Una lettera a Togliatti

di György Lukács

Presentiamo la traduzione di una lettera inedita a Togliatti, conservata nell’Archivo Lukács on line.


Budapest, 9 ottobre 1947

Caro compagno Togliatti!

La ringrazio molto per la sua lettera e per l’invito a contribuire alla rivista “Rinascita”. Per me sarà un grande onore se i miei saggi verranno stampati in italiano1.

Nel frattempo, il compagno Korach2 di Bologna mi ha scritto che intende tradurre il mio saggio “L’epistemologia di Lenin e i problemi della filosofia moderna” per la vostra rivista. Il saggio è apparso in ungherese sull’organo scientifico del nostro Partito. Scriverò contemporaneamente al compagno Korach su questo argomento.

Vorrei cogliere l’occasione per rivolgerle una domanda. Questo saggio fa parte del mio libro che sarà pubblicato in ungherese con il titolo “Crisi della filosofia moderna”3 nel corso dell’inverno. Se il partito italiano volesse riflettere su questo libro, sarei lieto di inviargliene una copia da leggere.

Durante l’inverno sarò a Milano e a Roma. Spero che ci sarà l’occasione di fare la vostra conoscenza personale.

Con i migliori saluti

Georg Lukács

Continua a leggere
Pubblicità

Perché la borghesia ha bisogno della disperazione?

di  György Lukács

Il saggio è del 1948 e fu pubblicato con il titolo originale “Wozu braucht die Bourgeoisie die Verzweiflung?” nel 1951 nella rivista Sinn und Form, n°. 4, pp. 66-69 e, nel 1956, nella raccolta Schicksalswende, Beiträge zu einer neuen deutschen Ideologie, Berlino, Aufbau Verlag, 1956, pp. 151-154.

In italiano in G.L., Dialettica e razionalismo. Saggi 1932-1970, a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2020.


L’ideologia tradizionale, abituale, di difesa della borghesia è l’idealizzazione: sotto una forma ideale e artistica, si devono fare sparire le opposizioni brutali, gli orrori creati dalla società capitalisti­ca. È così che, dopo più di un secolo, tutta la scienza e l’arte sono basate sull’apologia, a partire dalla filosofia accademica. Questo orientamento ha raggiunto la sua forma più grossolana nei film hollywoodiani, ma spesso, la filosofia professorale stessa non è niente altro che un film a happy end, sotto una forma concettuale.

Affianco alla realtà spaventosa degli ultimi decenni, l’idealizzazio­ne pura si è pertanto rivelata troppo debole, inefficace. Almeno nel­le sfere della riflessione dell’intellighenzia borghese; nascondere al loro sguardo i fatti sconvolgenti della vita sociale, cancellarli con i mezzi anche semplici, era divenuto impossibile.

Continua a leggere

Lukács: ritorno al concreto

di György Lukács

da Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2019.

Intervista concessa a Naïm Kattan e pubblicata nella “Quinzaine Littéraire”, 1/15 dicembre 1966 con il titolo “Lukács: revenir an concret”. Tradotta e pubblicata in italiano da “L’Espresso”, n. 2, gennaio 1967, p. 11 con il titolo “Lo scrittore a piede libero”, senza indicazione del traduttore.


L’appartamento di Lukács è all’ultimo piano di un edificio che si affaccia sul Danubio. Le pareti sono tappezzate di libri. Guardo a caso: opere complete di Hegel e di Marx. Sulla scrivania, altri libri, riviste in ungherese, in tedesco, in francese. È qui, che da dieci anni, Lukács prosegue nel suo lavoro.

Si sa che fu Ministro della Cultura nel governo di Imre Nagy. Dopo che la rivoluzione ungherese fu schiacciata, Lukács visse alcuni mesi, in un esilio volontario, in Romania. Dal suo ritorno, si è imposto il compito di terminare la sua “summa” filosofica. Un primo volume di più di mille pagine è già stato pubblicato in tedesco. Lukács è in tenuta da lavoro: pantaloni scuri, giacca kaki. Piccolo e magro, dà l’impressione di possedere un mondo. Ci si dimentica che egli ha 82 anni.

«Ho cominciato la mia vera opera a 70 anni», esordisce Lukács. «A volte, si direbbe che esistano delle eccezioni alle leggi biologiche. In questo senso sono un seguace di Epicuro. Ma io pure invecchio. Per molto tempo ho cercato la mia vera strada. Sono stato idealista, poi hegeliano, e in Storia e coscienza di classe ho cercato di essere marxista. Durante lunghi anni sono stato funzionario del Partito Comunista a Mosca; è in questo periodo che ho avuto il tempo di leggere e rileggere molto, da Omero a Gorki. Fino al 1930, però, i miei scritti erano soprattutto delle esperienze intellettuali. È dopo che vennero i primi traguardi e le basi per il lavoro successivo.

Questi scritti possono sembrare oggi superati, ma essi hanno forse fornito ad altri un suggerimento, una spinta. Certo, può sembrare strano che io abbia dovuto toccare il settantesimo anno per mettermi a lavorare intorno alla mia opera. Una vita non è poi infinita. Pensate a Marx, a questo genio colossale. Ebbene egli non è riuscito a dare che un abbozzo del suo metodo. Nella sua opera non ci sono tutte le risposte che vorremmo. In realtà, stava nel suo tempo. Io utilizzo il suo metodo per i miei studi di estetica. Se egli vivesse oggi, sono sicuro che scriverebbe di estetica». Continua a leggere

Il secondo Lukács: l’ontologia dell’essere sociale nell’epoca della manipolazione

di Giorgio Cesarale

[par. 2 del cap. 4 “Filosofia e marxismo nell’Europa della Guerra fredda”, in a c. di S. Petrucciani, Storia del marxismo. II Comunismi e teorie critiche nel secondo Novecento, Carocci, Roma 2015]

La partecipazione attiva di Lukács alla battaglia politica interna al movimento operaio termina nel 1928-29 con la sconfitta delle “Tesi di Blum”, da lui stilate, e il conseguente scioglimento della frazione del Partito comunista ungherese alla quale egli apparteneva, e cioè la frazione di Landler, diretta oppositrice di quella di Béla Kun. L’importanza strettamente politica delle “Tesi di Blum” è nota: contro la strategia allora dominante nella Terza Internazionale ruotante attorno alle parole d’ordine della “classe contro classe” e del “socialfascismo”, esse avanzano la proposta, di sapore leniniano, dell’alleanza “democratica” degli operai e dei contadini e anticipano quindi la linea del “Fronte popolare”, che sarà assunta dalla Terza Internazionale dopo il 1935. Continua a leggere

La responsabilità sociale del filosofo

di György Lukács

[Die soziale Verantwortung des Philosophen, 1960 ca., inedito, trad. it. Vittoria Franco, in G. L., La responsabilità sociale del filosofo, Pacini Fazzi, Lucca 989]

Si ringrazia Toni Infranca per aver messo a disposizione questo testo.


Devo scusarmi subito in apertura se arriverò a rispondere alla questione solo dopo lunghi giri. Primo, [perché] mi sembra che la questione in sé non sia stata finora sufficientemente chiarita. Secondo, e più importante, perché scorgo nella situazione attuale problemi del tutto particolari, che rinviano oltre una specificazione normale della questione generale e la cui analisi soltanto consente teoricamente una risposta concreta.

I nostri ragionamenti devono dunque culminare nelle due questioni seguenti, fra di loro strettamente connesse: esiste una responsabilità specifica del filosofo, che va oltre la responsabilità normale di ogni uomo per la propria vita, per quella dei suoi simili, per la società in cui vive e il suo futuro? E inoltre: tale responsabilità nella nostra epoca ha acquistato una forma particolare? Per la teoria dell’etica, entrambe le questioni implicano il problema se la responsabilità contenga un momento storico-sociale costitutivo. È un interrogativo che va posto subito all’inizio, giacché proprio l’etica moderna, specialmente quella che si è sviluppata sotto l’influenza di Schopenhauer prima e di Kierkegaard poi, pone l’accento sul fatto che il comportamento etico dell’individuo «gettato» nella vita mira proprio a tenersi lontano da tutto ciò che è storico-sociale per pervenire all’essere ontologico, in contrapposizione netta a tutto l’essente. È ovviamente impossibile trattare qui, sia pure per grandi linee, tutto questo complesso di problemi. Possiamo occuparci solo di quegli aspetti che riguardano oggettivamente il nostro problema.

1. Nell’etica, così come si è configurata sinora, possiamo osservare – grosso modo* – due correnti decisive. La prima considera rilevante esclusivamente l’atto in sé della decisione etica, del comportamento. Questa concezione ha assunto nel corso dello sviluppo della nostra moralità incarnazioni così diverse che troviamo un tale atteggiamento fondamentale nella Stoa come in Epicuro, in Kant come nell’esistenzialismo, ecc. In base alla nostra impostazione del problema, concentreremo l’attenzione soprattutto sul tratto comune che abbiamo rilevato e tralasceremo di proposito le differenze, il cui significato non deve essere ovviamente sottovalutato; esse non sono tuttavia decisive per le questioni da chiarire in questa sede. Il momento decisivo ci sembra consistere nel fatto che l’atto della decisione etica, dell’assunzione di un comportamento eticamente rilevante viene posto come indipendente dal corso causale della realtà storico-sociale, viene cioè considerato come fondamento dell’etica la completa indipendenza reciproca dei due «mondi» dell’essere e del dover essere. Dei grandi filosofi, Kant è colui che ha compiuto nella maniera più decisa, fino al paradosso, questo sdoppiamento della realtà. La frattura attraversa la personalità che agisce e il suo atto. I presupposti e le conseguenze, anche quelle puramente spirituali, appartengono tutti al mondo fenomenico e sono perciò sottoposti incondizionatamente alla connessione inesorabile della causalità. L’actus purus della decisione etica è invece un noumenon, un momento dell’esistenza intellegibile dell’uomo, completamente indipendente dal fenomeno e dalla sua causalità.

Sembra spezzarsi così ogni collegamento fra l’esistenza interna (etica) dell’uomo e quella esterna (naturale, sociale), per cui, secondo una tale concezione, il nostro problema perderebbe ogni senso persino come questione. Non è assolutamente questo il caso in Kant. La riduzione di ciò che è eticamente rilevante alla personalità puramente intellegibile ha piuttosto, come vedremo subito, lo scopo di subordinare la totalità della vita umana al dover essere etico, di conferire ad essa una razionalità morale più elevata di quanto sia possibile – secondo Kant – sul terreno fenomenico. Solo se, come in Kierkegaard, l’abisso fra interno ed esterno acquista l’ampiezza metafisica di un assoluto, solo se, di conseguenza, l’incognito impenetrabile diviene la forma originaria dell’esistenza umana, la sua essenza ontologica, il sacrificio di Isacco da parte di Abramo, con l’impossibilità di separare dall’esterno il delitto dalla santità devota a Dio, può divenire il paradigma più elevato della prassi, l’espressione della sua irrazionalità ontologica e quindi della sua – altrettanto ontologica – essenza asociale, astorica. Non è così in Kant. Già l’analisi dell’imperativo categorico dimostra che la separazione rigida del fenomeno dal noumeno è rivolta proprio a fornire all’uomo sociale della realtà criteri saldi per la prassi della vita quotidiana. Questa intenzione è ciò che per noi è importante. Se dunque contraddizioni insuperabili vengono in essere, allora vuol dire che la problematica che qui emerge è una dimostrazione indiretta delle nostre tesi. Si tratta del contenuto dell’imperativo, che deve scaturire proprio dalla sua essenza puramente formale. Tutti conoscono il famoso esempio della – presunta – contraddizione logica che sorge necessariamente quando si voglia sottrarre un deposito. Nella sua critica, divenuta altrettanto famosa, Hegel rileva che, in questo modo, Kant abbandona il campo dell’etica, che egli stesso aveva rigidamente delimitato, e vuole determinare la questione se il deposito debba essere e che cosa debba essere con categorie che sono inadatte a questo scopo secondo i suoi stessi principi. (Del tutto diversamente per l’etica e per lo stesso Hegel).

Questo rinviare oltre l’actus purus dell’io noumenico in Kant non è però un caso o una inconseguenza. Proprio i postulati della ragione pratica mostrano che una tale trascendenza è per lui necessaria, se non vuole far sfociare la sua etica nel vicolo cieco dell’individuo ontologicamente isolato. Possiamo richiamarci di nuovo a connessioni universalmente note. Primo, al postulato di una coincidenza, in ultima istanza, fra l’applicazione delle norme etiche purificate da ogni ammiccamento alla fortuna e la felicità come stato permanente; secondo, a quello di un progresso infinito della perfettibilità: ai postulati dell’esserci di Dio e dell’immortalità dell’anima. Si tratta perciò di una trascendenza. Non soltanto si va oltre il mondo terreno, per poter porre la realizzazione di colui che si perfeziona eticamente come parte costitutiva del sistema, ma – in contrapposizione con molte religioni che prevedono la realizzazione dell’essere terreno in un al di là – si deve anche abbandonare l’intero ambito dell’essere, ritornare al dover essere del postulato. Non ci interessa qui la problematicità di una tale posizione. Ciò che abbiamo cercato di dimostrare si limita alla costatazione, che resta molto astratta, che perfino l’etica più decisamente formale e più ostinatamente orientata sull’atto puramente individuale della decisione è costretta a trascendere questo suo punto di partenza e ad elevare le categorie decisive della vita storico-sociale degli uomini (gli oggetti del loro agire, la fortuna, il loro perfezionamento) a momenti integranti del suo sistema. È chiaro che, in questo modo, l’uomo stesso in quanto essenza sociale, la sua relazione con i suoi simili e quindi, in maniera mediata o immediata, la stessa socialità, devono stare – indipendentemente se nell’al di qua o nell’al di là – al centro della sistematica anche in un’etica costruita in maniera soggettivo-formale.

Tale connessione risulta ancora più chiara, quasi fino alla trivialità, in quel gruppo di teorie etiche, che si è soliti etichettare sinteticamente (e in maniera non molto convincente), come utilitarismo. Anch’esse hanno come punto di partenza le intenzioni degli individui. Solo che qui l’altro è posto sin dall’inizio ineliminabilmente come partner. La dialettica fra egoismo e altruismo (non importa come queste espressioni appaiono dal punto di vista terminologico) costituisce necessariamente il tema centrale dell’etica, e pertanto il carattere sociale è metodologicamente assicurato. Da un lato, il motivo egoistico può venire assolutamente in primo piano, specialmente finché la regolazione automatica dell’agire individuale, egoistico, mediante l’economia complessiva vale come dogma incrollabile; dall’altro, proprio per questo, una tale struttura della società può essere astratta dal divenire storico e idealizzata a condizione «eterna» della relazione fra uomo e società. In casi estremi di tal genere, questa considerazione etica si trasforma a tal punto che appaiono rilevanti solo le conseguenze delle azioni umane. Ma ritorneremo fra breve su questa possibilità.

In generale, si tratta tuttavia di una relazione reciproca reale fra egoismo e altruismo; per meglio dire, si tratta del tentativo di far derivare da motivi egoistici le intenzioni e le azioni disinteressate e cariche di abnegazione fino all’eroismo. Ragionamenti siffatti potrebbero apparire spesso estremamente artefatti, sofisticati. Questo non può tuttavia offuscare la grande idea che vi è insita. Cioè che un’etica, che ha come punto di partenza uomini «naturalmente» egoisti, fa scendere tutto ciò che vi è di grande e progressivo nello sviluppo dell’attività umana dal cielo della trascendenza su questa terra della socialità reale, dei doveri e della responsabilità puramente sociali. Se tale concezione ha avuto talvolta, finché si è combattuto in suo nome per il «regno della ragione», un accento sovrastorico, con la vittoria della borghesia si è trasformata in una superficiale apologetica, mentre già con la teoria dell’«egoismo razionale» dei democratici rivoluzionari russi è emerso chiaramente il suo carattere progressivo. Il pensatore guida di questa tendenza, Cernicewskji, nel suo romanzo Che fare? ha indicato vari tipi che, in quanto rappresentanti dell’«egoismo razionale», [che va] da un’attività riformatrice nella vita quotidiana propria e altrui fino all’eroismo rivoluzionario ascetico e pieno di abnegazione, rendono chiare quelle conseguenze della responsabilità individuale e storico-sociale, che derivano con necessità logica dai principi di questa dottrina correttamente intesi.

Sebbene la trattazione adeguata dell’etica marxista sia possibile solo più oltre e anche se essa, per sua essenza, non parte assolutamente dall’intenzione, dall’atto etico, dobbiamo accennare brevemente già a questo punto alla sua relazione con la dottrina dell’«egoismo razionale». Già il giovane Engels, in una lettera a Marx, criticava il rifiuto astratto di ogni egoismo da parte degli idealisti «veri socialisti» e rilevava che anch’essi «sono comunisti anche per egoismo». Non è questa la sede per soffermarsi sul come tale dottrina si sia formata innanzitutto attraverso lo sviluppo della lotta di classe, degli interessi di classe, ecc. È importante solo che, in questo modo, si è sostanzialmente concretizzata la corrente storico-sociale in cui è inserita ogni vita individuale, che la vita etico-individuale deve farsi carico inevitabilmente di una responsabilità storico-sociale verso le decisioni, i comportamenti, ecc. e – ciò che è più decisivo – che perfino le virtù più elevate, le più socialmente determinanti, non sono contrapposte in maniera ascetico-dualistica all’uomo «naturale», ma in circostanze favorevoli possono essere sviluppate organicamente dalle sue proprietà «naturali». Questo è il fondamento etico-sociale del fatto che, per Lenin, anche nel socialismo gli uomini devono diventare uomini nuovi attraverso la realizzazione dei loro interessi individuali all’interno della nuova società; tutte le misure economiche di una corretta via al socialismo hanno una tale intenzione pedagogico-sociale: incanalare l’egoismo giustificato su base naturale in una socialità socialista. Potremo tornare solo più oltre sul come queste tendenze, qui rapidamente sfiorate, diventino le determinazioni più prossime della responsabilità sociale.

2. L’unità dell’etica si manifesta ancora più chiaramente là dove essa ha come punto di partenza l’estremo opposto, l’accentuazione solo o prevalentemente delle conseguenze. Una tale concezione, considerata in senso stretto nella sua applicazione coerente, dovrebbe negare ogni etica, considerarla irrilevante per l’essere e il divenire della società, in quanto la dottrina del diritto e dello Stato (o magari l’economia) farebbero le sue funzioni. Questa dottrina non è mai stata applicata in maniera conseguente. Essa emerge nel paradosso di Machiavelli, secondo cui il legislatore deve partire dal fatto che tutti gli uomini sono cattivi (amorali); sta, cioè, alla base della concezione machiavellica secondo cui azioni individuali cattive possono avere conseguenze socialmente utili. Ma una dottrina orientata semplicemente sulle conseguenze, che esclude completamente l’intenzione soggettiva, non può essere applicata nemmeno a livello giuridico. Anche un’imputazione puramente giuridica è costretta a prendere in considerazione momenti soggettivi come l’intenzione, la convinzione, il quadro reale o possibile delle circostanze, ecc. La questione del perché un uomo possa essere considerato responsabile delle conseguenze del suo agire non può essere dedotta dalla semplice catena delle cause e degli effetti, nemmeno da un punto di vista giuridico. Ha, dunque, ragione Hegel quando rifiuta tanto la priorità dell’intenzione quanto quella delle conseguenze.

Il necessario inserimento dell’intenzione nell’elaborazione etica delle conseguenze mostra però già al primo sguardo una dialettica alquanto complicata. Sarebbe ovvio e semplice affermare che nessuno è eticamente responsabile per le conseguenze imprevedibili delle sue azioni. Sarebbe comunque sostenibile una tale affermazione? Supponiamo che un uomo voglia sparare a Pietro, la sua pallottola manca l’obiettivo e colpisce a morte Paolo. Non vi è nessuna intenzione, e però non può nemmeno essere negata la responsabilità morale appellandosi al caso. Infatti, ogni azione si stacca – più o meno – da colui che la compie, acquista un suo proprio sviluppo immanente nel mezzo delle relazioni reciproche degli uomini. «Un proposito è condiviso, non è più tuo», dice il Wallenstein di Schiller. Il problema della responsabilità consiste in questo, che la dialettica propria dell’azione non [ne] elimina la paternità nel soggetto, nella sua intenzione e convinzione. Diventa un problema solo questo: fino a che punto, sotto quale aspetto, fino a quali conseguenze, diramazioni e implicazioni esiste una responsabilità? Non vi sono dubbi sul collegamento in genere fra azione e agente anche nelle mediazioni più complesse. Ciò che andrebbe concretamente elaborato in una casistica etica sono la misura e la proporzione.

Ma naturalmente ciò è impossibile in questa sede. È tuttavia necessario fornire almeno alcuni accenni metodologici sulle linee di soluzione. Sotto questo aspetto, Hegel ha intravisto l’essenza della questione quando ha detto: «devo conoscere la natura generale della singola azione». Entrambe queste determinazioni, la natura generale e la conoscenza, sono ugualmente importanti e problematiche.

Infatti, una semplice generalizzazione unilineare dell’azione non fa fare un solo passo avanti dal punto di vista etico. Il paragrafo del codice sotto cui deve essere giuridicamente sussunta un’azione singola esprime nella maniera più chiara questa generalità astratta e dimostra, nel contempo, che esso non può dare il minimo suggerimento per la soluzione etica. (E d’altra parte, si può viceversa dire: le grandi difficoltà, che emergono talvolta in tali sussunzioni giuridiche, derivano dal fatto che l’opinione pubblica, e anche la coscienza giuridica della problematica etica, si rendono conto della semplificazione). La generalità (die Allgemeinheit) eticamente proficua, che illumina la responsabilità, può essere trovata solo se noi consideriamo l’azione singola come momento mosso di un agire storico-sociale nella sua concreta e altrettanto mossa totalità e continuità. Infatti, solo sotto tale aspetto, la generalizzazione non è un’astrazione formale e priva di contenuto, ma è un tipo di astrazione che viene compiuto dallo stesso processo e riprodotto più o meno correttamente dalla coscienza esterna (anche da quella dell’agente). La generalità ha cioè, in una decisione etica, il suo passato storico-sociale e un futuro che sorge dallo stesso processo. È dunque importante il posto che occupa nel processo storico-sociale, in virtù della dialettica interna del suo nucleo essenziale, l’intenzione «di per se stessa» – quella che è, in maniera oggettivamente immanente, alla base della singola azione e che non è affatto necessariamente identica all’intenzione consapevole dell’azione in questione –, in quale connessione essa si inserisce, quali tendenze favorisce o ostacola. Solo così può venire in essere con chiarezza crescente una generalità concreta, eticamente vincolante. Prendiamo la relazione del poeta Stefan George con Hitler. L’esteta aristocratico ha comprensibilmente rifiutato con asprezza la grettezza plebea di Hitler ed è morto in esilio volontario piuttosto che divenire il poeta laureatus dell’hitlerismo. E tuttavia, nella sua poesia più tarda si esprime un’idea, un atteggiamento, la cui intenzione intima è orientata verso l’essenza storico-sociale dell’hitlerismo incombente ed è oggettivamente parte della preparazione di quest’ultimo. Il fatto che George abbia forse salutato un fascismo aristocratico alla Mosley e rifiutato solo l’aspetto ordinario delle forme fenomeniche tedesche non può diminuire la sua responsabilità, in quanto il generale, nel senso in cui lo intendiamo noi, dell’hitlerismo è, in tutti i fenomeni piccolo-borghesi, un aristocraticismo irrazionalistico, una generalizzazione dell’intenzione più profonda di George.

Non è naturalmente necessario che questa generalità acquisti una forma così chiara solo nel corso della storia. Può essersi già delineata nel corso dello sviluppo sociale fino a questo momento. Si pensi ancora una volta all’esempio del deposito di Kant. Simmel l’ha criticato in questi termini: se l’individuo che lo sottrae nega in generale la proprietà privata, l’argomentazione di Kant perde il suo fondamento. Io credo che qui Simmel non colga il reale senso profondo di Kant. Egli è rispetto a Hegel nel torto quando chiarisce che la sua sottrazione contraddice logicamente il concetto oggettivo di deposito; ma l’intenzione – nel senso stabilito sopra – di colui che se ne appropria contiene un’affermazione della proprietà privata e, insieme, del deposito e fa emergere quindi una contraddizione etica.

Proprio queste analisi delle conseguenze dimostrano che Hegel ha rigettato con buone ragioni entrambe le concezioni etiche, unilaterali ed estreme. Infatti, la responsabilità etica deriva da una particolare sintesi che unifica in sé tanto l’intenzione quanto la conseguenza, ma in un modo che le supera e le modifica entrambe. L’idea che così ne deriva si rafforza ancora se riflettiamo sul momento soggettivo della determinazione hegeliana trattata sopra: sulla conoscenza (della generalità). Che cosa conosciamo e come? Non si tratta nemmeno, in questo caso, di un concetto di imputazione astrattamente giuridico, come forse nella cura previdente del diligens pater familias. La conoscenza appartiene da un lato alla vita storico-sociale, è dunque momento di un processo; dall’altro non è identica alla previsione delle conseguenze attese nel momento dell’azione. Ciò è impossibile già per il fatto che l’oggetto di questa conoscenza è il generale già trattato. Se però, d’altro canto, vogliamo prendere in considerazione la dialettica soggettiva strettamente collegata con questa dialettica oggettiva, dalla quale deriva, dobbiamo tener conto del fatto che è possibile prevedere il corso della storia – e anche questo soltanto col marxismo – solo in modo molto generale. Dietro l’espressione hegeliana, che suona forse mitologica, dell’«astuzia della ragione», vi è il fatto indiscutibile della vita storico-sociale: che, cioè, le conseguenze delle azioni umane – siano esse individuali o collettive – non corrispondono alle intenzioni, che esse vanno qualitativamente oltre queste ultime.

Se questo è giusto – e si tratta di un fatto fondamentale dell’essere umano – quale senso può ancora avere il «conoscere» hegeliano? Noi crediamo che proprio in questo si esprime il giusto significato etico del generale. Se le conseguenze fossero esattamente prevedibili – per un intelletto addestrato a tale scopo –, l’agire sociale diventerebbe qualcosa di meramente tecnico. La responsabilità per il sì o per il no riguarderebbe un semplice calcolo e non necessiterebbe di un’analisi etica, proprio come l’ingegnere è responsabile del fatto che il ponte non crolli. Ciò che viene affermato o negato è tuttavia un generale più o meno determinato, ma in ogni caso concreto; ad esempio, i seguaci o gli oppositori della Rivoluzione francese non sapevano, e non potevano sapere, che favorivano o ostacolavano oggettivamente il sorgere del capitalismo francese. Per la loro responsabilità etica, questa conoscenza a posteriori non entra nemmeno in discussione.

L’«astuzia della ragione» determina dunque un orizzonte – storicamente diversificato – ma sempre ampiamente definito, nel cui ambito si può parlare di responsabilità in senso etico. In questo ambito di vita essa tuttavia sussiste e l’individuo non vi si può sottrarre. Certo, possono sopravvenire circostanze che provocano un pentimento, un cambiamento, ma neanche ciò può cancellare completamente la responsabilità precedente. I girondini a partire da un dato momento hanno combattuto contro i giacobini, ma una tale svolta non poteva annullare la loro corresponsabilità per tutto ciò che era accaduto fino a quel momento. Proprio l’accanimento con cui gli apostati lottavano contro coloro che erano stati loro compagni di ideali dimostra come questa struttura sia profondamente ancorata all’essenza dell’uomo.

Il medesimo stato di cose emerge, in maniera forse ancora più chiara, se tentiamo di chiarire ulteriormente l’essenza etico-sociale dell’agire. Finora abbiamo parlato solo di quella responsabilità che si lega ai fatti concreti degli uomini. Il concetto sociale di agire ha però anche un’altra dimensione. Nessun atto umano si esaurisce, infatti, in un ambiente sociale esattamente determinabile, ma è nel contempo e inseparabilmente, nei limiti in cui si riconnette alla vita pubblica, un momento che favorisce e ostacola un processo sociale. Da ciò consegue che il concetto di neutralità, dell’astenersi dall’agire qui non ha senso; sotto questo aspetto, anche il non agire è un agire che – in relazione alla responsabilità – non si differenzia, in linea di principio, dall’agire attivo vero e proprio. Hegel ha formulato in maniera molto plastica questa costellazione nella Fenomenologia: «Innocente è quindi soltanto il non operare come l’essere, non di un fanciullo, ma addirittura di una pietra». Questo vuol dire che l’astenersi dall’agire implica sempre un’accettazione o una negazione di quella situazione, struttura, istituzione, ecc., ciò che di solito in un’azione attiva, orientata positivamente o negativamente, forma il nocciolo dell’intenzione.

Vi sono qui naturalmente differenziazioni, che possono perfino avvicinarsi a zero, se l’azione in questione ha un carattere prevalentemente privato. (Va qui notato di passaggio che una simile dialettica si ha anche nella vita privata, solo che oggetto dell’intenzione sono gli individui singoli). Naturalmente, le situazioni che la vita sociale produce sono, proprio sotto questo aspetto, enormemente diverse. E questo già in relazione alla semplice possibilità del non agire; se, ad esempio, scioperano le maestranze di una fabbrica, vi è oggettivamente solo un sì o un no; l’«astensione» è qui semplicemente identica al no. Ma anche là dove la situazione, considerata in astratto, consente molto bene una neutralità, questa ha comunque, a seconda dello stadio dello sviluppo storico, una convergenza sull’accettazione o sul rifiuto della generalità in questione e questa tendenza si fa strada o si blocca a seconda della situazione storica. Il giovane Hegel si richiama al fatto che ad Atene, all’epoca delle rivolte, era stata pronunciata la sentenza di morte contro gli «apragmosini politici» e prosegue, nella direzione delle nostre considerazioni iniziali: «l’apragmosina filosofica, per sé [non disposta] a scegliere un partito, è per se stessa carica di morte per la ragione speculativa». Per lo stadio attuale della nostra ricerca, da ciò consegue, in primo luogo, che per quel che riguarda la responsabilità, tutti questi modi di comportamento devono essere straordinariamente differenziati anche a seconda dell’individualità, della sua situazione sociale, ecc. Può variare profondamente non solo il reale giudizio degli individui, ma – ciò che è più importante – anche la possibilità oggettiva della conoscenza di quella generalità che è in ultima analisi alla base dell’intenzione espressa nell’azione. L’espressione di Cristo «non sanno ciò che fanno» indica qui un polo [della questione], mentre l’espressione hegeliana citata sopra sull’apragmosina politica e filosofica indica l’altro.

Tuttavia, la differenziazione storica procede ancora oltre. Si pensi alla nostra conoscenza attuale circa la mancanza di sbocchi economici dell’economia schiavistica antica. È chiaro che dobbiamo, di conseguenza, giudicare le utopie reazionarie dell’antichità in maniera storicamente diversa da quelle dell’epoca moderna, con le prospettive oggettive dell’economia capitalistica che si allargano; dunque Platone diversamente da De Maistre. Sebbene in nessuno dei due casi potesse essere presente questa idea né su un piano oggettivamente sociale, né su quello soggettivo personale, resta tuttavia aperta la questione se essa non sia stata attiva, e non in maniera latente-immanente, in ciò che sin qui abbiamo chiamato intenzione dell’azione. Perfino in un consenso condizionato la responsabilità dovrebbe essere formulata diversamente. Oppure, prendiamo l’esempio del don Chisciotte. La inevitabile comicità delle sue azioni, che scaturisce dalla sua convinzione più pura, rinvia a una tale ignoranza oggettiva della generalità che è impossibile trascurarla completamente nell’analisi della responsabilità.

Tutto questo deve circoscrivere semplicemente l’ambito della problematica che sorge a questo punto e non vuole affatto significare che si pretenda di elencare anche solo le possibilità tipiche più importanti e, ancora meno, di trattarle concretamente.

Ma già questo quadro astratto rinvia a tratti essenziali del modo etico di trattare la responsabilità. Vediamo che la storia crea per l’etica un Giano bifronte di continuità e cambiamento qualitativo della struttura. Prendere in considerazione soltanto il secondo momento potrebbe portare facilmente a un relativismo storico. Solo nella inseparabilità dialettica dal primo – e quindi dalla continuità dell’eredità etica, dei valori etici – può sorgere quell’assoluto etico, i cui tratti essenziali sono da un lato una contraddittorietà dialettica (quindi, all’opposto di Kant: il conflitto dei doveri, il conflitto all’interno della responsabilità come uno dei punti centrali dell’etica); e, dall’altro, un assoluto che contiene in sé sempre la relatività storico-sociale come momento superato e da superare. Una trattazione soddisfacente di un problema quale il conflitto Antigone-Creonte ci sembra altrimenti impossibile. E anche a un livello più generale della connessione e del conflitto nella trasformazione storica del bourgeois e del citoyen, incontriamo la stessa connessione, la quale può essere chiarita solo mediante il riferimento dialettico reciproco e il superamento reciproco di continuità e trasformazione qualitativa e strutturale.

3. Crediamo: con l’entrata in scena del marxismo tutte le questioni qui trattate, che riguardano la responsabilità, si pongono in una luce nuova. Sembra dunque opportuno discutere brevemente almeno i principi più generali della nuova impostazione. Cominciamo con una delimitazione negativa: la dissoluzione, divenuta necessaria e di cui abbiamo parlato finora, delle due polarizzazioni unilaterali dell’etica non è una proprietà distintiva del marxismo. La si trova – sia pure in termini contenutistici e metodologici diversi – in Aristotele, nella Scolastica, in Hegel; il marxismo dà a questa tendenza solo un accento nuovo. In quanto detto finora, abbiamo mostrato che qualunque sia il punto di partenza ideologico e metodologico dell’etica, le sue sintesi sfociano sempre necessariamente nello sviluppo storico-sociale dell’umanità. Fra atto etico, convinzione etica e responsabilità da un lato, e destino sociale dall’altro, vi è dunque una connessione che, sia pure complessa e mediata, è tuttavia ineliminabile. L’elemento comune a ogni etica premarxista è tuttavia che in questa relazione reciproca le tendenze etiche che privilegiano l’individuo detengono il primato su quelle sociali. Anche quando i singoli sistemi sono contrapposti sotto tutti gli altri aspetti – pensiamo semplicemente a Platone e a Epicuro –, su quest’unica questione regna tuttavia un accordo generale. E nemmeno eventi così violenti come la grande Rivoluzione francese sono riusciti a smuovere completamente tale convinzione. Si può tutt’al più notare in alcune rappresentazioni pessimistiche, come le lettere estetiche di Schiller, una ritirata appena accennata. Resta comunque predominante l’etica dell’individuo, sia pure in una relazione più o meno conseguente col suo destino sociale.

Si esprime qui una grande idea: l’uomo, in quanto creatore responsabile del suo proprio destino, determina così il destino dell’umanità, di quel tipo di uomo che diventa predominante. Molte tendenze significative dell’etica concentrano le forze essenziali nell’elaborazione dei tratti fondamentali di quei tipi che sono adatti a condurre l’umanità sulla strada giusta. È sufficiente richiamare qui: l’antico saggio, il suo ritorno sotto diversa forma nel sage dell’Illuminismo, la dottrina dei discepoli di Cristo. (Anticipando ciò che sarà detto più oltre, emerge già qui almeno un lato del nostro problema specifico. La questione non è, infatti, che il filosofo in certi casi si assuma una particolare responsabilità per la dimostrazione sociale del tipo da lui indicato come modello). Solo per accennare alla ricchezza dei problemi che qui sorgono, si pensi al dramma di Tolstoj La luce nelle tenebre.

Ritorniamo al tema specifico: il marxismo ha una posizione radicalmente nuova proprio sulla questione del primato: in breve, è lo sviluppo sociale, più precisamente lo sviluppo delle forze produttive, che crea gli uomini ad esso necessari. Poiché, sin da quando il marxismo è sorto, si è sentito ripetere l’obiezione che non ha un’etica e che sostituisce questa con l’economia o la sociologia, vogliamo inserire qui alcune note chiarificatrici. Prima di tutto: non si può scambiare il principio sociale del marxismo con nessuna delle teorie del milieu sociale, ecc. Queste rispecchiano la cosificazione delle relazioni umane nel capitalismo e le fanno irrigidire concettualmente molto oltre il modello; contrappongono perciò l’individuo (l’uomo) a un ambiente codificato soggetto a una legalità propria, estranea all’uomo, inumana. Le leggi dell’economia e quelle della società sono certo anche per il marxismo leggi oggettive, cioè tali che funzionano indipendentemente dalla coscienza conoscente. Però non è un’oggettività estranea all’uomo a costituire l’oggetto e il sostrato dell’economia, bensì solo e soltanto il sistema (e il mutamento) delle relazioni fra gli uomini, le cui leggi essi – considerati individualmente – non hanno creato, ma che possono essere poste esclusivamente mediante il loro agire, le loro influenze reciproche, il loro influsso individuale e comune sulla natura in movimento. Nel marxismo viene dunque elaborata per la prima volta in maniera coerente l’idea che economia, società, storia non sono altro che lo sviluppo del sistema delle relazioni umane, che le leggi oggettive specifiche che in esse sorgono – d’altronde complicate e largamente mediate – sono sintesi delle azioni umane. Ciò che in Hegel appare ancora in forme mitologiche, acquista qui un’oggettività scientifica.

Questa presentazione sommaria, piuttosto unilaterale, deve semplicemente servire a dare una prospettiva ai problemi dell’etica e prima di tutto, naturalmente, a quelli che riguardano la responsabilità. Se dianzi abbiamo definito una grande idea la considerazione che l’uomo è il creatore del suo proprio destino, il marxismo diventa sotto questo rispetto la concretizzazione e il coronamento dello sviluppo dell’etica fino a questo momento. Infatti, la tesi secondo cui l’uomo crea se stesso viene condotta fuori dalla concezione idealistica hegeliana solo dal materialismo dialettico: il lavoro, in cui l’uomo diventa uomo, fa di se stesso un uomo, può acquistare un significato universale solo quando venga considerato alla lettera come lavoro fisico (che è nello stesso tempo anche spirituale, il demiurgo della spiritualità), se dunque dall’ontologia dell’uomo sparisce ogni trascendenza sovrumana.

Non è oggetto della nostra ricerca approfondire una concezione immanente del mondo. Sia consentita solo un’osservazione: che in questo modo anche dal concetto etico di responsabilità viene eliminato altrettanto radicalmente ogni rinvio a elementi trascendenti – abbiano questi il carattere di un essere trascendente, come in molte religioni, o quello di un postulato trascendente come in Kant. Questa negazione si trasforma però qui in un’affermazione concreta: il rifiuto di ogni al di là non fa ricadere su un’individualità isolata né conoscenza, né coscienza, come nel vecchio materialismo, ma, all’opposto, stabilisce un’unione intima, anche se certamente contraddittoria e alquanto mediata, fra l’uomo in quanto personalità e in quanto ente generico; e qui è da notare che per il marxismo il genere è un concetto non soltanto biologico-antropologico, ma anche, e soprattutto, storico-sociale. Non si deve dunque costruire un ponte complicato – come in ogni etica idealistica – su un dualismo autocreato; l’unità dialettica delle tensioni è, piuttosto, data naturalmente e socialmente. «L’individuo è – dice Marx – l’essenza sociale (…) La vita individuale e quella generica dell’uomo non sono distinte». Solo la loro forma relativa di realizzazione, la dialettica dell’unità delle contraddizioni si trasforma costantemente nel corso dello sviluppo storico-sociale. Il fondamento di questa unità, che si ottiene e si riproduce continuamente nel mutamento, è il lavoro. Dice Marx: «L’oggetto del lavoro è (…) l’oggettivazione della vita generica dell’uomo».

Questa immanenza in tutto ciò che riguarda l’uomo, la stringente necessità oggettiva in tutto ciò che segue dalle leggi di movimento delle relazioni umane, sono state molto spesso equivocate come fatalismo e, perciò, come esclusione dell’etica dal sistema del marxismo. Le due cose sono connesse e sono facilmente confutabili. Anche chi conosce Marx solo superficialmente deve sapere che nella sua economia le leggi si trasformano continuamente in tendenze, che esse in casi decisivi delimitano solo uno spazio oggettivo all’interno del quale l’azione umana prende la decisione. Si pensi alla definizione della giornata lavorativa. Marx mostra le tendenze capitalistiche che spingono verso il massimo e quelle proletarie che aspirano al minimo, un’antinomia i cui due termini «vengono entrambi stabiliti allo stesso modo dalla legge dello scambio delle merci». È dunque la lotta fra capitalista complessivo e operaio complessivo che decide sulla giornata lavorativa.

Non si dica che qui si tratta solo di categorie «sociologiche»; una tale affermazione non tiene, infatti, in nessun conto l’essenza della cosa: che, secondo la concezione di Marx, il sociale non è altro che una determinazione precisa dell’uomo stesso, della sua relazione con gli altri uomini. Capitalista complessivo e operaio complessivo sono dunque qui solo sintesi sociale; in realtà, si tratta del fare e del tralasciare degli uomini, i quali, nella grandezza come nella miseria, fanno la propria storia, però «non in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinata dai fatti e dalla tradizione». Per quanto le leggi dell’economia, le mediazioni fra individuo e ente generico possano essere così molteplici e mediate, la struttura indicata sopra di uno spazio concreto – entro il cui ambito concreto vengono prese dall’uomo decisioni concrete – di un’antinomia concreta che lo induce a una scelta responsabile, continua a sussistere per la totalità della vita umana.

Non possiamo qui naturalmente nemmeno accennare a tutta la ricchezza delle determinazioni che così sorgono. Basti solo ricordare il fatto che Marx, per l’individuo, concepisce perfino l’appartenenza di classe, che l’idea fondamentale di Lenin, per quel che riguarda la concezione del partito e di altre organizzazioni sociali, negli aspetti decisivi, prende questa direzione. Se noi dunque concludiamo la nostra breve panoramica con l’accenno alla relazione del marxismo con l’utopia, lo facciamo prima di tutto per mettere in luce in maniera ancora più chiara di quanto sia stato fatto finora la sua essenza determinante per l’etica. Il rifiuto dell’utopismo ha qui due momenti importanti. Il primo contesta al marxismo la possibilità di una predeterminazione utopica di quelle concrete forme di società che sono chiamate a sciogliere le contraddizioni di una formazione sociale. Proprio perché qui, per la prima volta, sta al centro la conoscibilità scientifica delle leggi e della tendenza di sviluppo della vita sociale, viene sottolineato con forza il suo carattere di approssimazione, la sua riduzione ai principi della linea evolutiva. Lenin rifiutò, perché metodologicamente impossibile, l’ideale conoscitivo di Bucharin, di una sociologia capace di fare previsioni «astronomicamente esatte». In secondo luogo, questo rifiuto teoretico-conoscitivo dell’utopismo è collegato con i processi di pensiero che, attraverso la mediazione della concezione generale della storia, sfociano nei problemi dell’etica. L’utopia come forma pone uno stadio già pronto, i cui contenuti e le cui forme devono garantire la convivenza armonica degli uomini, la quale – in qualche modo sempre – agli uomini, in quanto singoli e in quanto genere umano totale, piove dal cielo. Al contrario, il marxismo sottolinea, anche per il futuro, che gli uomini fanno da sé la loro storia, che essi e il sistema di riferimento ai loro simili sono il risultato della loro propria attività, che tutti i contenuti e le forme del futuro si sono sviluppate e si svilupperanno dal concreto fieri dell’umanità, indipendentemente dal fatto che questo avvenga con falsa o giusta coscienza. La giusta coscienza del socialismo fondato da Marx è dunque, prima di tutto, quella della giusta strada: dello scopo nei suoi principi generali, dei rispettivi mezzi nella loro particolare, spesso mutevole specificità, dei passi successivi nella loro particolarità. Che da qui seguano differenziazioni specifiche della responsabilità lo si può vedere – crediamo – già da questo brevissimo schizzo. La teoria della conoscenza del marxismo, secondo cui la prassi fornisce il criterio della teoria, ha conseguenze profonde anche per l’etica (supera, in un certo senso, il dualismo di ragion «pura» e ragion «pratica»).

Non è questo il luogo per trattare dell’influsso del marxismo sul pensiero filosofico. Esso è molto più forte di quanto di solito si supponga ufficialmente; se, infatti, la polemica impone a una filosofia una determinata struttura nell’impostazione dei problemi, uno spettro di posizioni, uno svuotamento della concezione dell’uomo che non porta a nulla, allora è presente un influsso, proprio come nel caso di filiazioni che tendono a sminuirlo. Inoltre, determinate analogie sorgono anche dal fatto che il marxismo, come molte altre correnti, è una reazione alla crisi dell’umanità iniziatasi nella metà del XIX secolo. In tali casi, possono sorgere parallelismi metodologici nella domanda e nella risposta, anche nella totale contrapposizione delle direzioni. Quanto più acuta diventa questa crisi, quanto più chiaramente si delineano le divergenze, tanto più fortemente tali tendenze possono giungere a espressione.

4. Tralasciamo la storia dello sviluppo del marxismo con i suoi molteplici punti di svolta, per riuscire a concretizzare il problema che ci siamo posti partendo dalla situazione del presente, dalle decisioni di cui essa ci fa carico, dalla responsabilità che queste ultime comportano.

Considerato dal punto di vista della nostra questione, neanche il marxismo è lo stesso di un secolo fa. Proprio a partire da questa distanza, non è la stessa cosa se si tratta di un piccolo gruppo, spesso illegale, di un partito di massa nel capitalismo, di un partito dominante della lotta per il socialismo in un paese minacciato da un intervento armato, ecc. Il presente è certamente il risultato di tutta questa storia. Esso contiene però – crediamo – anche qualcosa di qualitativamente nuovo. Bisogna perciò prima di tutto domandarsi: l’attuale situazione dell’umanità contiene effettivamente momenti che si possono con ragione considerare realmente nuovi nella storia? Giacché, altrimenti, il problema dovrebbe essere riferito primariamente alla generalità della storia e solo determinate applicazioni contenutistiche designerebbero l’esigenza del giorno. Mentre, a nostro avviso, si tratta di molto di più: che il problema dell’oggi si fonda naturalmente sui risultati della storia, è accresciuto da questi.

In che cosa consiste il nuovo per un agire responsabile ai nostri giorni? Cominciamo con lo sviluppo della tecnica: durante le due guerre mondiali essa ha imposto una crescente totalizzazione della strategia di guerra. È superfluo parlare del suo ulteriore sviluppo dopo il 1945. È noto che, con l’entrata nell’epoca atomica, si è affermata sempre più a livello di massa la sensazione della decadenza della cultura umana. Non senza fondamento oggettivo. Certo, a livello politico è spesso al servizio di un dominio imperialistico del mondo, a livello ideologico si mescola altrettanto spesso con gli accenti fatalistici secondo cui la tecnicizzazione è già andata molto in là nel controllo dell’umanità e la «massificazione», altrettanto fatale, costituisce il tratto fondamentale della vita sociale della nostra epoca. Questa tendenza è stata ancora più rafforzata da un’altra caratteristica essenziale della guerra divenuta totale. Mentre ancora la prima guerra mondiale scoppiò cogliendo di sorpresa l’opinione pubblica, ora la guerra ha bisogno di un’ampia preparazione ideologica di tutte le masse. È allora un contrassegno importante del nostro tempo che la propaganda ideologica dell’annientamento fatale inevitabile si sia trasformata in una rivolta senza precedenti contro tale fatalità. Centinaia di milioni credono ormai fermamente che lo scoppio della guerra si possa evitare, che il raggiungimento di tale obiettivo dipenda dall’attività delle masse – e quindi degli individui che le compongono. E queste non sono cieche speranze, illusioni infondate. Si tratta piuttosto di un prodotto di importanti eventi storico-mondiali. Sarà sufficiente elencare semplicemente i più rilevanti: il superamento del socialismo in un solo paese, costantemente minacciato, e la formazione di Stati socialisti con una popolazione di 800 milioni di persone; la lotta di liberazione dei popoli coloniali che trasforma una riserva materiale e umana esclusiva dell’imperialismo aggressivo in una zona potenzialmente neutra. La volontà sempre più determinata e consapevole delle masse a conquistare la pace poteva crescere solo su questo terreno; il suo rafforzamento retroagisce, tuttavia, sul solidificarsi di tali condizioni.

Viene così disegnato – crediamo – lo spazio storico e delineato l’ambito reale per esprimere chiaramente il problema della specifica responsabilità sociale oggi. Il contenuto centrale ci è già divenuto chiaro: è la responsabilità della guerra o della pace. Ciò che prima era la responsabilità di una cerchia relativamente ristretta, ora è diventata una questione dell’umanità. Soprattutto nell’epoca moderna, le masse sono diventate sempre più semplici oggetti della guerra. A partire dal contromovimento, il pacifismo ha annunciato una pura etica dell’intenzione: il rifiuto individuale di ogni partecipazione ad esso ha l’accento di un modello, di un comportamento intenzionalmente imitativo. Poiché, tuttavia, la struttura ideologica scaturisce da azioni individuali – e passive – ed è esclusivamente da ciò spinta a scatenare una reazione a catena, e poiché il rifiuto generalmente astratto della guerra elimina ogni concretezza sociale, dall’etica dell’intenzione sorge necessariamente un utopismo. Il tipo di comportamento socialista rivoluzionario (trasformazione della guerra imperialistica in una guerra borghese) pone certamente il problema storico-sociale in termini affatto concreti; contiene la negazione della guerra concepita in termini determinati e concreti e carica l’individuo che agisce di una grande responsabilità: egli non deve fermarsi alla semplice negazione e alle conseguenze che ne derivano per il suo proprio destino, ma porta una responsabilità anche per il mezzo a cui ricorre nella sua mediazione e per il risultato degli atti compiuti. Già queste linee molto generali mostrano la complicata dialettica nell’agire sociale concreto. La responsabilità primaria decisiva è per la deliberazione stessa: nella decisione qui presa viene infatti negato un determinato fenomeno storico-sociale, la guerra imperialistica. La responsabilità della deliberazione contiene dunque già la responsabilità per la giustezza del giudizio che vi è sotteso. Inoltre, il no qui espresso non è più una negatività astratta come nel pacifismo; esso contiene in maniera inseparabile un controstrumento sociale, il dovere di suscitare un contropotere sociale di opposizione alla guerra. La responsabilità si allarga e si concretizza dunque anche qui a partire dal contenuto sociale del movimento di opposizione da porre in moto. Infine, poiché suscitare un agire sociale concreto di quanti più uomini possibile è lo scopo posto, i mezzi impiegati, il destino degli uomini che vi prendono parte sono allo stesso modo oggetto di responsabilità.

*Così nel testo. (N.d.T.)

Sulla responsabilità degli intellettuali

di György Lukács

[Von der Verantwortung der Intellektuellen (1948), Pubblicato in Schicksalswende cit.; Traduzione di Fausto Codino, in G.L., Marxismo e politica culturale, Einaudi, Torino 1968).


Durante la seconda guerra mondiale molti hanno sperato che distruggendo il regime hitleriano si sarebbe anche sradicata l’ideologia fascista. Ma quanto si è visto dalla fine della guerra in poi nella Germania occidentale indica che la reazione anglosassone ha addirittura salvato e favorito le basi economiche e politiche di una rinascita del fascismo hitleriano. Le conseguenze si sentono anche nel campo ideologico. Perciò l’ideologia dell’hitlerismo rappresenta ancora oggi un problema attuale e non meramente storico.
Se ripensiamo al sorgere del fascismo, vediamo quali gravi responsabilità portino gli intellettuali per la formazione dell’ideologia fascista. Qui, purtroppo, le eccezioni lodevoli sono pochissime.
Vorrei pregare i cosiddetti uomini pratici di non sottovalutare le questioni ideologiche. Faccio solo un esempio. Sappiamo benissimo come la politica hitleriana abbia portato con ferrea necessità agli orrori di Auschwitz e Maidanek. Ma non si deve neppure ignorare che uno dei fattori che permisero questi orrori fu la sistematica demolizione del principio dell’uguaglianza di tutti gli uomini. Sarebbe stato molto più difficile mettere in atto la bestialità organizzata del fascismo contro milioni di persone se Hitler non fosse riuscito a far radicare nelle più larghe masse tedesche la convinzione che chi non era «di razza pura» non era «propriamente» un uomo.
Questo è solo un esempio fra tanti. Deve soltanto dimostrare che un’ideologia reazionaria innocente non può esistere. La generazione più anziana ricorderà molto bene certe critiche «elette», accademiche, saggistiche, della «volgare» credenza nell’uguaglianza degli uomini; e critiche analoghe del progresso, della ragione, della democrazia ecc. La maggioranza degli intellettuali ha preso parte, in modo attivo o recettivo, a questo movimento. In un primo tempo si pubblicavano su questi temi soltanto libri esoterici, saggi ingegnosi, ma poi da essi si ricavarono articoli di giornale, opuscoli, conversazioni radiofoniche che già si rivolgevano a un pubblico di decine di migliaia di persone. Infine Hitler riprese da questi discorsi da salotto e da caffè, da queste lezioni universitarie e saggi, tutto il contenuto reazionario che poteva servire alla sua demagogia di piazza. In Hitler non si trova una parola che non fosse stata già detta «ad alto livello» da Nietzsche o da Bergson, da Spengler o da Ortega y Gasset. La cosiddetta opposizione individuale è irrilevante dal punto di vista storico. Che significa una debole mezza protesta di Spengler o di George contro un incendio mondiale che si è contribuito a far divampare con la propria sigaretta?
È dunque una necessità assoluta, e un grande compito per gl’intellettuali progressisti, smascherare tutta questa ideologia anche nei suoi rappresentanti più «eletti»: mostrare come da queste premesse è scaturita per necessità storica l’ideologia fascista, mostrare che una linea retta porta da Nietzsche, attraverso Simmel, Spengler, Heidegger ecc. fino a Hitler; e che d’altra parte uomini come Bergson e Pareto, i pragmatisti e i semantici, Berdjaev e Ortega hanno creato un’atmosfera da cui la fascistizzazione dell’ideologia poté trarre ricco alimento. Non è merito loro se finora il fascismo non è nato in Francia, in Inghilterra o negli Stati Uniti.
Dobbiamo dunque mettere in luce – anche ideologicamente – la funzione dominante che la Germania ha avuto finora nello sviluppo dell’ideologia reazionaria, ma la lotta decisiva contro l’ideologia imperialistica tedesca non deve mai servire a giustificare gl’irrazionalisti, i nemici del progresso, gli aristocratici dell’ideologia di altri paesi.
Oggi però sarebbe sbagliato e pericoloso limitarsi a questa lotta. Saremmo di vedute corte se credessimo che la nuova reazione che ora si sviluppa segua nel campo ideologico assolutamente la stessa strada della vecchia reazione, che operi precisamente con gli stessi mezzi culturali.
Naturalmente nel nostro periodo, nel periodo dell’imperialismo, la sostanza generale di ogni reazione è la stessa: le pretese egemoniche del capitale monopolistico, il conseguente continuo pericolo di dittature fasciste e di guerre mondiali; naturalmente dittature e guerre opprimeranno e distruggeranno con brutalità almeno uguale che sotto Hitler.
Ma da ciò non deriva affatto che il nuovo fascismo cercherà d’imporsi, in particolare nel campo ideologico, con metodi esattamente copiati da quelli di Hitler. Anzi, la situazione odierna presenta già aspetti ideologici pressoché opposti. L’aggressione di ieri venne da imperialismi che si consideravano sacrificati nella ripartizione del mondo. Oggi l’aggressione è minacciata da un potente imperialismo che vuole completare la sua mezza dominazione mondiale. Esso ha al suo seguito imperialismi che sentono vacillanti e minacciati i loro imperi, che appoggiano gli Usa nella speranza – oggettivamente vana – di poter conservare, ampliare e consolidare i loro possedimenti.
D’altra parte gli aspetti generali dell’imperialismo restano immutati: anche oggi le sue mire sono in contrasto con gl’interessi delle sue stesse masse e con gl’interessi dei popoli che difendono la loro libertà. E questo contrasto, la necessità, che si pone per gl’imperialisti aggressivi, di opprimere i popoli all’interno e all’estero, e in pari tempo di mobilitare demagogicamente le proprie masse popolari per la nuova ripartizione del mondo, per la nuova guerra mondiale, dimostra che la politica interna ed estera fascista, i cui contorni oggi appaiono già chiari, deve seguire un corso obbligato.
Con tutta probabilità questa nuova fase di sviluppo dell’imperialismo non si chiamerà fascismo. E dietro la nuova nomenclatura si cela un nuovo problema ideologico: l’imperialismo «affamato» dei tedeschi generava un cinismo nichilistico che rompeva apertamente con tutte le tradizioni dell’umanità. Le tendenze fasciste che oggi crescono negli Usa lavorano col metodo di un’ipocrisia nichilistica: distruggono l’autodeterminazione interna ed esterna dei popoli in nome della democrazia; esercitano l’oppressione e lo sfruttamento delle masse in nome dell’umanità e della civiltà.
Un altro esempio. Per Hitler fu necessario costruire una propria teoria razziale, sulle basi gettate da Gobineau e Chamberlain, per mobilitare demagogicamente le masse nella liquidazione della democrazia e del progresso, dell’umanesimo e della civiltà. Gl’imperialisti degli Usa hanno il compito più facile: basta che rendano universale e sistematica la vecchia prassi da loro seguita nei confronti dei negri. E siccome finora questa prassi si è potuta «conciliare» con l’ideologia che fa degli Usa i paladini della democrazia e dell’umanesimo, non si vede perché qui non debba sorgere una simile ideologia del nichilismo ipocrita che possa riuscire a dominare con mezzi demagogici. Che questa universalizzazione e sistemazione compia rapidi progressi, può vederlo chiunque segue le sorti dei migliori intellettuali progressisti degli Usa, come Gerhart Eisler o Howard Fast. Come questi metodi stiano diventando generali da molto tempo, lo ha dimostrato da lunga data uno scrittore moderato come Sinclair Lewis in Elmer Gantry.
Qui naturalmente abbiamo di fronte soltanto la forma astrattamente pura del nuovo fascismo. Il suo sviluppo reale segue talvolta vie più complicate, specialmente in Francia e in Inghilterra, dove la situazione interna della reazione imperialistica è molto più difficile. Ma, per tornare ai problemi ideologici, si consideri soltanto l’esistenzialismo e si vedrà facilmente che il tentativo di mettere in armonia il nichilismo aperto dell’Heidegger prefascista con i problemi di oggi fa piegare il cinismo verso l’ipocrisia.
Oppure si prenda il Toynbee. Il suo libro rappresenta il più grande successo della filosofia della storia dopo Spengler. Toynbee studia la crescita e il declino di tutte le civiltà e arriva a concludere che né il dominio delle forze naturali né quello delle circostanze sociali sono in grado d’influenzare questo processo; egli vuole altresì dimostrare che tutti i tentativi d’influenzare il corso dello sviluppo con l’uso della violenza – cioè tutte le rivoluzioni sarebbero condannati a priori al fallimento. Ventuno civiltà sono già scomparse. Una sola, quella europea occidentale, è cresciuta fino ad oggi perché al suo inizio Gesù ha trovato questa nuova via non violenta del rinnovamento. E oggi? Toynbee riassume i suoi sei volumi finora pubblicati col dire che Dio – poiché la sua natura è costante come quella degli uomini – non ci rifiuterà una nuova salvezza purché noi lo preghiamo con sufficiente umiltà.
Il meglio che a mio giudizio il più fanatico fautore della guerra atomica negli Usa possa augurarsi è che gl’intellettuali progressisti si limitino a chiedere questa grazia, mentre lui può organizzare indisturbato la guerra atomica.
Senza dubbio questa tendenza fatalistica e passiva di Toynbee indica che ci troviamo appena nella fase iniziale dello sviluppo ideologico del nuovo fascismo. (Si pensi al fatalismo di Spengler in contrapposto all’attivismo nichilistico e cinico di Hitler). Ma ciò rende maggiori, non minori, i compiti e le responsabilità degli intellettuali: è ancora tempo di dare una svolta allo sviluppo ideologico dei principali popoli civili o almeno di tentare di arrestare il corso reazionario ora avviato.
Ma per riuscirvi occorre soprattutto chiarezza nel campo ideologico. Che significa qui chiarezza? Non che si esprimano i pensieri in forma chiara, stilisticamente perfetta (questa dote è largamente presente negli intellettuali), ma che si sappia con chiarezza questo: dove stiamo, dove porta lo sviluppo, che cosa possiamo fare per influenzare il suo corso?
Sotto questo aspetto gl’intellettuali del periodo imperialistico si trovano in una posizione molto sfavorevole. Poiché essi non possono mai, oggettivamente, trovarsi ugualmente a loro agio in tutti i settori della scienza, ogni epoca porta al centro degli interessi determinate scienze, determinati rami del sapere, determinati autori considerati classici. Così nel XVIII secolo la fisica newtoniana ebbe una grande funzione progressiva nella liberazione degli intellettuali francesi dagli antichi pregiudizi teologici e dall’ideologia monarchico-assolutistica che quei pregiudizi mediavano; nella Francia di allora essa stimolava la preparazione ideologica della grande rivoluzione.
Oggi sarebbe necessario e urgente che questo posto nella vita intellettuale fosse occupato dall’economia politica, dall’economia intesa in senso marxiano come scienza delle «forme d’esistenza, delle determinazioni d’esistenza» primarie degli uomini; come scienza delle relazioni reali tra gli uomini, delle leggi e delle tendenze di sviluppo di queste relazioni. Ma nella realtà troviamo proprio tendenze opposte. La filosofia, la psicologia, la storiografia ecc. del periodo imperialistico cercano tutte di deprezzare le conoscenze economiche, di diffamarle dichiarandole «superficiali», «inessenziali», indegne di una visione del mondo più «profonda».
Qual è la conseguenza? Gli intellettuali, non riuscendo a scorgere le basi oggettive della loro stessa esistenza sociale, diventano sempre più vittime della feticizzazione dei problemi sociali e, attraverso questa, vittime indifese dì qualsiasi demagogia sociale.
Sarebbe facile citare esempi. Ne ricordo solo alcuni fra i più essenziali. In primo luogo la feticizzazione della democrazia. Cioè, non ci si chiede mai: democrazia per chi e con esclusione di chi? Non ci si chiede mai quale sia il vero contenuto sociale di una democrazia concreta, e non ponendosi queste domande si offre uno dei più solidi appoggi al neofascismo che ora si prepara. C’è poi la feticizzazione del desiderio di pace dei popoli, espressa per lo più in forma di pacifismo astratto, nel quale il desiderio di pace non solo è degradato al livello della passività, ma diventa addirittura la parola d’ordine dell’amnistia per i criminali di guerra fascisti e facilita quindi la preparazione di una nuova guerra. C’è ancora una feticizzazione della nazione. Dietro questa facciata scompaiono le differenze fra i legittimi interessi vitali nazionali di un popolo e le tendenze aggressive dello sciovinismo imperialista. Ci si può ben ricordare come questa feticizzazione avesse i suoi effetti immediati nella demagogia nazionale di Hitler. Anche oggi essa è operante nella sua forma diretta, ma questa feticizzazione è anche sfruttata in un modo indiretto e non meno pericoloso, specialmente negli Usa: è l’ideologia di un cosiddetto sopranazionalismo, di un governo mondiale sopranazionale. Come la forma diretta hitleriana mirava a una pax germanica per il mondo, così la forma indiretta tende a una pax americana. Entrambe le forme, se fossero attuate, comporterebbero la distruzione di ogni autodeterminazione nazionale, di ogni progresso sociale.
C’è infine la feticizzazione della cultura. A partire da Gobineau, Nietzsche e Spengler è venuto di gran moda negare l’unitarietà della cultura del genere umano. Quando, dopo la liberazione dal nazismo, partecipai per la prima volta a un convegno internazionale, alle Rencontres internationales di Ginevra del 1946, in quell’occasione Denis de Rougemont e altri parlarono della difesa della cultura europea sostenendo idee fondate su una netta separazione fra la cultura europea occidentale e quella russa. Difendere la cultura europea occidentale significava dunque respingere quella russa (come pensa anche Toynbee). Che oggettivamente questa teoria è affatto priva di valore, che l’attuale cultura europea occidentale è profondamente impregnata d’influssi ideologici russi, e per lo più proprio nelle sue creazioni più alte, lo rivela l’occhiata più superficiale alla situazione odierna della cultura. Senza Lev Tolstoj come ci si potrebbe immaginare, per fare pochi nomi, la letteratura da Shaw a Roger Martin du Gard, da Romain Rolland a Thomas Mann? Queste teorie sfruttano demagogicamente la circostanza che a un contatto immediato, alla prima impressione, la cultura russa (e a maggior ragione quella sovietica) appare estranea agli intellettuali dell’Europa occidentale. Ma ogni conoscitore della letteratura deve confermare che in Francia è stato molto più difficile accogliere Shakespeare che Tolstoj. Eppure il signor de Rougemont e i suoi amici non erigono una muraglia cinese fra la cultura della Francia e quella dell’Inghilterra.
Ma è anche più importante vedere con chiarezza il significato sociale di quelle teorie. Lo sviluppo culturale russo – culminante nella cultura sovietica – incarna oggi il futuro derivante dalla nostra cultura, come fece la cultura inglese del XVIII secolo per la Francia e l’anno 1793 per tutti i progressisti europei. La feticizzazione della cultura serve qui a mascherare la protesta di ciò che è in declino contro ciò che anticipa il futuro, e precisamente nella propria cultura. I Rougemont e i Toynbee, con le loro teorie, vogliono stendere un cordon sanitaire intorno alla Russia, intorno all’Unione Sovietica, e rendono in tal modo – deliberatamente o no, non importa – un servigio alla preparazione ideologica della guerra.
Sembra che io mi sia allontanato dall’argomento dell’economia. In realtà ho parlato sempre ed esclusivamente di economia. Che vuol dire infatti feticizzazione? Vuol dire che qualche fenomeno storico è avulso dal suo reale terreno sociale e storico, che il suo concetto astratto (e di solito soltanto qualche elemento di questo concetto astratto) è trasformato in feticcio, acquista un’esistenza presunta autonoma, diventa un’entità a sé. La grande conquista della vera economia sta appunto nel dissolvere questa feticizzazione, nel mostrare in concreto che cosa significhi questo o quel fenomeno storico nel processo complessivo dello sviluppo, quale sia il suo passato e quale il suo futuro.
La borghesia reazionaria sa quindi benissimo perché cerca di diffamare la vera economia per mezzo dei suoi ideologi, così come la reazione ecclesiastica del XVI-XVIII secolo sapeva bene perché si batteva contro la nuova fisica. Oggi un interesse vitale della borghesia imperialistica è di distruggere la capacità di orientamento storico-sociale degli intellettuali. Se oggi numerosi intellettuali non possono essere già trasformati in assoluti sostenitori della reazione imperialistica, devono almeno errare impotenti, senza capacità di orientamento, in un mondo incompreso.
Confessiamolo con vergogna: questa manovra della borghesia reazionaria è riuscita in gran parte; essa ha sviato un buon numero dei migliori intellettuali. Moltissimi buoni rappresentanti della cultura odierna – collaboratori inconsapevoli di questo intento della reazione imperialistica – hanno addirittura creato una filosofia tendente a dimostrare che sarebbe filosoficamente impossibile possedere un orientamento sociale. Questa linea va dall’agnosticismo sociale di Max Weber all’esistenzialismo.
Ma non è questa una condizione indegna degli intellettuali? Forse essi hanno acquistato le loro capacità, il loro sapere, la loro cultura spirituale e morale solo perché in una svolta storica, quando si decide del destino del genere umano, quando la libertà e l’oppressione barbarica si gettano nella battaglia decisiva, essi debbano chiedere come Pilato: che cosa è la verità? E non è indegno di loro il presentare come una particolare profondità filosofica questo non sapere, questo non voler sapere?
Noi abbiamo acquistato il nostro sapere, abbiamo sviluppato la nostra cultura spirituale per capire il mondo meglio di quanto lo capisca l’uomo medio. Ma nella realtà assistiamo al contrario. Arnold Zweig descrive molto bene un intellettuale onesto che per anni si lascia prendere dalla demagogia dell’imperialismo tedesco per dover confessare alla fine che semplici lavoratori avevano capito esattamente e chiaramente la situazione già anni prima.
Molti intellettuali sentono già oggi da chi siano realmente minacciate la libertà e la cultura. Molti si rivolgono, anche con un forte pathos morale, contro l’imperialismo, contro la preparazione della guerra. Ma la nostra dignità di rappresentanti della cultura esige proprio che di questo sentimento noi facciamo un sapere. E a questo si può arrivare solo mediante la scienza dell’economia politica, mediante l’economia del marxismo.
Gli intellettuali sono al bivio. Dobbiamo preparare una svolta storica verso il progresso e combattere per essa in prima linea, come gli intellettuali francesi del XVIII secolo e quelli russi del XIX, o dobbiamo essere vittime impotenti, collaboratori abulici di una reazione barbarica, come gli intellettuali tedeschi della prima mela del XX secolo? Non si può esitare a decidere quale atteggiamento sia degno, e quale indegno, dell’essenza, del sapere, della cultura dell’intellettuale.

Esitenzialismo o marxismo?

icoQuesta traduzione italiana riproduce l’edizione del 1947 di Existentialisme ou Marxisme?, titolo con cui apparve per la prima volta in assoluto quest’opera di Lukács. La traduzione è apparsa solo nel 1995 grazie all’editore Acquaviva. Rispetto all’edizione francese del 1961, essa non riporta la nota dell’autore per la seconda edizione.
Grazie a Marco Riformetti e Antiper.org.

Tra possibilità e costrizione. L’Aesthetik di Lukács

di Edward W. Said

«Times Literary Supplement», 6 febbraio 1976.

da Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, Feltrinelli, Milano 2008.

The Aesthetics of György Lukács di Béla Királyfalvi è un lodevole tentativo di fare i conti con l’ultimo importante sforzo teorico del filosofo ungherese, la sistematica filosofia dell’arte elaborata nei due volumi di Die Eigenart des Aesthetischen, pubblicati nel 1963. Nonostante il respiro quasi goethiano (perché, alla fine della vita, Lukács inizia a pensare in termini di benessere, normalità e sviluppo virtuoso – ed è questa una delle ragioni per cui oggi appare tanto inattuale), l’Aesthetik lukácsiana è rimasta piuttosto in ombra in Occidente. Királyfalvi si concentra in particolare sulla versione ungherese dei lavori di ispirazione marxista di Lukács (senza però spiegarci quanto e se differiscano dalla loro versione tedesca, motivo per cui la scelta risulta alla fine arbitraria e ingiustificata) e ci restituisce un’interpretazione attenta e circostanziata, coprendo esaurientemente tutti i principali nodi teorici dell’Aesthetik.
E tuttavia, perlomeno due elementi centrali finiscono per smarrirsi. Il primo consiste nel fatto che Lukács procede tanto per un’esemplificazione e un’analisi concrete quanto per generalizzazioni filosofiche, laddove il quadro delineato da Királyfalvi è quasi del tutto epurato delle suggestive incursioni su lavori specifici tipiche della scrittura di Lukács. Un’ulteriore lacuna è determinata poi dalla decisione discutibile ma non del tutto infondata di limitare l’analisi del lavoro di Lukács esclusivamente alla produzione marxista. Perché Lukács non è interessante solo come marxista, ma anche per il tipo di marxismo che rielabora, che si rivela tanto eccentrico quanto, se solo si pensa alla sua fase premarxista, eclettico e inclusivo. Rispetto a questa dimensione del lavoro di Lukács, Királyfalvi si rivela piuttosto insensibile.
Tuttavia, anche solo per il fatto di essere la prima monografia in lingua inglese dedicata a una filosofia estetica contemporanea di stampo esplicitamente marxista, il libro di Királyfalvi esaurisce una prima importante fase del lavoro analitico sul filosofo ungherese. Adesso, infatti, abbiamo bisogno di saperne di più su tutto ciò che nella cultura filosofica e letteraria tedesca di fine Ottocento prelude al lavoro di Lukács, come pure sul rapporto, cui accenna Királyfalvi, che lo lega a determinati artisti ungheresi, e soprattutto dobbiamo studiare temi, motivi e immagini che ricorrono come un leitmotiv lungo i quasi sei decenni in cui si è sviluppato il suo lavoro. Perché anche i fraintendimenti e le cattive interpretazioni che costellano il lavoro di Lukács sono interessanti e fanno integralmente parte, non solo del marxismo, ma più in generale della cultura occidentale. E nondimeno, come presenza centrale in questo contesto, Lukács offre ai suoi lettori una massa di scrittura a dir poco problematica.
Si tratta di un corpus teorico sul quale ci si è accaniti fino all’inverosimile per quanto concerne malafede politica, viltà morale, compromissioni con lo stalinismo, autoaccuse e così via. Gli strali che George Lichtheim rivolge a Lukács, per esempio, non hanno comunque impedito che a sprazzi potesse svilupparsi un’analisi più argomentata sulla sostanza dell’intera opera filosofica e critica lukácsiana; ma anche in questo caso l’impressione è che a contare maggiormente non sia il lavoro di Lukács quanto il fatto di disapprovare o meno, più che l’impegno e le idee politiche, lo stile morale e politico dell’uomo. La sensazione che se ne ricava è che Lukács sopravviva riprovevolmente a ogni difficoltà, ed è sintomo più che altro del fatto che un comunista venga giudicato su standard morali che non si applicano mai per l’universo capitalista. Nessuno però ha spinto la disapprovazione nei confronti di Lukács su livelli di terrorismo intellettuale paragonabili a quelli raggiunti dalla lettura rancorosa di G. Zitta, il cui Georg Lukács Marxism, del 1964, individua nell’ortodossa dialettica marxista di Lukács la causa di ogni male possibile. Più di recente, in particolare grazie all’eccellente raccolta di saggi di G.H.R. Parkinson, Georg Lukács: The Man, His Work, and His Ideas del 1970, una lettura intellettualmente seria del lavoro del filosofo ungherese ha iniziato a emergere, impedendo che il comportamento politico sui generis di Lukács, e in particolare il sostegno allo stalinismo che diviene poi capacità di sopravvivergli, finisse per oscurare del tutto l’entità del suo lavoro intellettuale. Molti, se non addirittura tutti i principali lavori di Lukács sono stati tradotti in inglese, permettendo al lettore angloamericano di saperne di più sulla portata e il valore del suo pensiero che non sui giudizi di parte da lui espressi su Balzac e il realismo. Eppure, dalla sua scomparsa, nel 1971, la reputazione e l’influenza di Lukács hanno tristemente, e in un certo senso ironicamente, perduto ogni tipo di presa e di appeal sul discorso critico. Ma come è possibile che un intellettuale militante, precursore e inventore di concetti centrali come quelli di prototipo e avanguardia, non abbia quasi lasciato traccia di sé all’interno di un ambiente culturale, quello del pensiero critico, le cui parole d’ordine restano ancorate a un avanguardismo profetico e a uno stile intellettuale di radicale opposizione? Quel che resta del pensiero di Lukács appare decisamente démodé: in circoli intellettuali in cui si discute solo di formalismo, strutturalismo e decostruzione, il suo approccio pesantemente pedagogico, l’ostinazione apparentemente cieca che gli fa preferire addirittura Heinrich Mann a Kafka, le ripetizioni, le frequenti inesattezze e una pedanteria di stampo ottocentesco restituiscono l’impressione di un pensiero decisamente fuori luogo. Solo George Steiner sembra aver compreso e tematizzato la dimensione drammatica del lavoro di Lukács, senza però poter presagire in tutta la sua profondità il senso della confessione che Lukács stesso avrebbe rilasciato nel 1967 a Hans Heinz Holz a proposito di Ettore, “l’uomo che viene sconfitto, e sta nel giusto ed è il vero eroe”, risultando pertanto figura “decisiva per tutto lo sviluppo ultimo del mio lavoro”.

In ambito letterario Lukács guarda quasi esclusivamente all’Ottocento. La sua è davvero la cultura di Ettore, e in quanto tale si oppone a quella appassionante, intensa e vittoriosamente fugace di Achille. Nietzsche e Schopenhauer gli appaiono riprovevoli irrazionalisti, esempi di una modernità tristemente reazionaria. Immergersi nelle migliaia di pagine che Lukács ci ha lasciato permette di rendersi conto di come per lui, a contare davvero, non fossero gli scrittori eccentrici ma i grandi scrittori: Shakespeare, Goethe, Marx, Hegel, Balzac, Tolstoj e la cultura che li ha prodotti. L’impressione è che fosse incapace di appassionarsi ad autori come Rousseau o Artaud, il cui principale intento era di fare a pezzi i valori letterari, perché la sua era una cultura segnata da leggi complesse ma assertive, certificabili e uniformemente trasmissibili. Dopo la prima guerra mondiale è praticamente impossibile imbattersi in un testo di Lukács in cui si parli del significato della lettura o dell’esperienza di un dato autore, e tantomeno in considerazioni su ciò che impressiona o disorienta in un determinato romanzo. Eppure il suo percorso critico e filosofico esplora pressoché la totalità del campo semantico su cui si misura oggi il discorso critico: rappresentazione, riflessione, reificazione, ricezione, unità epistemica, dinamismo nell’arte, sistemi di segni, la relazione tra teoria e pratica, i problemi del “soggetto” o, come suggerisce sin dal titolo uno dei suoi primi articoli, rimasto poi intradotto, “La relazione soggetto-oggetto in estetica”. Come per Kenneth Burke, anche la critica lukácsiana copre questi nodi centrali senza però dar mai l’impressione di poter servire ad altri critici: entrambi ci restituiscono un lavoro tanto indefesso quanto eccessivamente esplicito, in un certo senso troppo definito per consentire di ricavarne idee e suggestioni da tradurre nella vulgata corrente. E questo tipo di lavori finisce per rappresentare valori ritenuti immodificabili e pietrificati: nel caso di Burke quelli ispirati a un eccentrico, genuino e favoloso eclettismo, per Lukács invece un testardo e indomito marxismo.
Perché è innegabile, Lukács è stato un “mastino” del marxismo. Dopo la sua “conversione”, nei primi anni venti, nessuna questione politica, culturale o letteraria gli apparve tanto sottile o recondita da impedirgli di ricavarne una lezione marxista. E questo a volte può restituire l’impressione di un impoverimento, una banalizzazione; di norma però avviene il contrario. Il saggio su Hölderlin contenuto in Goethe und seine Zeit, per esempio, sorprende per la portata della sua empatia umana e la sua comprensione politica. Riscattando Hölderlin da George, Gundolf, Dilthey e il nazionalsocialismo, Lukács ricollega il “tardo giacobinismo” del poeta alla tradizione di Hegel e della Rivoluzione francese. E così, anziché precursore di un misticismo irrazionale, Hölderlin viene individuato come quell’unico poeta privo di successori che Lukács riteneva fosse. Qui, come in molte altre circostanze, il criterio di gusto di Lukács sembra ostaggio di ciò che molti commentatori ingenerosi definirebbero senza dubbio come parzialità, nella misura in cui il marxismo verrebbe abilmente manipolato per permettere di rintracciare affinità di temperamento con questo o quell’autore. Può darsi. Ma perché si pensa sempre che il marxismo sia così rigidamente ottuso, o che funzioni solo (e per Lukács semmai è vero il contrario) come un crudo imprimatur su determinati aspetti della cultura?
Oggi sembra più corretto e logico affermare che il marxismo per Lukács non ha mai rappresentato una semplice silloge di verità prestabilite, né un metodo di analisi, ma una sorta di necessità, in primo luogo per correggere e quindi per trasformare e guidare il proprio rapporto col mondo. Di certo nulla può risultare più sorprendente e volubile dell’ardore (Sehnsucht) e dell’indefinita ironia che pervadono i lavori precedenti la sua conversione al marxismo. In questo atteggiamento di fondo, la presenza di Kant e Kierkegaard, che influenza le analisi potenti ma in fin dei conti retrospettive sulla lirica, il dramma, il saggio e il romanzo, viene comunque temperata dalla padronanza del Socrate platonico, un investigatore idealista e appassionato le cui tendenze romantiche sono tenute sotto controllo dalle discontinuità della vita e dal particolare stile di scrittura (il saggio), come del resto dal carattere farsesco e perlopiù ironico dei suoi esempi. Eppure, l’idea di Socrate come antidoto all’emozione incontrollata viene implicitamente rafforzata in Lukács dalla scoperta di un tempo futuro e potenziale, anche quando dà l’impressione di impantanarsi nei dilemmi morali senza sbocco del primo Novecento.
Verso la fine del primo saggio di Die Seele und die Formen, Lukács parla per la prima volta di un grande evento estetico destinato a rendere la scrittura saggistica e il suo autore del tutto impotenti per quanto riguarda chiarezza, autonomia e capacità di visione. E tuttavia, il saggio, come forma di scrittura, “sembra giustificare la propria esistenza in quanto strumento necessario al fine ultimo, come penultimo passaggio di questa gerarchia”. Troviamo qui le tre dimensioni del tempo di cui Lukács, ancor più di Georges Poulet e ben prima di Heidegger, è stato il filosofo e poeta, colui che ha saputo coglierne tecnicamente il pathos intrinseco: un impossibile desiderio di unità nel passato, un’insanabile frattura tra ideale e realtà nel presente, e un futuro destinato a imporsi e distruggere tutto. Perdita, alienazione e annullamento. Dopo il 1918 per Lukács il marxismo in realtà non rappresenta tanto la capacità di trasformare questa tripartizione temporale, quanto piuttosto la possibilità di ricavare una disciplina (la dialettica) e un luogo (il saggio) in base e attraverso i quali poter osservare, guidare e chiarire queste tre dimensioni del tempo storico: di oggettivarle anziché esserne soggetto, ma solo nella scrittura. Che parli del proletariato o del romanzo, Lukács in realtà sta sempre confrontandosi con la coincidenza di un momento particolare di queste tre fasi con la forma altrettanto particolare, statica o dinamica, della sua comprensione nella coscienza. Lessing e Marx gli insegnano a disincagliare queste coincidenze dall’apparente disordine degli eventi.
Si considerino per esempio le principali questioni, gli stili e le espressioni con cui si misura Lukács. Molti di questi hanno a che fare meno con la storia in quanto tale che non con ciò che rispetto alla storia risulta marginale o eccentrico, o con attribuzioni di senso e di possibilità nella storia. Da qui le idee di reificazione, coscienza di classe del proletariato, alienazione e totalità. Nel suo lavoro di metà anni venti, Lukács è stato attratto anche dalla separazione tra mondo vegetale (o naturale) e vita umana. Il marxismo quindi non ha che drammatizzato e specificato i riflessi del tempo e della storia nella coscienza umana. La scrittura marxista di Lukács intercetta la qualità, sempre insufficiente da un punto di vista esistenziale, del tempo storico – il suo carattere intermedio e sospeso, la sua corrosiva ironia, i suoi aspetti profetici e anticipatori – per fissarla in categorie identificabili. E nondimeno, quando Lukács affronta la realtà, e soprattutto momenti agognati della realtà come l’unità tra soggetto e oggetto, l’impressione è che le sia a un passo, che davvero la sfiori, riflettendo sui suoi riflessi. E sembra volerci dire che il marxismo tutt’al più è stato in grado di guidare uno scambio tra l’intelletto individuale o collettivo e la realtà bruta: non ha abbattuto barriere e confini, semmai li ha dissolti formalizzandoli incessantemente, proprio come la coscienza proletaria che (paradossalmente) esiste davvero solo quando una dimensione atomizzata e del tutto disumanizzata ha dissolto e spazzato via ogni forma di solidarietà umana. Solo una dialettica marxista di stampo pesantemente hegeliano poteva interrompere una simile rarefazione e negazione; solo un linguaggio in grado di significare ed essere quella dimensione per cui il tempo diviene una forma di assenza poteva in qualche modo tradurre quest’impasse. “La storia non è che la storia dell’incessante rovesciamento delle forme oggettive che modellano la vita dell’uomo.”
La combinazione di dogmatismo ed evasione, costante nel pensiero di Lukács, è in parte esito di tutto ciò. Il suo impegno politico non ha mai avuto lo stesso significato di quello, per esempio, che caratterizza Gramsci fino al 1930 – e Gramsci era l’unico altro grande teorico marxista non russo ad avere la statura intellettuale e il potere di Lukács. Ma se Gramsci, nonostante il successivo isolamento e i dissidi con il Comintern, aveva alle spalle una cultura italiana, il Partito comunista italiano e “L’Ordine Nuovo”, Lukács era invece, in modo quasi intermittente, continuamente dentro e fuori dall’Ungheria e dall’ungherese, dal tedesco e dalla Germania, dall’Unione sovietica e da numerose riviste, istituti e università dell’Europa orientale e occidentale. Entrambi, dunque, sono stati senza dubbio membri di una cultura antagonista, ma, a differenza di Gramsci, non è mai stato facile identificare Lukács con una situazione oggettiva e data o un movimento specifico all’interno di quella cultura, né prevedere, parlando figuratamente, la sua mossa successiva.
Il modo di procedere tipico di Lukács lo si potrebbe definire parahegeliano, dal momento che, più che tra antitesi e sintesi, si muove allontanandosi dall’immediato verso una “totalità” proiettata nel futuro. Si consideri per esempio questo passaggio di Storia e coscienza di classe:

Se si tenta di attribuire alla coscienza di classe una forma immediata di esistenza, si cade inevitabilmente nella mitologia: e come demiurgo del movimento si presenta allora un’enigmatica coscienza generica (tanto enigmatica quanto lo è lo “spirito del popolo” di Hegel), che si riferisce alla coscienza del singolo e agisce su di essa in un modo del tutto incomprensibile, che viene reso ancora più incomprensibile dal ricorso a una psicologia meccanico-naturalistica. D’altro lato, la coscienza di classe che nasce e si sviluppa con la coscienza della situazione e degli interessi comuni, presa in astratto, non è nulla di specifico per il proletariato. La peculiarità della sua situazione poggia sul fatto che l’oltrepassamento dell’immediatezza ha un’intenzione diretta alla totalità della società – ed è indifferente che questa intenzione sia già psicologicamente cosciente oppure resti in un primo tempo inconscia.

La logica qui è hegeliana, per la dinamica storica cui inerisce, ma è più radicale e politica di quella di Hegel sia nella sostanza che nel modo in cui aspira al futuro, e ben più radicale e sorprendente di ogni altra (fatta eccezione per l’odiato Nietzsche) per la sua fede nella totalità. Tutto ciò, afferma Lukács, sarebbe avvenuto grazie al “processo dialettico per cui ogni realtà immediata viene costantemente annullata o trascesa”.
All’assoluto intellettualismo di questo stile di scrittura (basti pensare alla cura con cui Lukács evita ogni tipo di potere o l’assunzione di potere) corrisponde una certa quale inafferrabilità. Con ciò intendo semplicemente dire che il nucleo duro dell’idea di coscienza di classe non può essere né provato né negato: non indica tanto una legge, quanto piuttosto un’aspirazione ontologica verso l’annullamento e la trascendenza come movimenti della vita. Non allude a chiari segni di miglioramento per le sorti di un derelitto proletariato, e possiede inoltre scarsa forza affettiva. Piuttosto, come l’Aschenbach di Mann, Lukács sembra pensare alla tensione (un pugno chiuso) alleviata da un altro movimento (un pugno aperto), se non fosse che l’annullamento e la trascendenza sono per lui termini dialettici in grado di esprimere quella tensione totale e quella aspirazione totale che fanno parte del suo universo. Qui, ancora una volta, interviene il marxismo, e tiene sotto controllo Lukács impedendo che questi totali opposti si disperdano e degenerino. La coscienza di classe, qualcosa che non si possiede mai definitivamente ma si cerca sempre di raggiungere, è quella disciplina sociale discreta di cui la storia non è che l’illustrazione cosmica.
Invecchiando, Lukács ha aggiunto un ulteriore impulso regolativo al suo lavoro: la tecnica della revisione e del ripudio, associata all’abitudine di ripubblicare quanto stava ripudiando. Tutto ciò rientra senza dubbio in quella costante attività di revisione critica del proprio lavoro che è lecito aspettarsi da un autore straordinariamente riflessivo come lui. A quanto ne so non esistono studi sistematici sulle ricusazioni e i ripudi di Lukács. Io stesso non sono mai riuscito a capire la prefazione del 1967 a Storia e coscienza di classe, né la recensione del 1926 a Moses Hess, in cui, attraverso Hess, Lukács attacca la sua stessa “dialettica idealista”. C’è da chiedersi se queste (auto)critiche ricorrano in momenti specifici della sua carriera. Oppure se davvero cancellino, migliorino o estendano le tesi contro cui si rivolgono, come quella sulla natura come categoria sociale. Sono forse dei tentativi attraverso cui Lukács intende apparire ancora più ortodosso? O sono invece requisiti immaginativi della dialettica stessa? E, ancora, non dimostrano forse come l’autocritica sia un’altra forma di insistenza, un ulteriore testo che si aggiunge alla serie infinita di commenti su commenti e riflessioni su riflessioni attraverso cui Lukács si tiene in vita?
Sono tutte domande che assumono una certa rilevanza quando ci si confronta con l’estetica lukácsiana. Dall’inizio alla fine, l’arte per Lukács è una forma di riflessione: dell’uomo, della società, di se stessa. A seconda del momento specifico della carriera che si prende in considerazione, si troverà Lukács sostenere con forza uno di questi tre elementi come oggetto privilegiato della riflessione dell’arte. E in ognuna di queste fasi si può rintracciare una squisita simmetria dialettica. All’inizio della carriera, l’interesse di Lukács si rivolge al carattere in un certo senso (auto)riflessivo dei generi letterari. In questa prospettiva, il romanzo poteva venire inteso in termini così generalizzati da dar l’impressione di essere essenzialmente un esercizio di riflessione su di sé e rivolto a se stesso. Alla fine della carriera Lukács ritorna sull’an sich (l’in sé e per sé) in estetica, ma, come specifica nella prefazione all’Aesthetik del 1963, con un metodo e un atteggiamento radicalmente opposti rispetto a quelli assunti in precedenza.
Ora infatti la principale categoria di arte, la sua identità propria e intrinseca (Eigenart), ogniqualvolta è chiamata in causa un’estetica rigorosa, risiede nella specificità, nella particolarità, nella concretezza (Besonderheit). Ma questo carattere non assume significati magici, religiosi o trascendentalmente inattingibili. Al contrario è qualcosa che inerisce oggettivamente e soggettivamente tanto all’uomo nella sua totalità quanto alla storia. Tra queste due polarità diametralmente opposte, del primo e dell’ultimo Lukács, si sviluppano le linee di fondo di un’ambiziosa pratica della critica marxista.
I principali esiti di questa critica sono abbastanza noti: includono i lavori sul realismo, il modernismo, l’irrazionalismo, l’esistenzialismo, il romanzo storico, come del resto ovviamente le frequenti analisi della tendenziosità nell’arte. E tuttavia l’aspetto più significativo dell’estetica dell’ultimo Lukács consiste nel modo specifico in cui vengono ricapitolate e risolte le tesi principali a cui Lukács era approdato negli anni trenta, quaranta e cinquanta. Il vecchio disprezzo nei confronti di un volgare principio di causalità e di un mimetismo grezzo e senza mediazioni permane. E l’insofferenza verso l’irrazionalità, l’alienazione e l’idealismo (in ogni sua manifestazione) propri del modernismo, addirittura si rafforza. L’allegoria viene attaccata con violenza, come del resto il consumismo. I concetti di totalità estensiva e intensiva vengono affinati e approfonditi. Ma l’idea di totalità diviene ora la categoria attraverso cui l’arte ha il sopravvento sulla mediazione infinita, e pone Lukács in contatto diretto sia con la realtà corporea, senza che questo provochi alcun imbarazzo o tentennamento teorico, sia con l’idea di una “liberazione dalla società di classe”. Si tratta in ogni caso di una ripresa sorprendente dei temi trattati nei primi lavori. Le novità consistono in un’estesa trattazione del linguaggio (con l’interessante introduzione del Signalsystem I, sintomo di quanto Lukács fosse al corrente delle evoluzioni della semiotica) e una risoluta consapevolezza di ciò che Ágnes Heller ha definito “il falso dilemma delle ricettività”. Sull’altro piatto della bilancia, le parti dedicate alla musica, al cinema e all’arte ornamentale appaiono di valore discutibile. E tuttavia lo spirito dell’intero lavoro, il modo in cui riattualizza e ridefinisce in termini antropocentrici e antropomorfi una critica aristotelica, è a dir poco incoraggiante e porta impressa l’impronta evidente di Ernst Bloch, la cui influenza, insieme del resto a quella di Max Weber, viene direttamente riconosciuta.
Per portata ed esiti l’Aesthetik lukácsiana quasi non ha rivali in questo secolo. Vengono in mente Croce e, per quanto riguarda la letteratura, Das literarische Kunstwerk di Ingarden. In ambito marxista non ci sono opere di analogo spessore, per quanto, se si considerano le possibili applicazioni della teoria marxiana, Le Dieu caché di Lucien Goldmann rappresenta sempre un vertice. E non è un caso che Goldmann sia stato studente e discepolo di Lukács. Ben pochi autori però hanno saputo mettere a fuoco come Lukács la centralità e l’onnicomprensività dell’esperienza estetica, quella capacità cioè di coinvolgere l’uomo e la società nella loro interezza, nobilitando ogni idea di lavoro. Pochi oserebbero confrontarsi con ogni aspetto della cultura come ha fatto Lukács. Credo che a dargli sicurezza non sia stata né l’erudizione né l’ortodossia marxista. Un primo fattore lo si rintraccia semmai nella consapevolezza, presente dappertutto nei due volumi della Aesthetik, di quanto il comportamento estetico, essendo di per sé un tipo (in senso weberiano) dell’attività umana, possa rappresentare la totalità dell’esperienza umana: non è necessario che l’arte sia tutto se essa può caratterizzare, essendone il tipo ideale, un aspetto simbolico della totalità. È questo, si potrebbe aggiungere, il modo in cui Lukács riesce a trasformare in immediatezza sensuosa una mediazione astratta e una dimensione marginale, in virtù del segno estetico e del potere semiologico che possiede la forma estetica. In secondo luogo, tra l’opera d’arte e le sue circostanze si crea una dialettica che è interamente controllata, e questa dialettica, dopo anni di tentativi ed esperimenti, rappresenta il più importante contributo teorico di Lukács, ciò che gli permette di muoversi con sicurezza tra costrizione e possibilità, le due forze contrapposte che definiscono il lavoro artistico e l’opera d’arte. In altre parole, Lukács è riuscito a sistematizzare il processo in base a cui la realtà penetra nell’arte ed è riflessa dall’arte. E dopo di lui il tempo appare una questione infinitamente meno problematica.

Lukács e il suo tempo. La costanza della ragione sistematica

lukilsuotempoicoConvegno di studi sull’opera e sul pensiero di György Lukács (Roma 10-12 dicembre 1981). In tempi di ricorrenti crisi della ragione, di un frenetico interrogarsi sulla tenuità di scambio tra i sistemi simbolici e la innumerevole pluralità dispersa e disseminata di situazioni della realtà politica, sociale, culturale ed economica, sembrò agli organizzatori del I convegno internazionale di studi sull’opera di György Lukács che un ripensamento critico di una delle vicende filosofico-intellettuali più complesse della storia del Novecento fornisse la possibilità di individuare e rintracciare quei criteri di razionalità non meramente conoscitiva che attraversano e collegano tra loro l’antropologico al politico, il sociale all’economia politica, la poiesis artistica all’ontologia sociale.

Existentialisme ou marxisme?

di Cesare Cases

da Scegliendo e scartando. Pareri di lettura 
a cura di M. Sisto, Nino Aragno Editore, Torino 2013

I testi di Cases raccolti in quest’opera erano pareri di lettura per Einaudi


Existentialisme ou marxisme?, Paris, Nagel, 1948
[Esistenzialismo o marxismo? Milano, Acquaviva, 1995]

Non mi sembra che sia il caso di recuperare Existentialisme ou marxisme? di Lukács. Il libro era a suo tempo senza dubbio di notevole interesse. C’era una critica a fondo dell’esistenzia­lismo, esemplificata soprattutto sugli scritti di Sartre e su Umaneismo e terrore di Merleau-Ponty, e alla fine c’era un tentativo di delineare la teoria della conoscenza propria del secondo Lukács. Quest’ultimo tentativo è rimasto l’unico, mentre la cri­tica generale all’esistenzialismo è stata ripresa nella Distruzione della ragione. La polemica con Sartre e specie quella con Mer­leau-Ponty contengono molte cose interessanti e hanno un indubbio valore storico, ma non hanno più valore attuale. Tra l’altro Lukács trattava Merleau-Ponty molto meglio di Sartre, ciò che dal punto di vista filosofico era certamente giusto ma era un errore politico perché come è noto il primo è andato a finire a destra e il secondo a sinistra. Inoltre si sente troppo il lavoro in qualche modo commissionato: Lukács aveva passato un anno a Parigi per sottrarsi all’atmosfera ungherese e questo libro l’ha scritto anche per fare opera buona nei confronti del PC, impegnato nella polemica antiesistenzialistica. Allora era certo infinitamente meglio di quanto facessero i comunisti francesi, ma ora conserva un valore solo in quanto ci permette di comprendere le posizioni del tempo.

Del libro Lukács fece qualche anno dopo un’edizione te­desca (Aufbau) che era un po’ più ampia e conteneva in appendice un buon saggio su Heidegger. Nelle opere complete pubblicate da Luchterhand la pubblicazione è prevista nel ter­zo volume che non è ancora uscito. L’edizione Aufbau essendo introvabile da anni il libro è perciò irreperibile. Io penso che tra qualche anno sarà possibile pubblicarlo inquadrandolo sto­ricamente, ma per il momento sconsiglierei di recuperarlo, se Nagel non insiste, anche perché la traduzione non dovrebbe essere fatta sulla sua edizione.

c. 1045: parere incluso nella lettera a Paolo Fossati del 6 luglio 1966.

I diritti del libro erano stati acquistati dall’Einaudi nel ‘56, e dopo dieci anni l’editore francese Nagel reclamava una decisione.