Formalisti che ignorano le forme

di Vittorio Saltini

«L’Espresso», n. 21, 26 maggio 1968


Boris Ejchenbaum, Il giovane Tolstoj La teoria del metodo formale, De Donato, Lire 2000.

Ancora una volta la lettura d’un formalista russo, in questo caso Ejchenbaum, è deludente. Ejchenbaum qui affronta Tolstoj, ma la sua analisi si mostra di troppo inadeguata all’oggetto. Sarebbe utile confrontare queste pagine col più ampio giudizio di Lukács su Tolstoj (nei Saggi sul realismo): si scoprirebbe che proprio sulle differenze formali fra l’epica tolstoiana e le altre forme romanzesche dell’Ottocento, il contenutista Lukács (malgrado lo svantaggio iniziale di voler partire da una tesi di Lenin) ci sa dire cose ben più precise del formalista Ejchenbaum.

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Lukács dal dramma moderno al romanzo storico

di Guido Lucchini

«Strumenti critici» XXVI, n. 3, ottobre 2011


Quando nel 1965 Cases presentò al pubblico italiano Il romanzo storico, scritto negli anni 1936-37 durante l’esilio moscovita, con una breve introduzione1, non erano state ancora pubblicate opere fondamentali, da Storia e coscienza di classe, all’incompiuta Estetica di Heidelberg, al giovanile Dramma moderno, per non dire la voce “romanzo” della Literaturnaja enciklopedija (1935)2, che sarebbe uscita da Einaudi soltanto nel 1976, quando le fortune del pensatore e critico ungherese in Italia cominciavano a declinare. Opere tutte che modificavano sensibilmente l’itinerario intellettuale di Lukács. Infatti nel decennio 1950-60 era stato l’autore degli studi della maturità (da Goethe e il suo tempo a La distruzione della ragione, a Il giovane Hegel) a destare l’interesse in Italia e ad esercitare una certa influenza, con ogni probabilità sopravvalutata, sulla cultura di orientamento marxista. All’inizio degli anni Sessanta si cominciò a conoscere un altro Lukács, quello anteriore alla conversione al marxismo (nel 1962 usci la Teoria del romanzo, preceduta da una lunga introduzione di Lucien Goldmann, nel 1963 L’anima e le forme). Il romanzo storico, col suo intento dichiarato di leggere «il presente come storia», per usare un’espressione del libro divenuta famosa, completava là conoscenza del Lukács successivo alla svolta del 1930, piuttosto che contribuire a un riesame complessivo della sua opera. A distanza di oltre quarant’anni risultano però chiari non solo i grandi meriti del critico e filosofo ma anche i limiti, politici e culturali. Non accenno ai primi, perché d’immediata evidenza. Alla luce di quanto accaduto negli ultimi decenni mi sembra invece inevitabile soffermarmi, sia pure rapidamente, sul secondo punto. Se vi è un elemento di continuità fra il primo e il secondo Lukács, questo deve ravvisarsi anzitutto nella convinzione che i tratti più significativi e le contraddizioni di un’epoca si esprimono principalmente nella cultura. Con un ovvio corollario: gli intellettuali, che siano intesi come categoria dello spirito o della società non è in questo caso di primaria rilevanza, ne sono i legittimi depositari. Ora, nell’ultimo quarto del Novecento la figura dell’intellettuale è di fatto scomparsa. E ci sono fondati motivi per dubitare che il terreno della cultura sia ancora l’ambito privilegiato nel quale si esprimono le contraddizioni e le trasformazioni del presente. Continua a leggere

Lukács di fronte all’etica di Dostoevskij

di Stefano Catucci

«il manifesto» 28 giugno 2000.


In una valigia ritrovata dopo la morte di Lukács i curatori del suo lascito scoprirono i materiali per un saggio dedicato a Dostoevskij, ora tradotti in italiano a cura di Michele Cometa in un libro appena uscito per le edizioni SE. La concentrazione del filosofo ungherese si sposta, qui, dal fronte dell’estetica a quello dell’etica, osservando come solo con Dostoevskij la narrazione superi l’impasse nostalgica e romantica, rinunciando a cercare un luogo “altro” per l’affermazione della propria anima, per riconoscere invece nel “qui” e “ora” l’unica realtà data all’uomo, la sola opportunità per il suo riconoscimento di se stesso. Continua a leggere

György Lukács inattuale? Una teoria politica del romanzo

di Emanuele Zinato

L’immaginario politico. Impegno, resistenza, ideologia, Eds. S. Albertazzi, F. Bertoni, E. Piga, L. Raimondi, G. Tinelli, Between, V.10 (2015), http://www.Betweenjournal.it/ 30/11/2015


I rapporti sociali sono sfuggiti al controllo degli uomini stessi assumendo la forma di cose.
G. Lukács, Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale

I. Il termine inattuale, presente nel titolo del mio intervento in forma interrogativa, vorrebbe risultare doppiamente sibillino. Al suo significato più comune, di segno negativo, che sta per “invecchiato”, come si sa, si affianca un senso orgogliosamente apologetico e irriverente, quello delle Considerazioni inattuali di Nietzsche o dell’inattualità come valore paradossale del saggismo frammentario di Karl Kraus.

In questo mio intervento, per azzardare delle risposte, cercherò innanzitutto di mettere a fuoco alcuni punti di forza di Lukács, limitatamente alla teoria del romanzo, degni di considerazione nel campo teorico attuale.

Come ha osservato Vittorio Strada (Strada, 1986: 21), i due maggiori teorici novecenteschi del romanzo, Lukács e Bachtin, si potrebbero leggere come una delle coppie oppositive su cui si fondano le Vite parallele di Plutarco. Lukács, infatti, è noto come il fautore di un’estetica normativa del marxismo ufficiale; Bachtin è stato viceversa una vittima, deportato e costretto al silenzio dallo stalinismo.

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Il profeta dell’anticapitalismo romantico

di Michael Löwy

«Lettera Internazionale, n. 23, 1990.

György Lukács è stato probabilmente il primo autore ad impiegare il concetto di anticapitalismo romantico; questo termine comincia infatti ad apparire nei suoi scritti sin dagli anni’30. Sebbene non sia mai giunto a svilupparne una definizione sistematica, alcuni elementi di tale concetto sono impliciti nelle sue opere filosofiche e letterarie. Lukács concepiva il romanticismo non come una categoria puramente estetica o letteraria, ma come un fenomeno più ampio, che investiva, oltre all’arte e alla letteratura, la politica, la filosofia, la sociologia, l’economia politica e la religione. Non gli sfuggiva inoltre il rapporto tra romanticismo e capitalismo, la differenza tra la forma romantica e le altre forme di coscienza anticapitalistica: la critica romantica della civilizzazione borghese moderna è basata su valori sociali o culturali precapitalistici.

L’anticapitalismo romantico è stato una delle principali correnti di pensiero della modernità e una delle più influenti Weltanschauungen della cultura europea, sin dalla fine del 17° secolo. Al tempo della formazione di Lukács – i primi anni del 20° secolo – rappresentava ormai la visione dominante nella vita intellettuale della Germania e dell’Europa centrale.

Non c’è niente di più intrigante e contraddittorio dell’anticapitalismo romantico. La sua enigmatica ambiguità è magnificamente rappresentata dal personaggio di Leon Naphta nella Montagna incantata di Thomas Mann: gesuita e comunista, di origine ebraica, nemico giurato del filantropo liberale Settembrini, Naphta esalta la lotta dei Padri della Chiesa contro il capitalismo e si sente in sintonia con il movimento romantico, con la sua «ambiguità fantastica», capace di fondere insieme reazione e rivoluzione. Lukács è stato spesso indicato come il modello di questa creazione letteraria di Thomas Mann, un’ipotesi questa che contiene almeno una parte di verità.

Weber sottolinea in molti suoi scritti come il capitalismo e la società industriale siano caratterizzati dal disincanto del mondo (Entzauberung der Welt), cioè dalla sostituzione di sentimenti e valori con il calcolo razionale dei profitti e delle perdite. L’anticapitalismo romantico – con la sua tipica attrazione per la religione e il misticismo – è una forma di rivolta contro questa Entzauberung e un disperato tentativo di rigenerare il mondo attraverso la restaurazione dei valori qualitativi sradicati dalle macchine e dai libri contabili.

Il circolo di Max Weber ad Heidelberg è stato uno dei principali centri accademici neoromantici. L’attrazione dei suoi membri per la letteratura russa e per il pensiero religioso era espressione del loro distacco dallo spirito eccessivamente razionale del capitalismo occidentale. Due dei suoi membri, il giovane filosofo ebreo Ernst Bloch e György Lukács, portarono alle sue conseguenze più radicali ed escatologiche questo sentimento generale.

L’ambiguità dell’anticapitalismo romantico si manifestò nello sviluppo di due correnti contrapposte: una conservatrice e perfino reazionaria (e infine fascista), l’altra utopista e rivoluzionaria. Lukács e Bloch non furono gli unici esponenti di quest’ultima corrente. Ad essa appartennero anche molti scrittori espressionisti, la Scuola di Francoforte, i rivoluzionari bavaresi del 1919 (Landauer, Toller, Muhsam, Levine) e numerosi rivoluzionari della Budapest del 1919. In quell’anno, Thomas Mann viveva a Monaco, e rimase molto colpito dagli avvenimenti di quella rivoluzione. Il suo diario rivela un vivo interesse per gli scritti di Gustav Landauer, un’altra possibile fonte di ispirazione per il personaggio di Naphta1.

L’utopia dell’uomo muovo

L’anticapitalismo romantico è la chiave per comprendere i primi lavori di Lukács e il suo personale approccio al marxismo, agli antipodi del materialismo storico ortodosso della Seconda Internazionale. Nel suo periodo premarxista (fino al 1919), Lukács sognava un’utopia romatica in cui potessero fondersi Kultur, Gemeinschaft, religione e socialismo, come sostanze spirituali dotate di affinità elettiva, estranee al mondo superficiale, prosaico, entzaubert, della società borghese.

Il romanticismo fu il tema centrale delle sue prime riflessioni letterarie e filosofiche. Al 1907 risale il progetto di un grande libro, Die Romantik des neunzehnten Jahrhunderts. I capitoli principali avrebbero dovuto essere: 1 Goethe e Fichte, 2 La tragedia del romanticismo (Schelling, Schlegel, il misticismo), 3 Vecchio e nuovo romanticismo (il nuovo come reazione), 4 Germania e Francia (lo Sturm und Drang e il romanticismo francese), 5 I preraffaelliti (romanticismo artistico e socialismo), 6 Romanticismo à rebours (Schopenhauer, Baudelaire, Kierkegaard, Flaubert e Ibsen). I suoi taccuini di questo periodo contengono numerosi estratti da Novalis, Schelling, Schlegel e Schleiermacher. Ma, come dimostra il piano dell’opera, l’interesse di Lukács non era limitato alla letteratura tedesca: ad attirarlo era l’intero universo dell’anticapitalismo romantico. Una fonte di ispirazione sempre più importante divenne per lui la letteratura russa, nella sua dimensione politica e religiosa (Tolstoj e soprattutto Dostoevskij). In una intervista del 1974, Ernst Bloch ricordò l’«immensa influenza» esercitata all’inizio del secolo dalla cultura russa, dall’«universo spirituale di Tolstoj e Dostoevskij», in una parola dalla «Russia immaginaria», sugli intellettuali tedeschi, e in particolare sul suo amico Lukács. Per Lukács (come per Bloch) gli scrittori russi rappresentavano l’aspirazione a superare l’individualismo disperato e desolato dell’Europa occidentale e a procedere verso la creazione di un uomo nuovo in un mondo nuovo.

Se il saggio sulla Filosofia romantica della vita in L’anima e le forme (1910) criticava il romanticismo tedesco, ciò avveniva, paradossalmente, perché il suo rifiuto del mondo esistente non era abbastanza radicale. Il romanticismo aveva creato un mondo organico, unificato, poetico e spirituale e lo aveva identificato con quello reale. Per Lukács, un’autentica opera d’arte poteva essere realizzata soltanto attraverso la netta separazione delle sfere eterogenee, «la creazione di un mondo nuovo ed unitario definitivamente separato dalla realtà».

La teoria del romanzo (1916) è intrisa di nostalgia romantica per i tempi felici in cui «le vie erano illuminate dalla luce delle stelle», le età epiche caratterizzate dalla perfetta corrispondenza delle azioni con le esigenze interiori. L’immutabile archètipo era rappresentato dalla Grecia omerica, mentre il Medioevo cristiano Giotto e Dante – si configurava come una nuova Grecia, l’ultima manifestazione dell’organic Gemeinschaft, della naturale unità delle sfere metafisiche. Tuttavia, diversamente dai romantici, Lukács non credeva possibile o desiderabile una restaurazione: «…in un mondo chiuso noi non potremmo respirare. Noi abbiamo scoperto la produttività dello spirito…». Il fallimento dei romantici conseguiva dall’impossibilità di «ritornare ai tempi dell’epos cavalleresco». Invece di aggrapparsi al passato, Lukács sognava un futuro utopico, un paradiso terrestre, una porta verso una nuova epoca della storia del mondo, il superamento della società borghese e della civilizzazione industrial-capitalistica, l’era della «perfetta innocenza» (Epoche der vollendeten Sündhaftigkeit), un nuovo mondo del quale Tolstoj era stato l’araldo e Dostoevskij, forse, il nuovo Omero o Dante. L’intenzione non era quella di resuscitare l’antica Grecia o il mondo chiuso medioevale, ma di creare una nuova comunità che avrebbe dovuto esprimersi artisticamente mediante una «forma rinnovata di epos»2. Al romanticismo nostalgico sembra sostituirsi qui, con una decisiva metamorfosi spirituale, un romanticismo utopistico, orientato verso il futuro, benché affascinato al tempo stesso dalla «Russia metafisica», il «sogno Russia» al quale si riferiva Bloch.

Una versione romantica del marxismo

Anche dopo la sua iscrizione al Partito comunista ungherese (dicembre 1918) – una decisione che può essere compresa soltanto a partire dal suo precedente anticapitalismo romantico e dalla sua partecipazione alla rivoluzione ungherese del 1919 – il pensiero di Lukács mantenne la sua dimensione romantica. Per un lungo periodo, essa si combinò con il marxismo in una fusione intellettuale estremamente originale e sottile, il cui prodotto più compiuto fu il saggio La vecchia e la nuova cultura (1919), pubblicato quando Lukács era commissario del popolo per l’Educazione nel Governo Rivoluzionario Ungherese. Questo lavoro contrappone la Kultur organica della Grecia e del Rinascimento (che sembra sostituire il precedente modello medioevale Giotto-Dante), quando la vita e la produzione erano dominate dal künstlerischer Geist, alla totale mercificazione dell’arte e della cultura nel capitalismo. Il rivoluzionamento della produzione operato dal capitalismo esige la fabbricazione delle cosiddette «novità» e quindi una trasformazione rapida della forma e della qualità dei prodotti, indipendentemente dal loro valore estetico o d’uso. Ciò comporta il dominio tirannico della moda. (Troviamo intuizioni simili in alcuni scritti di Walter Benjamin sulla moda e sulla falsa «novità» del prodotto.) Moda e cultura sono concetti che nella sostanza si escludono reciprocamente (dem Wesen nach sich ausschliessende Begriffe). Con la generale mercificazione della vita, la cultura autentica comincia a declinare. Il capitalismo distrugge la culturale (è kulturzerstörend). Lukács concepisce la rivoluzione socialista come una restaurazione culturale. Una cultura organica «diviene di nuovo possibile». In modo tipicamente romantico/rivoluzionario, il socialismo è concepito come ripristino della continuità interrotta dal capitalismo: il futuro utopico (la nuova cultura) getterà un ponte verso il passato precapitalistico (la vecchia cultura), sul vuoto dell’attuale capitalismo (la non cultura).

Pochi anni dopo, in Storia e coscienza di classe (1923), Lukács sembra voler prendere le distanze dall’anticapitalismo romantico. Dopo Rousseau, il concetto di «crescita organica» viene assumendo, «nella battaglia contro la reificazione, un significato sempre più reazionario, dal romanticismo tedesco alle scuole storiche di diritto, Carlyle, Ruskin, etc.». Ma, allo stesso tempo, si riconosce che, ben prima di Marx, autori come Carlyle avevano compreso e descritto l’essenza antiumana (windermenschliches) del capitalismo, la sua natura distruttrice e oppressiva di tutto ciò che è umano. Una nostalgia tipicamente romantica affiora a volte in alcuni passaggi, per esempio nel paragone tra la soggezione di ogni forma di vita alla meccanizzazione e al calcolo razionale nel capitalismo e «il processo organico vitale di una Gemeinschaft» come nel villaggio tradizionale. Il tema centrale del libro, l’analisi critica della reificazione (Verdinglichung), in tutte le sue forme – economica, giuridico-burocratica, culturale – è largamente ispirato dalla sociologia neoromantica tedesca: Tönnies, Simmel, Weber.

Senza dubbio, i motivi sociologici vengono qui riformulati da Lukács nei termini di una critica marxista della reificazione capitalista. Ma a volte egli procede, in quest’opera, nel senso opposto. Partendo da alcuni passaggi del Capitale, sviluppa una critica particolarmente acuta della meccanizzazione del lavoro e della quantificazione del tempo, critica che possiede innegabili affinità con il romanticismo. Secondo alcuni critici neo-kantiani di Lukács, per Colletti ad esempio, questo genere di analisi dimostra che il filosofo ungherese sostituì il romanticismo bergsoniano al marxismo. Ma si potrebbe anche supporre che Lukács abbia potuto scrivere questo libro soltanto grazie a un elemento di anticapitalismo romantico presente nello stesso Marx. Come sottolineò giustamente Paul Breines, il giovane Lukács tentò di «restituire al marxismo la sua dimensione romantica perduta»3.

Gli scritti letterari di Lukács degli anni 1922-23 contengono dei riferimenti molto significativi a scrittori anticapitalisti romantici, in particolare a Dostoevskij, che ai suoi occhi rappresentava l’esempio più radicale di rigetto utopico della civiltà borghese occidentale. In un articolo del 1922, pubblicato nella Rote Fahne (il quotidiano del Partito Comunista tedesco), La confessione di Stavrogin, Lukács esalta la capacità di Dostoevskij di descrivere un mondo utopico, in cui «tutto ciò che di meccanico e inumano, privo di anima (seelenlos) e reificato, possiede la società capitalistica, è abolito». Un articolo del 1923 sembra echeggiare l’ultimo capitolo della Teoria del romanzo. Dostoevskij è visto come il precursore dell’essere umano futuro, «già socialmente ed economicamente liberato», in grado di vivere pienamente la propria vita interiore.

La svolta

Verso la fine degli anni ’20, Lukács divenne apertamente ostile al romanticismo, e questo mutamento fu accompagnato, negli anni immediatamente successivi, da contraddizioni e improvvisi ripensamenti4.

Probabilmente, la posizione di Lukács deve essere messa in rapporto con l’inizio, pressoché simultaneo, della sua «riconciliazione forzata» con lo stalinismo. Era il periodo del piano quinquennale di Stalin (1928-33), che innalzava l’industrializzazione ad alpha ed omega della «costruzione del socialismo» e non concedeva, naturalmente, nessuno spazio alla nostalgia romantica. Arthur Koestler rievoca nella sua autobiografia i suoi pensieri di militante comunista nel 1930: «Quando ho detto che mi ero innamorato del piano quinquennale, non si trattava di una esagerazione … La teoria marxista e la pratica sovietica rappresentavano il definitivo e ammirevole compimento dell’ideale di progresso del XIX secolo, a cui dovevo fedeltà. La forza più potente della terra avrebbe senza dubbio apportato la massima felicità al massimo numero di persone».

Ma la relazione tra il dogma stalinista e l’atteggiamento di Lukács verso il romanticismo è più complessa. In anni successivi, infatti, egli tornerà a guardare con simpatia agli scrittori dell’anticapitalismo romantico. Il mutamento delle sue posizioni culturali potrebbe essere messe in relazione anche con il sorgere del nazismo, che appariva a lui (come a molti altri) il risultato logico della reazione romantica, operante nella cultura tedesca, ma anche questa versione è tutt’altro che ovvia e non può spiegare le interpretazioni sorprendentemente divergenti di Dostoevskij che egli diede nel 1931, nel 1943 e nel 1957. Per decenni, in realtà, Lukács sembra essere stato combattuto tra l’Aufklärung e l’anticapitalismo romantico. L’ideologia democratico-liberale e razionale del Progresso (che egli tentò di riconciliare con la dura realtà totalitaria dello Stato sovietico), era quella prevalente, ma la vena dell’anticapitalismo romantico riemergeva a tratti inaspettatamente.

Il termine «anticapitalismo romantico» apparve per la prima volta in un articolo del 1931 su Dostoevskij, in cui Lukács gettava repentinamente nella pattumiera il grande scrittore russo che aveva ispirato i suoi ideali giovanili romantico-rivoluzionari. Secondo questo saggio, che fu pubblicato a Mosca, l’influenza di Dostoevskij discendeva dalla sua capacità di trasformare i problemi dell’opposizione romantica al capitalismo in problemi «interiori», «spirituali», permettendo così agli intellettuali piccolo-borghesi di «approfondire» la propria Weltanschauung in una rivoluzione religiosa da salotto (religiöselnde Salon-Revoluzzerei). Un giudizio, questo di Lukács, che avrebbe potuto essere esteso presumibilmente ai suoi stessi scritti, come a quelli di Bloch, almeno fino al 1931.

I primi lavori di Lukács avevano costantemente collegato Tolstoj e Dostoevskij, pur sottolineando sempre la superiorità di quest’ultimo. Nel 1931, Lukács passa invece a contrapporre Tolstoj, come rappresentante della «tradizione classica della classe borghese rivoluzionaria in ascesa» – una definizione alquanto singolare per uno scrittore che disprezzava tanto i lussi cittadini ed ammirava la povera gente di campagna – a Dostoevskij, i cui scritti vengono intesi come l’espressione delle tendenze romantiche e reazionarie latenti della piccola borghesia. Nella peggiore delle ipotesi Dostoevskij è presentato come «lo scrittore dei Cento Neri e dell’imperialismo zarista», e nella migliore come l’autore di una «frazione dell’opposizione intellettuale anticapitalistica romantica piccolo borghese», un gruppo sociale oscillante tra destra e sinistra, ma per il quale «un largo viale conduce alla destra, alla reazione (oggi al fascismo), e solo uno stretto e disagevole sentiero alia sinistra, alla rivoluzione». La conclusione di questo avvincente brano di delirio dogmatico è che, con l’inevitabile declino della piccola borghesia, «la gloria (Ruhm) di Dostoevskij svanisce ingloriosamente (Ruhmlos5.

Un’autocritica spietata

Quest’articolo dà inizio a un modello di analisi riscontrabile nella maggior parte degli approcci successivi di Lukács all’anticapitalismo romantico: da una parte, la constatazione del carattere contraddittorio dei fenomeno e dall’altra una tendenza (a volte completamente unilaterale) a considerare dominante in esso l’inclinazione reazionaria e perfino fascista. Non stupisce che questo saggio abbia fatto andare su tutte le furie il suo amico romantico/rivoluzionario Ernst Bloch e contribuito a raffreddare i loro rapporti6.

La natura di questo articolo non mi consente di analizzare tutte le mutevoli prese di posizione di Lukács nei riguardi dell’anticapitalismo romantico un itinerario bizzarro, tortuoso e sconcertante. Mi limiterò ad alcuni degli esempi più significativi.

In un articolo pubblicato pochi mesi dopo il saggio su Dostoevskij, Lukács torna nuovamente sul tema del nesso immediato tra il fascismo tedesco e «l’arsenale teorico dell’anticapitalismo romantico», pur operando una distinzione tra «l’onestà soggettiva ancora presente in Sismondi e nel giovane Carlyle» e le manipolazioni della propaganda fascista.

Lukács non poteva fingere di ignorare che le radici del suo stesso approccio al marxismo e alla rivoluzione si trovavano nella cultura dell’anticapitalismo romantico. Ma ciò, invece di indurlo ad approfondire la sua analisi, lo portò invece, in un manoscritto del 1933 sulle origini culturali del fascismo, a inasprire la propria autocritica. Secondo questo scritto, Storia e coscienza di classe è un libro pericoloso che contiene «le più gravi concessioni al punto di vista idealistico borghese del mondo». Dopo aver sottolineato la continuità tra l’idealismo tedesco e il fascismo, aggiunge: «Come seguace di Simmel e Dilthey, come amico di Max Weber e Emil Lask, come lettore entusiasta di Stefan George e di Rilke, ho vissuto anch’io l’evoluzione qui descritta … Ho visto molti amici della mia giovinezza, sinceri e convinti anticapitalisti romantici, finire travolti dalla tempesta del fascismo». Il legame decisivo tra la visione anticapitalistica romantica e il suo particolare approccio alla causa rivoluzionaria – un percorso condiviso da molti altri intellettuali tedeschi, in particolare da quelli ebrei con un retroterra romantico – non viene qui neppure preso in considerazione.

Questo manoscritto del 1933, una sorta di primo abbozzo per la Distruzione della Ragione, tenta un’analisi più generale e sistematica del risveglio dell’anticapitalismo romantico alla fine del XIX secolo. In esso Lukács, pur classificando tutti i critici in chiave anticapitalistico-romantica della società borghese come «rivoluzionari romantici» (o perfino come precursori del fascismo), opera tuttavia un’importante distinzione all’interno del neo-romanticismo. Il periodo precedente al 1914, visto attraverso gli scritti di Nietzsche, Tönnies, Simmel, Weber, Huch e la Lebenphilosophie, si ispirava al Frühromantik ed era ancora sufficientemente ambiguo da consentire un’interpretazione di «sinistra». Il periodo del dopoguerra, visto attraverso gli scritti di Heidegger, Jünger, Spengler, Freier, Bäumler e Rosenberg, si richiamava invece direttamente allo Spätromantik ed era apertamente reazionario, se non fascista. La transizione dal primo al secondo periodo fu caratterizzata da una tendenza sempre più spiccata verso l’irrazionalità e il mito. Si tratta di un’ipotesi interessante, che non tiene conto tuttavia dell’evoluzione di pensatori di sinistra come Marcuse, Benjamin, Fromm, Löwenthal e molti altri, che ebbe innegabili legami con la cultura neo-romantica.

La polemica contro l’espressionismo

Lukács fu particolarmente interessato all’opera di Nietzsche. In un articolo del 1934, intitolato Nietzsche precursore dell’estetica fascista, l’autore di Così parlò Zarathustra è presentato come un seguace della tradizione anticapitalistica romantica. Come tutti gli scrittori di questa corrente, «egli compie un continuo raffronto tra la mancanza di cultura del presente (Kulturlosigkeit) e la cultura superiore dell’epoca precapitalista o del primo capitalismo. Come tutti i critici romantici della degradazione dell’uomo prodotta dal capitalismo, Nietzsche combatte il feticismo della moderna civilizzazione, opponendogli la cultura di stadi economici e sociali più arretrati». Lukács appare inconsapevole del fatto che una tale forma di critica culturale, che in effetti gioca un ruolo regressivo in Nietzsche, poteva, in un altro contesto, assumere un carattere rivoluzionario, come ad esempio nel suo articolo del 1919, La vecchia e la nuova cultura. La sua unica concessione fu quella di riconoscere a Nietzsche intenzioni sincere, fuorviate dalla manipolazione nazista delle sue idee: «Il fascismo deve abolire tutto quanto vi è di progressivo nell’eredità borghese; nel caso di Nietzsche deve falsificare o negare ogni espressione di una critica romantica soggettivamente sincera della cultura capitalistica»7.

Lukács valuta in modo non dissimile l’espressionismo nel famoso saggio Grandezza e decadenza dell’espressionismo (1934), in cui questo movimento artistico è messo in relazione con l’anticapitalismo romantico e vengono delineate interessanti analogie con la Filosofia del denaro di Simmel. Ignorandone completamente la dimensione rivoluzionaria, Lukács definisce qui l’espressionismo come «una delle tante tendenze ideologiche borghesi che sarebbero in seguito approdate al fascismo; il cui ruolo ideologico nello spianargli il cammino fu pari a quello delle altre tendenze dell’epoca». Tre anni dopo la pubblicazione di questo saggio, i nazisti organizzarono l’infame mostra sull’«Arte degenerata», in cui furono esposti lavori di quasi tutti i più noti pittori espressionisti. In una postilla aggiunta nel 1953 all’articolo sopra citato, Lukács si mostra imperturbabile. «Il fatto che i nazionalsocialisti abbiano rifiutato in un secondo momento l’espressionismo in quanto forma d’arte degenerata non inficia in nessun modo la verità storica dell’analisi qui esposta»8.

Questa presa di posizione lo portò ad un altro scontro polemico con l’amico di un tempo ed alter ego, Ernst Bloch. Nel 1953 Lukács scrisse una recensione critica di Eredità nel nostro tempo, in cui si sosteneva che fino a quando Bloch avesse continuato a richiamarsi acriticamente all’anticapitalismo romantico, la sua concezione del marxismo sarebbe rimasta sostanzialmente errata. Bloch viene quindi inaspettatamente (ma acutamente) paragonato al «socialdemocratico Herbert Marcuse», che «esaltava l’autentica» Lebenphilosophie di Dilthey e Nietzsche in opposizione a quella falsa dei fascisti9. Nel 1938, nel corso della sua polemica con Bloch, in Es geth um den Realismus, (così come in altri scritti contemporanei) Lukács torna nuovamente sulla distinzione tra le «intenzioni soggettive» sincere di alcuni artisti espressionisti, e il contenuto «oggettivo» (reazionario) della loro opera. Come esempio di questa contraddizione, egli cita… i suoi primi lavori. Malgrado le sue buone intenzioni la Teoria del romanzo era «un’opera del tutto reazionaria», intrisa di misticismo idealista. Persino Storia e coscienza di classe viene definita retrospettivamente «reazionaria in ragione del suo idealismo». Es geht um den Realismus sviluppa quella che è forse la premessa storico-filosofica fondamentale dell’approccio unilaterale di Lukács all’anticapitalismo romantico. In essa si parla infatti del pericolo di un «avvelenamento demagogico» della cultura popolare in conseguenza della decomposizione delle forme antecedenti di vita popolare prodotta dal capitalismo, un processo definito tuttavia «in sé economicamente progressivo». Questa fede nella natura intrinsecamente progressiva e benefica dello sviluppo capitalistico e del razionalismo industriale gli consentì di cogliere la dimensione sovversiva e potenzialmente rivoluzionaria di una critica nostalgicamente rivolta alle forme di vita sociale e ai valori culturali del passato.

Un itinerario tortuoso

Dopo l’articolo del 1931 su Dostoevskij, Lukács appare rinchiuso in uno schema analitico dogmatico che sottolinea quasi esclusivamente gli elementi reazionari e le tendenze pre-fasciste (certamente presenti) della cultura anticapitalista romantica. Ciò nonostante troviamo, in alcuni saggi scritti a Mosca tra il 1939 e il 1941, una valutazione sorprendentemente favorevole di Balzac e Carlyle. Ribattendo a quei critici letterari sovietici che «esaltavano» la tradizione borghese «progressiva» contro le idee «reazionarie» di Balzac, Lukács respinge quella che giudicava una mistificazione liberal-borghese, «la mitologia di uno scontro tra Ragione e Reazione o, in un’altra variante, il mito della lotta tra l’angelo illuminato del progresso borghese … e il demonio nero del feudalesimo». Secondo lui, le intuizioni di Balzac e Carlyle riguardo alla natura del capitalismo – in particolare sulla sua tendenza alla distruzione della natura – non potevano essere espunte meccanicamente dall’insieme della loro visione generale (in cui era compresa la loro ideologia conservatrice), secondo il buon vecchio metodo proudhoniano di separare il lato «buono» delle realtà economiche e sociali da quello «cattivo». Nelle opere di questi scrittori la critica perspicace del capitalismo è intimamente connessa alla loro idealizzazione del Medioevo. Balzac è penetrante grazie al suo anticapitalismo romantico e non suo malgrado10.

Un articolo del 1943 su Dostoevskij è ancora più interessante. In esso Lukács non solo riesamina completamente la sua precedente posizione eccessivamente negativa, ma dimostra anche una sorprendente consapevolezza delle potenzialità rivoluzionarie insite nell’anticapitalismo romantico (sebbene l’espressione non compaia mai nel saggio). Secondo Lukács, i libri di Dostoevskij esprimono una «ribellione contro le deformità morali e spirituali dell’essere umano prodotte dallo sviluppo capitalistico» e una «vibrante protesta contro tutto ciò che è falso e distorto nella società borghese moderna». Contro questo mondo disumano, Dostoevskij sognava di una trascorsa età dell’oro, simboleggiata dalla Grecia arcaica così come è raffigurata dal pittore Claude Lorrain in Acis e Galatea. La rivolta spontanea e selvaggia dei personaggi di Dostoevskij ha sempre un rapporto inconscio con quest’età dell’oro: «Questa rivolta è la grandezza progressiva poetica e storica di Dostoevskij; essa accese un bagliore nell’oscurità della miseria di Pietroburgo, un bagliore che illuminò le strade verso l’avvenire sull’umanità».

Insomma, l’età dell’oro del passato getta la sua luce sulle vie che conducono al futuro utopico: sarebbe difficile immaginare una formula più pregnante per definire quella Weltanschauung romantica e rivoluzionaria che Lukács sembra di nuovo far sua nel 1943. Nella prefazione nel febbraio del 1946 ai suoi saggi sugli scrittori realisti russi, Dostoevskij viene accolto come autore progressivo, capovolgendo così il giudizio espresso negli anni ’30. Nel riconoscere gli elementi reazionari e mistici delle intenzioni soggettive (Subjektiven Meinungen) di Tolstoj e Dostoevskij, Lukács insiste ad assegnare la priorità al significato sociale e storico obiettivo di questi autori. «Il fattore determinante è il legame umano ed artistico dello scrittore con un movimento popolare vasto e progressivo … le radici di Tolstoj si trovano tra la gente di campagna, quelle di Dostoevskij tra gli strati sofferenti della plebe delle città, quelle di Gor’kij tra il proletariato e i contadini poveri. Ma tutti e tre nel più profondo della loro anima sono radicati in questo movimento, che cerca e combatte per la liberazione del popolo. Altro che “i Cento Neri …”!»

Ma durante i primi anni del secondo dopoguerra, il precedente atteggiamento antiromantico di Lukács ebbe di nuovo il sopravvento, come si desume da un confronto tra le sue diverse interpretazioni del personaggio di Naphta nella Montagna incantata. Nel 1942, pur etichettando l’ideologia di Naphta come «demagogia reazionaria» Lukács ammette tuttavia che Thomas Mann se ne era servito per mettere in evidenza «il carattere seducente (spirituale e morale) dell’anticapitalismo romantico» e «la correttezza di alcuni elementi della sua critica dell’attuale vita quotidiana». Ciò nonostante, pochi anni più tardi «il gesuita Naphta» è definito semplicemente come «il portavoce della Welthanschauungen reazionaria, fascista e antidemocratica». La sua analisi assomiglia molto ad una versione raffinata di quello scontro mitico tra «l’angelo di luce del progresso borghese e il nero diavolo del feudalesimo», a cui aveva accennato ironicamente nel 1941. Il tema centrale della Montagna incantata è «lo scontro ideologico tra la vita e la morte, la salute e la malattia, la reazione e la democrazia», il duello intellettuale tra «l’umanista democratico italiano Settembrini e l’allievo ebreo dei gesuiti Naphta, portavoce di un’ideologia cattolicizzante e prefascista». Sembra evidente che una semplificazione così unilaterale e grossolana non afferra l’ambivalenza affascinante del personaggio di Naphta, e riduce il suo anticapitalismo romantico, la sua complessa e paradossale ideologia religiosa-rivoluzionaria, alla sola dimensione conservatrice e oscurantista.

La distruzione della ragione.

Molti scritti di Lukács risentono di questo giudizio arido e limitato della cultura romantica. Il caso più noto è quello della Distruzione della Ragione (1955), in cui l’intera storia del pensiero tedesco, da Schelling a Tönnies, da Dilthey a Simmel e da Nietzsche a Weber viene dipinta come un assalto in grande stile della reazione contro la ragione e tutte le correnti del romanticismo, «dalla scuola storica del diritto a Carlyle», vengono accusate di aver favorito «una totale irrazionalizzazione della storia» e quindi, in ultima analisi, il trionfo dell’ideologia fascista.

I critici giudicano generalmente questo libro un pamphlet stalinista. Ciò non è del tutto esatto, dato che il suo leitmotiv non è, come per Zdanov e i suoi seguaci, la contrapposizione tra scienza (o filosofia) «proletaria» e scienza «borghese», ma piuttosto quella tra Ragione e Irrazionalità. Il suo limite più grave è di ignorare quella che la Scuola di Francoforte definisce «la dialettica dell’illuminismo», la trasformazione della ragione in uno strumento al servizio del mito, dell’oppressione e dell’alienazione. Paradossalmente, in quest’opera il concetto di anticapitalismo romantico è quasi del tutto assente. I romantici e i loro seguaci vi vengono trattati semplicemente da reazionari e da irrazionalisti. Uno dei pochi autori esplicitamente citati nel libro come anticapitalisti romantici è Ferdinand Tönnies, che è presentato in una luce piuttosto favorevole: «Scopriamo in Tönnies, rispetto all’anticapitalismo romantico precedente, una differenza: non vi è in lui la nostalgia di un ritorno a situazioni sociali sorpassate, in particolare al feudalesimo. La sua posizione costituisce piuttosto la base di una critica culturale che sottolinea nettamente i tratti negativi e problematici della cultura capitalistica, insistendo al tempo stesso sul carattere inevitabile e fatale del capitalismo». Tuttavia, l’opposizione tra Gesellschaft e Gemeinschaft, il tema centrale dei lavori sociologici di Tönnies, non rappresenta per Lukács altro che una deformazione «anticapitalista-romantica, soggettiva e irrazionalista» della realtà dello sviluppo capitalista già osservato da Marx11.

Lungo tutta l’evoluzione spirituale di Lukács, il rapporto con Dostoevskij appare sintomatico del suo atteggiamento generale verso l’anticapitalismo romantico. Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, la tendenza predominante fu l’anatema, di cui si può cogliere ancora un’eco nel Significato del realismo contemporaneo (1957), probabilmente uno dei peggiori saggi che Lukács abbia mai prodotto. In un primo momento egli sembra voler riconoscere lo sforzo critico dello scrittore russo. «Ciò che fa soffrire l’eroe di Dostoevskij è la disumanità tipica degli esordi del capitalismo, che marchia di sé tutti i rapporti umani». Ma il punto essenziale è un altro. «La protesta di Dostoevskij contro la disumanità del capitalismo si trasforma rapidamente in una critica del socialismo e della democrazia, fondata su una sofistica confusionista e su un anticapitalismo di tipo romantico». Il processo iniziato da Dostoevskij sarebbe stato sistematizzato da Nietzsche e avrebbe infine condotto al fascismo. Questo rifiuto del progresso e della democrazia si sviluppò progressivamente fino a sfociare nella demagogia sociale dell’hitlerismo». Un simile ragionamento astratto, che stabilisce una sorta di continuità ideologica irreversibile e ineluttabile da Dostoevskij a Hitler, è quanto meno assurdo e contrasta con l’influenza determinante esercitata dallo scrittore russo su tanti intellettuali rivoluzionari – a cominciare dallo stesso Lukács.

Gli ultimi anni

Gli anni che seguirono segnarono una sorta di pausa. Nelle sue grandi opere degli anni’60 – l’Estetica e l’Ontologia – il problema dell’anticapitalismo romantico è per lo più dimenticato e i riferimenti alla cultura romantica sono relativamente neutrali. Negli ultimi anni della sua vita, Lukács tornò infine ad avvicinarsi in modo più equilibrato ed aperto all’anticapitalismo romantico, quasi sempre in occasione delle riedizioni di suoi scritti giovanili. Ad esempio, nella prefazione alla ristampa del 1967 di Storia e coscienza di classe, riconobbe di dovere «qualcosa di positivo» a quell’«idealismo etico, con tutti i suoi tratti anticapitalisti romantici» e che questi elementi «con molteplici e profonde modificazioni» si erano integrati nella sua nuova visione del mondo (marxista)12. In un’intervista concessa nel 1966 a Wolfgang Abendroth, dichiarava: «Oggi non rimpiango di aver appreso le prime nozioni di scienza sociale da Simmel e Max Weber, piuttosto che da Kautsky. Ritengo che non si possa negare l’utilità di questa circostanza ai fini della mia evoluzione»13.

Ancora una volta, l’atteggiamento di Lukács verso Dostoevskij è l’indice del suo atteggiamento generale nei riguardi dell’anticapitalismo romantico. Nella prefazione del 1969 alla raccolta ungherese dei suoi saggi (Útam Marxhoz o La mia strada verso Marx), Lukács riferisce come la sua iniziale «ribellione anticapitalista romantica, rivolta contro le basi stesse del sistema costituito», fosse ampiamente ispirata da «un’interpretazione rivoluzionaria di Dostoevskij». Ancora più esplicitamente, nella prefazione del 1969 alla raccolta Letteratura ungherese, Cultura ungherese, egli rammenta che prima del 1917: «… ponevo i grandi autori russi, primi fra tutti Dostoevskij e Tolstoj, tra i fattori rivoluzionari decisivi … Fu in questo momento della mia evoluzione che l’anarco-sindacalismo francese mi influenzò in modo considerevole. Non sono mai riuscito a far mia l’ideologia social-democratica di questo periodo, e in particolar modo quella di Kautsky».

Da queste note autobiografiche risulta chiaramente l’ispirazione che Lukács trasse dalle varie forme di anticapitalismo romantico – dalla sociologia tedesca alla letteratura russa – durante i suoi anni di Bildung spirituale e politica. Furono esse ad ispirargli la lotta contro l’ideologia dominante liberal-razionalista (o positivista-utilitarista), inclusa la sua versione socialdemocratica, e lo condussero a sostenere i movimenti che si opponevano all’ordine borghese, dapprima gli anarco-sindacalisti e poi il bolscevismo. Ciò nonostante, dai tardi anni ’20, fino alla fine degli anni ’60, escluso un breve periodo nel corso della seconda guerra mondiale, Lukács soffrì di una strana cecità ideologica e sembrò percepire solo l’aspetto reazionario, irrazionalista, prefascista dell’anticapitalismo romantico.

Come possono essere spiegati questi stupefacenti cambiamenti? Corrispondevano a un movimento interno all’evoluzione filosofica di Lukács? Erano il riflesso di determinate circostanze storiche: l’ascesa del fascismo, l’uso di riferimenti romantici nei discorsi nazisti? O riflettevano le tante svolte a cui andò incontro la linea politica del Comintern e dell’Unione Sovietica? Non sono in grado di rispondere a queste domande. In ogni caso, questo percorso tormentato e contraddittorio dimostra che Lukács oscillava, come Hans Castorp, l’eroe del suo romanzo preferito, tra due poli: un «Settembrini marxista» e un «Naphta rivoluzionario». Egli non riuscì mai a superare le antinomie tra le sue stesse Weltanschauungen in una sintesi dialettica, l’Aufhebung della contraddizione tra romanticismo e illuminismo.

Bibliografia

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G. Bedeschi, Introduzione a Lukács, Bari, Laterza, 1970.
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R. Caccamo-De Luca, L’intellettuale come “utopia”: il caso Lukács -Mannheim, Roma, Elia, 1977
Y. Bordet, Lukács, il gesuita della rivoluzione, Milano, Sugar, 1979.
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F. Fehér-À.Heller-G.Markus-A.Radnóti, La scuola di Budapest: sul giovane Lukács, Firenze, La Nuova Italia, 1978.
R. Valle, Dostoevskij politico e i suoi interpreti, Roma, Archivio Guido Izzi, 1990.

Note

1 T. Mann, Journal 1918-1921, 1933-34 (Paris, Gallimard, 1985), 88, 89, 106, 108, 121: «nel libro di Landauer ci sono molte cose che mi sono piaciute … Sto studiando la possibilità di introdurre degli elementi russo-chiliastico-comunisti nella Montagna incantata».

2 G. Lukács, Teoria del romanzo (Sugar, Milano, 1962) pp. 55, 61, 217.1 presupposti religioso-rivoluzionari di questo libro si trovano nella contemporanea Dostoevskij-Notizen (scoperta e trascritta da F. Fehér), in cui la letteratura russa, il messianesimo ebraico, il misticismo, Kierkegaard, Nietzsche e Sorel sono fusi in una filosofia deila storia romantica e apocalittica. L’alternativa al moderno stato europeo, che non è altro che «die organisierte Tuberkolose», è una forma utopica della Gemeinde russa.

3 G. Lukács, Geschichte und Klassenbewusstein (Storia e coscienza di classe, Milano, Sugar, 1967, p. 119). Vedi anche L. Colletti, Il Marxismo e Hegel (Bari, Laterza, 1973).

4 Il primo scritto in cui questa nuova posizione fa la sua comparsa è una recensione del 1928 del libro di Carl Schmitt sul romanticismo politico. Lukács appoggia senza alcuna riserva la tesi di Schmitt – a mio avviso molto superficiale – riguardo all’«occasionalismo e alla mancanza di contenuto politico del pensiero romantico». Seguendo Schmitt, Lukács insiste sull’«incoerenza» dei romantici, sul loro soggettivismo antiscientifico, sul loro esasperato estetismo, ecc.

5 Lukács paragona il percorso di Dostoevskij, dalla cospirazione rivoluzionaria alla religione ortodossa e allo zarismo, all’evoluzione di Friedrich Schlegel, il repubblicano romantico che si unì infine a Metternich e alla Chiesa cattolica.

6 Cfr. Ernst Bloch, «Intervista con Ernst Bloch»: «Mio caro amico, gli ho detto, mio mentore per quanto concerne Dostoevskij e Kierkegaard … Che ti è accaduto per scrivere una cosa simile su Dostoevskij?»

7 In Friedrich Nietzsche, di F. Mehring e G. Lukács (Berlino, Aufbau Verlag, 1957).

8 G. Lukács «Grosse und Verfall des Expressionismus», Essays über Realismus (Saggi sul realismo, Torino, Einaudi, 1970).

9 Il riferimento è al saggio di Marcuse («Der Kampfgegen den Liberalismus in der totalitären Staatsauffassung»). La recensione di Lukács rimase inedita a lungo. Ne esiste una traduzione italiana in G. Lukács, Intellettuali e irrazionalismo, a cura di V. Franco (Pisa, Ets, 1984).

10 G. Lukács, Ecrits de Moscou (Parigi, Editions Sociales, 1974).

11 G. Lukács, Die Zerstörung der Vernunft (La Distruzione della ragione, Torino, Einaudi 1959, p. 129, 600-7).

12 G. Lukács, «Prefazione alla nuova edizione (1967)», in Storia e coscienza di classe, cit., р. IX.

13 Conversazioni con Lukács, di W. Abendroth, Hans Heinz Holz, Leo Kofler (Bari, De Donato, 1968, p. 122).

Tra Marx e Dostoevskij

di Vittorio Strada

«Lettera internazionale», n. 23, 1990

Nella storia del comunismo, intenden­do con questo termine non un insie­me di idee semplicemente ma quella realtà prima russa e poi mondiale la cui data d’inizio può essere indicata nel 1917, non c’è una figura intellettuale che s’imponga con la forza d’autenticità di quella di György Lukács. Non parlo di autenticità nel senso di un comunismo marxista ortodosso o vero rispetto ad altri ereticali o spuri, classificazione che, per quanto non estranea allo stesso Lukács co­me a tutti gli altri comunisti e marxisti ante­riori all’attuale crisi del loro movimento, non può avere alcun significato per chi si trova su posizioni di libertà mentale e di indipendenza politica. L’autenticità del comunismo di Lukács è quella di una scelta e di una coerenza esistenziale che rendono la sua figura di estre­mo interesse anche per chi non accetta i con­tenuti e i metodi del suo lavoro culturale e po­litico, ma riconosce la sua non comune statu­ra intellettuale nel panorama della filosofia eu­ropea del Novecento.

Potrà suonare sconcertante, ma nella gran­de vicenda storica comunista alla figura di Lukács, per intensità di esperienza totale, non riesco a metterne accanto nessun’altra se non quella di Vladimir Majakovskij. Paradossale accostamento: che cosa ci può essere di comu­ne tra il filosofo marxista che attraversò tutte le tappe del comunismo fino alla sua crisi post-staliniana e il poeta futurista che visse solo la prima fase comunista, suicidandosi proprio quando cominciava quella staliniana? Che co­sa ci può essere di più antitetico tra il teorico di un’arte «realista» nelle sue varianti del «rea­lismo critico» e del «realismo socialista» e il più clamoroso rappresentante dell’«antirealismo» dell’avanguardia? Il confronto non può essere spinto oltre un certo limite, naturalmen­te, ma ciò che permette di accostare figure che sembrano, e in parte realmente sono, incom­patibili tra loro è appunto l’autenticità esisten­ziale profonda del loro comunismo, da en­trambi, d’altronde, così diversamente vissu­to. Ed è anche un’osservazione assai acuta di Boris Pasternak, secondo cui Majakovskij sembrava uscito da una pagina dei romanzi di Dostoevskij. Ma lo stesso si può dire an­che di Lukács, anzi a maggior ragione, per­ché lui, Lukács, in un periodo decisivo della sua vita proprio Dostoevskij o, meglio, i suoi romanzi aveva eletto a guida etico-intellettuale, dedicando al grande scrittore rus­so una ricerca della quale conosciamo la par­te introduttiva, la Teoria del romanzo, e gli appunti, solo di recente resi noti. E in comu­ne tra il poeta futurista e il filosofo marxista-leninista c’era la Russia. Che Majakovskij fos­se russo è ovviamente chiaro, ma «russo» lo fu anche Lukács, se si pensa alla parte decisi­va che la Russia pre-rivoluzionaria e poi so­vietica ebbe nella sua vita interiore, nella sua formazione e nel suo destino.

Il fine e i mezzi

Non ha senso ripetere le operazioni di chi, per dogmatismo residuo o per falsa pietas, co­struisce un’immagine oleografica e agiografica di Lukács, ripulendola dalle parti più dram­matiche della sua militanza comunista che è stata coerentemente leninista e stalinista, con cedimenti anche assai gravi; e di chi invece spinge una giusta critica dell’organico coinvol­gimento di Lukács in tutta l’esperienza comu­nista, anche la più fosca, oltre il limite che per­mette di vedere quella che ho chiamato l’au­tenticità della sua esperienza etico-intellettuale, la sua integrità e coerenza. Ma gli apologeti sono più meschini dei detratto­ri, i quali almeno sentono un problema reale. Qui, presentando una serie di saggi diversi su Lukács, converrà soffermarsi soltanto, nella prospettiva sopra delineata, su un periodo cru­ciale della sua esistenza: quello tra il 1918 e il 1919 in cui il filosofo ungherese «decide» il proprio destino futuro, ricavando la sua «scelta» da tutto il suo passato cosciente e, si può dire, anche inconscio e operando, nello stesso tempo, una sorta di salto dialettico, al quale resterà poi rigorosamente fedele. È que­sto il momento in cui i «due» Lukács, quello pre-marxista (ma non ignaro del marxismo) e quello marxista (ma soprattutto leninista) si incontrano e si separano. Anche questo mo­mento è così ricco e profondo da richiedere di per sé un ampio studio. Qui ci si limiterà ad alcuni aspetti essenziale e, soprattutto, at­tuali in questo momento in cui la storia co­munista è giunta a una sua crisi e forse a una sua fine.

«Nella liberazione dal compromesso si na­sconde l’affascinante forza del bolscevismo. Ma colui che ne viene affascinato forse non si rende pienamente conto a che cosa va in­contro per cercare di evitarlo. Il suo dilemma è il seguente: si può raggiungere il bene con mezzi cattivi? Si può conquistare la libertà con l’oppressione? È mai possibile un nuovo si­stema mondiale se i mezzi usati per il suo rag­giungimento differiscono solo tecnicamente dai mezzi del vecchio sistema, così giustamen­te odiati e disprezzati? Qui evidentemente ci si potrebbe richiamare alla tesi della sociolo­gia marxista che dice che tutto il corso della storia sta nelle lotte di classe, nelle lotte degli oppressi contro gli oppressori, e la lotta dei proletariato non può sfuggire a questa “leg­ge”. Ma se ciò è vero, in questo caso (…) tut­to il contenuto ideologico del socialismo (tran­ne per quanto riguarda la soddisfazione degli interessi diretti del proletariato) non sarebbe che un’ideologia. E questo è impossibile. E proprio perché è impossibile, non si può, dal­l’accertamento dei fatti storici, fare il pilastro per una volontà morale, per la volontà di un nuovo sistema mondiale. Perché allora biso­gna prendere il male per il male, l’oppressio­ne per l’oppressione, il potere di classe per il potere di classe. E bisogna credere (e questo è il vero credo quia absurdum est) che ad un’oppressione non segua una nuova lotta de­gli oppressi per il potere (per poter esercitare una nuova oppressione) e così via, una serie interminabile di eterne lotte senza senso e sen­za scopo – ma l’abolizione dell’oppressione stessa».

Questo brano si legge verso la fine dell’ar­ticolo di György Lukács Il bolscevismo come problema morale, articolo con cui egli nel di­cembre 1918 argomentava il suo rifiuto del bolscevismo. In quello stesso dicembre, Lukács capovolse la sua decisione, aderendo al partito comunista e giustificando questa re­pentina scelta con l’articolo Tattica ed etica, scritto nei primissimi mesi del 1919. Là dove Lukács, nel passo sopra riportato, parla di credo quia absurdum, si potrebbe vedere la molla della sua «conversione», la quale ebbe indubbiamente una segreta radice irraziona­le. Ma limitarsi a questa constatazione, che a sua volta rimanda a una «scelta» di tipo kierkegaardiano, a un vero e proprio aut/aut, si­gnificherebbe trascurare, da una parte, tutta la precedente ricerca intellettuale di Lukács e lo specifico ambiente culturale «romantico» in cui essa si era svolta in senso antiliberal-borghese e antidemocraticocapitalistico e, dal­l’altra, la stessa argomentazione svolta nell’ar­ticolo Il bolscevismo come problema morale, argomentazione che mette in luce le antino­mie del socialismo come «nuovo sistema mon­diale», capace di dare un senso e uno scopo alla storia, altrimenti ridotta a un susseguirsi assurdo di lotte per il potere.

L’etica del terrorismo

Nell’articolo del 1918 Lukács sente il «fa­scino» del massimalismo bolscevico che pone fine ad ogni «compromesso» e che adotta la violenza come condizione per attuare un «nuovo sistema mondiale» che si promette ar­monioso. Ma qui Lukács sente ancora la for­za della ragione e capisce che si tratta di «cre­dere», di fare un atto di vera e propria fede nella possibilità del miracolo rivoluzionario che trasformi il male radicale (la violenza) in un bene altrettanto radicale (comunismo). E ad appoggio della sua riflessione egli cita un personaggio dell’autore a lui più vicino in que­gli anni, Dostoevskij, un personaggio di De­litto e castigo secondo il quale attraverso la menzogna si può giungere alla verità. La con­clusione cui Lukács perviene in quel suo arti­colo è la seguente: «Il sottoscritto è incapace di condividere questa opinione e perciò vede l’insolubile problema bolscevico nelle radici stesse delle posizioni bolsceviche. La democra­zia, secondo me, richiede solo rinunce e sacrifici sovrumani da coloro che vogliono co­scientemente e onestamente agire fino in fon­do. E questo, anche se costa sforzi incommen­surabili, non è un problema insolubile, come lo è invece il problema morale bolscevico».

Se ora leggiamo la parte conclusiva del suc­cessivo e vicino articolo Tattica ed etica, fon­dazione del suo passaggio al bolscevismo con una chiara consapevolezza di ciò che questo significava sul piano morale, troviamo un ca­povolgimento delle posizioni del dicembre 1918 e, nello stesso tempo, una loro continua­zione e soluzione (soluzione, evidentemente, non logica, dato che giustamente egli aveva definito «insolubile» il «problema morale bol­scevico», ma etico-religiosa, se al termine «re­ligioso» si conferisce un particolare signifi­cato).

«Nessuna etica può avere come compito di escogitare ricette per un agire corretto, di li­vellare o di occultare gli insuperabili tragici conflitti del destino umano. L’autoriflessione etica, al contrario, ci indica appunto che esistono delle situazioni – tragiche situazio­ni – nelle quali è impossibile agire senza at­tirarsi su di sé una colpa; e altresì ci insegna che persino nel caso in cui potessimo sceglie­re tra due modi di renderci colpevoli, l’azio­ne giusta e quella sbagliata avrebbero tutta­via un criterio. Questo criterio si chiama sa­crificio. Allo stesso modo come il singolo, sce­gliendo tra due specie di colpa, trova infine la giusta scelta sacrificando sull’altare dell’i­dea superiore il proprio io inferiore. Così esi­ste anche una forza che consente di commi­surare questo sacrificio all’agire collettivo; qui però l’idea si incarna in un comando della si­tuazione storico-universale, come vocazione imposta dalla filosofia della storia».

A questo punto Lukács cita un altro russo, un terrorista socialrivoluzionario, Boris Savinkov, noto con lo pseudonimo di Ropšin, personalità notevole che in opere letterarie me­ditò sul fenomeno del terrorismo.  Per Savinkov-Ropšin, l’omicidio compiuto dal terrorista rivoluzionario è sì la violazione di un imperativo («non uccidere»), ma, insieme, l’obbedienza ad un altro imperativo («devi uc­cidere»). Il terrorista trova non la giustifica­zione del suo atto, il che è impossibile, ma «l’ultima radice morale di essa nel fatto che egli sacrifica per i suoi fratelli non solo la sua vita, ma anche la sua purezza, la sua morale, la sua anima».

Conclude e commenta Lukács: «In altre pa­role: solo l’azione omicida dell’uomo, il qua­le sa con assoluta certezza e senza dubbio al­cuno che in nessuna circostanza l’omicidio de­ve essere approvato, può avere, tragicamen­te, una natura morale. Per esprimere questo pensiero sulla più grande delle tragedie uma­ne con le incomparabilmente belle parole della Judith di Hebbel: “E se Iddio avesse posto il peccato tra me e l’azione che mi è stata impo­sta, chi sono io perché possa sottrarmi ad esso?”».

Così Lukács illumina la sua «via al comu­nismo» nell’atto stesso in cui la intraprende e la percorre (e sappiamo che la percorrerà fi­no all’ultimo), assumendosi la piena respon­sabilità di ogni violenza. Si tratta di una argomentazione-confessione di estrema luci­dità, che non si nasconde dietro illusioni re­toriche e accetta la «colpa», il «sacrificio», l’«omicidio», tutte parole che ricorrono nel passo finale di Tattica ed etica, assieme all’e­spressione di «tragico». E, infine, a suggella­re la tormentosa riflessione ormai conchiusa con un atto di fede nel bolscevismo, la cita­zione dalla Judith di Friedrich Hebbel, una ci­tazione cara a Lukács.

Giuditta e Oloferne

Possiamo partire da questa citazione per ve­dere però una inconsistenza che non appare alla superficie del tormentato ragionamento di Lukács o, per dir meglio, della sua «scel­ta» travagliata. È facile constatare che la fra­se di Hebbel è leggermente, ma significativa­mente mutata nel testo di Lukács. Nell’atto terzo del dramma, Giuditta, votata ad ucci­dere Oloferne, pronuncia inginocchio un ap­passionato soliloquio con Dio, dal quale si sente ispirata a compiere quell’uccisione: «La via alla mia opera passa attraverso il pecca­to! Grazie, grazie a te! Signore! Tu rischiari il mio occhio. Davanti a te l’impuro si fa pu­ro; se tu poni tra me e la mia opera un pecca­to: chi sono io da litigarne con te, da sottrar­mi a te?» (Traduzione di Scipio Slataper). Lukács spersonalizza l’invocazione sofferta di Giuditta e la trasforma in una sorta di sentenza universale. E spersonalizzandola le to­glie quella carica tragica che essa ha nel dram­ma di Hebbel, perché toglie al delitto tutta la tensione che deriva dall’assolutezza religiosa dell’imperativo «non uccidere».

Lukács crede di poter mantenere il concet­to di «sacrificio», come quello di «colpa» e «peccato», facendo riferimento a un «coman­do della situazione storico-universale, come vocazione imposta dalla filosofia della storia». Ma quella «filosofia della storia» che è il mar­xismo relativizza ogni valore morale e se pre­tende di creare un nuovo assoluto sui gene­ris, lo pone storicamente nel futuro, nel «nuo­vo sistema mondiale» di cui parla Lukács nel Bolscevismo come problema morale, veden­do lucidamente tutte le insolubili antinomie della nuova «moralità». Dal punto di vista di questa «filosofia delia storia» aveva perfetta­mente ragione quel suo massimo teorico e pra­tico che era Lenin, da Lukács ammirato e ve­nerato, per il quale l’unico criterio morale di un atto stava nella sua utilità dal punto di vi­sta dell’attuazione dei «nuovo sistema mon­diale», cioè del comunismo. E Lenin, come ogni bolscevico, non si poneva affatto i tor­mentosi problemi dei cristiani personaggi di Dostoevskij. L’unico criterio di valutazione del terrore era la sua opportunità, la sua tem­pestività, la sua efficacia. Si trattava di un atto tecnico, non etico. Stalin era un perfetto bol­scevico e l’unica obiezione che, dal punto di vista della «filosofia della storia», gli si pote­va eventualmente muovere, era di natura tec­nica (erano davvero necessari tanti eccidi per il comunismo?), non etica. Nessun bolscevi­co è pensabile nella posizione della Giuditta che sente di dover uccidere il tiranno Olofer­ne. Neppure Lukács, bolscevico «etico» che supera l’etica con un atto di «fede» raziona­lizzata, è pensabile nell’invocazione tragica di Giuditta. Tanto è vero che Lukács trasforma quell’invocazione in una formula. E infatti, se si trasforma la Storia in una sorta di dio e la «filosofia della storia» in una teologia «scientifica», a chi rivolgersi con una invoca­zione, con una preghiera, con una interroga­zione? Lukács, come ogni terrorista bolscevi­co (nel senso non di un terrore praticato direttamente, ma di un terrore condiviso), non poteva avere lo statuto e la statura di un eroe tragico. La tragedia investiva soltanto le vit­time di quel terrore, i milioni e milioni di in­nocenti che la «filosofia della storia» condan­nava a una morte giustificata, nelle pretese della «filosofia», dall’instaurazione di un «nuovo sistema mondiale».

Un’altra osservazione è necessaria. Lukács fa riferimento agli eroi di Dostoevskij e a reali rivoluzionari russi come Boris Savinkov e Ivan Kaljaev, che furono presenti anche nella sua riflessione precedente. Per quanto legati all’organizzazione dei socialisti-rivoluzionari, questi terroristi erano ancora «ottocenteschi». Kaljaev, quando deve gettare una bomba contro la carrozza che ha a bordo l’odiato governatore di Mosca, si ferma e desiste perché vede che col governatore si trovano la moglie e giovani nipoti. Poi, portato a termine l’attentato in un secondo tentativo, è visitato in carcere, prima dell’esecuzione capitale, dalla vedova del governatore, con la quale ha uno straordinario colloquio. Si può giudicare negativamente anche questo terrorismo, certo, ma non si può non vedere la sostanziale differenza tra il terrorismo «tradizionale» e quello nuovo, «totalitario», inaugurato dalla rivoluzione bolscevica. Lukács sapeva benissimo che lo «spirito del tempo» era mutato ed egli stesso darà la più profonda teoria del nuovo tipo di terrore in Lotta e coscienza di classe, dove il nuovo dio della Storia trova il suo rappresentante assoluto nel Partito, organo attraverso cui i «comandi della situazione storico-universale» inappellabilmente si esprimono. Il terrore comunista non era quello di un Savinkov o di un Kaljaev, ma quello dei Demoni dostoevskiani. E coerentemente Lukács dal suo dostoevskismo giovanile, così appassionato e tormentato, doveva poi passare un antidostoevskismo che non consiste, na­turalmente, in una negazione della grandezza artistica dell’autore di Delitto e castigo, ma nella sua trattazione nei termini di un accademismo marxista-leninista.

L’etica della convinzione

Si potrebbe chiudere qui questa rapida lettura di una pagina così pregnante non soltanto della biografia intellettuale di Lukács, ma della storia etico-politica europea. Proprio perché di storia europea si tratta, conviene però chiudere questo episodio andando al di là Lukács e del bolscevismo. Nelle pagine fina­li del Lavoro intellettuale come professione Max Weber svolge la sua nota distinzione tra un’etica della responsabilità e un’etica della convinzione, riflessioni che sono segretamente improntate dall’esperienza rivoluzionaria del giovane Lukács, la quale non trovò rifle­sso soltanto nella Montagna incantata di Thomas Mann. La lettura di queste pagine weberiane è complessa, e qui ci limiteremo a un passo centrale, in cui ritorna ancora il nome Dostoevskij:

«Qui, su questo problema della giustificazione dei mezzi mediante il fine, anche l’etica della convinzione in genere sembra destinata a fallire. E in effetti essa non ha logicamente altra via che quella di rifiutare ogni azione che operi con mezzi pericolosi dal punto di vista etico. Logicamente. Senza dubbio, nel mondo della realtà noi facciamo continuamente l’esperienza che il fautore dell’etica della convinzione si trasforma improvvisamente nel profeta chiliastico, e che per esempio coloro i quali hanno testé predicato di oppore “l’a­more alla forza”, un istante dopo fanno ap­pello alla forza – alla forza ultima, la quale dovrebbe portare all’abolizione di ogni pos­sibile forza, così come i nostri capi militari ad ogni nuova offensiva dicevano ai soldati: “Questa è l’ultima, ci porterà alla vittoria e quindi alla pace”. Chi segue l’etica della convinzione non sopporta l’irrazionalismo etico del mondo. Egli è un “razionalista” cosmico-etico. Chiunque di voi conosca Dostoevskij ri­corderà l’episodio del Grande Inquisitore dove il problema è discusso con estrema acutezza».

E chiunque conosca gli appunti di Lukács su Dostoevskij sa quanta importanza abbia avuto per lui anche il geniale episodio del Grande Inquisitore, come ho cercato di met­tere in luce in un mio scritto.

Ma, se torniamo alle parole di Weber, non è difficile capire che esse si riferiscono al gio­vane Lukács, col quale Weber aveva avuto rapporti intellettuali assai stretti. E, in un certo senso, Weber fu profeta o, per dir meglio, capì il «razionalismo» cosmico-etico del neofita ri­voluzionario, ad aspettare il quale stavano prove e «colpe» superiori alla sua immagina­zione. Ma, accettato con un atto di «fede» ir­religiosa poi razionalizzato il terrorismo bol­scevico, Lukács non venne mai meno a quel­la scelta, trasformandosi da neofita pseudo­tragico in «gesuita della rivoluzione», come fu visto da Thomas Mann. Anche per questo György Lukács, come quell’altro personaggio dostoevskiano che fu Vladimir Majakovskij, resta la figura più autentica in senso etico-intellettuale della cultura comunista. E sareb­be inutile, oltre che inadeguato alla sua sta­tura, cercare di togliergli quel «peccato» che egli, immaginandosi una ripetizione di Giudit­ta, si assunse con piena consapevolezza e re­sponsabilità, un «peccato» che tuttavia fu più grave di quanto egli non pensasse nei suoi «ro­mantici» anni giovanili, ma che egli mai rifiu­tò, sacrificando sempre più sull’altare di un’i­dea inferiore il suo io superiore.

Soltanto vicino alla morte, egli, si dice, per un attimo ebbe la sensazione di aver sbaglia­to. Ma l’ideologica «filosofia della storia» da lui professata gli ridiede, forse, una astratta e facile serenità che neppure la religione può garantire alle sue tormentate Giuditte. A Lukács, fedele sempre al feticcio del Partito, manca quell’aureola di «eroe tragico» che la protagonista del dramma hebbeliano ha e che il filosofo ungherese voleva conferire a chi ac­cettava il terrorismo bolscevico. Aureola tra­gica che, invece, non si può negare a Maja­kovskij, il quale, privo del conforto della «fe­de» hegelo-marxista, pagò col sacrificio della vita il suo tormento e la sua «colpa».

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Opere di V. Strada

Introduzione a Gy. Lukács, M. Bachtin e altri, Pro­blemi di teoria del romanzo, Torino, Einaudi, 1976.

Introduzione a Michail Bachtin, Tolstoj, Bologna, il Mulino, 1986.

Le veglie della ragione. Miti e figure della letteratura russa da Dostoevskij a Pasternak, Torino, Einaudi, 1986.

Problemi della destalinizzazione: il caso Lukács in «Socialismo storia». Ripensare il 1956, Roma, Lerici.

The Master and the Slave: Lukács, Bakhtin, and the Ideas of their Time

41kfMF4SYrL._SY344_BO1,204,203,200_This book is a comparative study in the history of ideas. It is an innovative examination of the intellectual background, affiliations and contexts of two major twentieth-century thinkers and an historical interpretation of their work in aesthetics, cultural theory, literary history, and philosophy.
Unlike all existing texts on Lukacs and Bakhtin, this book offers a comparison of their writings at different stages of their intellectual development and in the broad context of the ideas of their time. The book introduces unknown archival material and discusses hitherto disregarded or overlooked texts by Lukacs and Bakhtin. It puts forward new readings of best-known work on Dostoevsky, Rabelais, and Goethe and treats in an original way the question of the coherence of Bakhtin’s ouevre. The book offers valuable insight into the sources of Bakhtin’s terminological repertoire and through examination of Bakhtin’s and Lukacs’s intellectual affiliations–of the limits and substance of their originality as thinkers.
Lukacs and Bakhtin emerge from the book as thinkers, whose intellectual careers followed strikingly similar paths. They both were confronted with similar agendas and questions posed for them by their time. Bakhtin however, had to find answers not only for this common agenda but also to the answers that Lukacs himself had already provided.

Das »Dostojewsky-Projekt«

icoLukács’ neukantianisches Frühwerk in seinem ideengeschichtlichen Kontext

The young Lukács’ plans for a book on Dostoyevsky were ambitious in scope. On the one hand they essay a sharply defined formal distinction between the semantic worlds and the functional modes of art, ethics, and everyday communication, only to reestablish the relation between them on the content plane in an essayistic form of writing modeled on Dostoyevsky. The present study undertakes a systematic reconstruction of this project as documented both in the large-scale unfinished works (»Theory of the Novel« and the Heidelberg aesthetic theory torso) and in a large number of minor texts and author’s notes. In so doing it locates the place of the work in the intellectual context of the early 20th century.

Lukács e la mistica di Dostoevskij

di Vittorio Strada

«Corriere della sera» 9 settembre 2000

GYÖRGY LUKÁCS, Dostoevskij A cura di Micheli Cometa SE, pagine 164, lire 30.000<

Tra gli itinerari che portarono ad aderire alla rivoluzione bolscevica il più singolare è quello di György Lukács. Dopo una folgorante formazione nell’ambito della cultura filosofica e letteraria ungherese e tedesca, Lukács giunse ad un incontro, per lui organico e decisivo, con l’«idea russa» e, in particolare, con l’opera di Dostoevskij, il cui «sacro nome» egli ricorda con trepidazione in un saggio giovanile come quello del «nostro più grande autore epico». L’incontro con la Russia divenne anche un fatto della sua vita personale poiché nel 1913 egli conobbe e poi sposò una rivoluzionaria russa fuoriuscita, Elena Grabenko: il loro tormentato rapporto aprì a Lukács il mondo del terrorismo russo, della cui problematica morale e intellettuale egli subì il fascino attraverso le pagine dei libri del più complesso terrorista russo, Boris Savinkov (Ropscin), che la Grabenko gli traduceva. Era, in particolare, il problema etico del delitto commesso in nome di un supremo valore di giustizia che agitava Lukács, delitto non riscattabile come mezzo giustificato dal fine, ma colpa per chi lo commetteva e purtuttavia necessario: il terrorista assassino diventava lui, in un certo senso, la vittima poiché, scriveva Lukács, muovendo da un’«etica mistica» si deve violare il comandamento del «non uccidere» e per «salvare l’anima», cioè per essere fedele a un imperativo superiore, il terrorista deve «sacrificare proprio l’anima». Quale autore meglio di Dostoevskij poteva rispondere a questa problematica? La Teoria del romanzo (1915) non era che il preludio a una lettura dell’opera di Dostoevskij, della quale il pensatore ungherese lasciò solo appunti preparatori, ora offerti al lettore italiano. In tutta la vastissima letteratura dostoevskiana non c’è un altro libro in cui l’autore di Delitto e castigo sia così abissalmente vissuto e sofferto, tanto che questo Dostoevskij di Lukács è assai più uno «specchio» del suo autore che del suo oggetto. Dalla non facile, ma avvincente lettura si può almeno in parte intuire come dal «suo» Dostoevskij, letto in una paradossale chiave rivoluzionaria, di lì a poco Lukács abbia potuto fare l’antidostoevskiano «salto» verso il Lenin di Storia e coscienza di classe.

Marxismo e romanzo storico

di Guido Piovene

«La Stampa» 30 giugno 1965

La più importante opera critica di Giorgio Lukács Marxismo e romanzo storico

Per il filosofo, il romanzo vivo e classico è sempre “storico”: rievocando il passato (Manzoni) o rappresentando il presente (Balzac), fa della società la vera protagonista – Mancando questa coscienza, decade: da Dostoevskij a Kafka, il giudizio di Lukács è negativo

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Pubblicato e discusso nell’Unione Sovietica, dove il famoso pensatore ungherese risiedeva a quel tempo, pochi anni prima della guerra, Il romanzo storico di Giorgio Lukács è uscito ora presso Einaudi. Nella sua bella introduzione, Cesare Cases lo definisce «il libro più fuso e articolato che il Lukács critico e storico letterario abbia scritto»; ma ammette che il nostro interesse nel leggere qualche parte del libro è più storico che attuale; ci troviamo di fronte al monumento critico di un periodo «ormai concluso». Il marxismo di Lukács, ricordiamo qui di passaggio, suscitò controversie e riprovazioni settarie. Lukács fu imprigionato, poi liberato, dopo la rivolta di Budapest. Nel complesso Lukács ci ha dato l’espressione più vera e più completa della critica marxista di quel periodo, giacché non possiamo chiamare vera la critica di quelli che toglievano all’arte qualsiasi autonomia per farne un semplice strumento del potere politico. Il concetto su cui Lukács impernia il suo discorso è l’eccellenza, il valore esemplare del romanzo «classico» e, a contrasto, l’inferiorità di tutto quello che rientra nella categoria molto vasta del «decadente». L’apertura, o chiusura, all’ispirazione storica di chi scrive romanzi costituisce il criterio discriminante. Il titolo, Il romanzo storico, non deve indurre a credere che vi siano per Lukács altri generi di romanzi di pari dignità. Il romanzo che ammira e accetta è sempre storico, rappresenti la storia passata (Walter Scott, Manzoni, tenuto molto in alto), o «il presente come storia» (Balzac, Stendhal). Il romanzo, nel periodo d’oro, è stato l’epopea della società borghese ancora progressiva, e potrà esserlo domani di quella socialista, purché vi ritrovi lo stesso grado di libertà nel descrivere, senza sovrapporvisi arbitrariamente, tutte le varietà e i conflitti d’una società reale. I più grandi romanzi sono nati dall’affermarsi della «consapevolezza storicistica»; o il romanziere sente, rappresenta dal vivo, il moto e il dramma della storia, ed è realista e progressivo; o, se prende altra strada, esce dalla realtà, cade nel falso, fa opera reazionaria. La «consapevolezza storicistica», e il romanzo storico che ne deriva, hanno il loro grande prologo nella rivoluzione francese. Si apre il periodo d’oro del romanzo storico, anzi del romanzo tout court, che si chiude approssimativamente con la reazione successiva ai moti del 1848. Il romanzo storico sostituisce l’antica epopea perché la psicologia degli uomini, «le circostanze economico-morali della loro vita», si sono così complicate da rendere necessaria una descrizione vasta e differenziata. L’arte del grande romanziere come Balzac, che per Lukács costituisce il vertice, sta nell’essere dentro «la varietà e molteplicità d’aspetti della vita di un popolo», nel subbuglio delle «aspirazioni e tendenze individuali», ma di vederle miste al «contenuto sociale dei conflitti», da cui non si possono scindere. «Gli elementi complessi e capillari di tutta la società dell’epoca trovano il loro giusto posto nel quadro»; «lo sviluppo delle circostanze oggettive» emerge dal «graduale manifestarsi dei caratteri individuali che ne scaturiscono». Ma il grande romanziere, realista e non naturalista, non copia la realtà; la concentra nelle sue invenzioni, la esprime in individui tipici. Le grandi personalità della storia sono rappresentate nella loro giusta luce se il romanziere fa sentire com’esse sorgano dalle oscure correnti del popolo, a cui danno voce; sono, nel tempo stesso, dominatrici ed accessorie. La società coi suoi conflitti è la vera protagonista. Il secondo periodo, quasi del tutto negativo, si estende dalla reazione borghese dopo il 1848, che separa borghesia e popolo come «due nazioni diverse», alla soglia dei nostri giorni. Il senso della storia decade e si corrompe. Il romanzo la elimina, o la conserva come ambiente ornamentale-esotico di psicologie private, di destini personali chiusi. Nel soffio di tendenze destoricizzanti, metafisiche, mistiche, la storia d messa in causa solo per tradire se stessa. Un esempio cospicuo della «disumanizzazione» o «privatizzazione» della storia in un grande artista è Salammbô di Flaubert; l’immenso e indifferente scenario di Cartagine, in cui si accumula l’atroce, l’inumano, lo strano, l’anormale, il mostruoso, è costruito solo per fare da sfondo alle agitazioni isteriche della protagonista e per fuggire come in sogno l’odioso presente. Il popolo non è più fatto d’individui diversi e veri ma diventa una massa amorfa. Esistono gli scrittori dalla parte del popolo (Zola). Ma, costretti a rappresentarlo diviso dall’insieme della società, ne danno un’immagine falsa, astratta, generica, e cadono negli stessi vizi del romanzo borghese a cui vogliono contrapporsi. Vi è poi il terzo periodo, quello più vicino a noi. Anche tra i migliori, che aspirano a ritrovare il contatto col popolo, il rapporto tra idea e rappresentazione è «troppo diretto, troppo intellettualistico, troppo generale». Necessario, secondo Lukács, «il superamento della funesta eredità dell’evoluzione ideologica tardo-capitalistica», la sua «liquidazione artistica», il ricollegamento al romanzo storico classico della borghesia progressiva, (Balzac, Tolstoj, ecc.), ideologico senza forzature, solo perché sentiva la realtà dal suo interno. Il marxismo deve spiegare che l’intermezzo decadente ha dato opere senza verità, inadeguate anche artisticamente, anche quando si devono ad artisti con grandi doti. È una conclusione che certo non ci può rendere contenti. La visione di Lukács, conservando la propria forza, rivela oggi tutto quanto v’è in essa di antistorico e d’irreale. Tolstoj è glorificato; Dostoevskij, proprio in un libro imperniato sul grande romanzo dell’Ottocento, è taciuto. Negato ogni valore all’eccentrico, al soggettivo, e naturalmente al perverso. Il repertorio dei salvati e quello dei respinti, la graduatoria dei valori, non sono ammissibili. Si dà un peso eccessivo ad Anatole France, a Romain Rolland romanziere, a Gorkij («il più grande scrittore del nostro tempo»); Joyce e Musil sono citati di passaggio e soltanto a titolo di biasimo, e di Proust e di Kafka nemmeno e fatto il nome. Al loro posto compaiono nella scena scrittori comprimari o anche dimenticati. Anche nel mondo socialista ogni sforzo intellettuale autentico è volto a demolire questo genere di restrizioni. La realtà ha un numero troppo grande di stanze perché si possa aprirle tutte con una chiave sola, come in quel periodo s’illusero anche critici e storici dell’altezza di Lukács. Con i suoi criteri parziali, egli ne apre una parte; penetra a fondo nel romanzo, che gli è congeniale, della prima metà del secolo XIX; scrive pagine geniali e fertili su quel romanzo, sui rapporti tra romanzo e dramma, e su altri argomenti che qui dobbiamo sorvolare. Ma altri reparti gli rimangono chiusi. La stessa critica marxista successiva (vedi Edwin Perry Burgun) investe la letteratura forse con meno impeto e calore ideologico, ma anche con maggiore ricchezza di strumenti, il che la rende più prudente nell’eliminare i maestri. E rimane il fatto che i versi di Baudelaire citati da Lukács («Emporte-moi, wagon! enlève-moi, frégate!», con quel che segue) malgrado la «infinita e disperata, delusione» che esprimono, la loro ispirazione antistorica, bastano da soli a seppellire le buone intenzioni di cento romanzieri «storici» secondari.