lukács sono riscontrabili dei periodi. Tuttavia, quanto alla periodizzazione che ha avuto corso per qualche tempo (secondo cui si sarebbe avuto un Lukács giovanile marxista messianico, di sinistra, ispiratore con Storia e coscienza di classe [1918-1923] del cosiddetto «marxismo occidentale» [Karl Korsch, Ernst Bloch, Walter Benjamin, Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Herbert Marcuse, ecc.], quindi un Lukács maturo, marxista-leninista ortodosso, culminante nell’opera «stalinista» La distruzione della ragione, e infine un vecchio Lukács, notevole unicamente per la grande Estetica, lavoro però sostanzialmente accademico), pur volendo prescindere dalla incongruità di vedervi considerati «giovanili» scritti di un autore che nel 1923 aveva 38 anni e dietro le spalle una notorietà già europea per opere come, ad esempio, L’anima e le forme e Teoria del romanzo (che sono poi le elaborazioni cui si riferirà Adorno quando accuserà Lukács di aver ceduto al compromesso, alla hegeliana «conciliazione», con la realtà dello stalinismo) non si può non osservare che in essa va perduta la continuità della ricerca del filosofo ungherese: nella sua riflessione infatti è chiaramentevisibile un tema, l’azione dell’uomo nel mondo (le sue possibilità, le sue condizioni, la sua efficacia, le sue norme), che la percorre come un filo rosso dai primi inizi fino ai tre volumi (nella edizione italiana) della Ontologia dell’essere sociale scritti nel corso degli anni Sessanta (cui deve aggiungersi il volume di sintesi e assestamento espositivo dei Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale cui mise mano nell’autunno del 1970) appunto in previsione di una Etica, di una teoria dell’azione umana, cui non ebbe più il tempo di lavorare.
Il punto di partenza della filosofia di Lukács quale risulta dalle sue opere degli anni Sessanta è l’analisi delle possibilità attuali dell’uomo. La spia di questo forte legame con il presente lo abbiamo già nel frontespizio dell’ultima opera compiuta lasciataci dal filosofo, il cui sottotitolo suona: «Questioni di principio di un’ontologia oggi divenuta possibile» (Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, Guerini, Milano, 1990). Di fronte a questa indicazione chi legge non può non domandarsi: perché soltanto oggi è divenuta possibile tale ontologia? E prima ancora: che cosa è propriamente l’ontologia divenuta possibile soltanto oggi?
Naturalmente non sarà l’ontologia di cui parlano tutti i dizionari filosofici e che è uno dei nomi della metafisica, la sovrastorica scienza delle categorie ossia dei caratteri fissi e immutabili dell’essere. Questa ontologia lukacciana è esattamente il contrario di quella precedente oppure – ma, a parte la curvatura polemica che vi si aggiunge, la sostanza non cambia – è quella stessa del passato che ora, comprendiamo, possiede in realtà un’altra natura: era, ma non lo sapevamo, ed è la mutevole scienza della storicità universale dell’essere, vale a dire la scienza della storicità delle categorie (che diventano così le forme esistenziali, storiche, dell’essere). Ed è questo il punto, questa la novità concettuale oggi divenuta possibile: che l’essere esiste soltanto nella sua processualità storica. Non interessa qui precisare il quadro metodologico di tale ontologia, importante è invece rispondere alla prima domanda: perché solo oggi possiamo proporre un discorso filosofico generalizzato sull’essere come processo storico? La risposta di Lukács è che solo oggi esiste, è venuto in essere il soggetto che nella sua prassi (non si dà soggetto senza prassi né prassi senza soggetto), nella sua azione esige e quindi rende possibile una concezione radicalmente storica dell’essere.
La prassi contemporanea, infatti, quella tecnico-scientifica ad esempio, richiede una concezione storica della natura. Quanto alla natura umana, non soltanto i suoi momenti di manifestazione nella vita dell’individuo (per esempio, la nutrizione e il sesso), essendosi nel tempo socializzati, culturalizzati (sotto forma di cucina e di erotismo) e quindi modificati, devono essere concepiti come, appunto, fatti di natura processuale, storica fin dall’origine. Oggi è lo stesso corpo umano che la scienza (l’ingegneria genetica ma anche la prassi medica) non può non vedere come un processo storico, capace cioè di modificarsi nelle proprie categorie, nelle proprie forme esistenziali. Quanto alla natura ambiente per l’uomo, basterà richiamare la questione dell’«effetto serra», quella dell’inquinamento atmosferico e tutta la corrente tematica ecologica, tanto per citare cose vicine alla vita dell’uomo, e avremo immediatamente la percezione di come soltanto una idea storica del pianeta Terra, che lo veda modificabile nelle sue forme di esistenza, potrà permetterci dicomprendere questi fatti e di intervenire su di essi.
Più in generale, la prassi sociale odierna è, nel suo complesso, il risultato di una lunga evoluzione, che Lukács sintetizza, sulla scorta di Marx, in tre momenti fondamentali.
1. l’aumento continuo della produttività del lavoro (in termini marxiani: la diminuzione del lavoroocialmente necessario per la riproduzione della vita degli individui) accompagnato da una forte dinamicità, quindi da una visibile crescita e modificazione, dei bisogni umani.
2. il crescente predominio del momento culturale sul momento biologico (in termini marxiani: l’arretramento delle barriere naturali) nella vita degli uomini.
3. l’integrazione dei singoli esseri umani in gruppi via via più grandi (la famiglia, la tribù, l’ordine, la classe, la nazione, ecc.) fino all’odierno formarsi di una società planetaria, che il capitalismo intende solo come mercato mondiale, ma nel cui avvento «sarebbe “economicismo” astrattizzante vedere» un fatto solo economico, sarebbe ideologia cattiva, laddove «la genesi economica del mercato mondiale» è «la possibilità ontologica della genericità sociale unificata» (Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, pp. 286, 287), è la concreta possibilità, storicamente venuta in essere per la prima volta, di pervenire a un genere umano culturalmente unitario, vale a dire che si consideri uno, pur nelle infinite differenze individuali e di gruppo.
Il soggetto storico della prassi contemporanea è, può essere, per l’appunto il genere umano tutto intero, non più suddiviso in razze o classi o nazioni ciascuna delle quali consideri l’altra come estranea. A questo punto della storia si sono create le condizioni «ontologiche» perché l’uomo attui tutte le possibilità apertesi al suo comparire nel mondo dell’essere, quando si compì il «salto» dall’essere naturale organico, soltanto biologico, all’essere germinalmente sociale, ormai umano.
«Ecco la più profonda verità del marxismo», dice Lukács nel suo testo estremo, indicando con precisione la propria innovativa interpretazione del pensiero di Marx: «il divenir-uomo dell’uomo come contenuto del processo storico, che si realizza – assai variamente – in ogni singolo corso di vita umana. Così ogni singolo uomo – non importa con quanta consapevolezza – è fattore attivo nel processo complessivo, di cui è al contempo prodotto». E poco sopra aveva spiegato che il «grande problema dell’epoca» è l’individuo, l’«individualità come conseguenza della relazione sempre più puramente sociale del singolo con la società» (Pensiero vissuto, pp. 225-226). Questo viene a dire che oggi in ogni singolo corso di vita umana può realizzarsi la nuova soggettività storica, il genere umano tutto intero, e che dunque oggi il terreno di lotta tra sfruttamento ed emancipazione, tra conservazione e progresso, tra dominio e liberazione è formato da ogni singolo corso di vita umana: la lotta economica e politica, quella che nell’epoca precedente era unicamente definibile come lotta di classe, si veste di panni etici e sviluppa contenuti nuovi o che erano rimasti in subordine.
L’epoca precedente dunque era quella centrata sulla estorsione del plusvalore assoluto da parte del capitalista nei confronti del lavoratore, vale a dire sulla massima lunghezza possibile della giornata lavorativa, situazione economica frantumata cui i lavoratori potevano e dovevano contrapporre l’autonoma unità politica delle proprie forze per rivoluzionare un sistema che, se lasciato a se stesso, avrebbe semplicemente perpetuato quella situazione economica. (Va da sé che questa è soltanto la descrizione sistematica, mentre la descrizione storica sarà assai più fluida e contraddittoria e intrecciata.) L’epoca attuale invece tende a presentarsi come una lotta etica.
Le nostre parole sembrano richiamare immagini potenti di drammatica religiosità: l’angelo del bene e quello del male si disputano l’anima dell’uomo. In verità nell’analisi lukacciana il movimento va nel senso esattamente opposto: è la singola persona che può scegliersi come «persona particolare» (il particulare guicciardiniano) oppure come «personalità» (o «individualità», secondo l’alternante terminologia usata da Lukács), è lei che può decidere di svuotarsi e soccombere alla manipolazione oppure di alimentarsi di genericità (di senso del genere umano, di universalità). Così si tratta piuttosto di uno scontro estremamente complesso fra individui che tentano di salire all’altezza dell’epoca, cioè della genericità, e sistemi manipolativi che tentano di mantenerli o ricondurli alla immediatezza della loro particularità di singoli.
La battaglia si colloca su vari piani. Per esempio, «sia i metodi, tratti dalla manipolazione del mercato, del capitalismo odierno, sia le pianificazioni e le decisioni tattiche rozzamente manipolatorie degli eredi spirituali dei metodi staliniani hanno egualmente acquisito l’abitudine mentale di interpretare uno sviluppo ontologico come un processo di cui si possa determinare contenuto, indirizzo e così via, a detta loro senza errore, mediante estrapolazioni “correttamente” impiegate» (Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, p. 16). L’assenza – per così dire – di spirito ontologico accomuna cioè le due culture, quella della manipolazione rozza staliniana e quella della manipolazione raffinata capitalistica, anche ai livelli più apparentemente anodini dei calcoli statistici e matematici, e anche in questo caso l’effetto oggettivo sarà di spingere gli individui a proporsi come particulari.
L’epoca passata, il moderno, – ci sembra di poter interpretare così, conclusivamente, la sostanza del pensiero di Lukács consegnatoci nelle opere ontologiche degli anni Sessanta, – ha portato a compimento un processo storico (che Marx aveva chiamato «la preistoria dell’umanità» terminata appunto con il moderno), producendo i dati costitutivi, iniziali, di un nuovo processo, di una nuova epoca («la vera storia dell’umanità»), il cui contenuto sarà la lotta della individualità universale per affermare la propria etica, l’etica del genere umano, dove nessun diverso (lo schiavo, il barbaro, lo straniero, la donna, ecc.) può essere sentito come estraneo, contro ogni sistema manipolatorio. La forma politica di questa epoca e di questa lotta sarà la «democrazia della vita quotidiana» (il corsivo è di Lukács in Pensiero vissuto, p. 225, ma per tutta la tematica della democrazia quotidiana come critica sia dei limiti della democrazia formale cosiddetta «borghese», sia soprattutto del sistema sovietico, vedi G. Lukács, L’uomo e la democrazia, Lucarini, Roma, 1987).
Ed è qui, dopo aver chiarito – per quanto abbiamo saputo – di dove proveniva la critica di Lukács al socialismo reale, quale ne era il nerbo, possiamo non sorprenderci della consonanza con la posizione, indicata all’inizio, di Venedikt Erofeev. Quest’ultimo in modi e con mezzi che forse non sarebbero piaciuti a Lukács ha detto quello che ha visto, che era poi quanto denunciato dal filosofo con un atteggiamento meno disinvolto e maggiormente improntato alla responsabilità dell’intellettuale da lui sempre rivendicata: il fallimento culturale, prima ancora che economico, di un sistema che – sorto esplicitamente per fondare un nuovo umanesimo – non lo ha potuto fare, in quanto restava all’interno dell’orizzonte preistorico, e non si era in fondo nemmeno posto il tema di creare nella realtà le condizioni materiali e spirituali per il costituirsi della «individualità». L’accusa più penetrante mossa da Lukács ai dirigenti della Terza Internazionale, agli uomini che impostarono la costruzione del nuovo sistema (Stalin e i suoi rivali, li definisce, per indicarne l’omogeneità reciproca), è di aver voluto intendere il socialismo come un problema solo economico, non distinguendosi in questo dai loro avversari socialdemocratici della Seconda Internazionale e, quel ch’è peggio, non uscendo dall’orizzonte del capitalismo, il quale, come Marx aveva tratto dalle sue analisi, è un sistema che tende ad affidare il proprio funzionamento alle sole leggi dell’economia.
Lenin si salva a stento da questa critica e solo perché mantenne fermo il carattere sperimentale della costruzione avviata, la cui realizzazione dipendeva, nel suo pensiero, dalla partecipazione di tutti. «Oggi» tuttavia «interessa solo in seconda istanza vedere se e fino a quale punto i progetti di Lenin fossero praticamente realizzabili» (L’uomo e la democrazia, p. 64), conta solamente che egli morì senza potervi porre mano e che l’impresa venne compiuta da Stalin e dai suoi rivali.
Il che ha prodotto un fallimento che Lukács negli ultimi anni della sua vita riscontrò, cui, troppo umano, non volle credere interamente, ma cui ritenne si potesse dare «una risposta corretta» solo a partire «dalla rinascita del marxismo, il contenuto della quale in ultima analisi non è altro che il socialismo in quanto unità teorico-pratica dell’integrazione economica con la vera genericità oramai realizzabile» (Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, p. 290).
Era in verità qualcosa di più della pretesa di un cocciuto ottimista, era una apertura anti-ideologica con cui la risposta del filosofo si collocava all’altezza della storia del mondo. A tale altezza, non sarà forse del tutto improprio, tanto per finire questa riflessione così come è cominciata, citare un poeta, nonostante la sua lontanza dalle posizioni politiche di Lukács. Eugenio Montale ha detto un giorno: «Se vogliamo salvare il mondo, bisogna tuttavia salvare anche cose non assolutamente necessarie come la poesia. L’uomo economico da solo non potrà sopravvivere» (intervista ad Achille Millo, in Mercurio, 23 giugno 1990).

Testamento Politico

18 venerdì Lug 2014

Posted by György Lukács in I testi

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di György Lukács

(traduzione di Antonino Infranca e revisioni da parte di questo sito sulla base della traduzione francese: «Georges Lukács. Testament politique», Cités, 2009/3 n° 39, p. 113-149).

Il testo originale in ungherese è apparso in Társadalmi Szemle (Quaderni Sociali), n°. 4, 1990, pp. 63-89 con l’aggiunta di alcune appendici che qui sono state soppresse.


Osservazioni dell’intervistatore

Alla fine del 1970, György Aczél1 ha chiesto a György Lukács di riassumere per la direzione del Partito quelle prospettive che considerasse tanto importanti da essere tenute in conto nella definizione della linea politica del Partito. Lukács era già gravemente ammalato, entrambi lo sapevano. Si misero d’accordo che Lukács esponesse le sue idee in una intervista. L’intervista mi fu affidata, per cui Miklós Nagy, allora responsabile del settore culturale del Comitato Centrale del Partito, mi prestò un registratore. Insieme con Ferenc Jánossy2, Mária Holló e Katalin Szigeti abbiamo analizzato il questionario per decidere ciò che poteva interessare la direzione del Partito e quello che poteva essere importante per Lukács. Questi accettò i temi; tuttavia nel corso dell’intervista, il questionario andò modificandosi significativamente.

L’intervista fu realizzata nel 1971, tra il 5 e il 15 gennaio. Dopo alcune domande abbiamo conversato con il registratore spento riguardo a ciò che Lukács intendeva dire; è per questo che né nel testo né nella registrazione appaiono domande.

Il 20 e il 28 gennaio Lukács rivide e accettò il testo. Il nastro e la versione finale furono consegnate a Miklós Nagy; il testo (o la copia) furono consegnati dal Comitato Centrale del Partito all’Archivio Lukács, il nastro deve essere in qualche posto del Comitato Centrale del Partito.

Ferenc Brody


Intervista per il Partito

Se devo esprimere la mia opinione riguardo a quanto accaduto prima, durante e dopo il X Congresso [del Partito Operaio Socialista Ungherese], posso semplicemente asserire che, se bastasse porsi sul piano del puro desiderio, allora si potrebbe dire che sono al cento per cento d’accordo su tutto. Mi sembra invece che molte cose sono pensate come se fossero reali, ma restano per noi solo un desiderio lontano.

Questo ha a che vedere principalmente con tutte le questioni relative alla democratizzazione. In realtà formalmente c’è una certa democratizzazione, ma non dimentichiamo che questo aspetto è presente in ogni dittatura; formalmente nell’era di Rákosi3 eleggevamo “liberamente” un deputato (e dico “liberamente” tra virgolette), come avviene adesso. E posso giudicare ciò a partire dal mio atteggiamento di allora: consideravo una questione importante il fatto che le percentuali elettorali registrassero il maggior numero possibile di votanti, quindi partecipai a tutte le votazioni, consegnando la mia scheda; ma devo ammettere che, in 25 anni, neanche una volta ho prestato attenzione al nome che compariva nella scheda. Credo che questo, in qualche modo, sia una fotografia di quanto fosse democratico il sistema di votazione: non è affatto democratico il fatto che a me non importasse assolutamente chi mi rappresenti alla Camera dei Deputati. Debbo ammettere che avevo la stessa sensazione anche durante il governo di István Tisza4.

Il numero dei candidati significa maggiore democrazia soltanto quando il candidato ha un certo rapporto con chi rappresenterà. Fino a quando gli elettori non avranno il minimo rapporto con essi, non avrà alcuna importanza chi siano i candidati; così, la situazione non è migliore che nell’elezione presidenziale nordamericana: anche qui si tratta di due candidati. I due candidati in sé non sono assolutamente garanzia di democrazia; la democrazia c’è soltanto quando vi è un certo rapporto tra il candidato e il suo collegio, il che significa non dico che il candidato debba occuparsi dall’inizio alla fine di tutti i problemi del suo collegio, ma che sulle grandi questioni del paese deve sapere qual è il sentimento, non del paese, ma del suo collegio, perché solo così potrà essere intermediario tra le questioni nazionali e quelle del suo collegio.

Visto che considero questa forma di democratizzazione puramente formale, è molto probabile che ci sia molta gente che parli di questo o quel candidato, senza che abbia pensato realmente alla possibilità di una scelta. Questa situazione ci riporta ai problemi della vera democrazia. Si riferisce al fatto che in quegli argomenti che non implicano temi di importanza nazionale, si genera o meno una discussione interminabile. Sappiamo molto bene che anche su temi letterari c’è una posizione ufficiale; suole accadere che, in alcuni casi, la prima critica non esprima la posizione ufficiale; questa è rapidamente corretta dal Népszabadság5, riproponendo la posizione ufficiale; si pensi alla questione del romanzo di Konrád6, la quale effettivamente non era una questione di importanza nazionale che potesse provocare un conflitto internazionale, perché a chi importerebbe se elogiamo o meno il romanzo di Konrád, e tuttavia, la correzione, rivestita di una veste democratica e rapidamente orientata, si è verificata pochissimo tempo dopo.

Insomma, nego che qui in Ungheria si possa parlare di una democrazia realizzata. Non dubito in alcun modo che il compagno Kádár e molti altri compagni della direzione vogliano realmente la democrazia. Se essi dicessero: “Vogliamo una democrazia, aiutaci alla sua realizzazione”, li aiuterei con piacere. Se mi dicono: “Abbiamo raggiunto la democrazia”, allora mi rilasso sulla mia poltrona, e dico: “Mi piacerebbe vederla”.

Considero come questione determinante la questione sindacale – e mi riferirò all’ultima crisi polacca. Non immagino – perché sarebbe un visione ideale, molto lontana dalla realtà – che gli operai decidano qualcosa dentro il sindacato, e che la direzione si veda obbligata a realizzarla contro la propria volontà: credo che ciò non sia neanche immaginabile nella tanto idealizzata Ungheria. È così che sorge un atteggiamento apatico tra gli operai delle fabbriche. Questa apatia si paleserebbe se gli operai potessero esprimere le loro opinioni sull’inutilità di prendere parte alle riunioni e sull’inutilità della stessa partecipazione, visto che tutto ciò che accade lo decide la burocrazia. Questa è la sensazione che gli operai hanno oggi. Ora, si potrebbe dire che questa situazione non è democratica, ma è molto comoda e permette l’esistenza di uno Stato facilmente manovrabile e orientabile. Il problema è che si può guidare realmente gli operai, solo se realmente si ha la capacità di dirigerli, intendendo dire con ciò che siamo in grado di interpretare i loro bisogni; se questi bisogni sono appropriati, li aiuteremo a realizzarli, se non lo sono, allora dobbiamo discutere con gli operai, cercando di ottenere il loro sostegno a favore di una posizione giusta. Ma in nessun caso va bene ciò che avviene attualmente.

Mi piacerebbe parlare di quanto sia pericoloso tutto ciò. I vecchi movimenti sindacali si caratterizzavano anche perché gli operai stessi decidevano la loro politica economica – in accordo con il Partito e col sindacato – e il numero di scioperi spontanei era molto basso. Gli scioperi spontanei non erano frequenti nelle zone considerate più “radicali”, bensì laddove la burocrazia sindacale, già nel periodo capitalistico, dirigeva gli operai; e se sorgeva una situazione che si considerava insopportabile per gli operai e se non c’era nessuno che fosse in grado di interpretare questa situazione insopportabile, allora nasceva il cosiddetto sciopero spontaneo. Secondo la mia opinione, ciò che è accaduto in Polonia7 è stato un tipico sciopero spontaneo. È francamente ridicolo che adesso chiamino hooligans i normali operai in sciopero; essi sono tanto poco hooligans come qualsiasi altro operaio; semplicemente hanno perso la pazienza.

Si potrebbe analizzare – e senza nessun dubbio si tratta di qualcosa che deve essere analizzato – il ruolo della burocrazia in ciò che è accaduto in Polonia, dove in una forma inaudita e maldestra si voleva imporre un aumento impositivo proprio nel periodo natalizio. So molto bene che il nostro governo è in ciò molto abile; qui qualcosa di simile non accadrà mai. Ma non si può sostenere che non potrebbe essere adottata qualche misura di fronte alla quale gli operai potrebbero esplodere con uno sciopero spontaneo, perché le proposte del sindacato non sono veramente connesse con la vita degli operai – questo può accadere in qualsiasi momento, da noi e in qualsiasi democrazia popolare.

Non considero gli scioperi spontanei un fenomeno a sé, bensì collegato alla mancanza di democrazia sindacale; li considero come il lato estremo. Per questo vedo un pericolo singolare – come ho detto in varie occasioni – nello sviluppo del nostro sindacato secondo una linea “trotzkista”, intendendo con questo che vedo il sindacato come una specie di apparato esecutivo statale o parastatale. Se dico trotzkismo, mi riferisco al fatto che in tempi di realizzazione della Nuova Politica Economica, in un congresso del partito russo ci fu un confronto teorico tra Trotzky e Lenin. Trotzky sosteneva la posizione secondo la quale i sindacati, come associazioni di massa, avevano la funzione di appoggiare la politica economica del governo nello sviluppo dell’industria. La posizione di Lenin – naturalmente non sto citando testualmente, ma soltanto a memoria – era che una delle responsabilità dei sindacati consisteva nel fatto che, come associazioni di massa indipendenti dovevano difendere gli operai, se necessario, di fronte all’azione del governo socialista, il quale, secondo Lenin, ha molteplici vizi burocratici. Credo che sia chiaro che qui si tratta di due punti di vista completamente divergenti.

Naturalmente Lenin non pensava affatto che non dovesse esserci un rapporto tra la politica sindacale e la politica economica del governo, ma è importante il fatto che abbia rilevato il punto essenziale – la difesa degli operai: il dovere del governo è convincere gli operai che una politica è corretta e che è adottata per il loro bene; cioè, nel contrasto Lenin-Trotzky, la statalizzazione burocratica diretta dall’alto si confronta con l’esigenza della democrazia sindacale.

Il significato di tutto ciò sta nel fatto che qui si trova la possibilità che sorga, nella vita quotidiana, un rapporto concreto e permanente tra il governo – governo socialista – e la classe operaia; perché se questo rapporto è importante e se le questioni economiche che competono alla vita operaia realmente si discutono nel sindacato, allora il governo avrà una nozione reale di come reagiscono le masse operaie davanti ai suoi provvedimenti. È del tutto prevedibile che vi siano certe situazioni – non solo in guerra – nelle quali il governo deve dire agli operai ciò che devono fare, che piaccia loro o meno. Per citare un esempio: quando nell’estate scorsa abbiamo avuto delle inondazioni, un gran quantità di lavoro extra toccò agli operai. È interessante sapere che la classe operaia ha compreso che assolvere questo compito era necessario. Se ciò fosse stato tema di una discussione sindacale, sicuramente sarebbe stato dibattuto con profitto. Qui la soluzione non è che l’operaio avverta che alcune volte il governo emetta decreti giusti e altre volte ingiusti; e in ogni caso io come operaio devo ubbidire senza potermi opporre. Le opinioni, le discussioni, quelle forme di persuasione che appaiono nelle questioni discusse di fatto dentro il sindacato, sono quelle che rendono vero il rapporto tra il partito e il governo, da un lato, e la classe operaia, dall’altro.

Il fatto che il nostro movimento sindacale si sia sviluppato sulla linea trotzkista, portata avanti da Stalin, e che ancora non si parli di una sua seria riforma, ci ponga di fronte a un desideratum. Sulla stampa si tratta il tema come se avessimo riformato poco tempo fa i sindacati. La realtà è che non abbiamo compiuto neanche un passo verso la riforma dei sindacati; qui viene alla luce un punto che considero singolarmente pericoloso nello sviluppo ungherese e in quello delle democrazie popolari, ed è il fatto che è venuto meno quel rapporto quotidiano e di mutua comprensione che era possibile tra il Partito, il governo e la classe operaia. La fine di questo rapporto non può essere compensato da nient’altro. Tale fine si presenta sotto due forme. La prima è quella nella quale gli operai compiono tutto ciò che viene loro ordinato, ma stringendo i denti e senza coinvolgimento reale; d’altro lato c’è la linea degli scioperi spontanei. Credo – non è ciò che desidero, ma è una prospettiva possibile – che non esiste una democrazia popolare dove non possano accadere tutti i giorni avvenimenti come quelli di Danzica. Il fatto che l’abilità tattica della nostra democrazia popolare, in generale, sia superiore a quella dei polacchi, significa soltanto che rivolte come quelle scoppieranno meno frequentemente, e forse non si arriverà neppure a una esplosione così seria; ma il problema continua ad essere attuale, e considero che questo è uno dei più grandi compiti che la società debba affrontare, sapendo dunque vedere quali questioni debbano essere risolte e quali lo siano già state.

Se ci adattiamo a ricerche sociologiche e a censimenti per lo studio della situazione e dell’animo della classe operaia, ciò significa che possiamo convincere i referenti accademici della nostra verità, solo che non sono i referenti accademici, bensì gli spazzini quelli che puliscono le strade, e la questione essenziale è che dovremmo convincere gli spazzini della nostra verità. Adesso, se teniamo quindici riunioni accademiche e aggiungiamo cinque uomini in più all’Accademia per ampliare l’apparato scientifico, con ciò non cambieranno le cose. Non disprezzo l’importanza di questi censimenti sociologici; anzi, li considero chiarificatori e significativi, nel senso che quanto migliore sia ciascuna delle parti a cui si riferisce questa questione – da un lato, il Partito e il governo, dall’altro lato, la massa operaia – quanto meglio informate siano entrambe le parti della situazione reale, tanto più facile sarà arrivare a un accordo corretto, cioè che considero queste ricerche sommamente adeguate e importanti, ma non come un supplemento della democrazia, bensì come uno strumento intellettuale per l’avvio e la realizzazione delle questioni democratiche.

Adesso per quello che si riferisce all’aspetto culturale, ci siamo abituati che nel Népszabadság c’è una sezione culturale autonoma. Io sostengo soltanto che non c’è cultura autonoma. La cultura è parte delle attività dell’uomo in società. Non ci dimentichiamo che uno dei fondamenti del marxismo è che essendo il lavoro la base della società, con ciò ne deriva un adattamento dell’uomo a ogni complesso che in una società crea un certo grado di sviluppo del lavoro. Questo è un concetto tanto generale che è applicabile in principio a qualsiasi società anche all’attuale, solo che naturalmente sotto forme molto differenti. La cultura è parte di questo sviluppo.

Non mi azzardo – non essendo uno specialista sul terreno archeologico – a sostenere, benché lo creda molto probabile, che il primo esempio di apparizione della cultura sia stato quando gli uomini fabbricarono i propri strumenti di lavoro e stabilirono i loro valori d’uso, poiché in qualche misura, che non so stabilire, raggiunsero il completo successo. Il primo uomo civilizzato fu probabilmente colui che, davanti alla fabbricazione del primo scalpello di pietra, ha sbagliato con minor frequenza e chi ha avuto minor bisogno di buttare la pietra, che aveva iniziato a scalpellare, perché aveva agito male. Lentamente maturò questa cultura nella misura in cui i valori di consumo, stabiliti mediante il lavoro, andarono aumentando d’importanza, cambiando così la qualità del disegno e della realizzazione del lavoro. Se si tratta – per esempio – della costruzione di una casa, o anche di un castello, o di qualsiasi altra cosa, c’è qui un’enorme differenza: in un modo o in un altro si realizzerà il lavoro; per dire qualcosa più semplicemente: nella coltivazione della terra si può arare in un modo o in un altro, è possibile unire i buoi in un modo o in un altro, e così via. Il fatto che esista questa possibilità alternativa nel lavoro significa l’aumento di una cultura, intendendo cultura nel senso che ogni volta possono differenziarsi meglio, con uno sguardo sempre più penetrante, i buoni risultati dai cattivi, dal punto di vista dello sviluppo del lavoro, dei prodotti del lavoro e degli operai che producono, come anche dal punto di vista degli utilizzatori dei prodotti. Di questi buoni o cattivi risultati sorgeranno, in definitiva, tutte quelle questioni che, negli sviluppi successivi, faranno nascere una cultura specifica. Ma non si deve mai dimenticare che, qualsiasi sia la ragione per la quale sorge una distribuzione del lavoro speciale, questa non è altro che un modo d’espressione della relazione sociale basata sul lavoro, dalla quale nasce la cultura. Quando diciamo che è nata una cultura militare specifica in Grecia, a Sparta, questa cultura militare non è nata dal nulla, bensì dalle relazioni di produzione spartane.

Così non dobbiamo dimenticare mai che le questioni culturali alla fine convergono sempre con i requisiti richiesti in quel momento dall’uomo per il lavoro. Se, per esempio, emerge ciò che già sorse nel XIX secolo , cioè un certo strato culturale della classe operaia che ha avuto il suo punto più basso, quando agli analfabeti risultava molto più difficile che agli alfabetizzati vivere in grandi città e lavorare nelle industrie. Credo che sia indubitabile che l’alfabetizzazione sorga dopo lo sviluppo del capitalismo e della vita nella città – che è in relazione diretta con il capitalismo. E a partire da ciò si deve giudicare ciascuna cultura per chi, in che misura e in che modo è utile e realizzabile. Non si deve dimenticare che, per esempio, quella cultura che ha ricevuto la classe operaia durante il capitalismo, è stata senza dubbio interessante per la classe capitalista, perché senza di questa non avrebbe potuto trovare, in una grande città, operai stabili. La conseguenza di ciò fu che questa classe operaia si è organizzata in forma partitica e sindacalmente e la cultura che aveva ottenuta l’ha utilizzata a proprio vantaggio.

La cultura operaia non è un concetto unico e comprensibile semanticamente. D’altro lato, la situazione descritta tratta di un passaggio dal grado di sviluppo produttivo alla vita quotidiana, perché non è casuale che la classe operaia del XVIII secolo abbia messo in atto la lotta di classe con la distruzione delle macchine, mentre la classe operaia del XIX secolo sia invece progredita con scioperi e aumenti di salario. Questo, senza dubbio, è un progresso per la cultura operaia, ma anche è innegabile che in tutti e due i casi si esprima, in una certa società e in un certo tempo, la reazione davanti alle differenti forme di lavoro.

Credo che non si debba mai dimenticare, riguardo a questa parte della cultura operaia – e questo è in relazione a una questione sommamente importante – ciò che per noi è una cattiva eredità dell’era stalinista. In realtà, il capitalismo, per molto che l’industria abbia reso equa la produzione degli operai mediante le macchine, ha dato un’enorme e innegabile importanza al fatto che qualcuno sia o meno un buon operaio, perché soltanto gli spiriti tecnocratici possono immaginare che nella testa del tecnico ci siano perfettamente tutte le macchine e gli strumenti, e che l’operaio si converta in un ente meccanico. Credo che chiunque di noi che qualche volta abbia conosciuto una fabbrica e il lavoro in essa, sappia molto bene che ciò non è così certo, che affianco alla tecnica più perfetta nell’esercizio degli operai – se non hanno un altro compito da disimpegnare rispetto al loro lavoro in fabbrica – c’è una grande distanza tra il lavoro bene e malamente realizzato.

Adesso, fin dai tempi dello stalinismo, che anteponevano rigidamente la quantità di produzione del lavoro a qualsiasi altro compito, è caduto il concetto del lavoro ben fatto, l’onore del buon lavoro è diminuito nella fabbrica da come era prima, e – formulo questa domanda dal punto di vista socialista – con ciò ci poniamo una questione particolarmente difficile. Perché dato che Marx soleva parlare molto succintamente dello sviluppo socialista futuro, ma considerava che uno dei criteri dello sviluppo socialista è che il lavoro imposto per obbligo si trasformi in bisogno vitale per l’uomo. Io mi azzardo a sostenere che soltanto il buon lavoro si può convertire in bisogno sociale – esattamente in confronto al semplice bisogno vitale economico, giacché per natura ogni lavoro realizzato dall’uomo è la manifestazione di un bisogno vitale. Ma l’uomo considera unicamente – suona paradossale ma è così – il lavoro ben fatto come parte organica del suo proprio sviluppo. Solo il buon lavoro dà all’operaio dignità, autostima, ecc.

Una volta ho conversato con un eccezionale operaio, Frigyes Karikás, durante la dittatura; e gli chiesi la sua opinione su Haubrich. Karikás fece un gesto di disprezzo con la mano e disse che Haubrich era un cattivo fabbro. Non sono sicuro che Haubrich fosse stato un fabbro, può essere che abbia avuto qualche altro mestiere, non ricordo. Ma in tutti i modi il funzionario di medio livello Frigyes Karikás giudicava il suo ministro secondo le qualità come operaio dentro la fabbrica. Questa gerarchia tra gli operai era assolutamente attuale nel 1919, l’era stalinista l’ha livellata retrospettivamente e al suo posto è arrivata la produzione quantitativa.

Analizziamo questa questione del lavoro ben fatto (intendendo che, sia nel capitalismo che nel socialismo, ci sono differenze tra un lavoro ben fatto e uno malfatto), allora se gli uomini giudicano ciò, partono dall’indifferenza attuale e non si accorgono che in qualsiasi tipo di lavoro esiste questa gerarchia. Credo che non esista un essere umano che non abbia visto un caso come quello in cui l’importante scienziato X, diciamo un eminente matematico, disprezza il decano dell’Accademia di Matematica perché è peggiore matematico di lui. Invano facciamo gerarchie, invano nominiamo decano l’uno e membro l’altro, o neppure membro; perché questo disprezzo sempre esisterà.

Ritornando ancora una volta a un ricordo della mia gioventù, conobbi Lipot Fejér8, quando non era ancora un cattedratico universitario e neanche un accademico. Era incredibile con quale profondo disprezzo parlava di Beke9, che era ordinario e accademico, perché in una questione matematica x, che era stata scoperta da Fejér, Beke non aveva percepito che in essa in realtà c’era un problema. Adesso non oserei sostenere che questa non è una semplice questione intellettuale, bensì l’effetto del lavoro ben fatto sul pensiero dell’uomo, e se questo c’è oggi solo in alcuni circoli del sapere, allora è un nostro errore che sia scomparso nella classe operaia. Ho raccontato l’aneddoto Karikás-Haubrich, per mostrare in che modo esisteva dentro la classe operaia questa questione in quell’epoca. Se noi vogliamo uno sviluppo socialista, allora ciò vuol dire che dal buon lavoro potrà nascere la nozione di lavoro come bisogno vitale.

Naturalmente affinché il lavoro sia un bisogno vitale, sono necessarie certe riforme socialiste che riducano e indeboliscano il carattere tirannico del lavoro e la conduzione tirannica della vita. In realtà, il lavoratore deve ridurre la concezione del lavoro come lavoro forzato, che deve fare per obbligo perché altrimenti morirebbe di fame. Se questo cambia nel socialismo, e questo realmente può cambiare nel socialismo, allora avrà conseguenze socialiste quando tra gli operai, dentro la fabbrica, esisterà soltanto questa gerarchia. Questa gerarchia, naturalmente sappiamo molto bene che vale perfettamente anche nell’arte e nella scienza, e anche sappiamo di scienziati e artisti di primo piano, le cui opere sono di gran lunga peggiori che quelle di altri che sono in secondo piano. Al contrario, questa tendenza si può sviluppare. Nel sistema attuale, c’è tra gli operai una certa realizzazione meccanica del lavoro, un certo adattamento all’apparato burocratico, che dà come risultato che un operaio abbia un miglior salario che un altro.

Non dico che oggi ciò si possa evitare, ma considero un’illusione che questo possa presto o mai condurre alla trasformazione del lavoro in lavoro socialista. Così come noi ci vediamo obbligati, per non aver chiuso con l’era stalinista, a rinforzare certe tendenze nella vita quotidiana degli operai, che non portano al socialismo e che esistevano anche nel capitalismo; perché il fatto che uno abbia un automobile e l’altro no e così via, porta senza alcun dubbio a instaurare una certa gerarchia. Posso soltanto affermare che questa gerarchia non porterà mai a una gerarchia socialista, perché questa è una chiara valorizzazione esterna dell’uomo, e il criterio del socialismo è che il lavoro si converta in un bisogno vitale, ma in questo quadro questa prospettiva non si può sviluppare. È necessario che si ponga in rilievo il lavoro ben fatto e che la situazione dell’operaio nell’industria dipenda dalla bontà del lavoro che compie, perché solo dal buon lavoro potrà sorgere la dignità dell’uomo, che possiamo percepire in innumerevoli scienziati e scrittori. Considero che il lavoro si trovi nella relazione più stretta con il fatto in sé, in modo che credo che questo problema, così come sorge adesso, non è soltanto un problema di produzione e consumo – perché in realtà è una questione di miglioramento della qualità –, bensì è un cambio particolarmente importante di posizione dello stesso operaio, del lavoro con risultati semplicemente quantitativi di fronte al lavoro che crea valori ben realizzato, e il lavoro ben realizzato è categoria fondamentale della vita del lavoratore.

Credo che esista la più forte relazione tra il lavoro ben realizzato e la cultura dell’operaio. Colui che realizza il suo lavoro solo in forma meccanica, torna a casa sua dopo il lavoro e non se ne preoccupa più. Colui che si accorge – e conosco numerosi lavoratori che si rendono conto di ciò – quale sia il difetto di quella macchina e quale la sua perfezione, può molto facilmente cominciare a interessarsi di meccanica e così via; l’interesse degli operai è segnato dal loro lavoro, alla fine si accorgono che le loro conoscenze sono deficienti e ho conosciuto numerosi lavoratori dei vecchi tempi che, attraverso questa strada, sono divenuti uomini capaci. Alcuni in un modo, altri in un altro; alcuni hanno sviluppato la parte tecnica, altri la parte matematica, e altri la parte economica; ma è possibile soltanto sviluppare e svilupparsi a partire da un buon lavoro, perché entrano in rapporto i differenti fenomeni e da lì si stacca nettamente la cultura del lavoro e il circolo di interessi che trascende la classe operaia – pensiamo soltanto a partire da un tipo di operaio come Bebel10 per capire quanto lontano si possa arrivare.

Non è certo che qui ci sia una dualità: da un lato, Bebel è un operaio che realizza il suo lavoro in forma meccanica e, dall’altro, c’è un uomo che pensa ai problemi sociali. Colui che analizzi la biografia di chiunque di questi uomini sensibili potrà vedere che c’è una transizione tra queste cose, nella misura in cui – e credo che si possa dimostrare che anche lo stesso accade nel terreno intellettuale –  un lavoratore capace può passare dal suo proprio terreno, correttamente e adeguatamente, a terreni più generali; questo succede sempre nella misura in cui realizzi bene il proprio lavoro. Un buon storico troverà più rapidamente una vera filosofia della storia che un cattivo storico. Con ciò non sostengo che non ci siano storici ignoranti che scrivano lavori sulla filosofia della storia; oggi tutto è possibile.

Se prendiamo la cultura in generale, allora, c’è da porre in rilievo sempre una connessione, perché senza la connessione, non c’è cultura in nessun posto. La cultura che si svincola da questo rimane sospesa in aria ed è un apprendistato di certe formalità che non hanno alcun significato. In tal modo credo che non possiamo immaginare la cultura operaia senza di ciò, e sono convinto che se qualche volta ci sarà una vera cultura operaia, avrà il suo effetto nelle più diverse discipline, dall’economia fino alla fisica, nella misura in cui sorgano problemi che possano risolversi teoricamente. Non dimentichiamoci, se pensiamo al sorgere della fisica moderna, di quanto stretta sia la stata relazione con il lavoro manuale di quell’epoca; da dove sorsero i problemi del lavoro manuale, o quelli che sorsero nelle comunicazioni, che costrinsero a una generalizzazione di maggior livello da parte degli scienziati.

Riguardo alla cultura, a livello mondiale, la situazione è che, al principio, tutte le personalità di maggior livello che sono in stretta relazione con la cultura locale – pensiamo soltanto ai canti e ai balli dei contadini – sono personalità locali. Presto si trasformano in grandi personalità locali e con lo sviluppo del capitalismo – visto che già si creano gli strumenti per mezzo della tecnologia – si convertono in personalità internazionali. Il capitalismo in sé è una tendenza internazionale e, così, naturalmente diviene internazionale la cultura che è in relazione con questa tendenza. In questo modo, appare quel processo doppio e in nessun modo contraddittorio nel quale ogni cultura cresce in un determinato terreno, con l’aiuto delle risposte date a problemi economici concreti – in ultima istanza, in relazione alla classe operaia – di una determinata epoca e un determinato paese; in opere d’arte, pitture, composizioni musicali, opere letterarie, ecc., i prodotti rivestono un certo significato internazionale, e lo stesso Goethe non parlò invano, agli inizi del XIX secolo, del sorgere di una letteratura universale.

Questa letteratura universale significa che le risposte culturali superiori date alla cultura cessano di essere questioni private di un gruppo ridotto e passano ad essere problemi comuni a tutta la società e sono giudicate da questo punto di vista, in modo che considero ridicolo che qualcuno prenda un’importante questione culturale come un affare di Stato; come se qualcuno, per esempio, dicesse che se ci poniamo in relazione positivamente o negativamente con Shakespeare dal punto di vista dello sviluppo del dramma, questo significa un’intromissione negli affari interni dell’Inghilterra. Già da tempo Shakespeare è al di là degli affari interni dell’Inghilterra, così come Tolstoj, Dostoevskij o Puskin sono al di là degli affari interni della Russia; e ogni questione che sorga dentro la cultura, oggi si convertirà soltanto in una questione realmente significativa quando sia capace di influire nello sviluppo della cultura al di là delle frontiere nazionali. Questa concezione è assurda: come se la critica della cultura fosse una questione nazionale. Le interferenze su temi nazionali esistono senza dubbio, perché se io, diciamo come austriaco, esigessi che l’Ungheria aumentasse o diminuisse il prezzo delle sigarette, allora certamente starei interferendo negli affari interni dell’Ungheria. Se come scrittore austriaco sostengo di considerare Ady11 il maggiore poeta ungherese, allora non interferirei negli affari interni dell’Ungheria.

Solgenitsyn ha effettivamente raggiunto la sua importanza nella letteratura universale da questo punto di vista. Solgenitsyn ritrae direttamente la vita russa, e critica la vita russa. Ora la situazione del socialismo in tutto il mondo, lo sviluppo dei partiti socialisti in differenti paesi, il suo potere di mobilitazione, ecc. sono questioni la cui relazione allo sviluppo russo, sorto a partire da Stalin, sarebbe ridicolo negare. Dunque se dovesse sorgere un grande scrittore che possa fare la critica di questo sistema, sarebbe qualcuno capace di farla in modo che possa scendere anche alle più piccole questioni umane, che possa dare risposte in forma indiretta alle domande di tutti gli uomini e che, sia in occidente sia nei paesi capitalistici, cerchi anche il senso della propria vita. In questo modo, Solgenistyn appartiene ancor più a quel gruppo di scrittori che nella letteratura sovietica – Gorki, Soloviev, Makarenko, ecc. solo per enumerarne i nomi disordinatamente – hanno potuto esprimere le proprie concezioni socialiste in forma tale che coloro che vivevano in paesi non socialisti sperimentassero la loro influenza nella loro vita e nella loro cultura. Solgenitsyn è uno scrittore di tal genere. E in questo senso dico che tutti hanno diritto a prendere una posizione riguardo a Solgenitsyn, secondo ciò che ritengono corretto.

Naturalmente sorge la questione se il premio Nobel possa o meno essere separato completamente dalla politica. Se prendiamo la lista dei vincitori del premio Nobel, allora osservo, cominciando con il primo vincitore del premio Nobel, Sully-Prudhomme12, che nel suo caso di mostrò chiaramente una cortesia diplomatica verso la letteratura francese. Diciamo che questa è una decisione politica al cento per cento. Se considero che Thomas Mann o Bernard Shaw hanno ricevuto il premio Nobel, indubbiamente il premio a Thomas Mann non fu determinato perché in quel momento la commissione del premio Nobel avesse una qualche forma di relazione con la Germania. A partire da ciò, la questione Solgenitsyn deve anche essere considerata da questi due punti di vista, [da quello] europeo occidentale – che vede nel caso Solgenitsyn un effetto sulla propria vita – e in parte da un punto di vista puramente letterario, come un grande sviluppo letterario che è iniziato con Gorki e Solovev e che sappiamo che si trova in un vicolo chiuso ed è completamente sterile. In Solgenitsyn si vede una grande fecondità letteraria.

Indubbiamente nel premio Nobel si trovavano i due motivi. E noi non possiamo dire nulla al riguardo; è, in definitiva, una questione della letteratura sovietica, senza che con questo si scarti la possibilità di convertire questa posizione in tema di critica. Così come fece l’uomo costantemente nella storia della letteratura dall’inizio alla fine, se Lessing criticava la tragedie classique13 e incoronava Shakespeare e i greci, anche qui ci sarebbe una politica letteraria ed è logico che sono potuto esserci e ci furono francesi che la considerarono come un’interferenza relativa alla questione nazionale francese; secondo la mia opinione, benché si tratti soltanto di letteratura, in realtà non lo è affatto. L’aggiudicazione del premio Nobel, naturalmente, abbraccia un nazionalismo che si deve interpretare in forme molto differenti.

Sorge qui come una questione molto importante il problema della persistenza dello sviluppo, e mi sono occupato di ciò tempo fa e molte volte; allora sorse sotto la forma del sapere qual è il significato della continuità nella vita dell’uomo. In molti paesi, soprattutto nei paesi conservatori come l’Ungheria, sorge facilmente un concetto del genere, come se il mantenimento della continuità fosse simile al mantenimento dell’essenza nazionale. Se ricordiamo le ideologie successive al 1967, vediamo, in una parola, che l’antica Ungheria – intendendo con questo le oligarchie provinciali, il fidecommesso dei latifondi, i benefici della Chiesa, ecc. – non può tagliare i rapporti con l’Ungheria feudale senza tagliare i rapporti con la propria cultura. È noto che la continuità non è una posizione generale e credo che tutti sappiano che né Csokonai14, né Petöfi15, né Ady, né Bartok16 avevano questa posizione.

D’altro lato, sappiamo anche che uomini eccezionali avevano questa posizione, perché non dimentichiamoci che, quando Babits17 si pose contro il fascismo, per esprimere quella posizione scrisse un articolo nel quale sosteneva che non hanno nulla a che fare la questione nazionale e il mantenimento della questione nazionale; questa è una vecchia tradizione ungherese che si confronta con quei falsi concetti che vogliono spiegare l’uomo a partire dalla sua origine o del luogo che occupa nella produzione. Con ciò, Babits, quando correttamente attaccò il fascismo in gestazione, in un certo modo glorificò anche l’Ungheria successiva al 1867. A quell’ideale di sviluppo nazionale – di fronte (aggiungiamo, nel caso di Babits) a orientamenti scorretti come il fascismo e il socialismo – si riferiscono le parole di János Arany18, se mi si permette di esprimere ciò in modo un poco caricaturesco (questo l’ho citato nel mio articolo su Bartok): “Se incontro un ladro di cavalli di razza e mi infanga, non mi arrabbio, mi metto da parte e pulisco lo sporco”.

Ho il sospetto che János Arany avrebbe chiamato ladro di cavalli di razza un uomo con la coscienza di Babits, per le sue tendenze al socialismo e al fascismo.

E qui si trovano la radice di tutti i problemi dello sviluppo ungherese e un punto essenzialmente importante, ossia che a eccezione di pochi uomini rilevanti, non è esistita una vera opposizione contro l’Ungheria feudale. Non si deve dimenticare che il latifondo feudale fu frazionato soltanto dopo il 1945. A partire da allora, in Ungheria ci sono due tradizioni e, secondo la mia opinione, non è senza ragione, per la nostra posizione socialista, che qualcuno metta insieme tutto lo sviluppo ungherese – come suole farlo, per esempio, la scuola di Sőtér19 – o che distingua in forma netta – questo bisogna dirlo pubblicamente – a tal proposito Ady e Nyugat. Perché, dato che il sufficientemente radicale Ignotus20 certamente esigeva che si riconoscesse legittimità unicamente alla letteratura del Nyugat insieme alla letteratura dominante, mentre Ady, riguardo a ciò, esigeva la totale distruzione del passato, tornando al “Eb ura fakó”21, “Ugocsa non coronat”22 e ad altre questioni, sorse così una forte opposizione, la cui influenza continua ancora oggi, perché il semplice riconoscimento di una certa gerarchia è una tradizione che si è sviluppata in Ungheria dopo il 1867.

Ora, possiamo concedere a questo una copertura socialista; possiamo dire, se siamo d’accordo, che qui Rákosi in realtà si costruì il socialismo. A questo io rispondo soltanto che Ady è stato contro István Tisza e contro tutta la sua generazione, malgrado la gente di István Tisza abbia sviluppato il capitalismo in Ungheria, perché è innegabile che la generazione di István Tisza abbia posto in atto una certa progressività capitalistica. Questo non deve confonderci su questa questione e dobbiamo avere chiaro che, se vogliamo un vero socialismo, dobbiamo fare i conti con l’eredità dell’era di Rákosi. Allo stesso modo, come István Tisza non lo salva – solevo citare una frase di un seguace di István Tisza – il fatto che non soltanto era un gentiluomo, bensì che era un gentiluomo che lavorava, egualmente riconosco il malessere attuale di molta gente. Ma non voglio pronunciarmi dettagliatamente su quanto ha a che vedere con l’eredità del feudalesimo ungherese con questo malessere, benché credo che è molto più grande di quanto si immagini.

In modo che davanti a queste domande – come ci adattiamo, come ci opponiamo, ecc. – so che molti prenderanno male le mie opinioni, ma sostengo che oggi continuano ad essere attuali le discussioni di Ady riguardo all’ubbidienza durante l’era di Tisza. Il fatto che qui, tappandoci gli occhi, non si vede la deformazione del socialismo con Rákosi e nell’era di Rákosi, bensì si continua su un cammino legittimato in maggior o minor misura, del quale non si vede che sono ancora presenti i residui del conservatorismo ungherese e che qui si tratta di una lotta che pochi tengono in conto, cioè che si pongano come modelli leader come Petöfi, Bartók, Ady. Tutto questo non è una semplice questione letteraria, bensì è anche una questione considerevolmente attuale. Tra di noi, secondo la mia opinione, c’è la continuazione di quanto ho citato prima, che István Tisza è un gentiluomo che lavora.

Rákosi si pone dentro questa tradizione e dobbiamo avere chiaro che Rákosi fece una quantità di cose che sono peggiori di tutto ciò che il socialismo ha fatto nella sua intera storia. Perché, in realtà, non dimentichiamo che, se confrontiamo i grandi processi russi con il processo Rajk23, nei grandi processi russi furono condannati ingiustamente Zinoviev, Bucharin, Radek24, ma è assolutamente indubitabile che Bucharin e Radek fossero oppositori. Al contrario, in Ungheria fecero un enorme sterminio nel movimento operaio, uccidendo alcuni che non erano neanche oppositori. Per ciò non ho il coraggio di sostenere – so che la sig. Rajk se la prenderà a male, ma non può cambiare affatto questa verità – che Rajk era un rakosiano ortodosso. Non è certo che Rajk sia stato un oppositore. Non posso assolutamente consentire che si enumerino circostanze attenuanti di alcun genere nella questione Rajk. Se neghiamo di dire che il nostro socialismo non ha nulla a che vedere con quanto è successo a Rajk, allora rompiamo al cento per cento con tutto il sistema che ci ha portato fino a qui, quindi stiamo su un terreno socialista, e se diciamo che l’esecuzione di Rajk in realtà fu parte della costruzione del socialismo, allora stiamo dicendo un’enorme bugia.

Si percepisce anche adesso ed è parte essenziale della vita ungherese che gli uomini rompano volontariamente con l’eredità dell’era Rákosi, in modo tale che nella loro totalità, a loro volta, continuino ad essere socialisti. Pensiamo all’attuale sviluppo agricolo. L’era Rákosi fu così cattiva e condusse tutto lo sviluppo agrario in un vicolo cieco, in modo tale che il governo si vide costretto – mi piacerebbe sottolineare che questo non gli è stato mai imputato – ad appoggiare anche la produzione domestica, affinché iniziasse il ciclo produttivo dell’agricoltura. Partendo da queste possibilità liberali, si iniziò lo sviluppo agrario ungherese e tuttavia non si pose in relazione con questo punto di partenza, bensì una parte della classe contadina cercò di realizzare un sistema di cooperative, il che rappresenta un passo molto più positivo e forte verso il socialismo che la realizzazione di kolkos dell’era Rákosi. Giustamente ho letto in un giornale di oggi o ieri che da qualche parte all’interno, tre cooperative di coltivazione si sono unite affinché l’allevamento di uccelli e la raccolta delle uova ottenessero una maggiore produzione mediante il lavoro congiunto. Questa è un’opposizione socialista di fronte alla kolkosizzazione socialista scorretta di Rákosi, e non ci sono affatto segnali che dimostrino una relativa approvazione della kolkosizzazione allo stile Rákosi. La mia opinione al riguardo è che la maggioranza delle azioni che Rákosi volle realizzare nel suo tempo sono tutte cose che, per le loro conseguenze e soprattutto per le loro conseguenze per gli uomini, sono di una inefficienza senza precedenti e contro tutto ciò dobbiamo lottare.

Tutti sappiamo che tra i nostri scrittori, e soprattutto tra i nostri giornalisti, ce ne sono molti che se scrivono un articolo nel quale dicono A e ricevono successivamente un minimo segnale dall’alto, rapidamente trasformano l’articolo e dicono B, sostenendo anche che A era scorretto. Nego a tutto tondo che questa sia un’eredità che merita di essere continuata. Con uomini così non si potrà mai ricostruire il socialismo. Potranno essere nominati ministri o consiglieri, o non so che altro, ma costoro realizzeranno sempre un socialismo autoritario meccanico alla maniera di Rákosi e non un vero socialismo. Io sostengo, e non voglio intervenire sulle questioni attuali, che si dovrà rinnovare tutto l’apparato, benché si dovrebbe avere una tendenza che vada togliendo di mezzo con il tempo i seguaci di Rákosi convinti, o almeno spostarli in posti dove la loro influenza sia minore, e così via; senza di ciò non si può portare l’Ungheria alla democratizzazione, sarebbe lo stesso che avessimo voluto realizzare una democratizzazione e avessimo eletto come mezzo un’oligarchia allo stile di Mikszáth25, e scelto al fanciullo Noszty26 come ministro degli interni affinché diriga la democratizzazione dell’Ungheria. Non dico che il fanciullo Noszty sia necessariamente un cattivo uomo, può essere finanche un uomo convinto, si può dire tutto su di lui, ma non che sia democratico.

Non ho paura che non ci siano uomini adeguati. Il fatto che il quadro dirigente attuale sia conformato da uomini della linea di Rákosi è qualcosa che non metto in dubbio. D’altro lato, sono pienamente convinto che in ogni ufficio, in ogni fabbrica ci sono molti impiegati giovani, ingegneri giovani che hanno uno spirito di riforma. La circostanza che non possano realizzarsi cambi in relazione alle questioni attuali, è qualcosa di cui non sono affatto convinto. Credo che si tratti nuovamente di quelle domande con le quali si risolvono le cose alla maniera conservatrice, per dirlo secondo la formula precedente: colui che lavora è un gentiluomo.

Allo stesso modo, la politica universitaria non è neanche omogenea, e la permanenza di questi schematismi del tipo Rákosi sorgono in un modo molto inadeguato. Se osserviamo seriamente la differenza tra i movimenti studenteschi capitalistici delle varie nazioni, è indubbio che nei movimenti dei paesi capitalistici, non in tutti i lati né conseguentemente, ma spesso, appare la ribellione anticapitalistica, cioè l’idea di una sollevazione contro il sistema. D’altro lato, – mi azzarderei a sostenere che con molte poche eccezioni – i nostri movimenti studenteschi protestano contro il basso livello delle università. E se il governo ungherese avesse realmente una posizione democratica, non soltanto come desiderio, bensì in una forma valida, dunque riconoscerebbe in questi studenti insoddisfatti i propri alleati nella riforma, e non interferirebbe su questo argomento per mezzo della polizia, e ciascun movimento studentesco non sarebbe seguito sempre da un interrogatorio poliziesco. (A questo riguardo alludo, tra parentesi, a questa questione umoristica: per molto che il governo ungherese mi rispetti, la polizia chiede a ciascun uomo se ha letto i miei libri, perché la polizia, la AVH27, come conseguenza di tutto questo sistema, mi considera tanto sospettabile come – per esempio – Ferenc Fehér o Ágnes Heller28. Il compagno Aczél può vedere la differenza nel fatto che il mio libro viene pubblicato e il libro di Fehér no; la AVH non fa questa distinzione).

D’altra parte, ci sono anche le tradizioni e le esperienze buone e democratiche – per esempio, quelle del 1919 e del 1945. Chiaro, non credo che adesso si possano semplicemente realizzare queste soluzioni democratiche, la cosa non funziona in questo modo. Ma è indubbio che hanno un certo ruolo orientatore e io sono convinto che ci sono molti contadini che formano parte delle cooperative e di questo lavoro di riforma, che non scrissero il libro di Ferenc Donáth29 sul periodo 1945-1948, ma che vivono e operano in questo senso. Si suole dire che tutte le vie portano a Roma; in un certo senso ogni pensiero conduce alla verità, qualunque sia il punto di partenza. Sarei soltanto contro un’estetizzazione del passato, che ci porti a sostenere che il kolkos rakosiano in realtà fosse una buona cosa e che abbia avuto uno sviluppo socialista. Il kolkos rakosiano era per un trenta per cento socialista, mentre il movimento attuale, diciamo, è per un sessanta o settanta per cento socialista. Un confronto di questo tipo non è corretto, secondo quanto credo, perché in queste nuove cooperative non si è ancora definito quale sia la vera relazione tra i membri della cooperativa e la direzione.

Considererei molto importante e interessante che la questione agraria fosse sottomessa a un’analisi scientifica – scientifica nel senso in cui è trattato il tema del periodo 1945-48 nel libro di Donáth – perché qui potrebbero essere messi in risalto i veri principi socialisti. Questo non si può risolvere alla buona, sarebbe necessaria una ricerca seria. Credo soltanto che, come conseguenza dell’adeguata politica di Kádár, continuata a partire dal 1957, stabilendo un’identificazione con il nuovo decreto di consegna di Imre Nagy30, da allora si evidenzia da noi uno sviluppo, che – in certa opposizione all’industria e anche alla politica culturale – significa in Ungheria un avvicinamento molto più legittimo verso un socialismo democratico di quanto ci sia mai stato prima.

Ignoro se ci siano molti che pongano in risalto con tanta forza che lo sviluppo ungherese stia andando nel giusto senso per quanto riguardo lo sviluppo agrario. Dico questo senza riserve, naturalmente con l’idea che ogni questione deve ancora essere analizzata scientificamente, perché non si può apprezzare veramente un movimento tanto grande soltanto a partire dalle notizie e da alcune esperienze personali. D’altro lato si crede che questo sia positivo e credo che non lo sia. A me interessa la prospettiva democratica di queste questioni, e sono del tutto convinto – e precisamente la questione agraria è molto interessante per questo – che quando questi giovani contadini tornarono al Gruppo Cooperativo Produttivo non lavorarono nel settore migliore della agricoltura domestica. Qualcuno potrebbe pensare che coloro che se ne andarono via dalla cooperativa di coltivazione di Rákosi siano fanatici di una soluzione domestica. Tuttavia questi giovani operai non volevano che ogni contadino avesse come agricoltura domestica una vacca, bensì che la cooperativa avesse un allevamento moderno di bestiame, in modo che per mezzo della vendita di carne e altri derivati, si assicurassero maggiori entrate alle cooperative di produzione. Qui si trova un aspetto spontaneamente socialista – lo dico una volta ancora: non abbiamo analizzato adeguatamente, neppure c’è una monografia seria in preparazione, che io sappia, su questa questione contadina.

Ho tentato – non so con quali risultati – di convincere Ferenc Donáth di scrivere una monografia su questo. Qui stanno quelle tendenze di sviluppo reali – perché non si può negare che ciò di cui parlo, come sviluppo agrario, è una tendenza concreta –, che dovrebbero essere studiate e sostenute, come anche divulgate a livello nazionale. Questo è ciò che in realtà considero essenziale dal punto di vista della democratizzazione. Soltanto che questo – un’altra volta siamo di fronte a un desideratum – non si può risolvere con il fatto che siccome i contadini avanzano verso una buona politica cooperativa, allora possiamo dire che anche gli operai avanzeranno verso una corretta politica cooperativa. Oggi ancora non c’è alcuna relazione tra gli uni e gli altri.

Qui ritorno alla formulazione in indicativo e a un desideratum. Il mio desideratum è che nella questione operaia avanziamo anche sul cammino corretto, come nella questione contadina. Non posso smettere di dire, e anche i temi polacchi mi aiutano in questo, che la risoluzione scorretta per la questione operaia comporta un pericolo, e il salto è nel sindacato; naturalmente penso che non soltanto nel sindacato, bensì in tutte le questioni della vita quotidiana.

Qui sorge una questione, che nuovamente trova in relazione stretta il passato stalinista e rakosiano ed è che in realtà esiste un timore che le masse si organizzino spontaneamente. L’organizzazione si può avere finora soltanto per la linea statale e ufficiale e non deve sorgere alcuna organizzazione informale degli uomini, quindi questo si prende immediatamente come frazionismo e cade sotto il sospetto della controrivoluzione. Sono convinto che la democratizzazione della vita quotidiana può accadere soltanto se tagliamo definitivamente con questo pregiudizio proveniente dall’era di Rákosi, più precisamente dall’epoca stalinista, e permettiamo alla società, all’uomo medio, che si organizzi per la realizzazione di certe questioni concrete e importanti della vita.

Per dare un esempio che illustri la questione, diciamo che c’è una strada molto importante a Budapest dove non ci sono farmacie. Non vedo perché gli abitanti di questa strada non si possano organizzare e davanti al consiglio comunale riuscire ad avere una farmacia in questa strada. Non posso vedere in nessun modo alcun pericolo, benché questo si presenti come completamente opposto all’organizzazione dell’era Rákosi. Anche oggi dicono che ogni uomo si può lamentare, scrivere una lettera al Népszabadság, ecc. Ma sappiamo molto bene che la lettera è un pezzo di carta, che in tre giorni non esiste più; al contrario, se c’è un associazione ad hoc che si presenta davanti al consiglio comunale, non lo lascia in pace, e fino a un certo punto fa pressioni, allora presto o tardi questa farmacia apparirà e sono assolutamente incapace di darmi conto di che tipo di pericolo possa accadere al consiglio.

Questo è l’altro punto, insieme a quello del sindacato, perché in realtà il contatto di questo tipo di associazioni ad hoc con le autorità è molto più proficuo e facile, e questo presto confluisce con tutto ciò che è relativo alla democrazia, perché se ci sono numerosi movimenti di questo tipo in un collegio, allora l’uomo con il tempo saprà come il candidato, o l’ambito al quale appartiene il candidato, si mette in relazione con le domande più o meno legittime del collegio. Allo stesso modo sono a favore, e lo considero essenziale, che sorga una libertà di movimento e una democrazia di questo tipo nelle questioni della vita quotidiana, perché solo così si potranno scartare le pessime conseguenze della burocratizzazione.

Si può vedere, e questo pare essere una parte della nostra linea di politica estera, che la gente di Breznev31 sotto molti aspetti si vede obbligata, per così dire, a seguire una politica meno interventista. La questione cecoslovacca fu un’altra in cui sorsero grandi temi in relazione allo Stato, qui ci sono cose assolutamente locali e di breve termine – perché non sostengo che, per esempio, gli abitanti di questa strada fondino un club, eleggano un presidente e un segretario e abbiano una sede per il club, ecc.; non si tratta di questo, bensì di vedere che si possa fare fronte a un problema collettivo specifico. Quanti edifici ci sono in cui tutti gli occupanti non siano contenti del portiere dell’edificio, perché non possono unirsi gli abitanti e perché la commissione degli inquilini ad hoc non possa chiedere che questo portiere sia cambiato. Non vedo in ciò nessun pericolo dal punto di vista della Repubblica dei Consigli o del socialismo. Fin quando il portiere non sarà sostituito, il problema rimarrà irrisolto. Qui non si tratta che sorgano organi permanenti, bensì che dal punto di vista della rappresentazione dei propri interessi, le associazioni ad hoc con uno stesso obiettivo non contano con divisioni o opposizioni, bensì che la popolazione vuole far valere i propri diritti. Questo naturalmente non significa che se gli abitanti di questo edificio lo desiderino, formando una commissione, ottengano che si destituisca il segretario del Partito del collegio; questo, naturalmente, sarebbe ridicolo. E questo neanche accadrà. Naturalmente se in un collegio c’è una maggioranza in disaccordo con un segretario del Partito, allora questo dovrebbe essere tenuto seriamente in conto.

Non voglio esprimere opinioni su questioni quotidiane. Non mi considero un politico e pertanto non ho alcun interesse, per esempio, nel vedere come si trasformano le relazioni tra i collegi e le città, perché è un tema politico. Vedo l’argomento dal punto di vista della legittimazione della democrazia, e qui considererei corretto che, invece di lavorare con masse sottomesse passivamente mediante l’eccesso di dirigismo, lavorassimo, al contrario, con masse che esprimano i propri desideri ogni volta più fortemente e con più convinzione. Forse risulto troppo ottimista, ma non credo che, se il collegio entra in un determinato movimento, l’obiettivo di quel movimento sia che gli Stati Uniti invadano l’Ungheria e pongano fine al socialismo. Non credo che i cittadini vogliano ciò, bensì vogliano certe cose concrete che adesso non posso enumerare. Sono convinto che, se chiamassimo adesso una qualsiasi casalinga, lei potrebbe enumerare cinque o dieci cose che suppone siano errate. Prendendo un esempio in relazione alla quale ho una grande speranza che lo sviluppo agricolo ci possa aiutare è quella del pane tanto cattivo a Budapest. Le panificatrici statali non possono modificare questo; sono convinto che se tre cooperative produttive delle vicinanze di Pest formassero insieme una panificatrice a Pest e facessero un buon pane, allora si potrebbe risolvere ogni questione del pane a Budapest.

Per concludere con questo tema, abbiamo appena parlato sulla questione del buon lavoro, se adesso queste cooperative produttive tentassero di sostituire le panificatrici statali di Budapest, lo potrebbero fare soltanto per mezzo del lavoro ben fatto. Solo se faranno un buon pane queste panificatrici della cooperative produttiva avrà successo. Qui si vede in che misura c’è un certo socialismo spontaneo in questo sviluppo agrario e mi piacerebbe anteporre precisamente questi due temi: da un lato vediamo chiaramente che la crisi polacca è una crisi che potenzialmente potrebbe convertirsi nella crisi di qualsiasi paese socialista non democratizzato, d’altro lato, vediamo il buon processo spontaneo che è sorto da noi e apprendiamo da questo in funzione dei processi che stiamo dirigendo.


Complemento all’intervista

Tenendo conto del passato dell’uomo, in generale dominano gli schemi epistemologici. Noi marxisti dobbiamo sapere che il lavoro e le tesi teleologiche comprese nel lavoro sono la base del pensiero di ogni uomo e di ogni cultura. Allo stesso modo si deve sapere – e questo è un fatto di principio – che la produzione degli strumenti di lavoro più primitivi è anche una risposta della società a una determinata costellazione di questioni. Non è casuale, per esempio, che il lavoro si sia sviluppato molto più nelle zone temperate che nelle zone calde, dove la natura produce tante cose da sola e gratuitamente per gli uomini, e la necessità di lavorare è molto minore. C’è sempre una determinata situazione di lavoro che propone un problema al quale l’uomo deve dare una risposta.

Sono convinto che si potrebbe interpretare tutto lo sviluppo umano con il fatto che lo sviluppo del lavoro dell’uomo fa sorgere costantemente nuove domande a cui l’uomo – come soleva dire Marx – bei Strafe des Untergangs32 deve rispondere. Da queste domande deriva il perfezionamento del lavoro, ma anche la conoscenza, così come sosteniamo che, nella arte della costruzione, il parallelismo, le linee parallele o gli angoli retti abbiano un ruolo preferenziale, questo è stato nuovamente una necessità per l’umanità e non si esclude che ogni nostra conoscenza geometrica sorga da questi problemi o per lo meno è molto probabile. Non è una supposizione probabile – come se sapessimo che l’uomo primitivo di quell’epoca già fosse membro dell’Accademia – che all’uomo primitivo fosse interessato in sé sapere cosa è un triangolo o un quadrato. Tutto questo sorge nella vita come problema e si deve risolverlo nella vita con lo sviluppo della conoscenza; cioè con lo sviluppo della cultura. Credo – in opposizione alla concezione propria dell’epoca di Cartesio, che la mente dell’uomo e, perciò, la sapienza dell’uomo sono una qualità primitiva – che la mente umana e la conoscenza umana debbono partire dal metabolismo dell’uomo con la natura – Stoffwechsel des Menschen mit der Natur33 –, da qui sorgono i problemi ai quali si deve rispondere bei Strafe des Untergangs. Per questo l’uomo, per la sua condizione sociale, è un essere capace di dare risposte – e adesso nuovamente non si deve interpretare la risposta in forma di una volgarizzazione epistemologica, perché se espongo la risposta in modo che a scuola il maestro chieda e gli alunni rispondano, allora la risposta avrà un ruolo secondario. Se espongo la risposta così come è nella realtà, se dico che la società si sviluppa, la società e lo sviluppo del lavoro formulano determinati problemi ai quali bei Strafe des Untergangs si deve rispondere, allora le risposte non supporrebbero la disistima dell’iniziativa, bensì della sua concretizzazione. L’uomo non prende l’iniziativa con la sua mente e con la sua conoscenza, bensì in relazione con la propria vita; per risolvere i suoi problemi ha una reazione concreta; reazione concreta in ungherese si dice váloszolni34.

L’uomo, intellettuale o operaio, con i suoi bisogni vitali, fa uso della propria cultura. È del tutto chiaro che in una università dove – come nella maggioranza delle università tedesche – c’è una distribuzione del lavoro assolutamente stretta, mai accadrebbe a un docente di conoscere i problemi delle cattedre vicine. Dove gli alunni formulano domande, come per esempio, domande sociologiche in letteratura, ecc. è inevitabile che il docente si occupi di queste questioni. Pertanto non credo – con molte poche eccezioni, che neanche importano – che gli uomini accedano all’ampliamento della propria cultura o a conoscenze in modo diverso da come fanno con i problemi personali. Sulla base di ciò, c’è uno sviluppo democratico nel paese che dà voce agli operai in determinate questioni produttive, quindi, senza alcun dubbio, crescerà l’interesse degli operai alle questioni tecnologiche in relazione con la produzione e alle questioni economiche. Penso che questo sia qualcosa che si intende nella misura in cui essi hano voce su una questione: alla maggioranza degli uomini piace informarsi su tale tema e con ciò stanno ampliando la loro cultura. Sono convinto che la democrazia ha la più stretta relazione con la cultura.

Mi piacerebbe aggiungere che soliamo osservare i tempi passati con un’astrazione sociologica, quando per esempio diciamo che l’era feudale non è stata un’epoca democratica. Guardando alla totalità della popolazione questo è certo e indubbio. Ma se pensiamo allo sviluppo ungherese, in una eademque nobilitas35 e teorie simili, è indubbio che dentro l’aristocrazia c’è stata una determinata democrazia; anche in Ungheria, prima della Riforma e durante la Riforma, rimaneva ancora in vigore il riconoscimento di una relativa equità di ranghi tra la piccola e la grande aristocrazia. A partire da questo non si può – dal punto di vista della cultura – vedere semplicemente la situazione di tutta la società, bensì osservare certe classi e percepire, dentro le classi, quali possibilità di sviluppo democratico ci siano. In questo senso, si deve riconoscere che, nello sviluppo dell’aristocrazia, ci sono certe tendenze democratiche che, tuttavia, sono al limite di una eademque nobilitas. Neppure è accaduto di concedere unicamente diritti democratici ai cittadini, al contrario, la piccola aristocrazia ha preteso i suoi diritti democratici rispetto alla grande aristocrazia. Credo che se guardiamo alla questione da questo punto di vista, la cultura e le conoscenze di un settore, senza alcun dubbio, aumentano o diminuiscono insieme con la democrazia. Se confrontiamo, per esempio, il livello culturale della piccola aristocrazia provinciale, nell’epoca degli Asburgo, prima dell’indipendenza dai turchi, allora è indubbio che la piccola aristocrazia provinciale era molto più colta nella Riforma, più colta che nel tempo passato, e questo è in relazione con il fatto che aveva lottato e aveva ottenuto avanzamenti democratici rispetto alla grande aristocrazia.

In  tal senso penso che – nella misura in cui l’uomo estrae la sua capacità e la sua cultura dalla sua azione nella società e dalla ripercussione sulla sua persona – è indubbio che, in generale, per lo sviluppo culturale è favorevole la strutturazione democratica della società o la sua lotta per la democrazia. Qui, naturalmente, mi piacerebbe riferirmi in generale al fatto che non si deve andare verso una sociologia meccanicistica, secondo la quale ogni democratizzazione farà diventare ogni uomo necessariamente più colto. Sappiamo molto bene che nella Riforma esistettero anche i Pató Pál36. Questo, tuttavia, non toglie che l’aristocrazia del 1848 fosse più colta che l’aristocrazia provinciale del 1780. Il punto massimo della cultura di Roma fu l’epoca delle grandi sollevazioni, dopo le guerre puniche, quando si succedevano grandi lotte per la democratizzazione, e non è improbabile che già durante l’epoca di Augusto e, soprattutto, durante l’impero, quando l’influenza democratica dei cittadini romani era nulla, si sia iniziata la straordinaria decadenza della cultura romana. Se guardiamo ciascuna classe da questo punto di vista, potremmo vedere molto chiaramente le differenze. È particolarmente chiara la relazione tra cultura e sviluppo democratico nel caso delle classi oppresse dopo una rivoluzione. Pensiamo al grande programma di Lenin nel 1917 e non ci dimentichiamo che Lenin pose la soppressione dell’analfabetismo tra i punti principali e in varie occasioni disse che la conversione della classe dei contadini alla forma delle cooperativa era possibile soltanto con la lotta contro l’analfabetismo. Lenin vedeva, a sua volta, la relazione inseparabile tra l’elevamento culturale dei contadini e l’organizzazione democratica della vita contadina.

Quanto alla possibilità che l’operaio attuale, sulla base della cultura, intervenga nel processo produttivo, credo che c’è da distinguere due temi. È assolutamente indubbio che l’operaio attuale ha molte poche possibilità di intervenire nella fabbricazione e nel disegno di un reattore nucleare, molto meno che nelle questioni produttive dei tempi del capitalismo incipiente. In questo senso, il capitalismo senza alcun dubbio ha frenato l’iniziativa lavoratrice. D’altro lato, ci sono molti anni di esperienza riguardo a quale sia lo strumento o la macchina da installare in una fabbrica, c’è una grande quantità di istanze tra il disegno e il lavoro realmente ottimo. Credo che un buon operaio riconosca più rapidamente queste istanze che un buon ingegnere. A partire da ciò, naturalmente l’operaio non può avere iniziativa per esporre le proprie opinioni su quali macchine producano le fabbriche di macchine; tuttavia, sono convinto che, sulle macchine più delicate, i buoni operai possano forse giudicare meglio che gli ingegneri certe possibilità per il loro massimo utilizzo.

Il livello di dispiegamento della capacità e dell’attività dell’operaio è qualcosa che dipende completamente da noi. Possiamo organizzare una fabbrica in modo che l’operaio non abbia nessun intervento e, per tale ragione, non gli interesserà più guadagnare dieci fiorini più o meno; diversamente, possiamo organizzare la fabbrica in altra maniera. Non nel modo che installino macchine e si chieda agli operai di dire se siano buone o no quelle macchine, perché gli operai allora non diranno nulla, bensì promuovendo uno spirito tale che ogni operaio abbia diritto a partecipare a una critica produttiva sulle macchine istallate. In questo caso sorgerà una critica operaia e se questa avrà un risultato – intendo con ciò che si arrivi a un risultato positivo e gli operai che fanno la critica siano beneficiati da determinati vantaggi – allora senza dubbi crescerà tra gli operai l’ambizione a fare questo tipo di cose.

Ma è dubbio che ciò sorga in forma spontanea. Tuttavia, queste sono situazioni che si possono risolvere con un controllo sociale. Se il sindacato realmente pratica un controllo sociale in relazione alla situazione dell’operaio dentro la fabbrica, allora il sindacato ha la possibilità di evitare che un operaio soffra svantaggi, dovuti a una critica troppo severa riguardo a una macchina. Ma, per questo abbiamo nuovamente bisogno di una democrazia sindacale, perché se sotto il sindacato attuale l’operaio soffre una diminuzione del suo salario o un richiamo, allora, naturalmente, non si presenterà alla prossima occasione.

È assolutamente necessaria la connessione tra la democrazia e questo tipo di interventi – perché è qualcosa che tutti hanno sperimentato, dato che tutti quelli che, per esempio, conoscono la scuola elementare o secondaria, possono dire che dipende in fondo dal carattere del docente se gli alunni rispondono alle sue domande o no. Se gli alunni sperimentano in un primo momento che ricevono un voto più basso quando partecipano, allora non parteciperanno; invece, se vedono che il docente dà certi vantaggi agli alunni che partecipano, allora lo faranno. Non si può dire che queste cose succedano in forma puramente spontanea, tutti quello che conoscono la scuola sanno che la personalità del maestro ha molto a che fare con questo. Semplicemente questo è il criterio che si deve tenere in conto nell’elezione dei leader. Oggi, il criterio dell’elezione è decidere quanto abilmente qualcuno, dal suo collegio, può farsi notare nella provincia; dalla provincia dirigersi verso l’alto, fino ad arrivare al livello più alto. Oggi abbiamo un’organizzazione burocratica assolutamente rigida, dove l’importante è la sottomissione esercitata al posto giusto e la critica e la partecipazione quando le autorità superiori lo decidano – perché non dimentichiamoci che se qualcosa di questo appare sulla stampa, allora si decide, in qualche modo, che tale o talaltro consigliere sia licenziato. Allora convochiamo la gente e in ultima istanza agiamo democraticamente. Riguardo alla partecipazione della gente nella presa di decisioni, sorge la domanda riguardo a quale sarà la reazione politica.

La reazione popolare non può mai essere calcolata al cento per cento. Se le cose rimangono così, allora senza dubbio si deve avere questa difficile scelta tra la rassegnazione e lo sciopero spontaneo. È molto complicato definire, in una democrazia, la rapidità con la quale la classe operaia supererà questa inattività di vari decenni per ottenere nuovamente una coscienza attiva, giacché questo dipende da due cose. Una è come si sviluppa questa attività dall’alto, l’altra, come reagisce davanti a questo la classe operaia. Seguendo le mie inclinazioni, sono ottimista riguardo a ciò, e il mio ottimismo si rafforza perché, in questo senso, la classe contadina prese una decisione intelligente. Vedo questo molto possibile nel caso degli operai, ma nuovamente si deve aggiungere: è possibile. Nessuno può sapere in anticipo come reagirà una classe di fronte a una determinata situazione. Adesso dal punto di vista internazionale, credo che, nelle democrazie popolari minori, esiste la possibilità di manovrare tra un massimo e un minimo in vista di una vera decisione. Vediamo che, in rapporto al caso dei cecoslovacchi, che succederà qualcosa soltanto se le relazioni economiche e sociali obbligheranno i compagni russi alla realizzazione di una democrazia. Per adesso non vedo alcun segnale di tutto ciò.

Non ha senso parlare qui di libertà in astratto. Se si tratta della questione della libertà, allora considero che si debba tornare alla questione elementare ed è che, realmente, in principio esisteva, dentro il lavoro, una relativa libertà. Faccio l’esempio più semplice: quando gli uomini non fabbricavano ancora i loro strumenti, ma sceglievano certe pietre per realizzare il loro lavoro, se in qualche posto c’erano dieci pietre, avevano allora la libertà di scegliere la loro pietra tra queste. Parlare di libertà è una generalizzazione epistemologica.

In realtà non esiste un’attività umana dove non ci sia un certo principio di libertà. Questo principio di libertà non ha, tuttavia, un carattere generale; lo si può vedere più chiaramente nel lavoro, dove lo stesso processo di sviluppo sociale amplia e simultaneamente riduce il problema. In realtà, c’è da concepire lo sviluppo del lavoro tenendo conto che, in certe cose, è molto probabile che si decida in un grado molto primitivo quale sia la soluzione più adeguata. E a partire da questo, quando c’è la soluzione più adeguata – questo si può verificare nella storia dell’uomo –, gli uomini la scelgono e non pensano più ad essa. D’altro lato, da questa soluzione sempre si originano nuovi problemi, nei quali un’altra volta c’è un certo margine di libertà.

Diciamo che il lavoro comincia a trasformarsi in lavoro per molti a partire dalla divisione del lavoro, e che tale divisione del lavoro deve essere diretta da certe persone. Presto si impongono, certamente, soluzioni di routine, le quali si affermano e non cambiano più; però, con l’aiuto di queste si può lavorare meglio di prima e nuove forme possono sorgere in continuazione. Qui con la distribuzione del lavoro sorgono, a loro volta, nuove possibilità di libertà e nuove restrizioni. Se la distribuzione del lavoro è generale e diventa sociale, sorgono, a loro volta, nuove libertà e nuove restrizioni e da questo punto di vista sarebbe ridicolo dire che c’è uno sviluppo chiaro e lineare verso la libertà, perché è indubbio che già il capitalismo, e presto la trasformazione dell’economia capitalista in economia socialista, dividano la libertà da molte questioni che cento anni fa dipendevano da una decisione libera. D’altro lato, allo stesso tempo – liberato l’uomo dal legame del lavoro primitivo – appare un terreno sempre più di maggiore libertà.

E in questa forma credo che non si dovrebbe parlare della libertà al singolare, bensì solamente al plurale, allora potrà vedersi su quante forme di libertà conta l’uomo nei differenti campi della sua attività; questo è naturalmente molto variabile secondo le epoche. Si deve guardare alla questione dal punto di vista che questa produzione dipende totalmente dal suo sviluppo, dallo sviluppo della distribuzione del lavoro, dell’organizzazione legale della società e da molte altre cose, per cui direi che non si deve parlare di libertà, giacché una tale libertà non esiste, bensì da quali nessi e da quali forme di libertà sorga in relazione all’attività dell’uomo e dalla relazione tra queste forme di libertà, analizzando l’utile e il pregiudizievole per la cultura dell’uomo.

La libertà politica è un grado sommamente alto e importante della libertà sociale, un grado che tematizza la questione dell’ordine giuridico della libertà sociale, perché in una democrazia civile l’ordine giuridico è materia parlamentare. Al contrario, qui dove sorge la libertà, sorge anche la limitazione della libertà nella società civile, per esempio durante il capitalismo, quando si stabilisce una libertà formale di primo ordine, che in realtà si potrebbe dire non corrisponda affatto a nessuna libertà. Diciamo, per esempio, che secondo la costituzione nordamericana, qualunque cittadino nordamericano può candidarsi come presidente. Tuttavia, sappiamo molto bene che in ogni elezione ci sono due o tre candidati, secondo quanto denaro dispongono per finanziare l’elezione. La questione della libertà e della mancanza di libertà deve essere riconosciuta nella esperienza sociale concreta, senza la quale – e questa è la parte debole di tutte le argomentazioni capitalistiche – tutta la libertà civile si converte in un che di insensato, quindi rimane una libertà assoluta che, in realtà, corrisponde a un grado nullo o minimo della vera libertà.

Alla stessa maniera in cui, secondo la mia opinione, non soltanto c’è da porre la libertà al plurale da un punto di vista metodologico generale, bensì anche dal punto di vista della quantità di libertà in differenti regioni. Prendiamo, per esempio, un argomento come quello della Corte di Giustizia della democrazia tedesca. Qualcuno che è sotto processo per un divorzio ha molte meno libertà nel processo di divorzio di colui che sta portando i suoi capitali in Svizzera eludendo le tasse, il quale in realtà è tutelato dalle leggi e nulla limita la sua libertà di portare capitali in Svizzera; invece, se vuole divorziare ci sono certe regole che lo limitano.

Quindi, dentro uno stesso paese e uno stesso ordinamento giuridico ci sono enormi differenze tra le forme di libertà, nella misura in cui una società permette tanta libertà quanto ne considera vantaggiosa per il mantenimento e il buon funzionamento di quella società, cioè la libertà necessaria per il corretto funzionamento dal punto di vista della classe dominante.

Da questa prospettiva, non c’è differenza tra il diritto socialista e quello capitalista, anzi non parlerei di diritto socialista e qui mi rimetto a Marx. Nella Critica al programma di Gotha, Marx dice molto chiaramente che il diritto dominante nel socialismo è ancora il diritto civile, pur senza la proprietà privata, perché questo lato formale del diritto fu sviluppato dalla civiltà capitalistica e questo senza dubbio rimane nel socialismo in quanto diritto. È indubbio che non c’è un diritto socialista, bensì che lo sviluppo del socialismo verso il comunismo creerà uno Stato tale nel quale non ci sarà la necessità del diritto. Sicché non credo che da questo punto di vista si possa parlare di un diritto socialista speciale.

La libertà si organizza sempre secondo i bisogni di un certo strato o classe dominante. Questa presto potrà essere scalzata apertamente dalla lotta di classe. Dobbiamo soltanto sapere che, benché sia inevitabile economicamente o socialmente che la classe dominante decida costantemente su quella libertà, allo stesso modo è possibile che la classe dominante, disattendendo ai propri interessi, decida scorrettamente riguardo a questa. Se soltanto pensiamo a qualcosa come il diritto di veto della nobiltà polacca, lì la nobiltà inventò un sistema di diritto tanto ampio che in realtà scalzò le proprie possibilità di azione. Questo è un esempio molto evidente, credo che nessuno potrà negarlo; anche se, in generale, questo è abbastanza improbabile. Ma il fatto che sia improbabile non significa che sia impossibile, perché la classe dominante, ogni volta che decide qualcosa si confronta sempre con un’opinione alternativa riguardo a quanto va a decidere. E questa decisione può essere buona o cattiva, e se è cattiva, può essere rimediabile o irrimediabilmente cattiva.

Queste alternative sussistono per tutti i fattori della società e sarebbe un feticismo ridicolo dimostrare economicamente che, quando la classe dominante decide su una questione di questo tipo, allora non ci sono alternative nella sua decisione e non c’è possibilità che la classe dominante, nella credenza che stia ampliando al massimo i suoi diritti, problematizzi questi al massimo. Queste decisioni portano sempre a due possibilità, e la domanda e la risposta concrete sono la forma in cui reagisce in concreto una classe o un paese davanti a questa domanda.

Se prendiamo un esempio molto acuto – il 1848 ungherese e la posizione di Iancu37 sulla questione della nazionalità rumena –, non si può dire in assoluto che fin dal principio era impossibile che Kossuth38 accettasse quel patto. Kossuth aveva davanti a sé l’opzione di decidere se accettare o no la questione Iancu. Quando non l’accettò, allora si creò una situazione irreparabile per un tempo estremamente lungo. Neanche qui si può dire che questa situazione irreparabile necessariamente debba durare per sempre. Illyés39 vede la nazione come qualcosa di relativamente autonomo dove la storia e gli errori commessi durante la storia non possono cambiare essenzialmente.

Considero questa una concezione errata, perché qualunque sia la quantità di ragioni per le quali lo strato dominante in Ungheria non ha mai preso una decisione che sia confacente alla nazionalità ungherese, la conseguenza inevitabile fu che, nel 1918, l’Ungheria si divise e non credo che si possa vedere un cambio di questa situazione nel tempo. A Illyés sarebbe piaciuto svincolare questa conseguenza. C’è una cosa nella quale ha relativamente ragione, ma molto relativamente, ed è che in realtà non è possibile giustificare moralmente queste cose in retrospettiva. Come condannare Kossuth per questo e per altro. Al contrario, il distacco dalla giustificazione morale non svincola dalle conseguenze. Intendo per conseguenza qualcosa di tanto semplice come, supponiamo, il fatto che me ne vada a passeggiare, cada e mi rompa una gamba. Ma, dicendo che sono caduto e mi sono rotto una gamba, alludo a un fatto determinato che ha le sue conseguenze per sei settimane, due mesi, cinque mesi e così via.

Nel destino del popolo ungherese, c’è stata una grande quantità di decisioni che, per un tempo determinato, rese impossibile buone relazioni tra gli ungheresi e le altre nazionalità. Per cui sarebbe ridicolo dire, per esempio, che la posizione di Oskár Jászi40 nel 1918 di fronte alla Svizzera orientale sia stata un assurdo a limine. È stato un assurdo perché come conseguenza della politica continuata dal 1848 – per citare un numero qualsiasi – tra gli abitanti dell’Ungheria c’era, in totale, tra le 500 e le 800 persone che erano d’accordo con Jászi e i contadini rumeni o slovacchi non avevano la minima idea che esistesse qualcuno chiamato Oskár Jászi che si fosse espresso in quei modi. Allora fu una posizione teorica vuota che non ebbe alcuna influenza sulle masse popolari; se Kossuth avesse concepito la sollevazione contro l’Austria del 1848 come un movimento di tutti gli ungheresi e una cooperazione tra ungheresi e le altre nazionalità contro l’Austria, questa avrebbe avuto le sue conseguenze. Sicché riguardo a Illyés si deve rilevare questa circostanza causale che un fatto, qualsiasi sia il modo in cui lo valutiamo, moralmente o no, ha inevitabilmente delle conseguenze. E lo sviluppo dell’Ungheria, senza alcun dubbio, è sorto da queste conseguenze. L’ultimo fatto di questo tipo avvenne quando, ai tempi di Horthy, si è presentata la possibilità che l’Ungheria rompesse l’alleanza con Hitler e lasciasse entrare i russi, indubbiamente in questo caso la divisione delle nazionalità dell’Ungheria sarebbe stata diversa dall’attuale.

Non ne faccio una questione morale, dico semplicemente che un fatto ha le sue conseguenze. Se io non vado a passeggiare, allora non mi romperò la gamba. Credo che Illyés e i suoi seguaci si sbagliano quando credono che si possa giudicare soltanto da un punto di vista morale politico. Si deve giudicare anche da questo punto di vista, perché si ripercuoterà nelle nostre azioni future. Indipendentemente da ciò, i fatti puri hanno le proprie conseguenze ed esercitano un ruolo determinante sul destino di tutta una nazione. Si può approvare o meno che il popolo ungherese si sia stato diviso, ma secondo la mia opinione non si può dire che questo sia accaduto indipendentemente dal 1848, anzi, direi che è conseguenza della politica realizzata a partire dalla riunione internazionale di Pozsony del 1890.


Sulle questioni politiche di carattere personale

Se volessi scrivere qualcosa della mia relazione con Imre Nagy devo sempre considerare Imre Nagy come un uomo di buone intenzioni, comunista, inoltre intelligente e abbastanza capace sulla questione agraria, ma in realtà, egli non ebbe mai un vero programma di riforme. E qui c’è qualcosa di certamente tragico, perché se un paese è maturo per le riforme e sopraggiunge un movimento che colloca qualcuno davanti a un momento decisivo, e quell’uomo non è capace di presentare una proposta di riforma reale, allora sopravviene una situazione tragica, la quale, nel caso di Imre Nagy, lo portò addirittura alla morte.

Per quanto mi riguarda, io ero all’opposizione a causa della sua mancanza di programma. Mi opposi al regime di Rákosi e tutti lo sanno. Quando si resero pubblici i documenti del XX Congresso, ci fu una sessione nell’università, dove dissi che non consideravo corretto che si riducesse questa questione al culto della personalità, sicché ero per la continuazione delle linee fondamentali del XX Congresso e, proprio perché ero a favore di ciò, vedevo Imre Nagy molto scetticamente e criticamente. I giovani si volsero a me – lo facevano molto spesso allora – perché era impossibile che tra Imre Nagy e me non ci fosse alcun legame. Mi piacerebbe aggiungere, per chiarirlo, che non mi incontrai mai con Imre Nagy durante il suo incarico come Primo Ministro; per la prima volta mi incontrai con lui quando mi elessero al Comitato Centrale, il 23 ottobre 1956.

I giovani reiteratamente mi consultavano desiderando che sorgesse un contatto tra Imre Nagy e me e solevo rispondere che Imre Nagy era distante da me quanto io da Imre Nagy. Non era per superbia che non andavo a vederlo e pensavo che era lui che dovesse venire a vedermi; bensì capivo che se fossi andato a vederlo, allora sarei caduto in quel mondo di adulatori di Don Imre, e se avevo idee contrarie, semplicemente mi avrebbe detto: “Se non le piace, allora se ne vada”. Invece, se Imre Nagy fosse venuto a vedermi, allora gli avrei detto: “Coopererò con lei soltanto quando avrà un programma concreto su come democratizzare l’Ungheria, seguendo le linee fondamentali del XX Congresso. Fin quando non esiste tale programma, non ha alcun senso che conversiamo”. È evidente che questo aveva un significato politico ed è per questo senso politico che io non credevo possibile che un comunista, il 23 ottobre, resistesse a trovare una qualche relazione con ciò e imponesse l’ordine. Mi riferisco qui nuovamente a qualcosa che tutti sanno, o che devono sapere, ed è che quando Imre Nagy si ritirò dal Patto di Varsavia, Zoltán Szánto41 ed io ci opponemmo.

Non ho mai nascosto il fatto che la mia entrata nell’ambasciata di Jugoslavia fu un errore, anzi l’unico momento della mia vita del quale posso dire che presi una decisione importante in una forma completamente brutale per ragioni umanamente stolte. In realtà, il tema fu che ci telefonarono durante la notte, ero sveglio e posso assicurare a tutti che se mi avessero chiamato alla mattina non sarei entrato nell’ambasciata di Jugoslavia. Questo lo seppi la mattina seguente e tutti sanno molto bene che dal primo momento, quando fu possibile che ci ritirassimo dall’ambasciata, Szánto, Zoltán Vas42 ed io volemmo andar via, solo che la polizia ce lo impedì e presto ci unì a Imre Nagy e alla sua gente. Faccio una distinzione: all’ambasciata di Jugoslavia sono entrato io, lì sono stato detenuto insieme a Imre Nagy e poi deportato in Romania. Questa è una grande differenza. Quando a Budapest mi dissero che, se non ero sostenitore di Imre Nagy, avrei dovuto testimoniare contro di lui, così come avevano fatto gli altri, allora risposi che se Imre Nagy ed io avessimo potuto passeggiato liberamente per Budapest, allora sarei stato disposto a parlare politicamente contro di lui con totale chiarezza, altrimento io non avrei testimoniato contro il mio compagno di prigione. Fin quando ciò non si fosse realizzato, avrei considerato il mio elegante luogo di detenzione in Romania come un posto dove Imre Nagy ed io eravamo detenuti. E sotto tali condizioni, non ero disposto a parlare di Imre Nagy, e quando ho parlato, mi sono riferito alla mia propria situazione, rilevando – credo che tutti oggi lo sappiano – che non appartenevo al gruppo dei seguaci di Imre Nagy.

A quel tempo, ancor più che adesso, ero un ideologo isolato, non appartenevo al gruppo dei kadaristi – allora ancora funestato da elementi estremisti – e neanche appartenevo al gruppo di Imre Nagy. A partire da ciò, ogni volta che mi riferivo a questo tema, rilevavo sempre la mia posizione personale. Questo è un fatto che non è documentato, perché non si può qualificare affatto la mia conferenza all’Accademia Politica nel 1956 né a sostegno né contro Imre Nagy, bensì come la posizione di un ideologo davanti alle questioni sorte in quell’epoca. Talché potevo dire categoricamente che non appartenevo né ai seguaci né agli oppositori di Imre Nagy.

D’altro lato, il mio allontanamento dalla politica non iniziò allora. Quando si sviluppò la discussione di Rudas43, ho approfittato per allontanarmi dalla vita politica attiva e, a partire da questo, non mi rimase altra funzione che quella di assumere la presidenza dell’Accademia. Presi parte al movimento per la pace, rinunciai a ogni altra funzione e fui messo da parte e in quel tempo scrissi la mia Estetica e altre cose. Cosicché, in realtà, si può dire che la mia funzione unicamente di ideologo nel Partito ungherese è qualcosa che iniziò già con la discussione con Rudas nel 1959. Questo non è un fenomeno che data 1956. Quindi chiunque può constatare che non feci mai parte di quei movimenti oppositori, in forma di proteste, precedenti al 1956. Il che non significa che fossi d’accordo con Rákosi.

Non ho mai ammesso, né mai lo farò, che io abbia avuto qualche tipo di contatto ideologico con Imre Nagy. Con ciò non voglio dire nulla di male su questa persona, perché per esempio quando nel 1929 stavo lavorando illegalmente in Ungheria, operavo e bene con Imre Nagy. Non c’era dunque alcuna relazione conflittuale tra di noi, soltanto che ciascuno di noi aveva un proprio punto di vista e le proprie linee fondamentali, i quali non furono mai compatibili.

Per ciò che riguarda gli avvenimenti successivi: quando realizzarono questo nuovo meccanismo, allora ebbi una conversazione con i compagni e, dopo un mutuo accordo, concessi un’intervista all’Unità, dove dissi che consideravo corretto questo passo, perché dopo di ciò, se lo avessimo realizzato, sarebbe iniziata la democratizzazione dell’Ungheria e lo sviluppo del marxismo. Questo lo dissi nell’intervista all’Unità e presto seguirono le conversazioni che portarono alla mia affiliazione al Partito ungherese. Mi piacerebbe qui rilevare che non ho mai presentato le mie dimissioni dal Partito. Quando tornai dalla Romania, scrissi una lettera al Comitato Centrale, il cui contenuto approssimativamente era che ero stato membro del Partito da tale a tale data, che tutti conoscevano la mia posizione, perché era sempre stata espressa apertamente, per cui chiedevo la mia affiliazione al Partito. Non ricevetti risposta. Quando dopo il 1966, dopo questa sollecitazione, si riallacciarono le conversazioni, allora tornai a inviare la stessa lettera al Comitato Centrale con l’aggiunta che non avevo ricevuto risposta alla mia lettera del 1957, e forse le condizioni erano tali che né l’allontanamento dal Partito, né il mio ritorno ad esso, avessero relazione diretta con la questione Imre Nagy.

Ho avuto pochi contatti con il compagno Kádár. Egli forse ricorda quando, dopo il 1945, i due Partiti, comunista e socialdemocratico, ancora in concorrenza, sorse un comitato nel quale c’erano 4-5 socialdemocratici e 4-5 comunisti che si riunivano una volta al mese, prendendo un caffè, per conversare in termini amichevoli sui contrasti e le differenze che c’erano tra i due partiti, cercando possibilmente di minimizzarli e di regolarli. In quel comitato, ero insieme a Kádár e mi sono fatto un’opinione molto favorevole sulla sua persona. A partire da allora, non sono tornato ad avere nuovi contatti con lui. Ma ho l’opinione che appartiene a quel ridotto gruppo di operai intelligenti che non hanno perso il loro carattere operaio per l’eccitazione del potere. Questa opinione la sostengo ancora. Kádár da operaio è diventato dirigente, senza convertirsi in un burocrate nel corso di questo processo.

1 György Aczél (1917-1991), politico ungherese, figura chiave della politica culturale ungherese della rivoluzione del 1956. Membro dell’Ufficio Politico del Partito Operaio Socialista Ungherese e primo viceministro del Consiglio dei Ministri del governo ungherese. Responsabile della politica culturale del Partito Operaio Socialista Ungherese, fu l’interlocutore del Posu che mantenne con Lukács un dialogo costante prima e dopo il ritorno di Lukács nel partito. Per sua iniziativa si pubblicò in Italia, primo paese occidentale, L’uomo e la democrazia di Lukács, affinché il partito ungherese sostenesse la politica di apertura di Mikhail Gorbaciov.

2 Ferenc Jánossy, economista ungherese, figlio di Gertrud Bortstiebier, seconda moglie di Lukács. Visse con lui in Urss e venne arrestato dalla polizia stalinista e inviato in un campo di concentramento. Liberato per intervento del patrigno, ritornò con la famiglia in Ungheria e divenne un eminente economista, autore de La fine dei miracoli economici.

3 Mátyás Rákosi, politico ungherese. Nel 1919 partecipò alla Repubblica dei Consigli. Nel 1925 fu arrestato e condannato per attività illegale. Nel 1940 fu liberato e mandato in Urss, da dove rientrò in Ungheria nel 1944 come segretario del Partito Comunista Ungherese. Nel 1946 divenne anche Primo Ministro. Fu destituito nel 1956 e costretto a rifuggiarsi in Urss, dove morì nel 1971.

4 István Graf Tisza (1861-1918), politico ungherese. Tra il 1903 e il 1905 e tra il 1913 e il 1917 fu primo ministro del governo asburgico. Fu assassinato nel 1918, essendo considerato uno dei maggiori responsabili dell’entrata in guerra dell’Impero asburgico nella Grande Guerra.

5 “Libertà popolare”, quotidiano ufficiale del POSU.

6 György Konrád, romanziere ungherese, vicino alle posizioni della Scuola di Budapest.

7 Nel 1970, dopo una serie di scioperi degli operai di Danzica, il segretario del Partito Comunista Polacco, Wlasislaw Gomulka, si dimise e fu sostituito da Edward Gierek.

8 Lipot Fejér (1880-1959), matematico ungherese, ha condotto ricerche di analisi matematica sulla sommabilità delle serie di Fourier, fondamentali nelle moderne teorie delle serie divergenti.

9 Máno Beke (1862-1946), matematico ungherese, professore dell’Università Eötvös Loránd di Budapest.

10 Ferdinand August Bebel (1840-1913), politico tedesco, nato a Colonia. Da maestro tornitore nel 1871 divenne il leader del Partito Socialdemocratico e il suo principale portavoce nel Parlamento. Scrisse sul socialismo, sulla Guerra dei Contadini, sulla condizione delle donne.

11 Endre Ady (1877-1919) uno dei più importanti poeti lirici ungheresi. Lukács in gioventù scrisse alcuni articoli su di lui.

12 René François Armand Sully-Prudhomme (1839-1907), poeta francese, ricevette il premio Nobel nel 1901.

13 Tragedia classica del XVII secolo francese. I suoi massimi esponenti furono Corneille e Racine.

14 Vitéz Mihály Csokonai (1773-1805), il poeta più importante dell’illuminismo ungherese. Oltre che poeta lirico e drammatico, fu anche filosofo.

15 Sándor Petöfi (1823-1849), poeta ungherese, figura centrale della rivoluzione del 1848. Nel 1844 cominciò a lavorare come redattore e a partire dal 1845 visse come scrittore indipendente. Partecipò, con la carica di maggiore, nell’esercito rivoluzionario e si pensò per molti anni che fosse morto nella battaglia di Segesvár in Transilvania nel 1848, in realtà fu deportato in Siberia, dove morì nel 1855 e i suoi resti furono ritrovati nel 1989.

16 Béla Bartok (1881-1945), compositore ungherese di fama mondiale. Tra il 1907 e il 1934, professore di piano all’Accademia Musicale di Budapest. Nel 1940 emigrò negli Stati Uniti. Nei suoi anni di formazione, ricevette appoggio economico dal padre di Lukács.

17 Mihály Babits (1883-1941), lirico, collaboratore principale e, più tardi, capo redattore della rivista Nyugat (Occidente), fondata nel 1908. Anche quando era considerato come rappresentante dell’orientamento dell’”arte per l’arte” a partire dalla fine degli anni Trenta si oppose decisamente all’indifferenza politica degli scrittori.

18 János Arany (1817-1882), poeta popolare ungherese, profondo conoscitore della cultura popolare, sviluppò nelle sue poesie anche temi storici e politici.

19 István Sőtér (1913-1988), scrittore ungherese, storico della letteratura.

20 Pseudonimo di Hugo Veigelsberg (1869-1949), critico ungherese, cofondatore e capo redattore della rivista Nyugat. Rappresentante del liberalismo della media borghesia.

21 “A me non danno ordini”. Si riferisce a un fatto storico ungherese del XVIII secolo.

22 “La provincia di Ugocsa non è d’accordo con l’incoronazione”. Frase di opposizione al sistema di incoronazione del re d’Ungheria da parte dei rappresentanti della provincia di Ugocsa che costantemente rifiutavano il consenso all’incoronazione dei membri della dinastia degli Asburgo che aspiravano alla corona d’Ungheria.

23 László Rajk (1909-1949), ministro degli esteri ungheresi, fu ucciso dopo un processo pubblico. Nel 1930 era entrato nel Partito Comunista Ungherese. Nella Guerra Civile Spagnola svolse il ruolo di commissario politico nel battaglione ungherese delle brigate internazionali. Dopo l’incarceramento in Francia, divenne, a partire dal 1941, il leader Partito Comunista in Ungheria. Dal 1945, membro del Comitato Centrale del Partito, e tra il 1946 e il 1949 Ministro degli Interni; dal 1949 al 1949, Ministro degli Esteri. Condannato a morte per “titoismo”, fu riabilitato nel 1956.

24 Karl Bernhardovic Radek (1883/5-1939), politico russo, membro del Partito Socialdemocratico polacco, partecipò alla Rivoluzione Russa del 1905. Fuggì in Germania e Svizzera. Tornò in Russia nel 1919 e fu membro del Comitato Centrale del Partito (1924), dopo fu rettore dell’Università di Mosca (1925), ma nel 1927 fu esiliato in quanto trotzkista. Riabilitato nel 1929, fu redattore delle Iztvestja. Nel 1937 fu accusato un’altra volta di trotzkismo e condannato a dieci anni di carcere.

25 Kalman Mikszáth (1847-1910), scrittore ungherese di tendenza realista e umorista.

26 Personaggio della novella di Mikszáth, A Noszty fiú esete Tóth Marival (Il romanzo del fanciullo Noszty con Mari Toth).

27 Polizia politica segreta.

28 Ferenc Fehér (1933-1994) e Ágnes Heller (1929-), allievi di Lukács, membri della cosiddetta “Scuola di Budapest”.

29 Ferenc Donáth, esperto di questioni agrarie, politico comunista. Dal 1945 segretario del Ministero dell’Agricoltura. Nel 1951 fu incarcerato, fu riabilitato nel 1955. Seguace di Imre Nagy, nel 1957 fu nuovamente processato e condannato. Dopo alcuni anni di carcere, ricevette un’amnistia.

30 Imre Nagy, esperto in questioni agrarie, politico comunista; in Russia, dove si trovava come prigioniero di guerra si iscrisse al partito comunista. Tra il 1921 e il 1928, lavorò nel Partito nell’illegalità. Tra il 1929 e il 1944, andò in esilio in URSS. Tra il 1944 e il 1953, fu ministro di vari governi; in questo periodo fu presidente dell’Assemblea Nazionale e professore universitario. Nel 1955 fu duramente contestato a causa delle sue “infrazioni della legge” e fu espulso dal Partito. Un anno più tardi fu riabilitato. Nel 1956 fu nominato nuovamente Primo Ministro e fu leader della rivoluzione dell’ottobre 1956. Una volta repressa la sollevazione, fu deportato in Romania, dove fu condannato a morte e la sentenza fu eseguita nel giugno 1958. È stato riabilitato nel 1989.

31 Leonid Ilic Breznev (1906-1982), politico russo, del 1967 segretario del Pcus e dal 1977 presidente dell’Urss.

32 Con il rischio di uno sbaglio.

33 Il ricambio organico dell’uomo con la natura.

34 Dare risposte.

35 Aristocrazia egualitaria. I piccoli aristocratici pretendevano gli stessi diritti dei grandi aristocratici.

36 Si riferisce a un personaggio del poema di Sándor Petöfi, Pató Pál úr (Il signore Pató Pál), dove si tratta di qualcuno caratterizzato per la sua vaghezza.

37 Avram Iancu (1824-1872), nato a Vidra, Romania, di professione avvocato, studiò a Kolozsvár (Cluj) e a Budapest. Leader spirituale e militare della rivoluzione rumena della Transilvania (1848-1849), avvallò l’idea che il movimento rumeno stabilisse un’alleanza con gli Asburgo, con la speranza che questa dinastia rispettasse gli interessi nazionali rumeni. Le speranze furono vane: il patto tra le forze rivoluzionarie ungherese e rumene (il “Progetto di pacificazione” firmato da Lajos Kossuth e dal rivoluzionario rumeno Nicolae Balcescu, 2-14 luglio 1849) arrivò troppo tardi. Iancu – il cui soprannome “il re delle montagne” – condusse i contadini rumeni ribelli a una guerra civile che causò numerose vittime.

38 Lajos Kossuth (1802-1894), rivoluzionario ungherese. Nel 1847 divenne il leader dell’opposizione dentro il parlamento; dopo le sollevazioni del 1848 in Francia, chiese un governo indipendente in Ungheria. Nel settembre 1848, posto alla testa del Comitato di Difesa nazionale, dispose le misure necessarie per portare avanti la guerra agli austriaci. Nel aprile 1849 indusse l’Assemblea nazionale a dichiarare che la dinastia degli Asburgo aveva abbandonato il trono. Designato governante provvisorio dell’Ungheria, cercò invano l’appoggio delle potenze occidentali. Rinuncio alla carica e dopo la sconfitta di Temesvá, il 9 agosto 1849, fuggì in Turchia, dove fu preso prigioniero. Nel settembre 1851, liberato per intervento inglese e nordamericano, scappò in Inghilterra e, dopo, negli Usa. Nel 1859 propose senza esito a Napoleone III di appoggiarlo in una sollevazione ungherese contro l’Austria. Nel 1861 e nel 1867 cercò invano di spingere verso una sollevazione contro la monarchia austriaca. Nel 1867, quando Deák stabilì la riconciliazione con gli Asburgo, Kossuth si ritirò dalla politica.

39 Gyula Illyés (1902-1983), poeta lirico, drammaturgo e romanziere ungherese. Una volta caduta la Repubblica dei Consigli, fuggì a Parigi, studiò all’Università e ritornò in Ungheria nel 1926. Apparteneva al circolo della rivista Nyugat e a metà degli anni Trenta si unì ai populisti.

40 Oskár Jászi (1902-1983), teorico del radicalismo borghese in Ungheria. Principale giornalista dei radicali ungheresi nel 1912. Legato a Ady. Pubblicò la rivista Huszadik Század (Ventesimo Secolo), che interruppe le pubblicazioni dopo la caduta della democrazia ungherese nel 1919. Andò esule a Vienna e dopo negli Usa.

41 Zoltá Szánto (1893-1977), scrittore e politico. Partecipò alla Rivoluzione dei Consigli e fu membro fondatore del Partito Comunista Ungherese. Nel 1920 fuggì a Vienna, dove rimase fino al 1926. Dopo tornò in Ungheria, partecipando attivamente al movimento comunista illegale. Rimase in prigione tra il 1927 e il 1935, dopo la sua liberazione rimase in Cecoslovacchia e in URSS. Nel 1945 ritornò in Ungheria, dove svolse diverse funzioni dentro il Partito e nello Stato.

42 Zoltán Vas, comunista, ungherese. Appartenne al circolo degli emigrati in Russia; scrisse alcune memorie che apparvero in ungherese nel 1981 e suscitarono grande interesse.

43 Nel 1949, quasi contemporaneamente al processo Rajk, si aprì un dibattito su Lukács, accusandolo di cosmopolitismo. Il dibattito si concluse con l’allontanamento di Lukács dall’Università.

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