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György Lukács

~ il primo blog in progress dedicato a Lukács

György Lukács

Archivi tag: epica

Lukács dal dramma moderno al romanzo storico

03 martedì Mar 2020

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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Tag

alienazione, Dostoevskij, dramma moderno, epica, Estetica, Hegel, irrazionalismo, Lenin, Manzoni, marxismo, realismo, romanzo storico, teoria del rispecchiamento, Teoria del romanzo, Tragedia


di Guido Lucchini

«Strumenti critici» XXVI, n. 3, ottobre 2011


Quando nel 1965 Cases presentò al pubblico italiano Il romanzo storico, scritto negli anni 1936-37 durante l’esilio moscovita, con una breve introduzione1, non erano state ancora pubblicate opere fondamentali, da Storia e coscienza di classe, all’incompiuta Estetica di Heidelberg, al giovanile Dramma moderno, per non dire la voce “romanzo” della Literaturnaja enciklopedija (1935)2, che sarebbe uscita da Einaudi soltanto nel 1976, quando le fortune del pensatore e critico ungherese in Italia cominciavano a declinare. Opere tutte che modificavano sensibilmente l’itinerario intellettuale di Lukács. Infatti nel decennio 1950-60 era stato l’autore degli studi della maturità (da Goethe e il suo tempo a La distruzione della ragione, a Il giovane Hegel) a destare l’interesse in Italia e ad esercitare una certa influenza, con ogni probabilità sopravvalutata, sulla cultura di orientamento marxista. All’inizio degli anni Sessanta si cominciò a conoscere un altro Lukács, quello anteriore alla conversione al marxismo (nel 1962 usci la Teoria del romanzo, preceduta da una lunga introduzione di Lucien Goldmann, nel 1963 L’anima e le forme). Il romanzo storico, col suo intento dichiarato di leggere «il presente come storia», per usare un’espressione del libro divenuta famosa, completava là conoscenza del Lukács successivo alla svolta del 1930, piuttosto che contribuire a un riesame complessivo della sua opera. A distanza di oltre quarant’anni risultano però chiari non solo i grandi meriti del critico e filosofo ma anche i limiti, politici e culturali. Non accenno ai primi, perché d’immediata evidenza. Alla luce di quanto accaduto negli ultimi decenni mi sembra invece inevitabile soffermarmi, sia pure rapidamente, sul secondo punto. Se vi è un elemento di continuità fra il primo e il secondo Lukács, questo deve ravvisarsi anzitutto nella convinzione che i tratti più significativi e le contraddizioni di un’epoca si esprimono principalmente nella cultura. Con un ovvio corollario: gli intellettuali, che siano intesi come categoria dello spirito o della società non è in questo caso di primaria rilevanza, ne sono i legittimi depositari. Ora, nell’ultimo quarto del Novecento la figura dell’intellettuale è di fatto scomparsa. E ci sono fondati motivi per dubitare che il terreno della cultura sia ancora l’ambito privilegiato nel quale si esprimono le contraddizioni e le trasformazioni del presente. Continua a leggere →

La vertenza per György Lukács

08 sabato Nov 2014

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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Tag

Adorno, alienazione, astratto, Balzac, concreto, descrizione, Don Chisciotte, Dostoevskij, dramma, Engels, epica, Estetica, Flaubert, Goethe, Grecia, Hegel, idealismo, ideologia, James, Joyce, Kafka, Kant, Lassalle, Lenin, Marx, modernismo, narrazione, ontologia, realismo, reificazione, ricordo, rispecchiamento, romanzo, romanzo storico, Sartre, simbolismo, soggettività, soggetto-oggetto, Sollen, Sontag, spazio, Steiner, Storia e coscienza di classe, Tempo, Teoria del romanzo, tipo, Tolsoti, totalità, Utopia, Wesen, Zola


di Fredric Jameson

da Marxismo e forma, Liguori, Napoli 1975 (Marxism and Form, 1971)

Ai lettori occidentali l’idea che si erano fatti di György Lukács è spesso apparsa ai loro occhi più interessante della sua realtà. Quasi che, in qualche mondo di forme platoniche e di archetipi metodologici, ci fosse un posto vacante per il critico letterario marxista che (dopo Plechanov) solo Lukács ha seriamente cercato di occupare. Tuttavia, a lungo andare, persino i suoi critici occidentali più favorevoli si allontanano da lui con una disillusione più o meno forte: essi erano preparati a contemplare l’idea astratta, ma nella pratica viene loro richiesto un sacrificio troppo alto. Essi tributano un rispetto verbale alla figura di Lukács, ma trovano che i suoi testi non corrispondono affatto a quello che erano state le loro aspettative1.

Questo disagio non sorprende: esso caratterizza, in realtà, il modo in cui il relativismo occidentale si approssimava sempre più ai suoi confini concettuali; di fatto, noi concepiamo la nostra cultura come un ampio museo immaginario in cui vengono accolte, l’una accanto all’altra, purché siano accessibili alla sola contemplazione, tutte le forme di vita e ogni posizione intellettuale. Perciò, accanto ai mistici cristiani e agli anarchici del diciannovesimo secolo, ai surrealisti e agli umanisti del Rinascimento, ci sarebbe posto per un marxismo che non fosse altro che un sistema filosofico tra gli altri. Non è un’esigenza di credenza assoluta che impedisce al marxismo di accettare una siffatta assimilazione, perché, senza difficoltà, le stesse religioni, trasformate in immagini, coesistono nella tradizione eclettica che ben conosciamo. Ma la peculiarità della struttura del materialismo storico consiste nella sua negazione dell’autonomia del pensiero, nel suo insistere (che è a sua volta un pensiero) sul fatto che il pensiero puro è una forma mascherata del comportamento sociale, nel suo fastidioso rammentarci la realtà materiale e storica dello spirito. Pertanto, il marxismo, in quanto oggetto culturale, si ritorce contro l’attività culturale in generale, svalutandola e mettendo a nudo i privilegi di mercato, le situazioni di classe, gli ozi che sono il presupposto necessario per la fruizione dei beni culturali. Esso si autodistrugge come merce spirituale e provoca un corto circuito nel processo di consumo culturale entro cui, nel contesto occidentale, è stato assunto. È, pertanto, la struttura stessa del materialismo storico – la dottrina dell’unità di pensiero ed azione, o della determinazione sociale del pensiero – che è irriducibile alla ragione pura o alla contemplazione; e questa struttura, che la tradizione filosofica della borghesia occidentale può vedere solo come una falla nel sistema, ci rifiuta nel momento stesso in cui immaginiamo che venga rifiutata da noi.

Non ci si deve, dunque, meravigliare se il lavoro di tutta una vita di Lukács non viene capito dall’interno per quello che è: una serie di soluzioni e di problemi che si sviluppano l’uno dall’altro secondo una loro logica ed un impulso interno; non ci si deve meravigliare se le sue opere vengono considerate come segni esteriori di posizioni arbitrarie, come sintomi di per sé privi di significato e comprensibili solo se riferiti agli slittamenti di una linea partitica. Allo sviluppo intellettuale viene sostituito il mito della «carriera» di Lukács, di cui i suoi commentatori occidentali parlano, in una forma o nell’altra, senza eccessiva riflessione. Dopo un periodo kantiano – ci viene detto – dopo studi con Simmel e Lask e il contatto con Weber, viene alla luce il Lukács hegeliano di Teoria del Romanzo (1914-1915). E come da kantiano era divenuto hegeliano, così, durante la guerra, da hegeliano si fa marxista, si unisce al Partito Comunista Ungherese, partecipa al governo rivoluzionario di Béla Kun. Il terzo Lukács, un bolscevico con atteggiamenti tipici dell’attivista e con incorreggibili tendenze hegeliane, scrive un’opera acerba, Storia e coscienza di classe (1923), che il partito condanna. È nel periodo dell’impegno autocritico che prende forma quel Lukács maturo che meglio conosciamo: il Lukács stalinista degli Anni Trenta e Quaranta, il teorico del realismo letterario, facilmente assimilabile al realismo socialista ufficiale del medesimo periodo, che produce sia opere come Balzac e il realismo francese (1945), Goethe e il suo tempo (1947), Il realismo russo nella letteratura mondiale (1949), e Il romanzo storico (1955), sia i numerosi studi sulla letteratura e il pensiero della Germania del diciannovesimo e del ventesimo secolo, pubblicate a Berlino Est nel dopoguerra. Con il disgelo, un Lukács più moderato riformula la sua posizione generale sull’arte moderna in Sul realismo critico (1958), e dopo la rivolta ungherese si ritira dalla scena, preparando l’Estetica (1963) in due volumi con cui, come nella progettata Etica e Ontologia, ritorna al progetto teoretico neokantiano della gioventù, ma questa volta con un’ottica marxiana.

Si noterà come l’elaborazione di questo mito biografico si basi sulla divisione d’una vita in «periodi» discontinui, un’operazione, questa, che ha un doppio vantaggio. Per un verso il passaggio da un periodo all’altro avviene al di fuori del mito. Pertanto le transizioni da una posizione all’altra danno origine o ad un eccesso (come avviene nel concetto d’una conversione semireligiosa al comunismo) o ad un fallimento (come quando si assiste ad uno spettacolo di obbedienza servile alla linea del partito) in ciò che persino la coscienza storica meglio predisposta dovrebbe, come sarebbe legittimo aspettarsi, rivivere e comprendere dall’interno. Per l’altro verso i vari periodi si possono ora contrapporre uno all’altro senza che ci si debba compromettere con alcuno di essi. Come il giovane Marx veniva strumentalizzato contro il vecchio Marx, così il giovane Lukács (sia quello di Teoria del romanzo che quello di Storia e coscienza di classe) viene utilizzato per screditare il Lukács teorico del realismo; anzi, l’ultimo Lukács, con il suo ritorno alle posizioni iniziali, serve a dar consistenza all’insinuazione che l’intera sua opera sia stata fallimentare ed inutile.

Ma se le prime opere non fossero del tutto comprensibili se non alla luce delle successive? E se, lungi dall’essere una serie di autocritiche e ritrattazioni, le posizioni che si andavano susseguendo in Lukács fossero una esplorazione ed un ampliamento progressivo di un unico complesso di problemi? Nelle pagine che seguono dimostreremo che l’opera di Lukács può venire osservata come una continua meditazione, che è durata tutta la vita, sulla narrazione, sulle sue strutture di base, sulla relazione con la realtà che essa esprime, e sul valore epistemologico che essa acquista se confrontata ad altre forme, più astratte e filosofiche, del comprendere.

I

L’opposizione concettuale fondamentale, al cui interno si è collocato l’indagine lukacsiana sulla letteratura, è quella hegeliana di concreto ed astratto. L’originalità di Hegel, naturalmente, consiste nella trasformazione di questa distinzione puramente logica in una distinzione ontologica; nella dimostrazione di come le esperienze vissute e le stesse forme di vita possano in questa luce venire commisurate l’una all’altra; nell’evoluzione di un modo di pensare comparativo, o per meglio dire dialettico, tale che ogni percezione di una opera o di un’esperienza data sia nello stesso tempo consapevolezza di ciò che quell’esperienza o quell’opera non sono. È chiaro che il sentimento della concretezza, della ricolma densità dell’essere, o quello dell’astrattezza e dell’impoverimento dell’esperienza, derivano essenzialmente da questa implicita comparazione tra un’esperienza e un’altra, tra un lavoro o un altro, un momento della storia ed un altro.

Ciò che forse è meno evidente è il grado di sovrapposizione tra quest’opposizione hegeliana e la più nota nozione contemporanea di alienazione: infatti i termini «astratto» ed «alienato» designano, senza dubbio, il medesimo oggetto. È comunque facile capire perché la quasi totalità degli scrittori occidentali abbia preferito il concetto di alienazione: esso permette la diagnosi di una realtà manifestamente decaduta e degradata senza esigere dalla mente nessun tentativo di immaginare uno stato in cui l’uomo non sia più alienato. Si tratta, perciò, di un concetto negativo e critico, da cui è stato tacitamente eliminato il momento utopico; mentre il concetto di astratto ci costringe, attraverso la sua stessa struttura, che è quella dell’antitesi, a conservare e sviluppare l’idea della concretezza, al fine di realizzare compiutamente il nostro pensiero.

L’uso marxista più caratteristico di questa opposizione è naturalmente quello secondo il quale la società stessa viene vista come l’origine ultima della concretezza o della astrattezza della esistenza individuale. In termini letterari questo vuol dire che la società viene concepita, qualsiasi momento storico si prenda in considerazione, come la materia prima preesistente, o meglio, preformata, che in ultima analisi determina la astrattezza o la concretezza delle opere d’arte create al suo interno. «Gli uomini fanno la storia da sé», ha detto Engels in un passo famoso, «soltanto che essi la fanno in un dato ambiente che li condiziona, e sulla base delle relazioni effettive già preesistenti, tra le quali le relazioni economiche che, per quanto possano venire influenzate dalle altre relazioni, quali quelle politiche ed ideologiche, sono tuttavia in ultima istanza quelle decisive, quelle che costituiscono la chiave di volta dell’intero complesso sociale, e che sole ci permettono di giungere a comprenderlo»2. Sarebbe un truismo dire che l’aeroplano e il grande magazzino, il cittadino insignito con Legion d’onore e i problemi dell’emancipazione femminile, non possono essere elementi di opere d’arte per società in cui queste cose non esistono; ciò che è più importante è l’influenza di una data materia prima sociale non solo sul contenuto, ma anche sulla stessa forma delle opere d’arte.

Nelle opere d’arte di una società preindustriale, agricola o tribale, la materia prima dell’artista è a misura d’uomo, ha un significato immediato, non richiede nessuna spiegazione o giustificazione preliminare da parte dello scrittore. Il racconto non ha bisogno di sfondo ed ambientazioni temporali perché la cultura non ha storia: ogni generazione ripete le medesime esperienze, reinventa le medesime situazioni umane di base come se si presentassero per la prima volta. Le istituzioni sociali non vengono sentite come tradizioni esterne, come edifici paralizzanti ed incomprensibili; il re o il prete quasi indossano l’autorità, che è ad essi immanente. Come attori umani essi la esprimono pienamente in modo tridimensionale. Gli oggetti fisici di tale mondo sono in ugual modo immediati: essi sono chiaramente prodotti umani, il risultato di un rituale preordinato e di una gerarchia delle attività del villaggio immediatamente visibile. Persino il soprannaturale, il magico o religioso, ideologia di tale modo di vita, ritorna all’uomo nella forma antropomorfica di dei e forze personalizzate; senza dubbio si tratta di una proiezione, ma lo stesso meccanismo della proiezione è ancora manifesto con semplicità nella stessa struttura narrativa dei miti. Le opere d’arte caratteristiche di queste società possono venire dette concrete in quanto i loro elementi sono fin dall’inizio dotati di significato. Lo scrittore li usa, ma non ha bisogno di spiegare anticipatamente il loro significato: questa materia prima, per esprimersi in termini hegeliani, non ha bisogno di nessuna mediazione3.

Quando passiamo da queste forme alla letteratura dell’era industriale, cambia tutto. Gli elementi dell’opera si allontanano dal loro centro umano: ha inizio una specie di dissoluzione dell’umano, una specie di dispersione centrifuga i cui sentieri portano sempre al contingente, al fatto bruto e alla materia, al non umano. Persino i caratteri, che erano le componenti di base del racconto, si fanno problematici: ora vi sono delle personalità, e la scelta delle caratteristiche della personalità, la rappresentazione dell’eroe come sognante ed idealistico piuttosto che collerico e cinico, richiede una giustificazione organica all’interno dell’opera stessa. Pertanto il temperamento dell’eroe verrà spiegato in relazione alla sua situazione familiare e in particolare al padre; o forse verrà presentato come emblematico di un particolare tipo di relazione con la società esistente e i suoi valori predominanti; o gli si conferirà un significato metafisico di sfida all’universo; o infine resterà semplicemente ingiustificato e di conseguenza l’opera scade a livello di accidente per risolversi in un tipo di storia episodica.

La stessa mancanza di comprensibilità immediata si verifica anche ad altri livelli: lo svolgersi del tempo nell’opera, le istituzioni che formano il suo sfondo, gli oggetti tra cui i personaggi si muovono. Perché il tempo ritualistico e aproblematico del villaggio non esiste più; v’è, d’ora in poi, una separazione tra pubblico e privato, tra lavoro e tempo libero, e il racconto deve trovare la sua collocazione in un mondo in cui le vite degli uomini sono divise tra faticoso lavoro di routine e riposo. Così il romanziere sviluppa il suo intreccio ambientandolo nei week end (Lo straniero di Camus), nelle vacanze (La montagna incantata di Thomas Mann), nel periodo delle grandi crisi in cui la routine viene sconvolta (la letteratura di guerra). Se la professione lascia all’eroe sufficiente tempo libero per la sua vita privata (l’Ulisse di Joyce), allora a sua volta la stessa scelta della professione deve venire in qualche modo giustificata (la pubblicità in quanto lavoro fatto con le parole). Dove la ricchezza e l’otium sono ereditari, o hanno un presupposto sociale su cui non si indaga (come nel caso dei proprietari fondiari da cui vengono tratti i personaggi dei romanzi inglesi e russi del diciannovesimo secolo), oppure restano allo stadio di puro episodio familiare fortuito, e il problema non viene risolto, ma ricacciato indietro nel passato, verso generazioni più antiche (e qui l’emblema tipico del processo potrebbe essere quell’innominato vaso da notte che, come Henry James in privato ha ammesso, è stato all’origine della fortuna dei Newsome in Gli ambasciatori).

Accade lo stesso con la trama del racconto: le istituzioni del mondo moderno, entro cui i personaggi, o, diciamo, i caratteri, vivono fino in fondo i loro drammi, si presentano come qualcosa di meramente dato, come il risultato della origine accidentale dell’opera in una particolare situazione nazionale, ed in un particolare momento dello sviluppo storico. Il villaggio, la città-stato, costituisce in sé un mondo completo: non si può dire altrettanto della superstrada, dell’università moderna, dell’esercito americano o della grande città industriale – tutte queste cose sono, all’interno dell’opera d’arte, corpi estranei non realizzati, ed in ultima analisi non realizzabili. E quello che è vero per la organizzazione sociale nella sua totalità diventa ancora più visibile nelle singole merci di una data società, nei diversi oggetti e prodotti tra cui si muovono i personaggi: le sedie, le motociclette, il cibo, le case e le pistole non vengono più sentite come risultati di una attività umana immediata, ma popolano l’opera come fossero vecchi mobili senza vita, attraversano, quasi materia inorganica estranea, la superficie umana dell’opera, lacerandola.

Non si dimentichi che la letteratura moderna ha sviluppato tecniche particolari, metodi elaborati di simbolismo, con la manifesta speranza di dare significato a queste cose ostinatamente recalcitranti, di assimilarle alla sostanza umanizzata dell’opera d’arte. E il simbolismo in quanto tale è uno dei fenomeni centrali della letteratura moderna. Ne discuteremo più a lungo in seguito; per ora basti dire che quali che siano i meriti delle forme simboliche e simbolicizzanti di pensiero per la soluzione di questo dilemma, la loro presenza nell’opera sta sempre ad indicare la scomparsa del significato immediato degli oggetti; il processo non si presenterebbe alla ribalta così in primo piano se gli oggetti non fossero già divenuti di natura problematica.

Una obiezione di gran lunga più efficace potrebbe venire mossa alla realtà di questa parvenza contingente della vita moderna: si tratta di contingenza, possiamo dire, solo apparente. In effetti, tutte queste istituzioni e cose apparentemente inumane hanno un’origine profondamente umana. Il mondo non è mai stato così completamente umanizzato come nell’era industriale, né era mai successo precedentemente che una parte così preponderante dell’ambiente del singolo fosse il risultato non di cieche forze naturali, ma della storia umana stessa. Pertanto, se solo l’opera d’arte moderna fosse capace di allargare il suo orizzonte quanto basta, se riuscisse a fare connessioni sufficienti tra fenomeni e fatti così immensamente disparati, sparirebbero gli effetti illusori di inumanità: il contenuto dell’opera sarebbe di nuovo comprensibile totalmente in termini umani, anche se su una scala molto più ampia della precedente. Tuttavia è proprio questo ampliamento che non si concilia con la forma e la struttura della letteratura. L’ossatura dell’opera d’arte è la singola esperienza vissuta, ed è per questi limiti che il mondo esterno vi rimane ostinatamente alienato. Quando passiamo dall’esperienza singola alla dimensione collettiva, a quel centro focale sociologico o storico in cui le istituzioni umane divengono a poco a poco nuovamente trasparenti, siamo entrati nella sfera del pensiero astratto defiguralizzato e ci siamo lasciati alle spalle l’opera d’arte. E questa vita condotta a due livelli inconciliabili corrisponde ad un difetto di fondo insito nella stessa struttura del mondo moderno: quello che possiamo capire come menti astratte non siamo capaci di viverlo direttamente nelle nostre vite ed esperienze individuali. Il nostro mondo, le nostre opere d’arte sono perciò, a partire da qui, astratte.

Possiamo pertanto concludere questa discussione preliminare mettendo in evidenza le due caratteristiche di fondo della concretezza in arte. Innanzitutto, le sue situazioni sono tali da consentirci di sentire ogni cosa in esse in termini puramente umani, in termini di esperienza umana singola e di atti umani singoli. In secondo luogo, quest’opera ci consente di sentire la vita e l’esperienza come totalità: tutti i suoi eventi, tutti i suoi fatti parziali ed elementi vengono compresi immediatamente come parte di un processo totale, anche se questo processo essenzialmente sociale può venire ancora inteso in termini metafisici. Infatti, l’aspetto che noi sentiamo come più importante di questo sentimento della totalità non emerge quando gli vien data una spiegazione ideologica, ma piuttosto dalla sua presenza od assenza immediata in quella vita sociale particolare da cui lo scrittore trae la sua materia prima. Come abbiamo già detto, se questo sentimento della completezza e dell’interrelazione immediata, non si dà in primo luogo nella vita reale, l’artista non possiede gli strumenti per reintegrarlo; può al massimo simularlo.

In Teoria del romanzo, il primo tentativo fatto da Lukács su larga scala di applicare queste categorie alla letteratura, esse assumono la forma di un opposizione tra essenza (Wesen) e vita, o, in altre parole, tra significato, da un lato, ed eventi e materia prima dell’esistenza di ogni giorno dall’altro. Lo sviluppo delle forme nella Grecia antica gli fornisce un tipo di modello classificatorio o di mito dialettico delle varie possibilità, delle varie relazioni che ineriscono a questa opposizione fondamentale. (E vorremmo aggiungere che per il momento non riteniamo rilevante, per i fini che ci proponiamo, l’accuratezza storica di questa immagine della Grecia antica: assumiamo tale raffigurazione in quanto struttura concettuale idonea per una presentazione della discussione di Lukács sul romanzo moderno).

La prima delle tre fasi fondamentali in cui Lukács suddivide la letteratura greca è quella epica, che e concreta nel senso precedentemente adombrato: in essa significato od essenza sono ancora immanenti alla vita e la narrazione genuina, quella epica, è possibile infatti solo se la vita d’ogni giorno viene ancora sentita come dotata di significato e immediatamente comprensibile fino ai più minuti dettagli. Dopo questa Utopia, in cui essenza e vita sono un tutt’uno, i due termini cominciano a disgiungersi e il posto dell’epica viene preso dalla tragedia. Infatti nella tragedia significato ed esistenza quotidiana sono divenuti contrapposti: la coincidenza si ha solo nel momento della crisi tragica, quando l’eroe per un istante, nella sua agonia, riunisce i due termini, non rinunciando a nessuna delle richieste essenziali che poneva alla vita, né alla sua passione fondamentale per il significato, persino mentre si consuma la sua distruzione ad opera di quel mondo esterno e senza significato che lo rinnega. La tragedia, pertanto, non offre più una continuità ma si organizza attorno, e dipende da quegli unici, intensi istanti di crisi, strutturalmente irregolari ed instabili. Quando anch’essi scompaiono, quando vita e significato si distanziano irreparabilmente, allora sopraggiunge il terzo stadio dell’arte greca, quello della filosofia platonica. Qui, in un mondo in cui la materia prima fornita dalla vita di ogni giorno è divenuta completamente priva di valore, essenza o significato si rifugiano nella sfera puramente intellettuale delle Idee, e sono divenute esse stesse, salvo che quando si esprimono attraverso i miti e le favole platoniche, irrealizzabili.

Già, nonostante la comune metodologia, sono visibili le differenze tra il Lukács di Teoria del romanzo e lo stesso Hegel, soprattutto nella sua Estetica; nonostante il grande valore che Hegel attribuisce ai greci, egli vede la storia dell’arte occidentale, e la storia in generale, come una ascensione di forme, da quelle simboliche dell’arte orientale, in cui lo spirito è ancora catturato e cioè prigioniero della materia – si pensi alle forme mostruose delle divinità assire ed egiziane – attraverso le forme classiche della Grecia, in cui lo spirito trova la sua espressione nella figura umana, all’arte romantica del mondo moderno in cui la materia poco a poco si allontana e il puro spirito trova la sua espressione nel linguaggio. Senza dubbio Hegel aveva già sentito il romanzo come il moderno sostituto dell’epica in senso lukacsiano. Ma per lui, com’è noto, la realizzazione dell’arte non consiste in nessuna forma d’arte, ma nell’auto-trascendenza, nella trasformazione dell’arte in filosofia: ciò che gli esseri umani all’inizio hanno ingenuamente proiettato nella religione, ciò che essi hanno poi reso visibile a se stessi nella creazione artistica, alla fine lo portano all’auto-coscienza solo nella filosofia.

Ma per Lukács, come avremo agio d’osservare in più occasioni, il pensiero puro non ha mai un valore assoluto come mezzo privilegiato per accedere alla realtà. Al contrario, per lui l’assoluto è la narrazione: persino l’abbozzo preliminare delle fasi dell’arte greca ha come sua premessa il primato della narrazione. Soltanto l’epica può venire considerata una forma esclusivamente narrativa: la tragedia è dramma – vale a dire presenta solo degli istanti e non può più ricorrere alle tecniche della continuità narrativa; e, per quanto riguarda la filosofia, naturalmente, il dominio del pensiero puro, lungi dal rappresentare una virtù, viene giudicato e valutato proprio in rapporto all’eliminazione che esso compie della narrazione come possibilità formale.

È su questo primo sfondo che emerge l’idea base di Teoria del romanzo; il romanzo, in quanto forma, rappresenta nei tempi moderni il tentativo di riconquistare qualcosa della qualità della narrazione epica come riconciliazione tra materia e spirito, tra vita ed essenza. Si tratta di un sostituto di quell’epica che le mutate condizioni di vita rendono ormai impossibile: «la narrazione è l’epica di un mondo abbandonato da Dio»4.

In quanto tale, il romanzo non è più, come la tragedia o l’epica, una forma chiusa e stabilita una volta per tutte con delle convenzioni incorporate; è, invece, problematico nella sua stessa struttura, che è una forma ibrida che va reinventata ad ogni momento del suo sviluppo. Ogni romanzo è un processo in cui la stessa possibilità della narrazione deve iniziare da un vuoto, senza alcun impulso acquisito: suo oggetto privilegiato sarà, perciò, la ricerca, in un mondo in cui né fini né strade sono stabiliti in anticipo. È un processo in cui siamo testimoni dell’invenzione di quegli stessi problemi di cui il racconto fornisce la soluzione. Mentre l’eroe epico rappresentava una collettività, faceva parte di un mondo organico fornito di significato, l’eroe del romanzo è sempre una soggettività solitaria: è problematico; vale a dire, egli deve sempre opporsi al suo ambiente, naturale o sociale, nella misura in cui è proprio la sua relazione con, e la sua integrazione in esso che è il problema con cui si è alle prese5. Ogni riconciliazione tra l’eroe e il suo ambiente che venisse data all’inizio del libro e non raggiunta in modo sofferto nel corso della narrazione costituirebbe una specie di presupposto illecito, una specie di truffa mediante la forma, con la quale l’intero romanzo, come processo, resterebbe infine invalidato. Il prototipo estremo dell’eroe del romanzo è, perciò, il folle o il criminale: l’opera è la sua biografia, la narrazione del suo cimentarsi nel «mettere alla prova la sua anima» nella vacuità del mondo. Ma naturalmente egli non può mai farlo davvero; infatti se fosse possibile una riconciliazione genuina si restaurerebbe di nuovo la totalità epica, il romanzo come tale resterebbe esautorato.

Pertanto il romanzo, in quanto uno dei tentativi di conferire significato al mondo esterno e all’esperienza umana, è sempre il risultato della volontà soggettiva, della premeditazione soggettiva. Questa unità non ha le sue radici, come è invece per l’epica, nel mondo, ma piuttosto nella mente del romanziere che tenta di imporla col suo fiat. Per questo motivo, l’attività del romanziere si colloca sempre sotto il segno di quella che i romantici tedeschi hanno chiamato Ironia; infatti l’ironia romantica è caratterizzata da una struttura in cui l’opera prende in considerazione la sua stessa origine soggettiva, in cui l’autore completa la sua creazione additando se stesso: larvatus prodeo. Pertanto, si può dire che per Lukács l’immagine fondamentale più appropriata della libertà umana non è l’eroe del romanzo, in quanto tale eroe non avrà mai successo nella sua ricerca di un significato definitivo, ma è, piuttosto, lo stesso romanziere che, nel raccontare la storia del fallimento, ha successo – la cui vera creazione è anzi quella riconciliazione momentanea di materia e spirito cui il suo eroe tende invano. L’attività creativa dello scrittore è il «misticismo negativo di un’epoca atea»6.

Il romanzo ha, perciò, significato etico. Il fine etico ultimo della vita umana è l’Utopia, vale a dire un mondo in cui significato e vita siano ancora una volta indivisibili, in cui uomo e mondo siano un tutt’uno. Ma questa lingua è astratta, e l’Utopia non è un’idea, ma una visione. Non è, perciò, il pensiero astratto, ma la stessa narrazione concreta a fare da banco di prova per l’attività utopica, e i grandi romanzieri forniscono una dimostrazione concreta dei problemi dell’Utopia mediante la stessa organizzazione formale dello stile e degli intrecci, mentre i filosofi dell’Utopia forniscono un sogno evanescente ed astratto, un incorporeo soddisfacimento del desiderio.

Data l’opposizione tra materia e spirito su cui si basa là teoria di Lukács, è evidente che i romanzi verranno suddivisi in due gruppi generali a seconda di quale dei due termini dell’opposizione verrà accentuato. La semplicità di questa tipologia è tuttavia ingannevole, sotto altri profili, perché il punto di partenza del romanzo sarà sempre soggettivo, sarà sempre l’esperienza umana: i! termine oggettivo, il mondo esterno, non si preoccupa affatto di aspirare ad una riconciliazione con l’uomo. Perciò, come si può vedere, il romanzo orientato verso il mondo (quello che Lukács chiama romanzo dell’idealismo astratto) si fonda su di una specie di illusione ottica. Il suo eroe possiede una fiducia cieca ed incrollabile nel significato del mondo, una fede ingiustificata ed ossessiva nella riuscita, qui ed ora, della sua ricerca, nella possibilità stessa della riconciliazione. Per questo eroe ossessionato (di cui il prototipo è Don Chisciotte), l’evidente ostilità del mondo reale può venire facilmente spiegata facendo ricorso al magico ed alle operazioni ostili di incantatori malvagi: pertanto egli non giungerà mai a contatto colla realtà esterna, ma si fermerà a quella visione utopica di essa che costituisce il suo punto di partenza. L’effetto paradossale che questo atteggiamento ha sulla forma è che il romanzo dell’idealismo astratto metterà capo ad una serie di eventi ed avventure reali, presenterà una superficie apparentemente oggettiva, anche se questa oggettività superficiale non è null’altro che il risultato di pazzia e di ossessione soggettiva.

La creazione di Don Chisciotte presupponeva l’esistenza di un mondo sociale in cui la razionalità laica non si era ancora completamente sbarazzata della visione del mondo superstiziosa e ritualistica propria del medioevo, un mondo in cui, quindi, la pazzia di Don Chisciotte non è capriccio, ma corrisponde ad una realtà del mondo esterno. Tale realtà si interiorizza nel romanzo sotto la forma di storie d’amore e sogni cavallereschi in modo tale che nel suo complesso esso non si riduce ad una narrazione declassata ed acritica di queste storie da avventura popolare, ma è una riflessione circa la stessa possibilità della narrazione, un primo passo verso l’auto-coscienza del raccontare. Ma nella misura in cui il mondo si laicizza, si dissolve la tensione che ha dato vitalità a Don Chisciotte; gli eroi dell’idealismo astratto non trovano più giustificazione nel loro tempo storico, ma si fanno sempre più arbitrari e grotteschi con idee fisse che sono solo capricci; e in un romanziere come Dickens troviamo un’opposizione statica e inerte tra divertenti eccentricità da un lato, ed un universo borghese sentimentalizzato dall’altro (sentimentalizzato in quanto il romanziere ha colto tale universo nel suo valore apparente, ha introdotto surrettiziamente nell’opera un preconcetto circa la natura di quella realtà esterna che sarebbe stato compito dell’opera stessa esplorare senza preconcetti di sorta).

Forse solo in Balzac si possono trovare alcune versioni estreme, le ultime chance per il romanzo dell’idealismo astratto; ma anche qui, in un mondo ormai laicizzato, ciò è stato possibile solo con un tour de force formale. Da un lato troviamo il solito eroe ossessionato, l’uomo con l’idea fissa, l’inventore, il poeta, l’uomo d’affari, l’aristocratico. Ma il secondo termine dell’opposizione, quella realtà esterna senza la quale non è possibile alcuna tensione, non è ora altro che la somma di tutti i restanti personaggi monomaniacali de La Comédie humaine o, in altre parole, della stessa società. Pertanto, ancora una volta, si ha una totalità genuina in cui però sono le altre opere della serie a fornire la necessaria densità della realtà esteriore, la massiccia resistenza del mondo esterno, da adoperare come fondo nei conflitti individuali all’interno di ogni racconto. Ma ovviamente questa tensione viene pagata a caro prezzo: La Comédie humaine è quello che Sartre chiamerebbe una totalità detotalizzata; non è mai completamente presente in ciascuna opera singola, abbiamo davanti a noi, pienamente realizzati, solo dei frammenti dell’intero. Con Balzac il romanzo dell’idealismo astratto, come forma, si esaurisce: la realtà del mondo moderno non fornisce più materiale idoneo alla sua costruzione.

Si fa perciò lentamente strada, come sostituto del primo, il secondo tipo generale di narrazione, il romanzo della disillusione romantica. Qui l’accento viene posto direttamente sull’anima, sulle esperienze soggettive dell’eroe che ha il compito di interpretare il mondo prendendo le mosse dalla propria coscienza. Mentre la forma precedente minacciava di disintegrarsi in una serie di vuote avventure, in una letteratura picaresca o di svago, il secondo tipo di romanzo è minacciato dal pericolo del solipsismo. Il suo eroe è contemplativo e passivamente ricettivo; la sua storia è sempre sul punto di dissolversi nel frammentario e nel puramente lirico, in una serie di momenti ed umori soggettivi in cui si disperde ogni senso concreto del narrare .

Ma a questo punto Lukács fa un’osservazione estremamente interessante (e con essa, come è stato spesso affermato, egli anticipa tutta la direzione del romanzo contemporaneo quando – siamo nel 1914 – era ancora solo una linea di tendenza). Infatti, mentre il mondo esterno nelle prime forme di romanzo era prima di tutto spaziale, mentre l’esperienza che l’eroe si faceva di tale mondo assumeva la forma di una serie di avventure e vagabondaggi attraverso uno spazio geografico, ora, nel romanzo della disillusione romantica, la forma dominante che assume la realtà esterna sarà quella del tempo. Sarà questo slittamento verso la metafisica che salverà da una poesia puramente statica i più illustri esempi, quali l’Educazione sentimentale di Flaubert, della nuova forma, e che giustificherà e permetterà un tipo di autentica narrazione. Ora l’eroe contemplativo-passivo potrà nuovamente agire, e il racconto della sua vita darà nuovamente luogo ad una storia; ma questi atti ora sono atti nel tempo, sono speranza e memoria. Ora il romanzo può nuovamente esprimere una specie di unità di significato e vita, solo che si tratta di un’unità ricacciata indietro nel tempo, un’unità solo ricordata. Nel presente, infatti, il mondo sconfigge l’eroe, frustra sempre il desiderio di riconciliazione: ma quando egli ricorda il suo fallimento, è, paradossalmente, tutt’uno con il mondo. Il processo della memoria ha perciò inserito la renitenza del mondo esterno nella soggettività, ripristinando qui una specie di passata unità. L’eroe che ricorda è un po’ come il romanziere: per entrambi il tempo è profondamente ambiguo, è una forza capace sia di dare la vita che di distruggerla. Nella vita dell’eroe è la fonte d’ogni angoscia, d’ogni perdita, l’elemento attraverso cui apprende la vanità dell’esistenza umana. Ma il tempo è anche per l’eroe come per il lettore il tessuto della vita, la sostanza dell’esperienza; è, pertanto, ad un tempo, durata e flusso, fonda la densità alla narrazione proprio mentre essa racconta il tragico transito effimero d’ogni cosa.

Dopo aver parlato di questi due tipi fondamentali di narrazione, Lukács ci presenta come tentata sintesi il Wilhelm Meister di Goethe e i racconti di Tolstoj. Come era logico aspettarsi, queste sintesi sono polarizzate, rispettivamente, intorno alla dimensione soggettiva ed intorno alla dimensione oggettiva. In Wilhelm Meister un eroe di tipo romantico, relativamente ricettivo-passivo, finisce collo scoprire un universo esterno dotato di significato, un ambiente sociale che non si oppone più al singolo, bensì gli permette la realizzazione dei suoi talenti e delle sue potenzialità soggettive: un ambiente le cui istituzioni non sono disumanizzate ed alienate, ma che nella sua gerarchia dei compiti riflette un disegno e perciò si pone nuovamente su di una scala umana. Tuttavia, questa riconciliazione è fondata su un tour de force: infatti l’intero libro è condizionato dall’esistenza dell’élite massonica che fa la sua comparsa verso la fine. Tutte le avventure e gli incontri apparentemente accidentali di Wilhelm Meister alla fine risulteranno essere prove e lezioni deliberate che erano state progettate per lui da quella casta sacerdotale onnisciente nella quale infine sarà accolto. Pertanto l’apparente solidità del romanzo di Goethe è il risultato di una forzatura, di una deformazione della realtà esterna che viene piegata al soddisfacimento del desiderio: l’Utopia non viene conquistata concretamente passo dopo passo, ma verrà imposta d’autorità alla fine del libro con effetto di retroazione e di trasformazione del suo stesso esordio.

Tolstoj, d’altro canto, trae profitto da un elemento della sua situazione storica che manca nell’esperienza del romanziere dell’Europa occidentale: la presenza della natura stessa, che offre, con rinnovata solidità, il piano di fondo alla rappresentazione del mondo esterno, il secondo termine di opposizione per il narratore. Mentre in occidente il dramma del singolo e delle sue passioni veniva contrapposto alla vuota convenzionalità del suo mondo sociale, in Tolstoj entrambi i fenomeni sono deformati e viziati, entrambi entrano in conflitto con la natura, con la fugace visione di una originaria esistenza naturale, genuina, riunificata. Tuttavia ancora una volta questa tensione è precaria: infatti non dipende da una narrazione compiuta che abbia per oggetto il polo naturale, la vita naturale, ma da una mera visione lirica di ciò che una simile vita potrebbe essere. In questo senso Tolstoj non riesce a reinventare l’epica, crea solo dei frammenti che si sforzano di raggiungere l’unità epica.

Lukács dà per scontato, alla fine della sua opera, che la condizione preliminare per la trasformazione del romanzo in epica non è la volontà del romanziere, bensì la trasformazione della sua società e del mondo. Non può darsi un’epica rinnovata finché il mondo stesso non sia stato trasfigurato, rigenerato; e il suo commento finale ai romanzi di Dostoievskij, che offrirebbero una fugace visione di questa Utopia finale, completamente umanizzata, deve venir preso più come una profezia che come un’analisi formale.

La ricchezza e la suggestione di Teoria del romanzo consistono più nei problemi che la sua struttura speculativa gli permette di sollevare, che nelle soluzioni che propone. Innanzitutto, v’è una contraddizione tra forma e contenuto che getta dubbi sulle sue stesse conclusioni. Infatti, se a livello formale, come analisi dell’opera del romanziere, del suo sforzo incessante di riconciliare materia e spirito, la Teoria del romanzo è irreprensibile, tuttavia, nella misura in cui il libro comprende anche una teoria dell’eroe, una teoria sul contenuto del romanzo, ci sorprendiamo a scoprire un’intera serie di presupposti impliciti, un’intera psicologia preconcetta che entra in conflitto con l’ossatura concettuale hegeliana, che è neutrale o meramente formale, del resto del libro. Qui Lukács descrive la ricerca dell’eroe come un tentativo di «mettere alla prova la propria anima» (Browning), di vincere la nostalgia primordiale dell’essere «ritornando a casa» in senso metafisico (Novalis: «Immer nach Hause!»), reintegrando quel «luogo trascendentale» che era la dimora originaria dell’anima. Non c’è nulla da obiettare contro questa dottrina, che ha un suo fascino per la mente moderna e suggerisce le idee di Heidegger e Kierkegaard; quello che è criticabile è la sua incompatibilità con la descrizione formale fornitaci da Lukács del romanzo come un processo di cui non viene dato in anticipo il tracciato, dove, pertanto, persino questa caratterizzazione della ricerca metafisica dell’uomo nel mondo non è ammissibile, e rappresenta un valore precostituito imposto alla iniziale mancanza di forma dell’esistenza.

Possiamo porre questa contraddizione in un altro modo ricordando quanto tutte le analisi lukacsiane del romanzo facciano perno su una sorta di nostalgia letteraria, sulla nozione di un’età d’oro o sull’Utopia perduta della narrazione, nell’epica greca. Senza dubbio, come abbiamo accennato sopra, questa concezione della storia letteraria può venire considerata semplicemente una convenzione per fini organizzativi, o una struttura mitologica per inquadrare le analisi concrete del libro; tuttavia, a lungo andare, la inaccettabilità storica della struttura finisce col viziare le singole analisi. Perciò, ogni successivo mutamento di questa struttura provocherà un riesame, con ripercussioni ad ampio raggio, della storia empirica del romanzo. Evidentemente la realizzazione definitiva di un universo riconciliato verrà dopo proiettata nel futuro e con questo mutamento di prospettive ci troviamo già dentro la teoria marxista della storia. Ma non è tanto questo quello che ci aspettavamo quanto che la rimozione dell’idea dell’età aurea potesse dare origine ad una nuova interpretazione della letteratura moderna ed alla possibilità di momenti, per quanto parziali possano essere, di riconciliazione coi tempi moderni, alla possibilità almeno di esempi, per quanto isolati, di opere d’arte genuinamente concrete; mentre tutto questo sembra precluso dallo schema storico complessivo di Teoria del romanzo.

Tuttavia nella stessa struttura hegeliana del libro vi sono delle debolezze che Lukács cercherà di rettificare con l’opera successiva: il libro mira alla creazione di una tipologia, ad una elaborazione, tipicamente hegeliana, di possibilità puramente formali nello sviluppo cronologico della storia. La manifesta debolezza di questo modo di vedere tipologico salta agli occhi in passi come quello in cui Lukács, avendo definito il romanzo della disillusione romantica come una categoria generale, come genere, ammette che forse esso è formato da un unico rappresentante genuino, da un unico membro, vale a dire dall’Educazione sentimentale di Flaubert. Proprio come il capovolgimento della dialettica hegeliana, operato da Marx, ha dissolto la serie delle forme ideali nella realtà empirica della storia, così dal difetto logico della Teoria del romanzo basta fare un passo per abbandonare i tipi narrativi, per percepire l’opera di Flaubert come un fenomeno storico empirico concreto e unico, come un momento unico nella storia del romanzo, una combinazione di circostanze non generalizzabili. A questo punto ci aspetteremmo poi uno sviluppo ulteriore che porti alle estreme conseguente Teoria del romanzo, fino alla sostituzione della teoria tipologica onnicomprensiva con una serie di monografie storiche concrete, e quindi fino alla dissoluzione di tale teoria nella storia letteraria concreta.

Infine, va notato che persino nella stessa struttura della Teoria vi sono segni di un importante slittamento di prospettiva. Nei primi due capitoli tipologici (quelli che definiscono i romanzi dell’idealismo astratto e della disillusione romantica), il contenuto del romanzo veniva caratterizzato come un’opposizione tra l’uomo e il mondo esterno. Persino quando la resistenza all’eroe assume la forma di altri personaggi, Lukács pensa questa resistenza essenzialmente in termini di conflitto tra l’uomo e il suo ambiente, tra l’uomo e l’universo, tra l’uomo e le cose: gli elementi umani del conflitto vengono sempre assimilati alla categoria più generale del mondo, del Non-Io, dello stato di natura. Questo modo di visualizzare il dramma della vita umana non può essere che metafisico: infatti il suo modello di base è sempre la relazione tra l’uomo e qualche Assoluto a lui esterno.

Tuttavia, quando passiamo ai capitoli su Goethe e Tolstoj, scopriamo che, forse senza che Lukács ne fosse perfettamente consapevole, questo secondo termine metafisico, il mondo, si è impercettibilmente trasformato ed è divenuto la società. Ma a questo punto tutto cambia e la stessa qualità dell’opposizione è diversa: la nuova tensione non è metafisica, ma storica, e la relazione in cui l’uomo si mette in rapporto al mondo non è più statica e contemplativa come lo era la sua situazione metafisica nell’universo. Infatti la società è un organismo che si evolve ed è soggetto a mutamenti, e per la prima volta l’eroe del romanzo, così come lo presenta Lukács, non si limita a contemplare la sua distanza dalla realtà esterna in forma statica, ma gli è dato di cambiarla. A questo punto, pertanto, interviene la grande intuizione di Vico, così proficua per il marxismo e per la storiografia in generale, secondo la quale l’uomo comprende quello che ha fatto e quindi oggetto privilegiato della conoscenza umana non è la natura, bensì la storia7. Quindi è nella stessa elaborazione dei problemi della Teoria del romanzo che ci sono segni decisivi di quel passaggio da un punto di vista metafisico ad un punto di vista storico che verrà ratificato dalla conversione di Lukács al marxismo. Infatti, io sarei tentato di invertire quella relazione causale che viene solitamente data per scontata e di sostenere che se Lukács divenne comunista fu proprio perché i problemi sulla narrazione sollevati in Teoria del romanzo richiedevano una struttura marxista per essere sviluppati e portati alla loro conclusione logica.

II

L’opera successiva di Lukács, Storia e coscienza di classe (1923), comunque, sembra non aver nulla a che fare con questi problemi puramente letterari. Il suo titolo è piuttosto fuorviante: infatti il nuovo libro non è tanto politico quanto epistemologico e mira a porre delle basi tecniche per una nuova teoria marxista della conoscenza. Per «coscienza di classe», perciò, Lukács non intende tanto un fenomeno empirico e psicologico, o quelle manifestazioni collettive esaminate dalla sociologia, quanto piuttosto i limiti a priori o i vantaggi che l’appartenenza alla borghesia o al proletariato conferisce alla capacità della mente di cogliere la realtà esterna. Pertanto quest’opera di Lukács, la cui influenza è stata enorme, si distingue fin dall’inizio dalla solita critica occidentale dell’ideologia, di cui Lucien Goldmann e Sartre potranno essere considerati dei rappresentanti tipici. Infatti il concetto di ideologia implica già da sé mistificazione e raccoglie in sé la nozione di una visione del mondo psicologica e soggetta a fluttuazioni nonché la nozione di una immagine soggettiva delle cose che è, già per definizione, in relazione offuscata con il mondo esterno. La conseguenza è che persino una visione del mondo proletaria viene relativizzata e viene sentita come ideologica, mentre lo standard fondamentale della verità diventa quello positivistico di una «fine dell’ideologia» che ci porrebbe alla presenza dei fatti in sé, senza distorsioni soggettive.

Comunque, è proprio perché Lukács prende in seria considerazione la cosiddetta filosofia borghese che può sviluppare una teoria adeguata della conoscenza proletaria. Per lui, si può dire, ciò che è falso non è tanto il contenuto della filosofia borghese classica, quanto la forma; e con questa distinzione Lukács applica alla sfera filosofica il metodo che Marx stesso aveva sviluppato nella sua critica all’economia borghese. Infatti la critica che Marx rivolge ai suoi predecessori (Smith, Say, Ricardo) era diretta non tanto a questioni di dettaglio della loro opera – la teoria della rendita fondiaria, la circolazione monetaria, l’accumulazione del capitale, ecc. – che in parte vengono inglobate nel suo sistema, ma piuttosto al modello complessivo, o alla mancanza di un modello complessivo, entro cui questi dettagli trovino una interpretazione, e vengano considerati come parti o funzioni di una totalità più ampia. Marx riesce a dimostrare che gli economisti borghesi non solo erano incapaci di elaborare un campo teorico unificato entro cui integrare i vari fenomeni osservati empiricamente, ma persino che essi evitavano istintivamente di farlo. Quasi che essi abbiano avuto sentore delle conseguenze politicamente e socialmente pericolose di quel tipo di modello della realtà economica, totale e sistematico, che verrà successivamente elaborato in Das Kapital; per evitare quelle conseguenze essi sono obbligati a condurre le loro ricerche ad un livello che resta sempre frammentario ed empirico.

Spesso è stata data una interpretazione sbagliata del marxismo in termini di teoria dell’interesse materiale od economico, anche se a livello di psicologia dell’individuo la nozione di interesse egoistico ha delle origini anteriori che risalgono al tempo di Hobbes e La Rochefoucauld. Sarebbe più giusto asserire che il marxismo è una teoria dell’interesse egoistico della collettività o di classe. Infatti, mentre non desta sorpresa né è fonte di paradosso scoprire che un uomo voglia sacrificare i suoi interessi personali immediati a qualche causa o ideale più grande, la stessa adesione appassionata a questa causa, la sua forza cogente, certamente deriva da basi collettive e rappresenta un meccanismo di difesa del gruppo o della classe di cui il singolo sente di far parte. Il membro di una data classe perciò difende non tanto la propria esistenza e i propri privilegi individuali, quanto le condizioni che rendono possibili quei privilegi: ed anche nella sfera del pensiero egli si avventura solo fino al punto oltre il quale quelle condizioni potrebbero venire messe in discussione. Possiamo, pertanto, dire, con una terminologia più astratta, che l’influenza della coscienza di classe sul pensiero viene sentita non tanto al livello della percezione dei singoli dettagli della realtà, quanto al livello della forma complessiva, o Gestalt, secondo cui quei dettagli vengono organizzati ed interpretati.

Lukács, ponendosi sulle orme di Marx critico delle teorie economiche borghesi, in Storia e coscienza di classe scopre i limiti della filosofia borghese nella sua incapacità o resistenza a venire a patti con la categoria stessa della totalità. Qui non ci troviamo alle prese con uno standard di giudizio meramente esterno, ma piuttosto con un dilemma che ha tormentato i filosofi classici, come si può vedere dalla direzione che aveva assunto la filosofia tedesca pre-marxista circa il problema dell’universalità del soggetto individuale o conoscente – una universalità che veniva postulata solo in forma astratta nel concetto dell’io trascendentale di Kant o nello Spirito Assoluto di Hegel. L’originalità di Lukács consiste nell’aver riportato questo problema filosofico astratto alla sua collocazione concreta nella realtà sociale, e nell’aver posto la questione della relazione tra l’universalità colta a livello epistemologico e la classe di appartenenza dell’individuo pensante.

Infatti, la filosofia critica di Kant aveva già assegnato i suoi confini ultimi a quell’ideologia dell’universalità cui aspirava la razionalità borghese. (Per Kant, naturalmente, questi confini non sono solo quelli del pensiero borghese, ma della mente umana in generale: ma questo modo astorico di porre il problema non fa altro che sottolineare la sua profonda identificazione con il tipo di pensiero che stava esaminando). Secondo Kant, la mente può capire tutto ciò che riguarda la realtà esterna, tranne, in primo luogo, il fatto incomprensibile e contingente della sua esistenza: essa può analizzare esaustivamente le proprie percezioni della realtà, senza, peraltro, riuscire mai a confrontarsi con i noumeni, o le cose-in-sé. Per Lukács, comunque, questo dilemma della filosofia classica, di cui il sistema kantiano costituisce un esempio macroscopico, ha le sue origini in un atteggiamento ancor più fondamentale, pre-filosofico, verso il mondo, che è in definitiva di carattere socio-economico: vale a dire, nella tendenza della borghesia a comprendere la nostra relazione con gli oggetti esterni (e quindi, di conseguenza, anche la nostra conoscenza di quegli oggetti) in modo statico e contemplativo. Come se la nostra relazione fondamentale con le cose del mondo esterno non consistesse nel farle o nell’usarle, ma nella contemplazione immobile, chiusi in un tempo sospeso al di sopra d’una voragine che il pensiero non potrà perciò varcare. Il dilemma delle cose-in-sé, diviene, quindi, una specie di illusione ottica o falso problema, una specie di riflessione distorta su questa situazione geneticamente immobile che è il momento privilegiato della conoscenza borghese.

Tuttavia questa relazione statica con gli oggetti della conoscenza è essa stessa solo un riflesso della esperienza di vita della borghesia nella sfera socio-economica. Il rapporto dei borghesi con ciò che producono, le merci, le fabbriche, la stessa struttura del capitalismo, è un rapporto contemplativo, in quanto essi non sono consapevoli del fatto che il capitalismo è un fenomeno storico, essendo a sua volta risultato di forze storiche ed avendo insite in sé le possibilità del cambiamento o della trasformazione radicale. Essi possono capire tutto ciò che riguarda il proprio ambiente sociale (i suoi elementi, i suoi funzionamenti e le leggi implicite) ma non riescono a capirne la storicità: il loro razionalismo può assimilare ogni cosa tranne le questioni fondamentali che riguardano l’origine e lo scopo. In questo senso il capitalismo è a sua volta la prima cosa-in-sé e la contraddizione prioritaria che costituisce il fondamento di tutti gli altri suoi ulteriori dilemmi più particolari e più astratti,

Quando ci rivolgiamo alla coscienza di classe del lavoratore, a quelle che sono le nuove possibilità di pensiero insite nella struttura di un’epistemologia proletaria, evidentemente non basta asserire che le questioni filosofiche sono diverse, che non si pongano più i vecchi problemi e dilemmi. Ciò che Lukács deve dimostrare è che il pensiero proletario ha appunto la capacità di risolvere proprio quelle antinomie che il pensiero borghese non riesce per sua natura a risolvere. Egli deve dimostrare che c’è qualcosa nella struttura del pensiero proletario che permette l’accesso alla totalità o alla realtà, a quella conoscenza totalizzante che era il grande scoglio per la filosofia borghese classica; deve, quindi, sostituire il modello statico di conoscenza da cui traevano origine i dilemmi classici della borghesia. Egli deve scoprire qualcosa nella situazione esistenziale del proletariato che corrisponda, come realtà concreta, a quell’unione di soggetto e oggetto, di conoscente e conosciuto, che Hegel ha postulato come soluzione, nella sfera del pensiero puro, del problema kantiano delle cose-in-sé. Questa natura privilegiata della situazione del lavoratore consiste, paradossalmente, nei suoi limiti angusti ed inumani: il lavoratore non può conoscere il mondo esterno con sguardo statico e contemplativo, in un certo senso perché non può conoscerlo tutto, visto che la sua situazione non gli offre l’agio di «intuirlo», nel senso borghese; perché, prima ancora che possa proporsi elementi del mondo esterno come oggetti del suo pensiero, egli sente se stesso come oggetto, e questa sua iniziale alienazione interna, prende la precedenza su ogni altra cosa. Ma è proprio in questa terribile alienazione che consiste la forza della posizione del lavoratore: il suo primo movimento non va verso la conoscenza del lavoro, ma verso la conoscenza di sé come oggetto, verso l’auto-coscienza. Inoltre questa auto-coscienza, essendo inizialmente conoscenza di un oggetto (se stesso, il suo lavoro come merce, la sua forza vitale che egli è costretto a vendere), gli permette una più genuina conoscenza della natura mercificata del mondo esterno di quanta non ne sia concessa all’«obiettività» borghese. Infatti «la sua coscienza è l’auto-coscienza della mercanzia stessa, o, in altre parole, è l’auto-coscienza, o la rivelazione alla coscienza, della società capitalista basata sulla produzione di merci e sullo scambio»8.

In questo nuovo tipo di auto-coscienza sono impliciti tutti gli elementi per una soluzione di quei dilemmi epistemologici in cui si era invischiato il pensiero borghese. Sono le merci che strutturano la nostra relazione originale con gli oggetti del mondo, che danno forma alle categorie attraverso cui vediamo tutti gli altri oggetti. Tuttavia tali oggetti sono ambigui; essi mutano aspetto a seconda di cosa si evidenzia: se la loro natura oggettiva o la loro origine soggettiva. Perciò, per il borghese una merce sarà una solida cosa materiale la cui origine è relativamente insignificante, relativamente secondaria; la sua relazione con questo oggetto si ridurrà alla sola fruizione, o consumo. Il lavoratore, d’altro canto, considera il prodotto finito poco più che un momento nel processo di produzione; il suo atteggiamento verso il mondo esterno risulterà, perciò, significativamente modificato.

Infatti egli visualizzerà gli oggetti che lo circondano in termini di cambiamento, e non chiusi nel presente «naturale» senza tempo tipico dell’universo borghese (cui corrisponde l’esaltazione dell’uomo come universale). Inoltre, nella misura in cui il lavoratore conosce le relazioni reciproche tra utensili ed impianti di produzione, egli arriverà a vedere il mondo esterno non come una collezione di cose separate e senza relazioni di sorta, ma come una totalità in cui ogni cosa dipende da tutte le altre. Perciò, per entrambe le vie, egli giungerà a percepire la realtà come processo, e la reificazione in cui, per la borghesia, s’era congelato il mondo esterno, verrà sciolta. La relazione privilegiata con la realtà, la forma privilegiata di conoscenza del mondo non sarà più statica, contemplativa, né sarà più pura ragione o pensiero astratto, ma sarà quell’unione di pensiero ed azione che il marxismo chiama prassi, sarà attività consapevole di sé. A questo punto il problema kantiano della cosa in sé, del predicato dell’essere, è doppiamente risolto: innanzitutto, si scopre che l’essere è un’astrazione e che il considerarlo come fenomeno separato conduce necessariamente a delle antinomie nella misura in cui la realtà di base del mondo consiste nel divenire. E in secondo luogo, come già si può intravvedere nel sistema hegeliano, il mondo esterno, modificato dal lavoro umano e considerato ora come storia e non come natura, è della stessa sostanza della soggettività del lavoratore: la soggettività degli uomini può venire ora vista come il prodotto di quelle stesse forze sociali che creano le merci e quindi, in definitiva, l’intera realtà in cui gli uomini vivono.

D’ora innanzi Lukács, accettando la definizione di Lenin in Materialismo ed Empiriocriticismo, caratterizzerà il processo di conoscenza come un processo di rispecchiamento (Widerspiegelung) della realtà. Ma le varie polemiche a cui la cosiddetta teoria della conoscenza come rispecchiamento ha dato origine possono venire evitate vedendo in questa figura del discorso non tanto una teoria con tutte le carte in regola, quanto il segno di una teoria che deve ancora venire elaborata: «la scoperta del riflesso sta sempre ad indicare l’esistenza di un legame articolato tra per lo meno due sistemi di relazioni; la nozione di rispecchiamento a questo punto ha la funzione di una indicazione (‘segnale’) di questo legame articolato. Ma quando deve essere determinata la natura di questo legame … allora solo il concetto di processo è davvero operativo, vale a dire produttivo della conoscenza di tale legame»9. La figura del rispecchiamento del reale nel pensiero è, perciò, solo una specie di stenografia concettuale che serve a sottolineare la presenza di quella specie di operazione mentale che abbiamo altrove descritto come «tropo storico», vale a dire l’operazione del mettere in contatto l’una con l’altra due realtà distinte ed incommensurabili, una appartenente alla sovrastruttura e l’altra alla base, l’una culturale e l’altra socio-economica.

Possiamo ora trarre alcune conclusioni circa le implicazioni di Storia e coscienza di classe nei confronti dei problemi letterari di cui Lukács si era precedentemente occupato. È l’epistemologia, e la filosofia astratta in generale, che tende, per la propria logica interna, a ridurre il fenomeno del rispecchiamento ad una specie di immagine mentale statica più o meno adeguata alla realtà esterna. Quella che Lukács definisce come verità proletaria è, al contrario, il senso delle forze operanti nel presente, un disciogliersi della superficie reificata del presente entro la coesistenza di tendenze storiche, diverse tra di loro e conflittuali, una traduzione di oggetti immobili in atti o atti potenziali e nelle conseguenze degli stessi. Saremmo tentati di asserire che per il Lukács di Storia e coscienza di classe la soluzione definitiva del dilemma kantiano non va ricercata nei sistemi filosofici del diciannovesimo secolo, quindi nemmeno nel sistema hegeliano, quanto piuttosto nel romanzo del diciannovesimo secolo: infatti il processo che egli descrive non assomiglia tanto agli ideali della conoscenza scientifica quanto all’elaborazione della trama narrativa.

Pertanto, con la sua svalutazione della filosofia borghese, Storia e coscienza di classe pone le basi per quella differenziazione dell’esperienza estetica che Lukács elaborerà più dettagliatamente nell’Estetica10, opera nella quale viene valorizzata la narrazione in quanto dimensione che presuppone non la trascendenza dell’oggetto (come nella scienza) o quella del soggetto (come nell’etica), ma la neutralizzazione di entrambi, la loro riconciliazione reciproca, anticipando così nella propria struttura l’esperienza di vita di un mondo utopico.

Tuttavia, nella misura in cui la costruzione dell’Utopia non spetta più alla letteratura, ma piuttosto alla prassi e all’azione politica, l’intera struttura organizzativa di Teoria del romanzo deve venire riesaminata. Ora, infatti, alla visione nostalgica di una qualche età dell’oro in cui era ancora possibile una totalità epica, si sostituisce una visione della storia secondo la quale gli uomini appaiono già implicitamente riconciliati con il mondo circostante, in quanto quel mondo è il risultato del lavoro e dell’azione umana. Tuttavia anche il non riuscire a vedere attraverso ed oltre la superficie reificata del mondo esterno, è il risultato di un condizionamento storico: infatti, prima del diciannovesimo secolo, quando vennero poste le basi del capitalismo moderno nella forma dell’industrializzazione totale dell’ambiente e nella organizzazione mondiale del sistema di mercato, mancavano ancora molte delle condizioni che rendono possibile una comprensione genuinamente storica della vita. Bisognava, quindi, aspettare il diciannovesimo secolo perché ciò che era stato inteso (ed espresso) come un conflitto tra l’uomo e il destino o la natura, potesse venire narrato entro le categorie puramente umane e sociali di quello che Lukács chiamerà (d’ora innanzi) realismo.

III

Dopo Storia e coscienza di classe, perciò, non è più possibile un ritorno a quel tipo di deduzione hegeliana e tipologica delle strutture narrative possibili che era stata intrapresa nella Teoria del romanzo. Ora, al contrario, Lukács si propone il compito di esaminare le condizioni di possibilità di quelle opere che sono riuscite a «riflettere» la realtà sociale nella sua storicità, vale a dire, si propone di dare una spiegazione teorica all’esistenza di quelli che egli chiama i grandi realisti: Goethe, Scott, Balzac, Keller e Tolstoj. Che egli poi scivoli, in modo piuttosto discutibile, da un atteggiamento descrittivo ad uno prescrittivo ed attacchi gli scrittori moderni in nome di un modello a priori del realismo, non inficia questo punto di partenza, dove la parola realismo serve semplicemente a designare l’esistenza empirica di un concreto corpus di opere che si offrono ad una coerente esplorazione.

Senza dubbio il metodo più ovvio ed immediato cui si può ricorrere per caratterizzare gli elementi distintivi del realismo, consiste in una analisi del contenuto delle opere realistiche, ed in particolare della loro componente umana, cioè dei personaggi. Per Lukács i personaggi realistici si distinguono da quelli propri di altri tipi di letteratura per la loro tipicità: essi rappresentano, in altre parole, qualcosa di più ampio e più significativo di quanto non siano i loro destini singoli ed isolati. Essi sono individualità concrete, e tuttavia, al medesimo tempo, sono in relazione con qualche sostanza umana più generale e collettiva. La nozione di tipicità, che per la teoria letteraria occidentale è divenuta antiquata, se non addirittura sospetta, era già presente in quello che rappresenta il primo modello su larga scala della critica letteraria marxista, vale a dire l’assiduo scambio di lettere tra Marx, Engels e Lassalle, che aveva come argomento l’opera teatrale, Franz von Sickingen, di quest’ultimo. Tale scambio epistolare chiamava, perciò, esplicitamente, in causa il problema del dramma storico o dell’opera d’arte in generale nella sua dimensione storica; e la versione lukacsiana di questo problema è stata elaborata con grande respiro ne Il romanzo storico.

Infatti, anche se la sua rilevanza rispetto alle altre forme della letteratura può venire messa in discussione, è indiscutibile che l’opera storica, mirando esplicitamente a dare una immagine di un intero periodo storico, ha in se stessa uno standard in base al quale può venire giudicata; cosicché il problema di se i personaggi e la collocazione di un’opera storica siano adeguati al fine di riflettere la circostanza storica di fondo, acquista validità in quanto problema della stessa forma. Il problema è quello del ruolo che nell’opera d’arte giocano le due dimensioni dell’accidentale e del necessario. La libera volontà di rappresentare che il drammaturgo o il romanziere storico esercitano sulla struttura formale è estensibile al contenuto che egli (per libera scelta iniziale) si è assegnato come oggetto? Per Lassalle la tragedia di Sickingen (che egli considera emblematica della situazione tragica più generale della rivoluzione tedesca del 1848) consiste in una sfasatura morale ed intellettuale: il leader della prima rivolta contro i grandi prìncipi durante gli sconvolgimenti della Riforma tedesca è caduto a causa della sua inveterata mentalità politica e diplomatica, indulgente come fu in quanto uomo di stato, al fascino complicato della Realpolitik e degli intrighi tra i prìncipi, fino a perdere di vista le vitali energie rivoluzionarie generate dagli stessi fini rivoluzionari. La difesa che Lassalle fa del suo lavoro teatrale sembra a prima vista inconfutabile: questa era la tragedia che egli voleva scrivere, dice a Marx ed Engels, anche se avrebbe potuto sceglierne molte altre. Se avesse scelto di narrare la storia di Thomas Münzer, ammette, le stesse basi della situazione tragica sarebbero state totalmente diverse.

Ma per Marx ed Engels il dramma è difettoso perché la sfasatura sottolineata da Lassalle non è la causa vera della caduta di Sickingen. La causa non era solo morale, ma anche sociale: Sickingen non avrebbe mai potuto avere l’appoggio dei contadini rivoluzionari perché i suoi fini sociali di fondo erano assai diversi dai loro, avendo come mira non la liberazione della regione, ma il ripristino della piccola nobiltà soggetta al dominio dei grandi prìncipi e della chiesa. Pertanto, secondo Marx ed Engels la situazione tragica eli Sickingen era una situazione oggettiva e non aveva nulla a che vedere con le tormentose scelte morali consumate nella sua mente o con i magniloquenti atteggiamenti morali che il personaggio poteva assumere sulla scena. Essendo il dramma così com’è, il personaggio di Sickingen non giunge a porsi come tipico di un reale dilemma storico: la situazione del dramma, infatti, non fornisce un modello genuino delle forze operanti nel periodo in questione; e Marx ed Engels dimostrano come tutte le debolezze formali del dramma (i discorsi interminabili e le reminiscenze di Schiller piuttosto che di Shakespeare) siano il risultato di quella debolezza fondamentale che è l’inadeguatezza dell’opera alla sua materia prima. L’attualità di quest’analisi, come di quelle di Lukács ne Il romanzo storico, consiste nell’idea che la forma dell’opera dipende da una logica più profonda insita nella materia prima; la parola tipico serve ad indicare l’articolarsi di questa realtà di base, contenuto o sostanza dell’opera d’arte, in personaggi singoli.

Naturalmente questa categoria è stata bistrattata dalla pratica del marxismo volgare che consisteva nel ridurre i personaggi a mere allegorie delle forze sociali e nel trasformare i personaggi «tipici» in meri simboli di classe: il piccolo borghese, il controrivoluzionario, l’aristocratico agrario, l’intellettuale socialista utopico, e così di seguito. Sartre ha messo in luce che anche queste categorie sono idealistiche in quanto presuppongono che ci siano forme immutabili, idee eterne di stampo platonico, delle varie classi sociali: tali categorie trascurano proprio la storia e la nozione della specificità della situazione storica cui Lukács è sempre stato fedele nella sua critica.

Non possiamo qui esaminare gli aspetti più immediati ed interessanti dell’analisi lukacsiana dei tipi nel romanzo storico e in particolare la sua distinzione tra figure storiche d’importanza mondiale (vale a dire, i grandi nomi della storia, i Richelieu, i Cromwell o i Napoleoni) e le figure inventate, medie e relativamente anonime, che, ad esempio, Scott colloca al centro dei suoi romanzi. È sufficiente far rilevare che qui, come altrove, il metodo di Lukács è formale; in questo caso il metodo fa leva sulla distinzione tra le forme del dramma e quelle del romanzo e le corrispondenti differenze funzionali tra i personaggi di entrambe le forme. Le grandi figure storiche, i personaggi guida della storia (Macbeth, Wallenstein, Galileo), saranno le figure centrali del dramma poiché in questo modo la collisione drammatica sarà più concentrata ed intensa; mentre il romanzo, che mira ad una rappresentazione totale dello sfondo storico, può tollerare queste figure solo in ruoli episodici e secondari, perché è in questo modo, distante e di scorcio, che esse fanno parte della nostra vita ed esperienza di ogni giorno.

Ma le caratteristiche essenziali del tipico vanno ritrovate altrove: in particolare, si deve osservare che per Lukács il tipico non è mai una questione di precisione fotografica. In quel continuo confronto tra Balzac e Zola, su cui torneremo, egli fa notare che il carattere balzachiano, con la sua melodrammaticità, la sua esagerazione romantica e il suo aspetto grottesco irreale, riesce ad esprimere le sottostanti forze sociali ed è profondamente tipico, più di quanto non lo siano i caratteri schematici e stereotipi (il contadino ricco, il minatore, il proprietario della fabbrica, il negoziante e così via) di Zola, anche se questi ultimi potrebbero a prima vista apparire più consoni ai fini essenziali del realismo. È come se, nelle opere di Zola, l’idea, la teoria preconcetta, si frapponesse tra l’opera d’arte e la realtà da esibire: Zola sa già quale sia la struttura organica della società; e questa è la sua debolezza. Per lui la materia prima fondamentale, le professioni, i tipi di caratteri socialmente determinati, sono già stabiliti in anticipo: questo equivale a dire che si è lasciato vincere dalla tentazione del pensiero astratto, dal miraggio di una conoscenza statica, oggettiva della società. Egli ha implicitamente ammesso la superiorità del positivismo e della scienza sulla pura immaginazione. Ma dal punto di vista di Lukács, secondo il quale la narrazione è la categoria fondamentale e la conoscenza astratta soltanto un suo surrogato, questo vuol dire che il romanzo, nelle mani di Zola, ha smesso di essere lo strumento privilegiato per l’analisi della realtà ed è stato declassato a mera illustrazione di una tesi.

Balzac, invece, non sa in anticipo quello che scoprirà. La Prefazione a La Comédie humaine dimostra che egli si propone di costruire una tipologia, una ampia zoologia della società umana, ma che le energie dell’opera vengono messe in moto dall’idea di un metodo, piuttosto che dalla scoperta anticipata di una specie di tavola degli elementi fondamentali. Inoltre, la sensibilità di Balzac per la storicità e per il mutamento storico è così intensa che egli non riuscirebbe ad immaginare un archetipo fisso dei tipi sociali, ad esempio del piccolo borghese: nella sua opera infatti il piccolo borghese è sempre caratteristico di un dato periodo, di un dato decennio, e in costante evoluzione nel suo stile d’abbigliamento, nei suoi mobili, nel suo linguaggio e nella mentalità, dai tempi di Napoleone agli ultimi anni di Luigi Filippo. Pertanto, un carattere di Balzac non è tipico di un qualsiasi genere di elemento sociale fisso, come una classe, ma piuttosto del momento storico stesso; e con ciò i toni più carichi e più schematici od allegorici della nozione di tipicità svaniscono completamente. Il tipico, a questo punto, non è una relazione biunivoca tra i singoli personaggi nell’opera (Nucingen, Hulot) e le componenti fisse e stabili del mondo esterno (finanza, aristocrazia, nobiltà d’origine napoleonica), ma rappresenta piuttosto una analogia tra l’intera trama, come conflitto di forze, e il momento globale della storia, quando venga considerato come un processo.

A questo punto si dovrebbe forse osservare che l’intera discussione sul contenuto delle opere d’arte è in realtà una discussione formale. Se siamo partiti avendo l’aria di voler discutere del contenuto è stato a causa della natura del romanzo o del dramma storico, nella cui struttura è mantenuta una costituzionale distinzione tra forma e contenuto. Infatti, mentre il romanzo ordinario dà l’impressione d’offrirsi a una lettura del tutto disimpegnata, di essere un’opera autosufficiente che non ha bisogno di nessun oggetto o modello nel mondo esterno, il romanzo storico è sempre caratterizzato da come afferra questo modello, questa realtà esterna, che mentre leggiamo abbiamo sempre davanti agli occhi. Anche se noi non abbiamo alcun interesse intellettuale per l’esattezza storica delle rappresentazioni del Medioevo di Scott o della Cartagine di Flaubert, non possiamo fare a meno di intuire questa realtà esterna, non possiamo fare a meno di intenderla come oggetto reale (in senso husserliano), e non ha importanza se questo avviene in modo vago e carente; la stessa struttura del nostro leggere un romanzo storico comporta un esame comparativo, implica una sorta di giudizio di realtà.

Pertanto, quando ci volgiamo da questa forma specializzata al romanzo realistico in generale, possiamo riformulare tale questione in termini puramente formali: ma, in questi termini, gli elementi umani dell’opera, i personaggi, divengono materia prima al pari di qualsiasi altro elemento, come, ad esempio, la materiale messa in opera del libro, e infine la nozione di tipico, non più coerente con questo punto di vista formale più generale, lascia il campo libero ad un altro tipo di terminologia. Qui, la caratteristica principale del realismo letterario viene vista nella sua qualità antisimbolica: il realismo stesso viene contraddistinto dal suo movimento, dalla narrazione e dalla drammatizzazione del contenuto; viene caratterizzato, come dice il titolo di uno dei più raffinati saggi lukacsiani, dall’essere narrazione piuttosto che descrizione.

È forse più semplice cominciare con la parte negativa della definizione, con quella ostile diagnosi del simbolismo che si presenterà come una costante lungo tutta la carriera di Lukács: per lui il simbolismo non è solo una tecnica letteraria tra le altre, ma rappresenta un modo di percepire il mondo qualitativamente diverso da quello realistico. Il simbolismo, potremmo dire, è qualitativamente un’espressione di second’ordine, rappresenta sempre l’ammissione, da parte del romanziere, di una sconfitta; infatti, col far ricorso ad esso lo scrittore ammette che v’è un significato originario, oggettivo, negli oggetti, che gli risulta inaccessibile, ammette di dover inventare un significato nuovo e fittizio per nascondere quest’assenza di fondo, questo silenzio delle cose. Il simbolismo, naturalmente, non è tanto un prodotto dell’estetica personale dello scrittore, quanto della stessa situazione storica: originariamente tutti gli oggetti hanno un significato umano. Persino la natura stessa è umanizzata dal modo in cui l’uomo la trasforma in propria dimora e la piega ai propri bisogni (così il suolo roccioso e sterile della Grecia viene rivoltato come un guanto e reso da ostile amico mediante una economia che si adatta ad esso con la navigazione, il commercio e la produzione artigianale). Questa originaria significatività degli oggetti diviene visibile solo nella misura in cui il loro legame con il lavoro umano e la produzione non sia occultato. Ma nella moderna civiltà industriale è un legame difficile da trovare: gli oggetti sembrano condurre una vita propria, indipendente, ed è proprio questa illusione che sta all’origine del fare simbolico. In Zola la miniera viene sentita come una belva divoratrice di carne umana che sovrasta come un incubo l’intero paesaggio. In Joyce, l’ufficio nel giornale ha l’apparenza di una caverna dei venti: quale che sia il significato storico e realistico che possiede, tale significato sembra esser divenuto troppo scialbo e prosaico per l’opera d’arte. I mobili in The Spoils of Poynton, le città brulicanti e tetre di Dickens e Dostoyevskj, il paesaggio moralmente espressivo di Gide o D. H. Lawrence sono, nell’opera d’arte, elementi auto-sufficienti e dotati di significato autonomo. Persino gli oggetti neutrali di un Robbe-Grillet sono il risultato di questo processo di simbolizzazione: infatti anch’essi rispondono, ma col silenzio, e l’occhio continua a cercarli per qualche schema ossessivo che li circonda, per trovarvi un’immediata comprensibilità visiva, che rimane per sempre in dubbio.

Pertanto il simbolismo non è il risultato delle proprietà delle cose stesse, ma della volontà del creatore, che d’autorità impone alle cose un significato: si è in presenza del vano tentativo della soggettività di elaborare un mondo umano al di fuori di sé ma trovandone in se stessa la struttura. In questo, è molto meglio la precedente etica borghese dell’imperativo morale, dell’ideale o Sollen, che Lukács critica nella Teoria del romanzo. Nelle opere d’arte simboliche vi e lo sforzo di raggiungere qualche relazione, che sia dotata di significato, con il mondo esterno, con la realtà oggettiva, per ritrovarsi con le mani vuote, avendo trascorso la vita in mezzo ad ombre, non essendo riusciti ad attingere null’altro che noi stessi nel mondo che ci circonda.

Questo è forse il momento di fare qualche commento sul ripudio dell’arte moderna e del modernismo in generale che è implicito in questa idea di Lukács. Ne Il Castello di Kafka, dopo che uno dei personaggi ha dimostrato a K. che tutte le sue azioni possono venire interpretate in un modo del tutto diverso e sotto una luce molto più sfavorevole, l’eroe replica: «Quello che tu hai detto non è falso: è ostile». Questo potrebbe essere il motto atto a caratterizzare le osservazioni di Lukács sull’arte moderna. Esse sono sia diagnosi che giudizi: tuttavia l’intera dimensione del giudizio è ambigua, perché presuppone che lo scrittore moderno abbia avuto qualche possibilità di scelta e che il suo destino non sia già stato segnato dalla logica del momento storico in cui vive. La stessa ambiguità è visibile anche nella teoria rivoluzionaria marxista, dove la rivoluzione non può scoppiare fino a che non siano mature le sue condizioni oggettive, ma dove, nel medesimo tempo, Lenin può apparentemente forzare queste condizioni sulla base di una scelta di volontà e può fare una rivoluzione proletaria prima che la precedente rivoluzione borghese abbia terminato il suo corso.

Pertanto, se tralasciamo quella parte dell’opera di Lukács che comprende una serie di raccomandazioni rivolte all’artista (e che è resa problematica dal fatto che qui Lukács si rivolge contemporaneamente a un duplice pubblico – gli scrittori del realismo socialista e i «realisti critici» dell’occidente), scopriamo che la sua analisi del modernismo si basa su di un avvenimento fondamentale per l’arte moderna: vale a dire, sull’osservazione di un salto di qualità che si è verificato in epoca recente e che ha dato origine ad una differenza incolmabile tra quella che è la letteratura dei nostri giorni, che ha avuto origine ai tempi di Baudelaire e Flaubert, e la letteratura classica precedente. Senza dubbio, a seconda dell’ampiezza delle nostre lenti storiche, il taglio può venire spostato indietro, forse verso l’inizio del diciannovesimo secolo, al periodo della rivoluzione francese e del romanticismo tedesco. A questo riguardo è significativo che l’atteggiamento di Lukács riproduca quasi esattamente quello di Goethe ed Hegel verso il Romanticismo. Il Classicismo è una cosa sana, ha detto Goethe, il Romanticismo è una cosa malata. Ed Hegel ha criticato il soggettivismo del romanticismo per lo più usando gli stessi termini che Lukács riserva ai moderni. Il giudizio è quello inevitabile che una filosofia del concreto deve passare sull’astratto; e si dovrebbe aggiungere che molto spesso è proprio da un punto di vista antiquato e persino reazionario (si pensi a Yvor Winters e allo stesso Edmund Burke) che vengono fatte le analisi più penetranti del presente. Il vantaggio che ha Lukács sui teorici più apologetici del moderno consiste nella forma di pensiero, volto alla comparazione ed alla differenziazione, che gli è propria. Egli non è immerso nel fenomeno moderno né si è consegnato completamente nelle mani dei valori fondamentali di tale fenomeno, ma riesce a vederlo attraverso occhi distanti: può definirlo e segnare i confini entro cui è circoscritto in quanto momento storico, distinguendolo da ciò che esso storicamente non è; tuttavia questa comparazione implicherà sempre, per la sua stessa struttura, un giudizio da un punto di partenza più arretrato.

A questo punto si dovrebbe osservare che la critica di Lukács all’arte moderna era già implicita nella stessa Teoria del romanzo. Abbiamo mostrato come i quattro capitoli tipologici di quest’ultima si dividessero in due gruppi: il primo (sui due tipi base) coglieva la relazione dell’uomo con il mondo in modo metafisico, il secondo (su Goethe e Tolstoj), vedeva tale relazione in termini sociali o storici. Non era certo dovuto ad un puro caso che i primi due capitoli fossero così ricchi di suggestioni ed indicazioni sull’arte moderna: infatti l’arte moderna o simbolica è caratterizzata proprio dal suo modo astorico, metafisico di considerare la vita umana nel mondo. La distinzione tra realismo e arte simbolica moderna era, pertanto, già presente nel passaggio ad un romanzo che percepiva la realtà, e l’ambiente umano, in termini di storia umana. Così, per una specie di deviazione, troviamo che la metodologia di fondo del primo periodo, la separazione tra anima e mondo, significato e vita, mantiene la sua vitalità negli scritti successivi: è diventata un motivo sotterraneo e, pur avendo Lukács abbandonato la nota terminologia hegeliana, continuerà ad informare la sua distinzione tra simbolismo e realismo, tra una sintesi puramente volontaristica di significato e vita e una sintesi che sia in qualche misura presente in modo concreto nella stessa situazione storica.

Per Lukács, comunque, la forma simbolica è solo un sintomo di una forma di comprensione sottostante e più profonda che egli chiamerà descrizione, riferendosi con ciò a un modo statico e contemplante di considerare la vita e l’esperienza che è l’equivalente letterario dell’atteggiamento oggettivo borghese in filosofia. Infatti, la forma realistica, la stessa possibilità della narrazione, si ha solo in quei momenti della storia in cui la vita umana può venire percepita in termini di confronti e drammi individuali e concreti, in quei momenti in cui la storia e le trame individuali possono far da veicolo all’espressione di qualche verità più profonda e generale. Ma questi momenti son divenuti abbastanza rari nei tempi moderni, mentre sono più frequenti altri momenti in cui sembra che non accada nulla di reale, e la vita viene sentita come un’attesa senza fine, una perpetua frustrazione dell’ideale (Flaubert): quando la sola realtà dell’esistenza umana sembra essere la cieca routine e l’ingrato lavoro quotidiano, sempre uguale a se stesso giorno dopo giorno (Zola); quando, infine, la stessa possibilità che accada qualcosa sembra scomparsa e lo scrittore pare riconciliarsi ad una struttura in cui la verità della singola giornata può rappresentare il microcosmo della vita (Joyce). In queste situazioni storiche, persino quando l’opera letteraria sembra violenta ed agitata, queste esplosioni, ad un più attento esame, mostrano d’essere pure imitazioni degli eventi, pseudoeventi creati arbitrariamente dal romanziere, che non riesce a trovare nulla da dire sul flusso incolore dell’esperienza reale. Infatti, il melodramma (si pensi a Zola) è uno degli espedienti principali di cui la letteratura moderna si è servita per cercare di dissimulare le sue contraddizioni: lo scontro violento tra unità collettive (la plebaglia in Germinale, i barbari in Salammbô) o tra bene assoluto e male assoluto, nasconde l’assenza di qualsiasi genuina interrelazione umana a livello individuale, nella esperienza vissuta individuale. E quando l’arte moderna assume risolutamente questa situazione, essa abbandona interamente la trama, rinuncia alla narrazione nel vecchio senso e cerca di trasformare in forza la sua debolezza di fondo.

Perciò la descrizione, come forma dominante di rappresentazione, è il segno del crollo di una relazione vitale con l’azione e con la possibilità dell’azione. Lukács confronta la corsa dei cavalli in Nana di Zola con l’episodio simile in Anna Karenina. Il primo è un brillante pezzo convenzionale osservato dall’esterno che non ha nulla a che fare con i destini dei personaggi. Nel secondo, i personaggi sono appassionatamente coinvolti: non sono necessarie prolisse descrizioni esterne perché noi sentiamo l’intensità dell’evento non per mezzo della contemplazione visiva, ma attraverso le speranze e le aspettative dei personaggi. La descrizione ha inizio quando le cose esterne vengono sentite come alienate dall’attività umana e come statiche cose-in-sé, ma raggiunge il suo punto culminante quando persino gli esseri umani che popolano questi scenari senza vita si disumanizzano, divengono strumenti inerti, puri oggetti in movimento che devono venire rappresentati dall’esterno.

Lukács spiega i momenti realistici, genuinamente narrativi, della letteratura, in due modi: attraverso la situazione e gli atteggiamenti personali degli scrittori, e attraverso la loro situazione storica oggettiva. L’analisi delle condizioni soggettive che rendono possibile il realismo forma un parallelo con l’analisi in Storia e coscienza di classe, delle condizioni che rendono possibile la conoscenza della totalità, sebbene sul piano letterario la spiegazione possa sembrare relativamente semplicistica: i grandi realisti, ci dice Lukács, sono quelli che in qualche modo partecipano pienamente alla vita dei propri tempi, che non sono solo osservatori, ma anche attori «impegnati», in un senso molto meno limitato e politico di quello implicito nell’uso sartriano di «impegnato». Tuttavia, nei suoi esempi di impegno, Lukács porta il suo materialismo fino alle estreme, e persino paradossali, conclusioni: se è la struttura materiale, la situazione sociale che ha il diritto di precedenza sulla mera opinione, sull’ideologia, sull’idea soggettiva che uno si fa di se stesso, allora noi possiamo essere portati a concludere che in certe circostanze un conservatore, un realista, un cattolico credente, potrebbero comprendere le genuine forze operanti nella società meglio di uno scrittore di tendenze socialiste. Qui sta la forza del paragone di Lukács tra Balzac e Zola. Potrebbe sembrare velleitario e provocatorio sostenere che il campione di Dreyfus era staccato dai problemi fondamentali del suo tempo; tuttavia, persino uno scrittore così poco politico come Henry James ha acutamente osservato che non solo l’impegno politico di Zola è nato dopo che era finita la sua carriera creativa nella letteratura, quasi si trattasse di un sostituto di quest’ultima, ma anche che in esso si riflette un senso di fastidio o di insoddisfazione, che ha le sue radici nella vita privata dello scrittore, come la sensazione di non essere mai riuscito ad afferrare realmente qualche esperienza genuina. E non si possono avere dubbi sul fatto che i metodi di lavoro di Zola (una specie di divisione razionalistica del lavoro, la scelta del tema che precede la scelta dei personaggi, l’accuratezza di documentazione e note sull’ambiente, una visita sul posto, e così via) siano quelli dell’osservatore esterno piuttosto che quella di chi partecipa con l’immaginazione. Mentre Balzac, con tutta la sua critica intellettuale e morale di quell’epoca borghese, della corruzione mondana della monarchia di Luglio, visse fino all’estremo, fin dentro le sue passioni esistenziali, le ambizioni di fondo del proprio tempo, con i suoi sogni di ricchezze estratte dalle miniere d’argento della Sardegna, di una rapida fortuna costruita sul teatro, collezionando febrilmente tesori posticci, arredando una casa dopo l’altra, desiderando la sicurezza definitiva del proprietario terriero – e scoprendo infine le forze trainanti del suo momento storico già radicate in sé: senza dunque aver bisogno di osservarle in altri, dall’esterno. Senza dubbio è inutile proporre questa vita come un modello per lo scrittore realistico, come Lukács qualche volta sembra fare, ma si dovrebbe far rilevare che nuove analisi psicologiche, del tipo di quelle di Sartre su Flaubert, sono soltanto dei ritocchi a questo modello di base ottenuti grazie alle tecniche psicoanalitiche. In base ad esse, la pratica formale di Flaubert viene considerata un riflesso del suo distacco dalle possibilità dell’azione vissuta, nella sua situazione di secondogenito a cui siano stati negati i pieni traguardi pratici della vita borghese.

Ma questa disposizione soggettiva dello scrittore realista è solo l’inverso delle possibilità oggettive della situazione storica in cui vive e che la sua opera riflette. È stata la fortuna storica di Balzac l’aver potuto essere testimone non del successivo, pienamente sviluppato capitalismo del tempo di Flaubert e Zola, ma degli stessi esordi del capitalismo in Francia; di essere stato contemporaneo ad una trasformazione sociale che gli ha permesso di vedere gli oggetti non come sostanze materiali finite, ma come prodotti dell’attività umana; di aver potuto recepire il cambiamento sociale come una rete di storie individuali. Possiamo drammatizzare tutto questo dicendo che in Balzac le fabbriche in quanto tali non esistono ancora, che non vediamo i prodotti finiti, ma gli sforzi dei grandi capitalisti e degli inventori per costruirle. La realtà sociale ed economica è ancora relativamente trasparente, il risultato dell’attività umana è ancora visibile ad occhio nudo. Ma la sola fabbrica presente nelle opere di Flaubert è poi quel laboratorio di ceramica che è solo una fase di passaggio nella carriera alterna di Arnoux; ed è un luogo attraverso cui Frédéric passa con fastidio infinito attento solo agli occhi e alle mani di Madame Arnoux che pazientemente spiega il meccanismo della produzione («Ce sont les patouillards», ella dice. Egli trovò la parola grottesca, del tutto inadatta ad esser pronunziata dalle sue labbra»). Come Frédéric, anche Flaubert è condannato dalla sua situazione storica a vivere un monotono turismo tra monumenti industriali che per lui non vogliono dire nulla. E, come si è già visto, quando Zola cerca di soffiare della vita dentro questa esistenza intollerabilmente inerte, può far ricorso solo al mito e alla violenza melodrammatica.

Pertanto, il realismo dipende dalla possibilità di accesso alle forze che provocano il mutamento in un dato momento storico. Al tempo di Balzac, tali forze erano quelle dell’inizio del capitalismo; ma la natura delle forze non è poi così importante: infatti, in altra situazione, la vitalità letteraria di Tolstoj è resa possibile dall’emergenza, nella società russa, della classe dei contadini, con cui egli si identifica in modo utopico e religioso, ma la cui presenza gli dà una forza che resta preclusa agli scrittori occidentali a lui contemporanei. (Anche qui, andrebbe osservato che l’analisi è ancora sostanzialmente quella della Teoria del romanzo; tranne per il fatto che alla formulazione relativamente metafisica di una natura originaria nell’ambiente di Tolstoj, Lukács qui sostituisce la realtà sociale, vale a dire sostituisce la classe dei contadini all’ideale della natura e della vita naturale).

Pertanto, quell’ideale del concreto, che nella Teoria del romanzo era presente come volontà di ripristinare la narrazione epica, resta tale e quale nella teoria del realismo, in cui si dimostra – nello spirito di Storia e coscienza di classe – che tale ideale, come, d’altro canto, la stessa prassi rivoluzionaria, dipende da quei momenti storici privilegiati in cui è nuovamente possibile scoprire un modo nuovo di immettersi nella società come totalità. Nel medesimo tempo, la valorizzazione della narrazione, che è qui implicita, sottolinea una preoccupazione che diventa sempre più centrale per tutte le scuole del pensiero moderno. Infatti, indagando attraverso una rigorosa selezione condotta sugli ultimi studi di filosofia della storia da un punto di vista analitico, un filosofo americano ha dimostrato che persino la storiografia cosiddetta scientifica ha una struttura essenzialmente narrativa11 ; mentre linguisti come A. J. Greimas hanno rafforzato questo tipo di interessi presenti nella loro sfera analizzando tutti i tipi di materiali verbali, e persino le argomentazioni filosofiche astratte, in termini di un modello narrativo che non è altro che il meccanismo centrale dell’enunciato in quanto tale12. L’opera di Lukács, comunque, fornisce un’ossatura teorica per queste osservazioni essenzialmente empiriche, insistendo sulla relazione tra narrazione e totalità: ciò conferma l’opinione di un esperto della levatura di Martin Heidegger che nel marxismo ha visto non solo una teoria puramente politica od economica, ma soprattutto un’ontologia ed un modo originale per ristabilire la nostra relazione con l’essere13. Ma di tale apertura sull’essere, ora concepito come sostanza sociale e storica, la narrazione è sia il segno formale che l’espressione concreta.

1 Susan Sontag: «Anch’io sono propensa a concedere a Lukács il beneficio del dubbio, se non altro per esprimere con ciò la mia protesta contro la sterilità della Guerra Fredda che ha reso impossibile negli ultimi dieci anni, se non per un periodo di tempo più lungo, una seria discussione sul marxismo. Resta però il fatto che noi possiamo essere generosi verso l’‘ultimo’ Lukács solo a costo di non prenderlo sul serio e di considerare il suo fervore morale come un fatto estetico, come una faccenda di stile e non come un’idea…» (Against Interpretation, New York, 1966, p. 87). Adorno: «La persona Lukács è al di sopra di ogni sospetto. Ma la struttura concettuale a cui egli sacrifica l’intelletto è così angusta da soffocare tutto ciò che per vivere ha bisogno di esprimersi liberamente: il sacrifizio dell’intelletto ([N.d.T.] in italiano nel testo) certo non lascia quest’ultimo indenne…» (Noten zu Literatur, 3 voll., Francoforte, 1958-1965, II, p. 154). George Steiner: «Il tedesco è la lingua principale di Lukács, ma egli ha usato questa lingua in modo sgradevole. Il suo stile è quello di un esiliato; egli, infatti, non ha più la padronanza della lingua viva» (Language and Silence, Londra, 1969, p. 295).

2 Lettera a Starkenburg, 25 gennaio 1894, Marx-Engels, Basic Writings on Politics and Philosophy, Ed. L. Feuer, New York, 1965, p. 411.

3 «Ciò di cui l’uomo ha bisogno per la sua vita esterna – casa, tenda, sedia, letto, arma bianca, nave con cui attraversare l’oceano, carro da combattimento, il cucinare, l’uccidere, il mangiate e il bere – non deve essere divenuto semplicemente una serie di mezzi morti da usare per un fine; egli deve sentirsi ancora vivo in tutte queste cose con l’interezza del suo essere di modo che a ciò che è meramente esterno venga dato, mediante la stretta connessione con l’essere umano, un carattere singolo di ispirazione umana» (Hegel, Aesthetik, 2 voll., Francoforte, 1955, II, p. 414, citato in Lukács, Studies in European Realism, New York, 1964, p. 155). Vedi anche la sezione sul «mondo della prosa» citata più oltre, pp. 352-354. Infatti, le sezioni dell’Estetica di Hegel che più ci interessano come lettori moderni sono non tanto quelle che descrivono la struttura epica in quanto tale, ma quelle che direttamente o per implicazione mostrano cos’è che nel mondo moderno esclude a priori quel tipo di interezza. Noi leggiamo Hegel negativamente piuttosto che positivamente e La Teoria del romanzo di Lukács altro non è che la continuazione logica dell’estetica hegeliana dopo la morte dello Spirito Assoluto. Hegel, quindi, è ancora oggi estremamente attuale, come ben si può vedere dal seguente passo: «Le macchine e le fabbriche di oggigiorno, assieme ai prodotti che ci danno e in generale ai mezzi che anualmente usiamo per soddisfare i nostri bisogni esterni sono – esattamente come la moderna organizzazione dello stato – in certo qual senso stonati rispetto al background da cui nasce l’epica vera e propria».

4 Georg Lukács, Theories des Romans, Neuwied, 1962, p. 87. In questo senso il libro di Lukács può venire visto come un’applicazione delle categorie dell’analisi sociale weberiana alle strutture della trama in quanto quest’ultime rispondono ad una caratteristica dialettica weberiana tra l’attività umana e quel significato essenziale che non può più essere ad essa immanente, ma anzi la trascende ed è staccato dal mondo, se non è addirittura, come nel caso della burocrazia e del mondo secolarizzato (entzauberte) assente: queste analisi, come le analisi weberiane, sfociano, come nel proprio naturale completamento, in una tipologia.

5 La teoria di Lucien Goldmann dell’eroe problematico, che mette in luce questo aspetto del contenuto del romanzo a spese di altri, più formali, elementi, mi sembra di gran lunga più angusta dell’idea di Lukács che l’ha ispirata.

6 Theories des Romans, p. 90.

7 «Il mondo della società civile certamente è stato fatto dagli uomini… i suoi principi, pertanto vanno ricercati nelle modificazioni della nostra mente umana stessa. Chiunque rifletta su questo può solo stupirsi del fatto che i filosofi abbiano speso tutte le proprie energie nello studio del mondo della natura che, essendo stato fatto da Dio, da esso soltanto può venire conosciuto; e meravigliarsi del fatto che essi abbiano trascurato lo studio delle nazioni, o mondo civile, che, essendo stato fatto dagli uomini, da essi soltanto può venire conosciuto» (Giambattista Vico, The New Science, trad. T. G. Bergin e M. H. Fisch, Ithaca-New York, 1968, p. 96). Vedi anche Erich Auerbach, «Vico and Aesthetic Historicism», in Scenes from the Drama of European Literature, New York, 1959.

8 Geokg Lukács, Histoire et conscience de classe, Parigi, 1960, p. 210.

9 J. L. Houdebine, «Sur une lecture de Lénine», in Tel Quel: Théorie d’ensemble, Parigi, 1968, pp. 295-296.

10 Ma già delineato in precedenza in «Subject-Object Relationship in Art», Logos, VII, 1917-1918, pp. 1-39.

11 «Mi sembra che ci siano delle buone ragioni tanto a sostegno della tesi che noi possiamo ricostruire una spiegazione ‘scientifica’ in forma narrativa, quanto della tesi opposta, e non credo che un resoconto in forma narrativa perda la forza esplicativa dell’originale» (Arthur C. Danto, Analytical Philosophy of History, Cambridge, Inghilterra, 1965, p. 237).

12 A. J. Greimas, Sémantique structurale, Parigi, 1966, pp. 173-191.

13 Heidegger, Brief über den Humanismus, Francoforte, 1947, p. 27. L’Ontologia che Lukács aveva progettato è descritta nel suo Colloquio (Gespräche) con Holz, Kafler e Abendroth (Amburgo, 1967).

Il giovane Lukács teorico dell’arte borghese

14 martedì Ott 2014

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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di Alberto Asor Rosa

«Contropiano», n. 1, 1968.

[Il saggio è poi stato riportato in A. Asor Rosa, Intellettuali e classe operaia. Saggi sulle forme di uno storico conflitto e di una possibile alleanza, La Nuova Italia, Firenze 1973, con il titolo L’anima, le forme, da cui si riprende il testo. Poiché non abbiamo indagato, non ci è dato sapere se questa versione corrisponda a quella della rivista, o se sia stata modificata in qualche sua parte].


1. I «nuovi tempi». «Tempi beati: tali, quelli in cui è il firmamento a costituire la mappa delle vie praticabili e da battere, e le cui strade illumina la luce delle stelle. Tutto è nuovo, per questi tempi, e insieme familiare, avventuroso eppure noto. Il mondo è ampio e tuttavia quale la propria casa, ché il fuoco che nell’anima arde è della stessa sostanza delle stelle; nettamente separati sono tra loro il mondo e l’io, la luce e il fuoco, epperò mai risultano l’uno all’altro estranei: il fuoco è infatti l’anima di ogni luce, di luce si veste ciascun fuoco. Sicché ogni atto dell’anima acquista significato e pienezza in questa duplicità: totalità nel senso e per i sensi; pienezza perché l’anima in sé riposa nel corso dell’azione; pienezza, ancora, perché il suo fare da esso si distacca e, autonomizzandosi, trova un suo proprio centro e attorno a se stesso traccia un cerchio concluso»1 (TR, p. 55).

È la prima pagina di Teoria del romanzo. Ma già precedentemente, in uno dei saggi più importanti dell’Anima e le forme, Lukács aveva scritto: «Ci fu un tempo, – pensiamo che ci sia stato, – in cui ciò che oggi noi chiamiamo forma, ciò che andiamo cercando con febbrile consapevolezza, immergendoci in fredde estasi per distillarlo come unico residuo dal mutevole caos, ci fu un tempo in cui tutto questo altro non era che il linguaggio naturale della rivelazione, l’urlo che esplode incontrollato, l’energia diretta di movimenti sussultori. Poiché non ci si chiedeva ancora che cosa fosse, né la si separava ancora dalla materia e dalla vita, quando essa non era altro che la maniera più semplice, la via più breve per la comprensione reciproca fra due anime della stessa specie, quella del poeta e quella del pubblico. Oggi anche questo è diventato un problema» (AF, pp. 232-33). Ecco il primo tratto da sottolineare. Infiniti altri esempi potrebbero testimoniare che la posizione del giovane Lukács non si può né intendere né penetrare, senza partire da questo suo profondo senso della specificità del problema esistenziale ed estetico borghese, – senso della specificità, che può anche assumere l’altra faccia, già presente in queste due citazioni, di una grande inappagata nostalgia per le intatte virtualità del passato. È vero: in lui c’è anche una ricerca di modelli archetipi, figure ed opere, in cui si preannuncia il tratto tipico del saggio moderno: sono quei pensatori e filosofi, ai quali ha già parlato misteriosamente la voce tragico-ironica dello spirito: Montaigne, Pascal e sopra tutti Platone, che Lukács definisce il più grande saggista di tutti i tempi. Ma queste figure isolate nei tempi trovano terreno propizio per diventare i punti di riferimento di una intera cultura, solo quando l’età moderna si presenta con la sua particolarissima e inconfondibile configurazione spirituale. Prima di questo momento essi possono essere considerati o dei profeti o dei precursori; mai, comunque, delle voci o degli interpreti legati al senso e alle attese dei loro tempi. La grande figura di Socrate, che torna spesso disegnata con tratti nostalgici nel primo dei saggi dell’Anima e le forme, è dissonante con l’atmosfera classica da cui essa è circondata: solo oggi, nell’età moderna, si può cogliere a pieno il suo significato esistenziale, e intendere perfettamente il suo messaggio.

Per capirci meglio: ci sono secondo Lukács maggiori punti di contatto e di affinità fra l’arte classico-pagana e quella medievale-trascendente che fra queste due e l’arte moderna-borghese. L’arte classica e quella medievale sono infatti ambedue fondate sul presupposto di una effettiva totalità umana (di specie ovviamente diversa nei due casi in questione), a cui portano strade spesso contrastate e difficili, ma sempre possibili. L’arte moderna è contraddistinta esattamente dalla perdita di questa naturale totalità. Ritrovarla costituisce per essa un problema:il problema, appunto, centrale e specifico dell’arte moderna. Su questo problema è imperniata tutta la riflessione di Lukács dall’Anima e le forme alla Teoria del romanzo.

Questa autoindividuazione della propria posizione, – che è, nello stesso tempo, una precisa individuazione della posizione dell’arte borghese o moderna, – costituisce già di per sé un motivo di fortissimo interesse nei confronti della produzione giovanile di questo pensatore. Essa ci dà infatti il senso complessivo del tentativo da lui compiuto. Il giovane Lukács è senza dubbio tra quei non molti che cercano di arrivare, al di là di tutte le difficoltà teoriche e tematiche, esattamente al cuore della questione affrontata. Guardato da questo punto di vista, egli si qualifica fin dall’inizio sulla linea di una grande tradizione di pensiero, estetica e filosofica. E richiamarsi al suo sentimento profondo della specificità è solo un altro modo d’esprimere lo stesso concetto. Questo senso della specificità, questa autoconsapevolezza del proprio essere distinti e diversi, questo saper bene di rappresentare qualcosa di autonomo e d’inconfondibile rispetto al passato, sono infatti atteggiamenti, che assai spesso si trovano all’ inizio e alla fine, delle grandi esperienze culturali, – in modo particolarissimo delle grandi esperienze culturali borghesi. È in quei momenti decisivi che si compie, in senso positivo o negativo, il destino di una scelta spirituale o ideologica, per la necessità profondamente avvertita d’imporla alle forze esterne variamente contrastanti. La linea di confine svela di una civiltà i contenuti più profondi e segreti. In modo particolare, si diceva, ciò è vero per una civiltà culturale come quella borghese, che fa dell’autonomia dello spirito un proprio fondamentale presupposto. Il senso della distinzione le è perciò congenito, e non possiamo stupirci che da esso siano segnate le sue più alte manifestazioni. Non è un caso, ai nostri occhi, se, per ritrovare un’opera in cui la problematica dell’arte moderna viene affrontata con un senso altrettanto vivace e risentito delle distinzioni, rispetto al passato – a tutto il passato – bisogna forse risalire fino alle Lettere sull’educazione estetica di Schiller: un’opera i cui contenuti sono indubbiamente molto diversi da quelli dell’Anima e le forme, e che pure viene spontaneo richiamare per questa intima, profonda parentela con l’oggetto della nostra trattazione.

2. Nascita dell’«individuo problematico». I mutamenti dei tempi inducono dunque i mutamenti delle forme. Il rapporto non è però né immediato né meccanico. Fra i tempi e il mutamento delle forme c’è infatti quella che Lukács chiamava la «topografia trascendentale dello spirito» (nell’Anima e le forme), oppure, più tardi (in Teoria del romanzo), c’è l’intervento chiarificatore e mediatore di una filosofia della storia.

Questo vuol dire che secondo Lukács fra l’empiria pura e la poesia non v’è alcun rapporto. C’è rapporto invece tra la poesia e l’anima, fra i momenti privilegiati dello spirito e le forme che ab aeterno vi corrispondono.

Questo è tanto vero che le stesse analisi esistenziali del primo Lukács non riguardano mai, o quasi mai, le realtà empiriche quotidiane, bensì la realtà più vera, a suo giudizio, dell’anima e delle idee: il rapporto, cioè dell’uomo non con le cose ma con se stesso. L’empiria è puro caos, o, come egli dice, «materiale grezzo», con cui l’anima decaduta si trova spesso a che fare, ma senza mai identificare o riconoscere la propria storia in quella che, come arbitrio, casualità o inessenzialità ci circonda. L’anima, però, per quanto contrapposta consapevolmente al caos dell’empiria, non è per Lukács il «luogo» in cui l’assoluto riposa incontrastato su se stesso, e nonostante, o forse proprio per la sua separazione dal mondo, trova la forza per erigersi in tranquilla autonomia. Su questo punto egli distingue nettamente le sue posizioni da qualunque possibilità di equivoco o confusione con teorizzazioni mistiche o astrattamente idealistiche. Ribaltare l’analisi dell’esistenza sui suoi principi trascendentali non significa infatti per lui conquistare il punto d’arrivo della ricerca, ed in esso, come in cerchio conchiuso e soddisfatto, trovare una volta per sempre quelle risposte finali, che restano poi a loro volta niente altro che grandi interrogativi irrisolti sul mondo e sulla vita dell’uomo. Individuare preliminarmente la topografia trascendentale dell’anima moderna gli serve soltanto ad indicare un punto di partenza, che a suo giudizio sia non precario, non instabile e soprattutto non pregiudicato dalla mera empiricità. Naturalmente, questa è già una scelta di fondo da parte sua (implica ad esempio un giudizio sul rapporto tra conoscenza ed essere: egli si costituisce infatti un’angolatura visuale interpretativa, partendo da un’implicita esaltazione dell’idea-in-sé contrapposta al mondo). Ci limitiamo per ora a segnalare le conseguenze che ne scaturiscono, per aver chiaro innanzi tutto l’intero tracciato del discorso lukacsiano.

La prima s’intuisce. Il mondo, in quanto empiria, non ha potere sull’anima: «La vera esistenza è sempre non reale, non è mai possibile per la empiricità dell’esistenza»; oppure, con affermazione apparentemente rovesciata ma di significato del tutto analogo: «Per poter vivere bisogna ricadere nel buio, bisogna negare l’esistenza» (AF, p. 307). Se però il mondo in quanto empiria non ha potere sull’anima, è viceversa un fatto proprio dell’anima, – che la tocca cioè da vicino, – che essa non possieda più spontaneamente il mondo in una forma qualunque di totalità. Aver perduto il possesso naturale del mondo non è perciò senza significato per la condizione dell’anima, – la quale appunto è caduta dal regno delle certezze in quello di un eterno chiedere e ricercare. Questa condizione nuova dell’anima, ignota a tutto il nostro passato, trova espressione per Lukács nella figura dell’«individuo problematico», il soggetto e insieme l’oggetto privilegiato di tutta la tematica esistenziale ed estetica del mondo moderno. L’«individuo problematico» è colui per il quale, – se vogliamo riprendere, ma rovesciandola, una formula usata da Lukács per definire l’arte classica, – è colui per il quale «essere e destino, avventura e successo, vita ed essenza non sono più concetti identici» (TR, p. 57) (come viceversa lo erano nel caso della classicità prima, come, in forma diversa, lo furono poi anche per la trascendenza medievale).

Ma cosa è avvenuto a determinare questa frattura nella «composizione» stessa dell’essere e tra i suoi reciproci e necessari componenti? Qui il discorso comincia a penetrare in profondità, – nel duplice senso che la posizione lukacsiana si configura più nettamente e più nettamente mostra i suoi confini, – proprio perché Lukács, coerentemente ai suoi presupposti, non cerca a questo fenomeno spiegazioni esterne, le quali sarebbero dal suo punto di vista sempre marginali, ma tenta d’individuare nella configurazione stessa dello spirito le ragioni del fenomeno qui descritto. Vedremo più avanti che cosa pensare di questa «coerenza» (e di quali contenuti essa poi sia concretamente riempita dallo stesso Lukács, per non restare, come qui potrebbe sembrare, una coerenza puramente astratta). Ora c’interessa di più mettere in luce il «gioco» interno svolto da questa rigorosa coerenza ai fini della posizione da Lukács sostenuta. Diremo allora che per Lukács lo spirito è responsabile di fronte a se stesso della propria storia. Le sue chances come i suoi scacchi hanno la stessa identica origine. Scrive Lukács: «Abbiamo scoperto la produttività dello spirito: ecco perché gli archetipi ai nostri occhi hanno perduto, una volta per tutte, la loro oggettiva evidenza, e il nostro pensiero batte la strada senza fine di un’approssimazione mai compiuta». E poco più sotto: «Abbiamo trovato in noi stessi l’unica, vera sostanza: ragion per cui abbiamo dovuto scavare incolmabili abissi tra conoscere e fare, tra anima e immagini, tra io e il mondo e spezzar via riflessivamente ogni sostanzialità posta al di là dell’abisso; ragion per cui, ancora, la nostra essenza ha dovuto per noi assurgere a postulato, scavando tra noi e noi stessi un ancor più profondo e minaccioso abisso» (TR, p. 61). Si potrà obiettare a questa analisi lukacsiana d’essere tautologica: in questo modo infatti causa e conseguenza del fenomeno finiscono pressoché per identificarsi. Vero è che attraverso questa relativa tautologia, e dentro i limiti connaturati alla sua posizione, Lukács arriva ad una perfetta descrizione del fenomeno, che potremmo riassumere in questi termini: la produttività dello spirito è alla base del problematicismo moderno, ed esprime quindi ed insieme riflette la crisi esistenziale ed artistica dei nostri tempi. L’individuo problematico è dunque figlio della produttività dello spirito; è il prodotto storico e teorico dello sviluppo della filosofia moderna dalle sue origini ad oggi.

3. «Produttività dello spirito» e «miseria del mondo». Questa conclusione può essere considerata almeno per ora soddisfacente in questi due diversi significati o angolature di discorso. Agli occhi di Lukács essa apparirebbe soddisfacente, in quanto egli vi perviene concretamente attraverso un riesame e un filtraggio critico di tutta la tradizione di pensiero, a cui egli è più intimamente legato. È soddisfacente anche per noi, in quanto la teoria delle forme del giovane Lukács ci appare esattamente come il prodotto estremo di una serie di posizioni filosofiche borghesi fra di loro strettamente collegate e nello stesso tempo superantesi a vicenda. Alla luce delle citazioni fatte precedentemente, il giovane Lukács potrebbe esser definito un kantiano che sottoponga i presupposti delle proprie posizioni filosofiche al vaglio di un’autocritica rigorosa, non disdegnando di servirsi per questa operazione degli strumenti già elaborati dalla meditazione antiidealista di uno Schopenhauer, di un Kierkegaard, di un Nietzsche. La novità della sua posizione sta per noi in questo, che egli rimette in comunicazione il mondo delle idee in sé (l’astratta produttività dello spirito) con il mondo dell’esistenza e ciò facendo provoca l’esplosione del chiuso universo della filosofia classica tedesca. Il mondo delle idee, calato nella vivente sostanza dell’anima, mentre assume una forma concreta che solo l’esistenza può assicurargli, mostra però il rovescio della sua straordinaria forza creativa – il suo limite invalicabile e insieme il principio della sua drammatica lotta per non essere sopraffatto dalle potenze nemiche della realtà esterna. Di questa realtà esterna Lukács non dà e non può dare nessuna descrizione coerente: sa solo dire che è l’anti-spirito, il caos, il disordine. Ma intuisce, e pone questa intuizione come fondamento del suo discorso, che l’arte moderna nasce da un processo di spossessamento dell’intellettuale borghese da un mondo circostante in sé miserabile.

Qui, forse senza volerlo, egli è arrivato a elaborare una posizione di validità pressoché generale. La storia della cultura borghese o almeno di un ampio settore di essa è infatti tutta dominata dal segno di questo rapporto e di questo rovesciamento (come egli l’ha colto nei brani appena citati). Non c’è contraddizione, ma rapporto causale, fra un concetto di spirito, che assorbe in sé tutto l’essere, e il processo di scissione fra il soggetto e il mondo, cui esso dà luogo. Non c’è contraddizione, ma rapporto causale, fra la stupenda produzione culturale, che la borghesia ha alimentato, e la progressiva separazione dell’anima borghese dal mondo, – cioè, in termini nostri, dalla prassi e dalle possibilità stesse dell’operare umano nella società e nella storia. L’ interiorizzarsi dei processi creativi, che è forse il tratto più caratteristico di questo ampio settore della cultura borghese moderna, è esattamente il fondamento e insieme la conseguenza di questa straordinaria forza coincidente con una perfetta impotenza. Solo un totale distacco dal mondo può produrre una illimitata fioritura dello spirito. Ma viceversa: la fioritura dello spirito rende più forte il distacco dal mondo ed aumenta la propria impotenza nei suoi confronti. In questo campo, dunque, la massima ricchezza conduce alla estrema povertà. Ma ha lo stesso senso dire: solo un’estrema povertà (e l’accettazione disincantata di essa) può in questo campo condurre alla ricchezza.

Di questo fenomeno il primo libro di Lukács è, insieme, consapevole testimonianza e documento oggettivo. È difficile dire, infatti, quanto il giovane pensatore fosse consapevole di riflettere nelle sue posizioni, con la diagnosi, anche i segni del «morbo» da lui denunciato. Dobbiamo ora rivedere criticamente alcune delle affermazioni fatte precedentemente, e di proposito accettate per buone come punti di passaggio necessari allo sviluppo del discorso. La coerenza, con cui egli spiega ogni fatto dello spirito con lo spirito stesso, non esclude che nelle concrete analisi, alle quali vengono sottoposte le condizioni della moderna crisi esistenziale, s’affacci il sospetto che solo una grande miseria del mondo e nel mondo metta l’anima di fronte alle crudeli e irresolubili antitesi or ora descritte. Certo, la sua incapacità a penetrare teoricamente il reale gli impedisce di arrivare a conclusioni chiare su questo punto. Ma che il problema non sia completamente assente dall’orizzonte delle sue preoccupazioni interpretative lo dimostra, la segreta dialettica, che corre attraverso l’Anima e le forme, fra l’esaltante sensazione di poter ridurre tutto a forma e l’angosciata constatazione che ogni forma è uno scacco di fronte alla vita e alla storia. Quale che sia, comunque, il livello di coscienza soggettivo raggiunto da Lukács su questo punto, certo è che ai nostri occhi l’Anima e le forme, in quanto opera compiuta e caratterizzata quindi da un senso suo oggettivo, s’inscrive perfettamente nel cerchio di questo problema. Intorno ad essa noi sentiamo il vuoto dell’ azione e della prassi, da cui soltanto può scaturire l’alta cultura borghese. Solo da un mondo destituito di significato e chiuso, nonché alle attività trasformatrici, perfino ai tentativi di conoscenza e di penetrazione, poteva sorgere un esperimento come questo.

Su questo aspetto del problema ritorneremo. Va segnalato però fin da questo momento, tra i pregi non piccoli del primo Lukács, l’aver approssimato il più possibile, pur partendo dall’interno, una descrizione globale, cioè veramente comprensiva, del fenomeno. Il processo di mediazione tra i contrastanti aspetti della condizione dell’anima moderna o borghese (ricchezza-povertà, forza creativa-impotenza pratica, superba autonomia-miserevole isolamento) costituisce infatti larga parte della sostanziale tematica di questo libro. E sebbene le soluzioni fornite non facciano spesso che riproporre i dati iniziali del problema, ciò avviene in modo che, nel cammino percorso fra un polo e l’altro del ragionamento, vengano acquisiti dati preziosi e nuovi per la conoscenza dei problemi di volta in volta affrontati.

È questa constatazione a suggerire il metodo (difficoltosissimo) di lettura qui applicato. La «critica» di questo libro, volta soprattutto ai capisaldi teoretici e ideologici che lo fondano, non può trascurare infatti di raccogliere e sottolineare quanto in esso ha valore di chiara autoconsapevolezza delle aporie del pensiero borghese e delle pratiche antinomie, su cui esse sono innestate. In questo senso (l’abbiamo già detto) la coerenza ai propri principi può rappresentare per Lukács (e ai nostri occhi) un modo di mettere in luce più limpidamente e più coraggiosamente i confini (cioè i limiti), entro i quali il suo discorso è costretto a muoversi. Di conseguenza, la percezione stessa da parte del lettore di questi confini-limiti è oggi effettivamente il modo più corretto di cogliere dentro il discorso lukacsiano quel concreto rapporto tra ricchezza e povertà, di cui abbiamo precedentemente parlato in riferimento ai problemi generali della cultura borghese moderna, – il che significa, in altri termini, la possibilità e la capacità nostra d’individuare, di questo discorso, ela ricchezza e la povertà, contemporaneamente e indissolubilmente congiunte, intrecciate e sovrapposte.

4. La «forma del saggio». Abbiamo parlato di una topografia trascendentale dello spirito, che Lukács mette alla base della sua meditazione estetica soprattutto nell’Anima e le forme. A questo punto potremmo osservare che le forme di accertamento e di individuazione della topografia trascendentale dell’uomo problematico sono molteplici. Non è casuale né per i risultati raggiunti, né per le indicazioni metodologiche che ne scaturiscono, il fatto che Lukács scelga quella che ha scelto, cioè il saggio. Perché il saggio e non la filosofia o la poesia? Perché questa forma espressiva e comunicativa, che sta a metà fra le altre due, in quanto come la filosofia ricerca la verità, ma come la poesia la ricerca trattando forme e pervenendo a forme? Perché non, ad esempio, una interpretazione più direttamente e più francamente filosofica del problema? Perché non una filosofia dell’esistenzialismo ? La descrizione della «forma-saggio», quale si trova nella lettera introduttiva dell’Anima e le forme è così brillante e conclusiva che io non aggiungerò che elementi appunto solo informativi a quanto si può ricavare assai facilmente dalla lettura di quel saggio. Vorrei invece tentare una interpretazione di questo punto che riassuma le intenzionalità di Lukács e riesca a scoprire anche quello che in lui resta implicito, come motivazione nascosta sebbene presente. Alla domanda che ci ponevamo: perché il saggio? Io risponderei: perché la verità può essere guardata dall’uomo problematico solo attraverso un gioco di specchi e dunque soltanto di riflesso. Il filosofo, per esempio, deve guardare la vita, se anche vuole trascriverla in forma sublimata. Quindi, in un certo senso, è più vicino alla realtà empirica dell’esistenza di quanto non lo sia il saggista, il quale invece indaga l’arte. Proprio per questo, dunque, il saggista è più vicino del filosofo ad una realtà dell’anima, perché è vicino all’arte, che è espressione già sublimata e mediata dell’esistenza. Guardare nell’arte dunque significa, nel linguaggio lukacsiano dei primi libri, guardare esattamente nell’essenza delle cose, anche se o proprio perché le cose non stanno brutalmente condensate dentro l’arte, ma dietro o accanto all’arte. Nell’Anima e le forme Lukács racchiude in una sentenza brevissima il senso di quanto io cercavo di riassumere: «Il saggio tende alla verità, esattamente, ma come Saul, il quale era partito per cercare le asine di suo padre e trovò un regno, così il saggista che sa cercare realmente la verità, raggiungerà alla fine del suo cammino la meta non ricercata, la vita» (AF, p. 36). Su questo ritorno del saggio alla vita noi faremo un lungo discorso più avanti. Ma qui importa cominciare a sottolineare questo punto: le forme di conoscenza, che il saggio propone, sono forme di conoscenza altamente indiretta. Allo scopo di guardare più addentro nella verità delle cose, esso guarda infatti il luogo dove queste cose sono già rappresentate in una forma sublimata. Siamo già, con questa affermazione, all’interno di una precisa visione del mondo. Ma allo scopo di chiarire ancora meglio le ragioni della scelta del saggio come forma privilegiata di espressione dell’individuo problematico, bisogna aggiungere alle argomentazioni precedenti qualche cosa di più, un qualcosa che distingue nettamente Lukács da tutti i filosofi dell’esistenza a lui successivi, da quelli che vien voglia di definire i trattatisti dell’angoscia e della disperazione, gli Heidegger, gli Jaspers, i Sartre; si distingue da tutti questi, anche quando le loro tematiche sembrano affini, oppure anche quando è addirittura dimostrabile che questi successivi prosecutori del discorso sull’esistenza hanno ripreso temi, forme, posizioni del giovane Lukács. Che cos’è questo qualcosa di più e di particolare che distingue Lukács dai trattatisti dell’angoscia? È, a mio giudizio, la sotterranea, forse non esplicita, ma nonostante ciò totale consapevolezza da parte sua dell’impossibilità di ridurre la condizione dell’uomo problematico a sistema filosofico, d’imbrigliare, cioè, la cangiante, precaria, ma ricca e mobile vita dell’esistenza umana nel quadro di una riflessione astrattamente totalizzante.

Questo sentimento dell’«estremismo esistenziale», cui sono pervenuti i tempi, e che non può lasciarsi condizionare da nessun limite, neanche da quello teorico che è connaturato ad un processo di sistematizzazione dei dati dell’esistenza, Lukács lo esprime benissimo in questa affermazione: «Se qualcosa è diventato a un certo punto problematico, vi può essere salvezza solo radicalizzando al massimo la problematicità» (AF, p. 43). In questo senso Lukács è assai più vicino a personalità come Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, nei quali pure la riflessione filosofica non a caso tende assai spesso ad articolarsi nelle forme del saggio, che essi talvolta spingono fimo ai confini dell’aforisma e della massima; più vicino, dicevo, a questi suoi predecessori, che non ai suoi diretti e immediati prosecutori, i quali, anch’essi non a caso, sono assai spesso dei restauratori di quella «ragion filosofica», che Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, e accanto a questi anche il giovane Lukács, più o meno avevano contribuito o a criticare o addirittura a negare. Per non lasciare la proposizione di questo rapporto a livello della pura impressione, basti ricordare l’importanza che nel saggio che apre l’Anima e le forme assume la figura di Schopenhauer, ricordato come autore dei Parerga, opera secondo Lukács totalmente separata e autonoma dal Mondo come volontà e rappresentazione, e a cui soprattutto l’autore deve la sua carica e la sua qualificazione di profeta e di precursore. In essa, appunto, Schopenhauer scendeva (o risaliva) dalla forma del sistema alla forma del saggio. Se l’individuo problematico non può essere individuato e raffigurato dalla filosofia, può farlo la poesia? Senza dubbio sì, almeno in teoria. Almeno in teoria poiché i saggi del suo Anima e le forme, non sono che una galleria dei modi attraverso cui la poesia moderna ha cercato di raggiungere questo risultato (ciò che lo manifesta chiaramente come possibile), senza peraltro andare mai al di là di altrettante splendide approssimazioni (ciò che con altrettanta chiarezza mette in dubbio quella possibilità di cui parlavo poc’anzi).

Lukács non è mai arrivato a dire questo, ma di fronte alle conclusioni delle sue analisi non possiamo forse dire noi che l’individuo problematico da lui disegnato non ha possibilità più alta di espressione di quella forma d’arte, che nasce proprio dalla sua interna essenziale problematicità e che quindi ad essa aderisce con tutta se stessa, con la sua stessa natura? Non sembra che Lukács, con tutto il complesso dell’Anima e le forme, voglia accennare ad una identificazione tra la forma del saggio e l’essenza dell’anima moderna, da sé scissa e scissa dal mondo? Anche qui una citazione sembra illuminare queste indicazioni interpretative. Lukács infatti scrive: «Il saggio parla sempre di qualcosa che è già formata o almeno di qualcosa che è già esistita una volta»; è proprio della sua essenza non “ricavare novità dal nulla” ma “dare nuovo ordine alle cose esistite” (AF, p. 34). Questo dar nuova forma alle forme, questo declinare la responsabilità di una creazione che parte dal nulla, per restringere ma insieme concentrare lepossibilità reali di conoscenza, conducendo un’operazione di ricostruzione mediata della realtà, è forse la formula che meglio ci aiuta a comprendere non solo il discorso lukacsiano sul saggio, ma anche più in generale un certo atteggiamento di ricerca, che la cultura borghese del ‘900 ha conosciuto e ampiamente praticato.

In mancanza di quei felici valori diretti, che immanentemente troviamo o trovavamo operanti nella vita e nella storia, interverranno allora a permetterci un lembo di libertà e di creatività quelli che noi possiamo definire i valori indiretti dell’esistenza. Poiché nelle cose non ci sono più valori, dovremo altrove cercarne altri, che siano già stati mediati da un processo di formalizzazione dell’esistenza.

Il saggio è dunque secondo Lukács la forma tipica d’espressione di un’età, in cui nelle cose non esistono più valori diretti. Solo guardando ad altri valori, che stanno ormai al di qua o al di là delle cose, l’ironico sapiente può rientrare nella vita senza temere di perdersi.

Le forme artistiche di cui parla Lukács nel suo libro sono tra questi valori indiretti del mondo moderno.

5. Totalità e assoluto, e loro aporie. Lo abbiamo già detto: l’anima problematica dell’uomo moderno non è, né può essere, un’anima quieta e in sé soddisfatta. Al contrario: il suo stato più proprio è quello di tensione. Gli elementi, che la compongono, sono mossi da una costante aspirazione, da un desiderio struggente – da una Sehnsucht, come la chiama Lukács – a farsi diversi da ciò che sono. L’anima, scissa da sé e dal mondo, non ha smesso di cercare la propria perduta totalità. Anzi, la cerca proprio perché non l’ha più.

Questa affermazione, apparentemente ovvia, è invece da intendersi nella pluralità dei diversi significati, che essa contiene, perché è nella reciproca dipendenza fra essi che viene da Lukács posto, ma non risolto, il problema della riconquista della totalità. Perdita della totalità e riconquista della totalità non sono infatti, né potrebbero essere, momenti antitetici e per così dire cronologicamente successivi dello spirito. Essi sono, nella teorizzazione lukacsiana, le due facce della stessa medaglia: se la perdita della totalità pone il problema della sua riconquista, non si dà riconquista della totalità (borghese) senza averla perduta, e senza tornare continuamente a perderla.

Si ricordi a questo punto quanto abbiamo detto sul rapporto tra produttività dello spirito e miseria del mondo, quale contrassegno dominante della cultura borghese. Considerazioni analoghe si potrebbero fare fin d’ora – anticipando talune analisi successive – sul rapporto fra il concetto di Sehnsucht e quello di totalità (almeno nell’Anima e le forme).

Il concetto di totalità borghese è fondato sul concetto di perdita, ed è indissociabile da esso. Anche la totalità, dunque, nell’universo intellettuale borghese, non fa che riprodurre le condizioni, per cui la sua attuazione è materialmente impossibile. Essa, infatti, della miseria del mondo non costituisce l’effettiva negazione, bensì il riflesso speculare, il prodotto che della matrice conserva tutti i segni e tutti i limiti iniziali. Lo vedremo meglio, trattando il tema della tragedia. Ma fin d’ora si può dire che, all’ultimo traguardo, dopo tanto, chiedere e ricercare, si scoprirà che la totalità non è che la somma degli elementi congiunti del problematicismo, oppure nei casi più alti e consapevoli, è solo la visione globale della crisi, impotente a risolversi effettualmente, e appunto per ciò, sebbene totalità, forse più disperata e angosciante di ciascuna delle sue parti contrapposte, in sé e per sé considerata. In questo senso, dunque, la totalità borghese è sì un punto d’arrivo, ma tale che conferma e sancisce per sempre le discrepanze di partenza.

Cosa, infatti, la Sehnsucht lukacsiana propone sostanzialmente come obiettivo a se stessa nei saggi e negli autori dell’Anima e le forme? A guardar bene, ci si accorge che la Sehnsucht propone se stessa a se stessa come unico sostanziale obiettivo, – né potrebbe fare altrimenti, perché anche per lei non esiste altra fondazione e giustificazione possibile al di fuori dello spirito. A conclusione della lunga ricerca non c’è ancora altro che aspirazione struggente, altro che desiderio nostalgico: gli stessi dati di partenza, dunque, in una forma che è diversa soltanto nel senso che, cammin facendo, essi hanno a poco a poco perduto molto della fede iniziale, hanno deteriorato e consunto la spinta vitale, da cui eran mossi.

A questo convincimento si può arrivare, sottoponendo ad un esame più approfondito il tema dell’assoluto, quale emerge da tutti i saggi dell’Anima e le forme.

Secondo Lukács, come l’anima moderna è sostanzialmente diversa da quella classica o medievale, così pure diverso è il suo concetto di assoluto da quello in cui, in forma immanente o in forma trascendente, finivano per identificarsi quelle precedenti esperienze estetiche e culturali. Per l’anima borghese o moderna l’ assoluto non è che la compiuta realizzazione di se stessa: non, quindi, un vero e proprio superamento della scissione esistente fra lei stessa e il mondo né, tanto meno, fra lei stessa e una realtà trascendente di valori fissi ed immutabili, ma anzi, al contrario, un ribaltamento della propria essenziale autonomia rispetto a tutta la restante realtà (con tutto quello che ciò comporta, e che noi ormai conosciamo).

Il problema dell’autenticità, così importante nella meditazione dell’Anima e le forme, coincide con questa posizione. L’autenticità dell’anima è il compimento del suo assoluto. L’assoluto dell’anima è il suo essere autentica. Ma essa, diversamente dall’anima classica o da quella medievale, può essere veramente autentica solo di fronte a se stessa.

6. Autenticità e forma. Ma l’anima borghese o moderna può mai essere veramente autentica? Qui comincia il discorso concretamente storico di Lukács sui vari tentativi, sulle varie forme, in cui questo problema si è posto e si è cercato di risolverlo da parte di scrittori e pensatori moderni. E qui si coglie un altro tratto di specificità nell’argomentazione lukacsiana. Solo infatti se la realtà esterna, quotidiana e sensibile, si presenta sotto l’aspetto di puro Caos; solo se a quest’immagine frammentaria e disarticolata del mondo si contrappone (senza neanche tentare d’identificarsi in essa) la problematicità dell’anima creatrice, scissa fra il suo decadere nell’inessenzialità e la sua tensione costante a recuperare essenzialità e autenticità; solo se si danno queste condizioni, solo se il problema è posto esattamente in questi termini;si può comprendere la concezione assolutamente specifica e inimitata e irrepetibile di forma, quale si configura nella primissima riflessione lukacsiana. Con ciò si vuol dire che il Dio-forma, al quale Lukács riferisce e subordina la creazione poetica, è in strettissimo rapporti, anzi fa tutt’uno con la concezione esistenziale finora illustrata.

A rigor di termini, quando esiste «adeguatezza delle gesta alle esigenze interne dell’anima» (la situazione esistenziale dell’arte classica e medievale), la poesia non è mai forma, nel senso proprio ed esclusivo del termine. Il concetto di poesia come forma nasce nella cultura occidentale esattamente quando le gesta risultano inadeguate alle esigenze interne dell’anima. Scindere questi due aspetti del problema, come taluni vorrebbero fare, per recuperare, isolandolo, il concetto di forma, non si può, senza ignorare perfino la limpida consapevolezza, che Lukács già aveva del loroindissolubile rapporto.

Il Dio-forma ha un senso, solo se il rapporto arte-vita è posto, come correttamente lo poneva Lukács nelle sue analisi degli artisti dell’età borghese. Affinché la forma come concetto-guida sussista, è necessario continuare a credere nella preminenza dello spirito sulla realtà e delle idee sulla prassi, e considerare la prassi stessa come il dominio di una disgregata e inessenziale empiria. Se questa fede decade, decade necessariamente anche il dio della forma.

Sulla coesione dei vari momenti componenti la posizione, e sulla loro reciprocità e unitarietà, si potrebbero elencare numerosissime, anzi infinite citazioni. Abbiamo scelto le più eloquenti. Sul concetto di autonomia dell’arte: «La verità visionaria del mondo a noi congruente, l’arte, è […] divenuta autonoma: essa ha cessato dall’essere una copia, dal momento che tutti i prototipi sono sprofondati; ed essa è una totalità creatrice, che la naturale unità delle sfere metafisiche è per sempre infranta» (TR, p. 65).

Sul rapporto fra poesia e vita vissuta (ciò che vuol dire: sul rapporto tra forma e caos): «… La vita è per il poeta soltanto materia grezza; solo la naturale potenza delle sue mani può dare forma – cioè limite e significato – può ricavare univocità dal caos, può temprare simboli dalle apparenze incorporee, può dar forma – cioè limite e significato – alle molteplicità disarticolate e fluttuanti» (AF, p. 91).

Sul rapporto tra problematicità e arte (ciò che vuol dire: sul rapporto tra le forze contrastanti dell’anima e la loro possibile unità): «La risoluzione vera può essere data soltanto dalla forma. Soltanto nella forma […] ogni antitesi, ogni tendenza diventa musica e necessità. Poiché il percorso di ogni uomo problematico conduce alla forma, ossia a quella unità che può vincolare in sé il massimo numero di forze divergenti, al termine di questo percorso sta l’uomo che sa formare, l’artista, nella cui forma poeta e platonico si equivalgono» (AF, p. 57).

Sulle capacità e sulle possibilità espressive della poesia (ciò che in sostanza vuol dire: sul rapporto tra le forme e l’assoluto dell’anima): «Ogni opera letteraria è costruita attorno a dei problemi e traccia un sentiero che, di colpo, inaspettatamente eppure con forza inesorabile, può interrompersi sul ciglio di un burrone. Ciascuno dei suoi sentieri – si snodino pure lungo dei palmeti in fiore o attraverso campi rigogliosi di candidi gigli – ciascuno dei suoi sentieri porterà soltanto là, sul ciglio del grande burrone, né può interrompersi prima o altrove che proprio sul ciglio di codesto burrone. Il significato più profondo delle forme è il seguente: guidare verso il grande istante di un improvviso silenzio e dare un indirizzo alla molteplicità della vita che rotola senza meta; come se fosse intenzionata soltanto verso codesti istanti» (AF, p. 231).

Si può dunque dire, in conclusione, che per il giovane Lukács l’assoluto dell’anima moderna coincide con la forma? Si può senz’altro dire, a patto di tener sempre presente che i vari rapporti, di cui s’è parlato, non sono neanch’essi il prodotto di un cammino a–problematico e incontestato, bensì di quella Sehnsucht, la quale rimette se stessa continuamente in gioco e in discussione, e solo rarissimamente (i momenti fulminanti di una delle citazioni) si conclude con una condizione d’appagamento (la quale, poi, neanch’essa poggia su di una base di solidità irrefragabile, e così via).

7. Dall’estetica all’etica, passando attraverso il caos. C’è dunque nell’Anima e le forme una proposta di estetica formalista, è l’Anima e le forme un libro estetizzante? Nulla di più lontano dalle intenzioni di Lukács. C’è un saggio, che da questo punto di vista è illuminante: quello su Beer-Hoffmann. Basta chiedersi perché Beer-Hoffmann e non, ad esempio, Hofmanstahl, per dare una risposta al nostro interrogativo.

Beer-Hoffmann appartiene al mondo degli esteti viennesi; quella che lui stesso narra è la tragedia dell’esteta viennese. Pure, in lui c’è qualcosa di diverso rispetto alle opere di questi suoi «fratelli» di convincimenti e di gusto.

«Su codesto terreno si è sviluppata anche la poesia di Beer-Hoffmann; ma in lui tutte le corde sono più tese che in qualunque altro e mandano un suono più profondo e più molle, laddove per altri si sarebbero da lungo spezzate. Nei suoi esteti non c’è ombra di “letteratura”; il mondo che esiste soltanto in essi non è stato creato dall’isolamento estetico della propria arte né da quello di arti altrui, ma dalla travolgente ricchezza della grande vita e dal peso aureo di ogni attimo, accumulatosi volta per volta; e non c’è neppure rinuncia o rassegnazione. Nella loro vita ultraraffinata c’è anche molta ingenua freschezza, energia e profondo anelito per l’essenza delle cose, benché tutto questo si accompagni spesso a giochi sterili e scetticismo masochista» (AF, p. 225). «Gli esteti di Beer-Hoffmann sono così sensitivi che basta una piccolezza, un accidente casuale, per sconvolgerli tutti; ma sono forti abbastanza per impedire che il fallimento dei loro contenuti esistenziali trascini nel baratro anche la loro esistenza» (AF, p. 227).

In che cosa, dunque, l’estetismo di Beer-Hoffmann è veramente diverso da quello di Hofmansthal e di Schnitzler, pur avendo indubbiamente con questo molti punti in comune? A giudicare dalle parole citate da Lukács, si direbbe che esso sia diverso esattamente nella diversità del rapporto, che si stabilisce al suo interno fra esistenza e forma, fra vita e arte. In Beer-Hoffmann – quali che siano i risultati raggiunti – c’è insomma più vita, più forza vitale, un senso più pieno e robusto (anche più religioso) dell’esistenza. S’introduce a questo punto un nuovo elemento di valutazione, il più delle volte trascurato nelle analisi critiche sull’Anima e le forme, ma assolutamente necessario alla comprensione di questa opera. Lukács, infatti, perviene qui ad affermare che la vitalità del sentimento esistenziale, la forza dell’anima non sono indifferenti al processo di formalizzazione, che le esprime; anzi, entrano come elementi qualificanti nel risultato poetico formale. E questo è un dato molto importante, un vero salto nello sviluppo del discorso.

Avevamo già detto fin dall’inizio che c’è un rapporto secondo Lukács tra la vita dell’anima e la poesia. Ma ora dobbiamo chiederci: dove l’anima trova la forza per sprigionare ed elaborare i propri conflitti e le proprie tensioni, che poi la poesia raccoglierà e concilierà nell’assoluto della forma? Che rapporto c’è tra la poesia e la Vita (intesa qui, come vita delle esistenze storiche, collettive, e del loro sensibile estrinsecarsi nel mondo)? È proprio vero, in sostanza, che il Caos dell’empiria è estraneo alla creazione poetica?Oppure non dobbiamo dire piuttosto che questo Caos, apparentemente del tutto irrilevante, è viceversa un elemento essenziale alla creazione, proprio perché ne costituisce la grezza ma insostituibile materia, e l’oscuro destinatario, il Dio nascosto, che sta sotto tutte le cose e quindi anche sotto l’anima e sotto le forme?

Esiste un passo del saggio sulla tragedia, in cui questo concetto è adombrato: «Eppure in questo mondo esiste un ordine, una composizione, nelle confuse volute delle sue linee. Ma si tratta dell’ordine indefinibile di un tappeto o di una danza: pare impossibile individuare la sua intenzionalità ed ancor meno possibile rinunciare a trovarla; pare come se tutto il tessuto arruffato delle linee aspettasse immobile una sola parola, per diventare chiaro, univoco e comprensibile, come se qualcuno questa parola ce la avesse sempre sulla punta della lingua – eppure ancora nessuno l’avesse pronunciata. Pare che la storia sia un profondo simbolo del destino: della sua casualità conforme ad una legge, dal suo, in ultima analisi, sempre giusto arbitrio e della sua tirannide. La lotta che la tragedia conduce per la storia è la sua grande guerra di conquista contro la vita; il tentativo di trovare in essa – la sua intenzionalità – irrimediabilmente distante da quella della vita comune – di riuscire a decifrarla, proprio come sua reale intenzionalità occulta» (AF, p. 334).

Ho scritto: adombrato; e con questo termine volevo esattamente esprimere l’ambiguità, in cui da Lukács questo concetto e questo rapporto sono lasciati. Mai Lukács potrà arrivare ad ammettere che esista un flusso di correlazioni tra l’empiria e la poesia. In realtà, poi, le sue interpretazioni non si comprendono, senza prendere in considerazione anche questo elemento. La tensione apparentemente dualistica tra l’anima e le forme è infatti in Lukács qualche cosa di più complesso, un intreccio di dati, che difficilmente potrebbe essere definito dialettico nel senso proprio del termine, e in cui accanto all’esistenza e alle forme, accanto alla anima e alla poesia, ricompare, come terzo non indifferente interlocutore, il vivere stesso, l’empiricità, l’arbitrio, il casuale, il rozzamente necessario.

C’è qui dunque, nel pensiero di Lukács, un duplice movimento – dalla vita all’arte e dall’arte alla vita –, duplice movimento, che però non si esprime mai dialetticamente in una sintesi né si svolge secondo fasi ciclicamente ricorrenti, ma è sempre contemporaneo a se stesso, cioè si svolge sempre contemporaneamente in ambedue le direzioni.

Da una parte, infatti, c’è il movimento ascensionale, che va dal caos quotidiano al miracolo delle forme, dal disordine all’ordine, dall’esistenza empirica all’essenza; dall’altra, invece, si verifica il movimento possessivo delle forme sul caos, dell’ordine sul disordine, dell’essenza sull’esistenza. Senza che a tutto questo, naturalmente, corrisponda un regolare diagramma di transiti e di sviluppi, perché ogni passaggio si confonde poi nella vivente problematicità dell’anima moderna.

In questo modo il lettore avvertito coglie il momento in cui Lukács sale il gradino, che separa l’ estetica dal l’ etica. Voglio dire che, come è stato possibile risalire ad una teoria delle forme, partendo da una precisa visione esistenziale, così ora è possibile a Lukács ricavare dalla stessa teoria delle forme una nuova visione esistenziale, la quale, senza contraddire i punti di partenza trascendentali, li arricchisca di una vasta e vivente esperienza esistenziale, ponendosi, per dirla in breve, come proposta di carattere anche etico.

8. Vita e morte nella ricerca dell’ assoluto. Fra questi tre poli – anima, caos e forme – potremmo collocare la lettura di tutti i saggi contenuti nella prima opera di Lukács. Ai due limiti estremi (estremi in ogni senso) del discorso lukacsiano si collocano, da una parte, i saggi su Novalis e Kierkegaard, dall’altra il saggio sulla Metafisica della tragedia, che, non a caso anche questa volta, aprono e chiudono il libro. Sulla Metafisica della tragedia ritorneremo più avanti; ma fin da ora si può dire che esso ha in comune con gli altri due saggi citati almeno questo carattere, il fatto cioè che essi rappresentino e descrivano i gradi più assoluti di tensione dell’anima, e le forme, che vi corrispondono – siano esse esistenziali od artistiche – sono arrivate conseguentemente ad un livello espressivo di una purezza senza pari. Escludono perciò del tutto o quasi ogni rapporto con la vita, proprio nella misura in cui tutto, anche la vita, diventa poesia ed esperienza estetica. Novalis, lo ricorda Lukács nel suo saggio, poté affermare: «La poesia è il modo di produzione tipico dello spirito umano»; e Lukács commenta «non l’arte per l’arte ma panpoetismo» (AF, p. 107).

Ma cosa vuol dire ridurre tutto a poesia? Vuol dire, per i romantici e in particolare per Novalis, non rinunciare a nulla di ciò che costituisce la tensione esistenziale dello spirito. Da qui le loro affinità con Goethe ma anche la loro profonda diversità da lui. «Ecco il punto – scrive Lukács – in cui la strada di Goethe e quella dei romantici divergono. Ambedue cercano l’equilibrio delle stesse forze contrastanti, ma i romantici vogliono qualcosa in cui l’armonia non rappresenti una condizione di indebolimento delle energie» (AF, p. 105). Non vogliono cioè, come dicevo, rinunciare a nessuna parte della tensione che li spinge alla poesia. Da qui persino una cosa in un certo senso più estrema rispetto alla loro visione iniziale, persino il loro rifiuto della tragedia: «Si acuirono in lui [Novalis] al massimo le tendenze dei romantici a negare sempre, con consapevole intransigenza, che la tragedia è la forma della vita (ovviamente come pura forma di vita, non come forma di poesia): la loro massima aspirazione fu sempre quella di eliminare la tragedia, di trovare una soluzione non tragica a delle situazioni tragiche» (AF, p. 114). Perché dunque questo rifiuto della tragedia? Perché la tragedia, mettendo in un certo senso i propri personaggi di fronte all’irresolubilità dei loro sforzi, li fa consapevoli dei limiti del mondo nel quale pure eroicamente si muovono con uno sforzo supremo di tensione. In Novalis, come nei romantici, è il senso stesso del limite che viene rifiutato: la poesia non conosce ostacoli, il mondo non ha, non deve avere ostacoli per lei.

Per comprendere la valutazione che Lukács dà di questo estremo tentativo romantico è necessario qui richiamare alla mente i discorsi già fatti sul concetto di totalità e di assoluto, e sui limiti, sulle aporie, sulle contraddizioni e sugli ostacoli drammatici di fronte a cui questo concetto è venuto a trovarsi nella stessa teorizzazione lukacsiana. È infatti estremamente significativo che Lukács avverta come la conclusione naturale e necessaria di questa smisurata tensione dello spirito sia esattamente l’opposto di ciò per cui essa si era mossa e si era battuta, e come insomma fra il tutto e il nulla ci sia una parentela più stretta di quanto non appaia, e come infine una volontà senza limiti di vita non sia nient’altro che un’invocazione di morte. Nessuno potrebbe essere più chiaro di quanto riesca ad esserlo Lukács in questo suo giudizio conclusivo su Novalis: «Tra tutti questi ricercatori di un dominio sulla vita egli è l’unico artista pratico dell’esistenza. Ma anch’egli non ottenne la sua risposta al suo interrogativo: egli consultò la vita e la morte gli diede la risposta» (AF, p. 118). E ancora: «La tragedia dei romantici fu che soltanto la vita di Novalis poté diventare poesia; la sua vittoria è una condanna a morte per tutta quanta la scuola. Tutte le risorse con le quali volevano conquistare la vita, bastarono semplicemente per una bella morte; la loro filosofia della vita non era altro che una filosofia della morte, la loro arte di vivere un’arte di morire» (ivi). Kierkegaard è rappresentato invece da Lukács in un atteggiamento diverso, anzi opposto, rispetto a quello di Novalis e dei romantici. Egli è infatti colto – più che nel nucleo centrale della sua filosofia – nel tentativo da lui compiuto di adeguare la sua esistenza all’essenza, di piegare il mondo alla propria volontà, di trasferire nella realtà stessa la legge dell’assoluto. Ma anche per lui, come per Novalis, ciò fu possibile solo sulla base di un processo terribile di riduzione. La sua sete di assoluto e di autenticità si ridusse – né poteva andare al di là di questo – al compimento di un solo gesto, il distacco consapevole e intenzionale da Regina Olsen da lui teneramente amata. Solo nel gesto, infatti, nella sua istantaneità e nella sua precarietà, l’assoluto può tradursi in termini esistenziali: «In una parola, il gesto è quell’unico salto con cui nella vita l’assoluto si tramuta in possibile. Il gesto è il grande paradosso della vita, poiché ogni fuggevole istante della vita si placa nella sua immobile eternità e diventa in essa vera realtà» (AF, p. 71). Ma, come nel caso di Novalis la ricerca dell’assoluto poetico conduceva sempre più lontano dalla vita e poi, in maniera pressoché necessaria, fino al l’ esaltazione e al l’ accettazione della morte, come unica realtà possibile in quanto unica realtà veramente assoluta, così nel caso di Kierkegaard la pretesa eroica di portare l’assoluto nella vita non fa che sottomettere questa vita ad una perenne infelicità, la quale neanch’essa ha la possibilità di concludersi se non nel nulla autentico della morte.

Ma la citazione qui da noi riportata ci permette anche un altro genere di considerazioni. Essa, infatti, ci avvia a capire come nascano e di che specie siano queste forme «esistenziali», che si collocano accanto alle forme artistiche e ne riproducono alcuni caratteri: questi «momenti privilegiati» dell’esistenza, in cui si attua, magari solo per un istante, la legge terribile e bruciante dell’assoluto. Il discorso lukacsiano scende di un piano: va ora a verificare i contenuti dell’esistenza e per far ciò abbandona, in questa fase, i livelli estremi dell’argomentazione, i percorsi rarefatti e quasi impraticabili dell’eroismo romantico. Entra di scena il concetto di «arte borghese», in cui eroismo e vita non sono più termini incompatibili, ma convergenti.

9. Morale storica borghese e a priori delle forme. Tra le esperienze estreme si colloca l’arco delle soluzioni possibili: Kassner, Storm, George, Philippe, Beer-Hoffmann.

Per soluzioni possibili intendo qui soprattutto quelle che, pur realizzandosi compiutamente, non comportino né sul piano esistenziale né su quello artistico tensioni troppo violente e conseguenti rotture troppo drastiche. I saggi, che compongono il corpo centrale dell’Anima e le forme, cercano di capire insomma se sia possibile nella vita e nell’arte una ricerca dell’assoluto, che non conduca immediatamente a morte. Per far questo, Lukács deve scendere dall’iperuranio della tensione esistenziale ed appoggiarsi ad un sottofondo già dato, cioè, come vedremo, già storicamente esperito. La stessa concezione del tragico non può essere messa a fuoco in Lukács, senza riallacciarla a questa base essenziale di medietà espressiva e vitale, in cui ci sono già tutte le condizioni della tragedia, ma come attutite e smorzate da una attitudine esistenziale complessivamente non tragica.

Illuminanti sono, a questo proposito, le stupende considerazioni sul rapporto fra tragedia e idillio in autori come Storm e Philippe.

Nella valutazione che ne dà Lukács, l’idillio non è che una tragedia in potenza. Esso contiene infatti tutti gli elementi d’irresolubilità, che costituiscono il fondamento della tragedia. Ma l’attitudine dei suoi personaggi consiste essenzialmente nell’accettare le condizioni del loro scacco esistenziale, non nel respingerle o rifiutarle; come fa invece l’eroe tragico, il quale proprio per ciò le porta all’ultimo grado di tensione e quindi necessariamente di rottura.

La definizione di questa attitudine esistenziale, precisamente individuata e circoscritta, può portare ancora più avanti il nostro discorso. In questi saggi, infatti, la problematica dell’anima e delle forme trova, per così dire, una sua radice storica, oltre che, come l’abbiamo vista finora, teoretica e trascendentale. Su questa base, la definizione di Lukács come teorico dell’arte borghese assume tutto il suo valore caratterizzante. Qui si scopre infatti quali basi oggettive abbia la teoria delle forme e di quali contenuti vadano riempite le cosiddette connessioni trascendentali dello spirito.

La «mappa topografica» dell’interiorità moderna – di cui abbiamo tracciato finora i confini volti all’esterno, verso la vita, l’empiricità, il Caos, oppure verso l’assoluto e la totalità – rivela ora la sua intima, specifica configurazione. In questo gruppo di saggi, infatti, vengono coinvolti nella riflessione di Lukács valori che, non indirettamente o mediatamente, ma direttamente sono valori riconosciuti come propri dalla civiltà culturale e spirituale borghese in una certa fase del suo sviluppo. Questo ci permette di capire meglio non solo il tipo di rapporto, che lega Lukács ad un ambiente culturale e intellettuale, ma anche soprattutto il tipo di visione complessiva – se si vuole: di Weltanschauung – che presiede al suo pensiero estetico, e, ancora una volta, la stretta connessione e reciprocità, che passa nel giovane Lukács tra concetto di esistenza e soluzioni formali della stessa.

In questi saggi si dimostra come dalla mera empiricità quotidiana l’uomo – anche quello comune – possa talvolta riscattarsi, se è in grado di cogliere e di tradurre in un atteggiamento l’elemento fatale, che c’è nell’esistenza di ognuno. Ripeto: l’uomo, anche quello comune. Non è necessario essere un Kierkegaard, per realizzare il proprio destino: anche Kierkegaard, con l’assolutezza eccezionale del suo gesto, ha indicato la strada, su cui si muovono i personaggi di Storm, di Beer-Hoffmann, ecc. Ma Kierkegaard l’ha voluto, il proprio destino. Questi altri personaggi non fanno che subirne il peso, in genere. Ma proprio in ciò si rivela la qualità specialissima, ed anch’essa in questo senso eccezionale, del loro essere.

In questa visione, infatti, il destino non è che l’attuazione profonda e necessaria di ciò che siamo. Conoscersi significa dunque conoscere il proprio destino. E l’arte, le forme, non sono che esplicitazione ed espressione, al più alto livello dello spirito, di questa conoscenza del destino, il quale è anche nelle cose, ma è soprattutto nell’ uomo.

Da Schopenhauer a Nietzsche al Mann del Piccolo signor Friedemann, dei Buddenbrook e della Morte a Venezia, l’individuazione di questo motivo ha già tutta una sua storia, che Lukács riprende e sintetizza in formule efficacissime. Quando egli afferma: «Ogni opera scritta rappresenta il mondo sotto il simbolo di un rapporto di destini; il problema del destino determina ovunque il problema della forma» (AF, p. 29), ci si chiede se il giovane pensatore borghese abbia valuto soltanto esprimere una formulazione teorica del problema, o se, piuttosto, non abbia modellato la formulazione teorica su alcuni caratteri fondamentali dei Buddenbrook manniani, intelligentemente colti e definiti. Per questo verso, dunque, il contenuto etico della proposta esistenziale lukacsiana si ricollega a quel filone del pensiero borghese (che noi amiamo definire del «pensiero negativo»), in cui si afferma nettamente la preminenza dell’essere sulla volontà e il problema dell’etica non è che il problema dell’espressione totale delle proprie potenzialità creatrici. Il «diventa quel che sei» nietzschiano presiede a questo atteggiamento del giovane Lukács, senza peraltro esaurirlo.

I personaggi di Storm o di Philippe o di Beer-Hoffmann sanno infatti che arrivare a questa conoscenza di sé non è possibile, senza attuare un comportamento, che la renda necessaria, e che, una volta conseguita, la collochi nel giusto rapporto con lo spirito e con l’arte.

Per quest’altro verso, dunque, Lukács, mettendo l’accento sul concetto di responsabilità, come concetto–guida dei suoi autori e dei loro personaggi, si ricollega strettamente alla problematica del mondo culturale tedesco a lui contemporaneo (Windelband, Dilthey, Weber).

Su questa operazione di sintesi, che non è unica nel primo Novecento tedesco (il giovane Mann ne svolge una singolarmente affine), ma che viene comunque condotta con estrema finezza e sensibilità, si fonda il nucleo centrale della proposta etico-esistenziale di Lukács.

Su questo terreno, infatti, Lukács si spinge perfino al di là delle sue proposizioni più astrattamente teoriche, per arrivare a disegnare una figura eroica d’intellettuale borghese, in cui la conoscenza, prima, e poi l’accettazione del proprio destino non comportano un tragico distacco dalla realtà circostante, ma al contrario un dignitoso virile porsi-di-fronte ad essa.

Già in Kierkegaard, del resto, era abbozzato il «modello» umano, cui qui precisamente accenniamo. Sotto la maschera del seduttore Lukács aveva infatti scoperto l’asceta, «volontariamente pietrificatosi in questo gesto per ascetismo» (AF, p. 74). Nell’apparentemente idilliaco Philippe Lukács aveva colto questo dato eminentemente tragico e filosofico, che quando «l’anelito si protende oltre se stesso il grande amore ha sempre qualcosa di ascetico» (AF, p. 194), e, che, quando l’amore diviene ascetico, esso dà una forza, che può arrivare alla durezza e alla cattiveria2.

«Gli esteti di Beer-Hoffmann [abbiamo già fatto questa citazione, non a caso iniziando il discorso, che qui arriva alla sua conclusione] sono così sensitivi che basta una piccolezza, un accidente casuale, per sconvolgerli tutti, ma sono forti abbastanza per impedire che il fallimento dei loro contenuti esistenziali trascini nel baratro anche la loro esistenza» (AF, p. 221).George è decisamente un esteta, e la sua poesia è quella dell’intellettualismo moderno, ma ciò non toglie che nella sua poesia «quasi non ci sono lamenti: essa guarda in faccia la vita con calma, rassegnata forse, ma sempre intrepida, sempre con la testa alta» (AF, pp. 185-86).

Ascetismo, virile accettazione del proprio destino, rifiuto del sentimentalismo, rassegnazione intrepida:non son questi già di per sé gli elementi costitutivi di un’etica fra stoica e cristiano-protestante, in cui sembra di ravvisare l’eco delle allora recentissime teorizzazioni weberiane?3

Questa è assai più che un’impressione. Il saggio su Storm – la cui importanza è ai nostri occhi veramente centrale, e che, tanto per dissipare fin dall’inizio ogni equivoco ed incertezza, porta il titolo La borghesia et l’art pour l’ art – ne riconferma uno per uno tutti i fondamenti. Esso infatti non è che una lunga, splendida dimostrazione del modo con cui una vita borghese, onestamente praticata in tutta l’estensione dei suoi significati e dei suoi impegni, anche mondani, non esclude, anzi in un certo senso agevola e dà forza ad una vocazione artistica, che si conclude proprio in un concetto altissimo, quasi sacro, della forma. La borghesia ovvero l’art pour l’art:non è questo forse il paradosso più grande? Pure, scrive Lukács, esso «un tempo […] non si poneva come paradosso. Infatti, un borghese di nascita, come avrebbe potuto pensare che ci potesse essere una esistenza diversa da quella borghese? Che l’arte fosse una cosa compiuta in sé e obbedisse a leggi proprie, non era la conseguenza di una violenta evasione dalla vita, ma veniva considerato come un fatto naturale in quanto ogni lavoro svolto con serietà era di per sé giustificato»(AF, p. 121). Questo significa anche che, per questo tipo d’artista, come per gli antichi artisti-artigiani, «l’arte è una manifestazione della vita, come tutto il resto, e quindi una vita dedicata all’arte è vincolata agli stessi diritti e doveri come qualunque altra attività umana e borghese» (AF, p. 133). Da questa precisa collocazione del rapporto arte-vita discendono alcune massime di carattere immediatamente e generalmente etico: «Professione borghese come forma di esistenza significa innanzi tutto primato dell’etica nella vita, significa che la vita viene dominata da ciò che si ripete sistematicamente, regolarmente, da ciò che doverosamente deve ripetersi, da ciò che deve essere fatto senza riguardo al piacere o al dispiacere. In altre parole: il dominio dell’ordine sugli stati d’animo, del durevole sul momentaneo, del lavoro tranquillo sulla genialità nutrita di sensazioni»(AF, p. 124). Vero è che, nel quadro di questo ragionamento, difficile è distinguere «quale dei due principi di vita è quello primario»: se «il semplice, ordinato, borghese ordine di vita, o l’altrettanto tranquilla e ferma sicurezza, che questa vita ispira all’anima» (AF, p. 130). Ma non importa tanto rispondere alla domanda, quanto impedire che essa, solo per il fatto d’essere posta, stravolga dalla via giusta, la quale resta pur sempre una sola: «Fare il nostro dovere: ecco l’unica strada sicura nella vita» (AF, p.
143). Non ne viene certo un gran premio, da questa ostinata, virile rassegnazione di fronte alla legge del destino. Pure, «c’è qualcosa di ostinato e di forte in questa condotta di vita, c’è un ritmo sicuro e rigido, una energia angolosa» (AF, p. 128), in cui si riflettono «la forza della rinuncia, la forza della rassegnazione, la forza della vecchia borghesia di fronte alla nuova vita» (AF, p. 137).

E, insomma, tutto questo vuol dire che «il comportamento di vita borghese, la sua comprensione nel sistema di valori rigidamente borghese, sono soltanto dei mezzi per avvicinarsi a quella perfezione. È un’ascesi, una rinuncia ad ogni splendore della vita, affinché tutto lo splendore possa venir recuperato altrove, in altre forme, nell’opera» (AF, p. 122).

Fondamentale principio, già icasticamente espresso nel saggio su Kassner, con la formula «la vita è nulla, l’opera è tutto» (AF, p. 56), che definitivamente chiarisce quel concetto di sublimazione eroica dell’operare, proprio dell’etica borghese, ricollegandolo, anzi mettendolo alla base della grandezza e dell’autonomia dell’arte e delle forme, principio quest’ultimo privilegiato dello spirito, senza dubbio, non però esauribile né giustificabile esclusivamente in una sfera estetica. Per questo Storm è parente di Flaubert, ma in nessun modo coincidente con lui. Nel caso di Flaubert, infatti, «la bilancia di vita e lavoro pende dalla parte del lavoro, qui dalla parte della vita» (AF, p. 132). Come già preannunciavamo in un altro luogo, la visione esistenziale di Lukács, ridiscendendo dalla poesia alla vita, resta sostanzialmente immutata, ma si trasforma in un atteggiamento etico; e la forma stessa, da principio ordinatore dell’ arte, diviene il supremo principio ordinatore della vita. La scelta delle forme, dunque, è sempre nello stesso tempo un criterio di giudizio e di valutazione, una scelta essenzialmente e profondamente morale:«La forma è il giudice più alto dell’esistenza» (AF, p. 344). Ma i contenuti di questa scelta, gli a priori del giudizio, per quanto sublimati siano, non escono certamente fuori, per un miracolo spontaneo di autogerminazione, dalla topografia trascendentale dello spirito. Essi sono pur sempre quelli che la civiltà culturale borghese contemporanea fornisce sulla base di un processo storico costituito da infinite mediazioni ideologiche e intellettuali. In questo senso, la forma ha a che fare, forse per la prima volta, con un contenuto suo proprio e insostituibile:l’etica borghese del dovere.

Ed è esattamente questo insostituibile contenuto, che imprime alla teoria delle forme l’ultima e decisiva svolta. L’etica del dovere è infatti un altro di quei crinali insormontabili, tra cui si colloca e necessariamente si esaurisce la forza dimostrativa e ragionativa del giovane Lukács. Essa non è infatti meno un punto d’arrivo che un postulato di partenza. Ciò che la sostiene è la fede storica del borghese in se stesso. Incrinate questa fede, e il dovere non sarà più una risposta sufficiente e soddisfacente. L’etica del dovere, vista nella sua forma conclusiva e compiuta, non ha infatti né può avere spiegazioni o ragioni, che non cadano tutte e interamente al suo interno. Da questo punto di vista, essa presenta una coerenza apparentemente inattaccabile. Ma è esattamente la stessa ferrea coerenza, che presiede ad ogni atto dello spirito borghese chiuso in sé. E Lukács, infatti, ripresenta qui un modello di risoluzione logica del problema affrontato, di cui abbiamo altre volte mostrato in precedenza l’inanità o la fragilità. Anche il dovere giustifica se stesso. La sublimazione eroica dell’operare borghese non è volta ad altro fine, non conosce altro impulso, che non siano quelli contenuti nell’imperativo stesso dell’operare. Non appena, infatti, il borghese mette la testa al di fuori di sé, non trova che miseria, disperazione e caos. Il mondo, che lo circonda, non rappresenta e non possiede nessun fine capace di giustificare la lotta. Non dimentichiamo che, in questo linguaggio, dovere significa essere. E in questo linguaggio, come abbiamo detto altre volte, si è soltanto ciò che si è. Il cammino di questa etica non va dunque dalla vita alla vita, ma da un a priopri a un altro a priori.

La vita in questa visione, è necessaria solo per esprimere fino in fondo la qualità di resistenza dell’a priorietico. Lo stesso tentativo di trasferire nel mondo la proposta esistenziale sotto forma di atteggiamento etico ha per ciò un carattere precario e transeunte. Data la natura dei suoi contenuti, l’etica esistenziale di Lukács non può sostenersi nella vita – e diventare la guida effettiva dell’uomo – senza richiedere per ciò stesso e immediatamente al soggetto di tornare a staccarsi dalla vita, verso traguardi più alti e, almeno intenzionalmente, più conclusivi.

Questo modo d’essere nella vita – che è quello dei personaggi di Storm, di Philippe, di Beer-Hoffmann – è dunque anch’esso un modo di essere contro la vita.

In sé e per sé, infatti, esso non ha né senso né destinazione. Ne avrebbe, solo se Lukács riuscisse a dimostrare che al di là o al di sopra di quel modo d’essere ce n’è uno più totale ed assoluto, che sia in grado di qualificare e di giustificare anche il comportamento di chi si muove nel quotidiano, nell’empirico, ecc. È quanto egli cerca di fare nel discorso sul tragico.

10. La forma come Utopia dell’essere borghese. Quando poteva sembrare che il discorso fosse concluso, tutto viene rimesso in discussione. E necessariamente. Se è vero, infatti, che la concezione della forma non può fare a meno di quel suo radicamento nell’universo spirituale borghese, – che abbiamo descritto nelle ultime pagine, – è vero anche che essa non sarebbe in grado d’illuminare questa vasta zona dell’esperienza umana, se non sapesse poi sollevarsi di nuovo ai più alti vertici dell’essenzialità e della purezza.

La concezione della tragedia non si contrappone perciò a quanto abbiamo detto finora, ma ne rappresenta la sublimazione, spinta fin dove può giungere la più totale, incondizionata conoscenza dell’ uomo nei confronti di se stesso, cioè nei confronti del proprio destino.

«Nude anime dialogano solitarie con nudi destini. Sono stati spogliati ambedue di ogni scoria e sono rimasti con la loro intima essenza; ogni relazione esistenziale è stata cancellata, per poter instituire una relazione fatale; ogni elemento atmosferico che avvolge gli uomini e le cose è sfumato, ed è rimasta soltanto la tagliente aura montana, cristallina, che disegna i contorni netti delle loro domande e risposte» (AF, p. 311). «La tragedia ha una sola dimensione; quella dell’altezza» (ibid.). «La tragedia drammatica è la forma delle vette dell’esistenza, delle sue mete ultime e dei suoi confini estremi» (AF, p. 319). Con queste affermazioni l’intera posizione viene rilanciata in uno stato di tensione estrema in cui i diritti dell’individuo, – isolato ed eroico rappresentante dell’essere, – si spingono fino ad una recisa affermazione di pura egoità.

L’intera posizione viene rilanciata. Ma in che senso? In un senso completamente diverso da quello finora praticato. È il saggio sulla Metafisica della tragedia di natura simile a quella degli altri precedentemente da noi analizzati? Nonostante le apparenze, non lo è affatto. Qui l’occasione del saggio – le tragedie stilizzate e classicheggiami di Paul Ernst – è più occasione che in ogni altro caso.

La natura del saggio sulla Metafisica della tragedia non è analitica ed interpretativa: è ipotetica e propositiva. Il saggio, infatti, partendo da una tenue occasione, presenta una proposta di sviluppo dell’arte moderna, che conta, questa volta, proprio perché non ha trovato ancora la sua realizzazione («Finora nessuno ci è riuscito – ma ciò non vuol dire nulla rispetto alla possibilità di risolvere il problema») (AF, p. 343).

In questo modo il discorso lukacsiano, privato d’un punto d’appoggio dimostrativo, si scopre molto di più di quanto non avvenga nel resto del libro. E proprio partendo da questa tematica del tragico noi potremo forse arrivare a trarre delle conclusioni, che valgano a giudicare per intero la posizione del giovane Lukács.

Lukács è convinto che la situazione storica contemporanea, o, per meglio dire, la topografia trascendentale dell’anima moderna sia favorevole alla rinascita della tragedia, – una tragedia, precisiamolo, che non può identificarsi né col dramma borghese otto-novecentesco né con quella commistione di classico-moderno, che Goethe e Schiller avevano già attuato, perché essa mira ad una più essenziale, anche più rigida e dura, espressione dell’anima: «Oggi noi possiamo nuovamente sperare l’avvento della tragedia, perché mai come oggi la natura e il destino furono così terribilmente senz’anima, mai come oggi le anime umane percorrono in tanta solitudine le loro strade abbandonate; è possibile sperare in un ritorno della tragedia, quando si siano dileguati del tutto gli incerti fantasmi di un ordine di comodo, che la viltà dei nostri sogni ha proiettato sulla natura per crearsi un’illusione di sicurezza» (AF, p. 309). Anche più tardi, in Teoria del romanzo, confrontando le diverse «possibilità» d’essere dei generi nell’antica Grecia e nell’età moderna, Lukács conclude che la tragedia ha in sé ancora oggi le condizioni per ritrovare (ciò che qui vuol dire: conservare)la sua originaria (cioè: eterna)autenticità: «Ma mentre nelle minime frazioni della correlatività l’immanenza vitale del senso è ineluttabilmente destinata a sparire, l’essenza lontana dalla vita e alla vita estranea può coronarsi della propria esistenza in siffatto modo, che questa consacrazione perfino dai maggiori sconquassi sarà tutt’al più velata, non mai cancellata completamente. Perciò la tragedia, sia pure trasformandosi, ha conservato intatta la propria essenza nel tempo nostro, laddove l’epopea ha dovuto sparire e lasciare il posto a una forma tutta nuova, il romanzo» (TR, p. 70).

Ma dov’è la tragedia moderna, che l’ipotesi formalistico-esistenziale di Lukács non solo poteva, ma doveva considerare insieme possibile e necessaria se voleva che il sistema delle forme non restasse incompiuto, non trovasse il suo coronamento decisivo, quel punto d’arrivo, che invera tutto il cammino percorso e lo giustifica?

Ora, non può essere un caso che l’ipotesi di fondo del discorso lukacsiano sia anche quella che non trova compimento né, direi, approssimazione. Perché la tragedia, pur conservando la sua essenza, non ha avuto una sua forma moderna?

Risponderemo con un’altra domanda: forse, proprio perché ha conservato la sua essenza?

Aggiriamo la questione, aggredendola da un altro punto di vista.

Da quanto hanno scritto alcuni anche intelligenti interpreti del giovane Lukács, se ne ricaverebbe una figura di catastrofico profeta dell’apocalisse, tutto volto alla distruzione e alla morte. Crediamo di aver smontato punto per punto nel corso dell’indagine un’impressione di questo tipo; ma ora va detto ancor più chiaramente che il segno complessivo e qualificante del libro intitolato L’anima e le forme è positivo, che questo libro è un libro positivo.

L’intreccio profondo e talvolta sconcertante dell’argomentazione non deriva soltanto dalla complessità dei problemi affrontati, ma anche dalla natura stessa del discorso, in cui viene a manifestarsi e annodarsi un’essenziale dialettica fra l’essere e il divenire, fra l’assoluto e il relativo, fra le possibilità della conoscenza e lo scetticismo, tra la fede perduta nei valori storici e la ricerca di una fede in valori più generali, più astratti, più assoluti, ma non privi di una vitale carica umana.

È la dialettica, a mio giudizio, come viene posta in un largo settore della cultura tedesca del primo Novecento, fra i risultati in certo senso ormai acquisiti di una speculazione teorica negativa e l’esigenza di fondazione di nuovi valori. Dobbiamo fare ancora una volta i nomi di Dilthey e Weber, e, sul piano letterario, di Thomas Mann.

Questo però non significa che Lukács elabori una posizione di compromesso relativo fra le opposte esigenze. In questa fase egli non è ancora un dialettico (nel senso proprio del termine). Alla crisi e alla negatività egli oppone da parte sua una riaffermazione dell’assoluto:l’assoluto delle forme, come ultimo crinale difensivo dell’ arte borghese, innanzi tutto, ma anche come ultimo strumento di composizione i contrasti esistenziali. Lukács ha infatti scritto: «La forma è l’unica strada per raggiungere l’assoluto nella vita» (AF, p. 69); ma non si è dimenticato di aggiungere: «Ogni forma è la composizione di una sostanziale dissonanza dell’essere» (TR, p. 96).

Si scopre così l’ultimissimo risvolto del discorso lukacsiano: la Forma come Utopia dell’essere borghese, – come una delle tante incarnazioni utopiche dell’essere borghese, forse quella fondamentale. La Forma come concetto-limite del dover essere; come, è veramente il caso di dirlo, perfetta idea platonica, posta al di là della negatività, della crisi, della lacerazione e del distacco, a guisa di faro, che illumini un mare in tempesta, pur senza aver nessun potere di calmarlo; la Forma come espressione di un assoluto, che sostanzialmente sta al di là di tutte le cose ed è quindi (si veda per l’appunto il caso della tragedia) in sé stesso compiuto, perfetto e unitario.

Non a caso il libro intitolato L’anima e le forme, completamente dedicato, come sappiamo, all’analisi dei rapporti fra problematicismo dell’esistenza e sublimazione delle forme, si conclude con una ipotesi, che è, insieme, anche una profezia, e come tutte le profezie è anche un’utopia, in cui l’intreccio vivente dei poli, che abbiamo analizzato nel corso della nostra esposizione, si scioglie e si vanifica, per lasciarne intatto soltanto uno, il più alto, ma anche il più lontano ed irrealizzabile. Perfino il concetto di problematicità è in questa visione superato: «Ernst pone questo mondo chiuso, finito, superiore, come un ammonimento e un richiamo, come luminoso punto di riferimento per il cammino degli uomini, senza curarsi della sua realizzazione effettiva. La validità e la forza dell’etica è indipendente dal suo essere rispettata. Perciò soltanto la forma purificatasi sino all’eticità – senza divenir cieca e povera per questo – può dimenticare l’esistenza di ogni problematicità e bandirla per sempre dal suo regno» (AF, p. 347). Sono le ultime parole dell’Anima e le forme.

11. Fine della problematicità e dissoluzione dell’eroe borghese. Ma la fine della problematicità non è – per quanto abbiamo cercato di dimostrare nel corso di questo saggio – non è essa stessa la fine dell’eroe borghese? Qui è dato veramente di cogliere il paradosso dei paradossi nell’argomentazione lukacsiana. Da una parte, infatti, si è detto che la Forma è l’assoluto dell’essere borghese, e, insieme, la sua Utopia. Dall’altra, si è ricordato che l’essenza della forma moderna è la tragedia. Dovremmo allora concludere che la Forma-Utopia dell’essere borghese è la Tragedia. Ma questa conclusione è stridente con alcuni presupposti trascendentali del discorso lukacsiano e, aggiungiamo noi, con alcuni suoi effettivi contenuti storici e ideologici. L’utopia non appare, infatti, che sotto veste di continua riproposizione in avanti del dover essere borghese e, in definitiva, come sua ultima salvaguardia ideologica. Ma, come Lukács stesso dimostra, questo processo non è né può essere ad infinitum, esso deve avere uno sbocco. Ma l’eroe borghese (così come, per citare uno degli infiniti esempi possibili, Lukács lo descrive operante nelle opere di Storm) ha le qualità per diventare un eroe tragico? O il peso della sua «umanità» (del suo essere perfettamente borghese) non lo porta verso il basso, verso la direzione esattamente opposta a quella verso cui dovrebbe muovere per diventar tragico?

A questo punto, solo uno dei due poli estremi del discorso lukacsiano resta in piedi: quello riguardante Novalis e Kierkegaard. Lì il discorso era veramente chiaro, nella sua drasticità. La conclusione poteva essere una sola: la morte, o, meglio, l’autodistruzione. Lukács si era mosso proprio da questo punto, alla ricerca di un estremismo opposto, capace di conciliare vita e tensione. Ma su quest’altro versante – il versante risolutivo e propositivo – il discorso restava invece incompiuto, ovvero rivelava la sua impossibilità di compiersi in una proposta di crescita positiva dell’arte moderna.

Torniamo all’affermazione, che abbiamo fatto a un certo punto del nostro discorso: la tragedia non ha avuto una forma moderna, forse proprio perché ha conservato la sua essenza. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che quelle forme, le quali non si sono sottoposte ad un processo di degradazione, sono rimaste pure, ma irrealizzate. Non basta, insomma, che esistano le astratte condizioni della Tragedia perché si realizzino tragedie: è necessario anche trovare personaggi capaci di viverle. Tutt’intorno, il mondo sembrava a Lukács pronto ad accogliere una «proposta» tragica. In realtà i borghesi tendevano ad altro, coerentemente ai presupposti della loro formazione ideologica e spirituale. O lottavano per la loro materiale sopravvivenza, e si apprestavano quindi a diventare intellettuali organici allo sviluppo capitalistico, oppure si lasciavano andare, e, ciò facendo, conseguivano gli ultimi, grandi risultati conoscitivi ad essi concessi. L’unica cosa che essi non sapevano e non potevano fare era mettersi in tensione tragica contro il loro mondo: l’etica del dovere consigliava virile rassegnazione, non rivolta.

Ma il giovane Lukács non arrivò a cogliere esattamente questo punto. Così sensibile qual è alla negatività dell’esistenza empirica, egli non riesce però a vedere fino a che punto essa investa anche la vita dell’assoluto.Il suo platonismo si chiude, alla fine, su di riaffermazione di principio. Persino il problematicismo può trovare nel suo pensiero una collocazione formale senza crepe.

Quello che Lukács non riuscì ad intuire fu per l’appunto l’ipotesi di una progressiva, montante degradazione dell’ assoluto, nella sua duplice veste esistenziale e formale.

Il punto di vista espresso da Lukács nell’Anima e le forme serve infatti solo in parte a far capire meglio l’arco dell’esperienza artistica moderna, che va dal primo Novecento ad oggi, e comprende forse alcuni dei massimi personaggi del nostro tempo. Le esperienze più sconvolgenti e vitali dell’arte moderna cominciano quando, in blocco con l’intero problema dell’esistenza umana, viene rimesso in discussione anche l’ultimo assoluto superstite: l’assoluto della forma.

Ma le forme, che, per sopravvivere, hanno accettato di sottoporsi ad un processo di degradazione, si sono consunte in esso. Invece di salire, gradino per gradino, fino alle sublimità del tragico, sono discese, per tutte le gradazioni del grottesco, del parodistico, del pastiche, fino al punto, in molti casi, di negarsi semplicemente come assoluto e di riproporsi esse stesse, in quanto forme, come l’episodico, il contingente, il casuale.

Questo fenomeno, che pure, a pensarci bene, è solo la rovesciata attuazione dell’utopistica ipotesi lukacsiana, il Lukács giovane lo ignorò, non lo previde, e forse non poteva effettivamente né conoscerlo né prevederlo. Il Lukács della maturità e della vecchiaia lo conobbe solo per respingerlo e condannarlo. Venuto idealmente prima e dopo dell’occasione storica di riflessione offerta dal grande fenomeno dell’arte borghese, che, entrando in crisi, arriva fino a negare i presupposti su cui è fondata, Lukács si qualifica perciò in questa sua opera un teorico dell’arte borghese nel senso più puro e più alto del termine. Egli vi si presenta infatti come uno strenuo difensore di valori.

È sulla soglia della crisi, ne vede tutti i presupposti e tutti i sintomi, ma crede ancora possibile contrapporle una legge e un comportamento, che nella propria assolutezza risarciscano tutte le ferite e tutte le spaccature dell’esistenza.

In questo senso egli è veramente sulla linea – in forma forse più genuina di quanto non avverrà successivamente – di personalità come Goethe e Schiller.

La sua concezione delle forme conserva insomma, per concludere, ancora il senso classico del termine (e si tratta qui naturalmente di una classicità borghese): anche se, come è risultato da tutta la nostra esposizione, Lukács la espone genialmente a tutti i rischi dell’esistenza e, cosi facendo, la carica di una particolarissima, inimitabile intensità espressiva e vitale. Il suo metodo di guardare alle cose passando attraverso l’arte, la sua proposta di «conoscenza indiretta» della realtà contemporanea, non potevano arrivare fino al punto di ribaltare lo scetticismo iniziale con la scoperta effettiva di una nuova verità. La «forma» stessa era un alludere ad un altro-da sé, che restava costantemente imprendibile, imposseduto.

Nel gioco degli specchi da lui provocato finiva per riflettersi sempre lo stesso volto, lo stesso gesto appassionato ma spezzato a metà. Tuttavia, se non la nuova, emergeva da questi confronti extra-empirici e trascendentali, la vecchia verità, la verità della vecchia anima borghese in crisi. Non è certo tutta la verità, che si poteva dire su di lei. È però una porzione importante della verità, che un borghese poteva scoprire, senza rinunciare ad esser tale. Al di là di questo comincia il processo dissolutivo, di cui s’è parlato. Oppure, necessariamente, un processo di reintegrazione, ancor più marcato e deciso di quello già adombrato nell’Anima e le forme. Teoria del romanzo è già una scelta fra queste due opposte alternative.

12. Il romanzo come genere positivo e «integrato». In Teoria del romanzo il problema del recupero storico di alcune forme artistiche borghesi fa un ulteriore passo avanti rispetto alle conclusioni dell’Anima e le forme. Non direi che la materia delle posizioni sostenute in Teoria del romanzo sia diversa rispetto a quella affrontata nell’Anima e le forme. I concetti di specificità, di problematicità e di autenticità ritornano anche qui come sostegno e sfondo essenziale delle analisi lukacsiane sull’arte moderna. Lukács ne dà però una diversa sistemazione teorica e metodologica, che porta principi trascendentali restati analoghi o affini a delle conclusioni profondamente diverse.

Ad esprimere il senso di questo rapporto-differenziazione fra le sue due prime opere lo stesso Lukács ha scritto che in Teoria del romanzo egli aveva operato «una kierkegaardizzazione della dialettica storica hegeliana»4. Se dovessimo racchiudere in una formula analoga l’impressione che in noi ha provocato l’analisi del rapporto tra posizioni di principio e loro sistemazione teorica in Teoria del romanzo – anche tenendo conto del cammino ideologico effettivamente compiuto da Lukács dalla prima alla seconda opera – diremmo che Lukács ora compie «una hegelianizzazione di una posizione esistenzialistica kierkegaardiana». Il giudizio sulla «situazione dei tempi» e sull’«individuo problematico» resta, infatti, quasi completamente immutato (anzi, viene ulteriormente approfondito con alcune bellissime analisi sulla natura problematica dell’anima moderna); sono diverse le risposte, con cui Lukács cerca qui, più realisticamente e più positivamente, d’integrare la situazione esistenziale descritta a certe effettive possibilità dell’arte moderna.

Cade perciò la prospettiva tragica, come punto supremo e quindi come inveramento finale e complessivo dell’intero sistema delle forme.

E si presenta in primo piano il romanzo, in quanto genere letterario contraddistinto da una interna ed organica problematica strutturale e perciò fra tutti il più corrispondente e vicino all’interna problematicità dell’anima moderna, ed anzi, a rigor di termini, scaturito essenzialmente da un processo di autoconsapevolezza espressiva da parte di quest’ultima. «Il romanzo – scrive Lukács – è l’epopea di un’epoca, per la quale la totalità estensiva della vita non è più data sensibilmente, per la quale l’immanenza vitale del senso si è fatta problematica, e che tuttavia ha l’anelito alla totalità» (TR, p. 89); «…è la forma dell’avventura del valore proprio dell’interiorità; il suo contenuto è la storia dell’anima, che qui imprende ad autoconoscersi, che delle avventure va in cerca, per trovare, in esse verificandosi, la propria essenzialità» (TR, p. 132). Per questo «gli eroi da romanzo […] sono dei cercatori» (TR, p. 95); per questo la biografia è la forma eminentemente romanzesca (TR, p. 117); per questo l’ironia, «la più alta libertà che sia possibile in un mondo senza dio» (TR, p. 137), è esattamente il tipo di sguardo, con cui il romanziere osserva e rappresenta il mondo.

Stabilita perciò questa perfetta equazione tra genere letterario e spirito – equazione che era generalmente adombrata anche nell’Ani ma e le forme, ma in modo assai più mediato e indiretto – Lukács ne trae la conseguenza che fra romanzo e anima moderna esiste una necessaria corrispondenza, che solo la modificazione dei tempi potrà a sua volta modificare (su questo punto torneremo più avanti).

In questo modo Lukács mette l’accento, molto più di quanto non facesse nell’Anima e le forme, sulla sostanziale funzione positiva (oltre che sul sostanziale positivo rapporto fra arte e realtà) dell’arte nei confronti della realtà. Non a caso in Teoria del romanzo Lukács enunzia la formula, già da noi precedentemente citata, secondo cui «ogni forma è la composizione di una sostanziale dissonanza dell’essere» (TR, p. 96); corroborata, nella stessa opera, dall’affermazione ancora più esplicita: «Ogni forma deve essere in qualche suo luogo positiva, per poter acquisire, come forma, sostanza» (TR, p. 172). Il romanzo, insomma, recependo in sé come genere l’oggettiva problematica del mondo moderno, se ne fa anche, oltre che riflesso, interprete e giudice, e si dimostra in grado, quindi, sia pure con i suoi strumenti particolari, che Lukács ottimamente descrive, di mettere in moto un processo di autoconoscenza, e di autoconsapevolezza, il cui esito finale è quello di operare una reintegrazione del soggetto (il romanziere, innanzi tutto, ma poi anche il lettore) nei confronti della realtà contemporanea.

Per raggiungere questo risultato, Lukács deve piegare l’indagine sulla «topografia trascendentale» dello spirito, così come l’aveva svolta nell’Anima e le forme, fino a trasformarla in una “filosofia della storia” dei generi letterari, particolarmente centrata su uno di questi, il romanzo, ma ricca di riferimenti, in questo senso, anche ai problemi dell’epopea e della tragedia.

Qui va compresa la differenza profonda che passa tra una teoria delle forme euna teoria dei generi letterari. Nel primo caso, le forme esprimono il rapporto tra l’ispirazione creatrice e una pluralità di luoghi dello spirito, ciascuno dei quali ha in verità una sola strada per arrivare alla propria forma autentica e necessaria, ma appunto perciò si presenta di volta in volta con un proprio autonomo carattere e posizione, difficilmente imitabile e ripetibile; nel secondo caso, invece, i generi letterari rappresentano già una sussunzione in chiave storico-filosofica di elementi (presunti come) omogenei dello spirito; che l’ispirazione creatrice si trova dunque di fronte come dotati già di per sé di leggi interne oggettive di funzionamento, la cui caratteristica essenziale è la tipicità e di conseguenza, la ripetibilità. ..Una volta dato lo schema o modello d’interpretazione-rappresentazione più funzionale della realtà contemporanea, niente impedisce che esso possa essere ripreso e praticato con preliminari possibilità di successo, di fronte alle quali lo stesso problema esistenziale dell’uomo moderno viene a perdere la sua carica drammatica, cioè il senso profondo della propria precarietà e instabilità. Il romanzo è ad un tempo, dunque, la forma espressiva privilegiata e l’ancora di salvezza dell’arte moderna borghese.

A questo tipo di visione Lukács poteva arrivare, solo introducendo nella sua riflessione un concetto, che neanche prima poteva dirsi del tutto assente, ma che solo ora assume una forma teoricamente definita e diviene compiutamente operante: il concetto di totalità. Anche nell’Anima e le forme, come abbiamo visto, agiva un certo concetto di totalità: ma vi agiva, per l’appunto, come concetto-limite, traguardo continuamente inseguito e mai effettivamente raggiunto, oppure fulmineamente raggiunto e presto perduto: una perfezione non reale, dunque, che pure spronava la Sehnsucht e la obbligava alla creazione.

In Teoria del romanzo, invece, il concetto di totalità agisce come rapporto effettivamente (oggettivamente) presente tra gli elementi contrastanti della realtà, che è possibile quindi cogliere e definire con chiara consapevolezza, ed è dunque un traguardo non ipotetico ma raggiungibile, se il creatore riesce a trovare (e ne ha la possibilità) i legami interni, le relazioni specifiche tra gli oggetti della propria ispirazione. Il romanzo si qualifica come moderna epopea, proprio perché è una ricerca (ma anche, alla fine, una riconquista)della totalità perduta: «L’epopea raffigura una totalità vitale chiusa in se stessa; il romanzo cerca, con le sue raffigurazioni, di scoprire e mettere in luce la nascosta totalità della vita» (TR, p. 94). Teoria del romanzo rappresenta un caso esemplare di come un idealismo oggettivo non sia sempre automaticamente più vicino alla realtà dell’essere borghese di un idealismo così detto soggettivo.

Il primo dato da osservare a questo proposito è che la «sistematizzazione» dei dati dell’esperienza vissuta e della riflessione estetica costituisce un irrigidimento – più che un arricchimento – della problematica avanzata nell’Anima e le forme (sul piano, almeno, della possibile elaborazione di una teoria dell’arte borghese).
E l’irrigidimento, o schematismo, dei dati porta inevitabilmente ad
un allontanamento dalla realtà effettiva dell’arte borghese e ad
un tentativo di formulazione universale della problematica dei generi, in cui si ha troppo spesso l’impressione che i termini di confronto siano troppo distanti tra di loro e francamente incomunicabili.

Il nesso Cervantes–Flaubert–Goethe, su cui si regge l’intera dimostrazione lukacsiana, non è un nesso effettivo, se si guarda ai contenuti delle opere dei tre autori studiati: ha un senso, solo in quanto fondamento dimostrativo di una astratta ma non per ciò meno rigida tipologia. Niente impedirebbe, a guardar bene, un arricchimento quantitativo dei tipi qui studiati. Solo che, se ciò avvenisse, ne verrebbe sminuita la forza della proposta: ciò che Lukács qui cerca non è una completa individuazione delle forme d’essere borghese;qui egli cerca d’individuare soltanto quelle che siano effettivamente praticabili in una prospettiva positiva. Ciò che non rientra nello schema, perde addirittura la possibilità di essere autonomamente e in altri diversi modi a lui particolari significativo e rappresentativo:è il caso della frettolosa liquidazione di Gogol. Oppure, quado lo schema non può essere applicato, nell’argomentazione lukacsiana resta un vuoto. Nella teoria del romanzo, qui elaborata, dove si collocano i Buddenbrook (e con i Buddenbrook tutti i romanzi, che siano fondati su di un rapporto di destini)? O, per il fatto che Lukács non ne parli, dovremo concludere che essi siano più lontani dal problematicismo dell’anima borghese di uno dei tipi contemplati dallo schematismo lukacsiano?

La seconda cosa da chiedersi è se il concetto di totalità, come lo applica qui Lukács, sia anch’esso da considerare qualitativamente superiore, o più comprensivo o capace di rendere gradi più alti di espressività, di un atteggiamento più o meno consapevolmente non totale, cioè in sé scisso e separato. Da questo punto di vista illuminante è il confronto tra Novalis e Goethe. Questo confronto era stato già fatto nell’Anima e le forme, e già lì la bilancia della grandezza veniva fatta pendere dalla parte di Goethe. Ma l’oggetto dell’analisi, l’«autore scelto», era pur sempre Novalis, e questo non era senza decisive conseguenze per lo sviluppo dell’argomentazione, sia in quel singolo saggio sia nel complesso del libro. Goethe recitava in quel luogo la parte, che è stata spesso sua nella cultura tedesca otto-novecentesca, del Dio olimpico, a cui tutto si confronta, ma che resta un po’ sullo sfondo o dietro le quinte. Lukács ammetteva, non poteva fare a meno di ammettere che Goethe riusciva a conciliare in sé quelle forze, che nei romantici esplodevano fino a produrre soltanto anarchia e morte. Però, gli interessava molto di più capire perché e come Novalis avesse cercato di andare al di là di Goethe, e in qual misura vi fosse riuscito.

In lui non c’era ancora una gerarchia precostituita di risultati: ad ognuno, anche a Novalis, le sue chances, a partire da un atteggiamento determinato dello spirito: poi, si sarebbero visti i risultati.

In Teoria del romanzo il criterio è esattamente rovesciato: a Lukács importa ora capire soprattutto perché Novalis non sarebbe potuto mai arrivare ai risultati di un Goethe. L’a priori storico-filosofico condiziona insomma la poesia: «… poiché la via di Goethe, volta alla scoperta di un equilibrio che qui è ironicamente instabile, che è istituito a partire dal soggetto e, nei limiti del possibile, non pregiudica le immagini, viene da Novalis respinta, a Novalis stesso non se ne apre alcun’altra, che non sia quella di poetizzare le immagini liricamente nel loro essere obiettivo, e con ciò di creare un mondo bello e armonico, ma che non esce da sé, che è privo di nessi, e che è legato tanto alla trascendenza finalmente divenuta reale, quanto all’interiorità problematica soltanto riflessivamente, soltanto atmosfericamente, non però epicamente e pertanto non è in grado di divenire vera totalità» (TR, p. 201).

13. Utopia storica e recupero culturale. Ma non si esprime nel confronto Novalis-Goethe così posto un criterio valutativo a priori, per cui la capacità di vedere più cose in rapporto fra loro si presenta già di per sé come un atteggiamento conoscitivo superiore a quello di chi vede una sola cosa per volta, o vede tutto unilateralmente?5

E non s’affaccia già l’ipotesi, su cui Lukács edificherà tanta parte della sua posizione matura, che a questa superiorità conoscitiva corrisponda naturalmente una superiore capacità espressiva? Il Lukács dell’Anima e le forme aveva già posto e a modo suo risolto questo problema, sostenendo che il risultato estetico era condizionato essenzialmente dal grado di tensione, che l’anima del creatore riusciva a sollecitare in se stesso. Ogni risultato formale, ogni forma, era perciò un assoluto, difficilmente paragonabile ad altre esperienze di diversa origine esistenziale, e soprattutto difficilmente misurabile con parametri esterni. La prospettiva cambia completamente, quando, più o meno mediati dalla filosofia della storia, sono proprio questi parametri esterni ad intervenire nella formulazione del giudizio. Anche qui si tratta di capire che non è esattamente la stessa cosa mettere tra la poesia e la realtà una topografia trascendentale dello spirito oppure una filosofia della storia. Nel secondo caso, infatti, il rapporto tra la condizione dei tempi e l’espressione estetica diventa assai più stretto e condizionante di quanto non fosse nel primo. Come scrive Lukács: «Mondo contingente e individuo problematico sono realtà che mutuamente si condizionano» (TR, p. 117).

Di conseguenza, come accade spesso quando si sottomette l’analisi di concreti fenomeni storici, di qualunque natura essi siano, ad una intelaiatura di idee generali ricavate da un a priori filosofico, sotto la metafisica dello spirito si finisce per riscoprire una proposta di sociologia del problema: in questo caso, di sociologia della letteratura. Non a caso, a segnare la cesura tra la prima e la seconda parte del libro, Lukács mette queste affermazioni: «L’ironia quale auto-relazione della soggettività giunta alla fine, è la più alta libertà che sia possibile in un mondo senza dio. Per cui essa non è soltanto l’unica possibile condizione aprioristica di una obiettività concreta, creatrice di totalità, bensì anche solleva questa totalità, il romanzo, a forma rappresentativa dell’epoca, in quanto le categorie costitutive del romanzo stesso costitutivamente si fondano sulla condizione del mondo»(TR;p. 137). Stabilendo questo tipo di rapporto condizionante, Lukács apriva la strada ad una problematica di recupero culturale, che a sua volta si fondava su di una visione impegnata, progressiva, dello sviluppo storico. L’utopismo dell’Anima e le forme non veniva infatti in questa fase ancora abbandonato, ma anch’esso si presentava ormai sotto forma storicizzata e dialetticizzata (come rapporto, cioè, tra visione messianica e reali possibilità di trasformazione del mondo).

A questo incombere del nuovo, ancora precario ed incerto ma non del tutto assente, era dunque legato l’avvenire dell’arte moderna, e il suo stesso superamento o inveramento. Anche questa volta estremamente significativa è la conclusione del libro, dove, prendendo spunto dal giudizio formulato da Dostoevskij, il discorso sembra aprirsi agli orizzonti sconfinati della profezia storico-politica: «Che egli [Dostoevskij] sia già l’Omero ovvero il Dante di questo mondo, oppure colui il quale semplicemente fornisce i canti che poeti più tardi, prendendo anche da altri precedessori, comporranno a grande unità: che egli sia solo un inizio, oppure già un compimento: ecco una cosa che soltanto l’analisi formale delle sue opere potrà rivelare. E solo allora potrà essere compito di un’interpretazione storico-filosofica dei segni celesti, quello di dire se noi siamo davvero sul punto di abbandonare la posizione dell’assoluta peccaminosità, ovvero se son soltanto mere speranze ad annunciare l’avvento del nuovo: segni di un avvento, i quali ancora così deboli sono, da poter essere schiacciati a capriccio, per gioco, dall’infruttuosa potenza di ciò che semplicemente esiste» (TR, p. 127).

Ecco un altro salto nel discorso, e questa volta decisivo. Ricordate l’affermazione di partenza? Il mutamento dei tempi aveva indotto il mutamento delle forme. Ma ora, a conclusione del discorso, non si trattava più di prender atto di quanto era accaduto nelle grandi mutazioni secolari e nel ciclopico movimento di traslazione delle epoche. Ora bisognava trovare il punto d’aggancio concreto, immediato, cui appendere la fune corrosa dell’arte moderna. Puntare sul futuro significava questa volta squalificare le intime potenzialità dello spirito, affidarsi alle forze esterne. Solo un mutamento dei tempi avrebbe potuto indurre un mutamento delle forme. Ma, poiché il mutamento dei tempi non appariva ormai impossibile a questo lievitare crescente di speranze palingenetiche ed utopistiche, anche il mutamento delle forme si manifestava nell’ordine delle umane possibilità. Il futuro avrebbe risolto le attese superando oggettivamente le condizioni della crisi. Ma il trasferimento delle speranze dal piano delle forme a quello della storia cambiava ormai le prospettive del giudizio lukacsiano e le instradava a quel tipo di atteggiamento, che solo l’impegno pratico rivoluzionario potrà successivamente soddisfare. La crisi della civiltà culturale borghese non sarà più vista allora dall’interno, ma dall’esterno. Non in ciò, per altro consiste il limite dell’argomentazione lukacsiana in Teoria del romanzo. Qui il limite è costituito dall’identità-confusione tra il livello dell’utopia formale e quello dell’utopia storica. Nell’atto stesso in cui Lukács poneva un rapporto necessario fra questi momenti, egli concedeva infatti all’arte borghese l’estrema chance, l’ultima (fin allora impensabile) possibilità di recupero. Ancorando l’arte ai destini della storia, si finiva per indicare alla poesia moderna quella via di salvezza, che la prospettiva tragica non solo non aveva saputo fornirle, ma addirittura aveva ancor più clamorosamente vanificato con la patente dimostrazione della propria irrealizzabilità. In realtà Lukács perdeva, in questo modo, il senso profondo, il risultato più sconvolgente e maturo raggiunto nell’Anima e le forme: il convincimento e insieme la dimostrazione che tra arte borghese e mondo, tra creazione estetica e realtà storica, non c’è né può esserci accordo né pace, ed anzi c’è una contrapposizione profonda, un’irrimediabile estraneità.

La nostra conclusione su Teoria del romanzo è dunque analoga a quella formulata sull’Anima e le forme. Ma con questa importante differenza. Nell’Anima e le forme l’impotenza del discorso lukacsiano a «chiudersi» era un segno anch’essa della eccellente diagnosi in quel libro compiuta sui caratteri e la sorte dell’arte moderna: nel momento stesso in cui giudicava gli altri Lukács giudicava se stesso, interprete sì e giudice, ma anche e soprattutto testimone del suo tempo. In Teoria del romanzo il discorso lukacsiano non «si chiude», proprio perché egli vuol tenerlo aperto a tutti i costi, cercando un «accordo amichevole» (anche se problematico) con la storia. In Teoria del romanzo – ad onta delle differenze profonde – circola già l’atmosfera del Lukács maturo. L’arte torna ad essere per lui uno strumento di mediazione sociale, sia pure ad altissimo livello. La prospettiva «progressista» non farà che perfezionare e compiere il senso di questo processo.

[1968]

1 Le nostre citazioni sono tratte per la maggior parte dalle seguenti edizioni italiane delle opere di G. Lukács: L’anima e le forme, traduzione di S. Bologna, Milano 1963; Teoria del romanzo, traduzione di F. Saba Sardi, Milano 1962. Le indicheremo nel testo stesso, rispettivamente, con le sigle AF e TR.

2 Parlando di uno dei protagonisti del Marie Donadien, Philippe scrive: «L’anelito lo ha indurito e rafforzato. La lascia andare muta e piangente, distrutta, tremante dal dolore, ma ora egli possiede la forza sicura per rinunciare a lei. La forza di essere cattivo e duro. Poiché ha distrutto la vita di lei» (AF, p. 202).

3 L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber fu pubblicato per la prima volta nel 1904–05.

4 Nella prefazione a Die Theorie des Romans, Neuwied, Luchterhand, 1962.

5 Si ricordi che nell’Anima e le forme Lukács aveva scritto: «Uno dei punti di forza di Kassner consiste nel fatto che egli non vede tante cose» (p. 53).

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