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avanguardia, Beckett, disumanizzazione dell’arte, Faulkner, Goethe, Heidegger, Hofmannsthal, Joyce, Kafka, Mann, monologo interiore, Moravia, Musil, Ortega y Gasset, realismo, realismo borghese, realismo critico, realismo socialista, Sciolokhov
di Nicola Chiaromonte
«Tempo Presente» II, n. 8 – agosto 1957
Dopo l’onorevole parte da lui presa alla rivolta ungherese, il 25 novembre scorso Georg Lukács era stato onorato d’arresto insieme con Imre Nagy, con la vedova Raik e con gli altri che si erano rifugiati presso l’ambasciata iugoslava, e deportato con loro in Romania. Il 10 aprile, per grazia speciale, egli ha fatto ritorno a Budapest. Senza onore. Evidentemente, il teorico del realismo socialista ha giudicato più realistico continuare a proprio agio le speculazioni di filosofia letteraria che rimanere solidale con gli sconfitti.
Il numero di luglio-agosto di Nuovi argomenti ci offre la primizia dei pensieri cui si è affaticato Lukács in questi mesi. Si tratta delle «Basi ideologiche dell’avanguardia». Il tratto più notevole dello scritto è che in esso, ormai, il realismo socialista non ha più che una parte di comparsa: esce di scena appena entrato (alla prima pagina) e, per il resto, la questione è di difendere il realismo borghese contro l’avanguardia decadente. Il realismo borghese è epico e dinamico mentre l’avanguardia è statica: il realismo borghese radica i personaggi «nei ranporti concretamente storici, umani, sociali della loro esistenza», mentre l’avanguardia rappresenta «l’individuo eternamente, essenzialmente solitario, svincolato da tutti i rapporti umani e a maggior ragione da tutti i rapporti sociali»: il realismo borghese rappresenta la possibilità concreta, l’avanguardia la possibilità astratta; il realismo borghese attinge al tipico, l’avanguardia cerca rifugio nell’allegoria. Il realismo borghese infine, secondo Lukács, s’incarna ai tempi nostri (come si sapeva) principalmente in Thomas Mann e subordinatamente anche in Sciolokhov e in Moravia; l’avanguardia invece in Beckett, in Joyce, in Kafka, in Musil, in Gottfried Benn, in Heidegger e, risalendo per li rami, in Hofmannsthal.
Nel seguire il laborioso, e non poco ambiguo, discorso di Lukács, non si può non cominciare coll’osservare che, per legittima che possa essere in astratto, o da un diverso punto di vista, nell’argomento del marxista ungherese la distinzione fra realismo e avanguardia regge assai male, sia in diritto che in fatto. In diritto, perché la latitanza dell’imperativo realista-socialista («non immediatamente applicabile», dice Lukács con cauto eufemismo) priva non solo il censore di ogni base per insegnare all’artista il vero senso della «realtà», ma anche l’artista della bussola che dovrebbe guidarlo a fare arte «dinamica», «sociale» e progressiva. In fatto, perché gli esempi addotti da Lukács sono spesso altrettanto rozzi che discutibili, e il suo ragionare grossolano e tentennante.
Per opporre il «dinamico» Mann allo «statico» Joyce, Lukács non trova di meglio che contrastare i celebri monologhi interiori dell’Ulysses con quello del risveglio di Goethe in Lotte a Weimar: in Joyce, il monologo interiore sarebbe fine a se stesso e rivelerebbe «una dinamica permanente ma senza mèta», ossia una concezione dell’uomo come essere informe; in Mann, per contro, il libero gioco delle associazioni è veramente solo pura tecnica, che viene utilizzata per scoprire e mettere in luce qualcosa che va molto al di là dell’immediatezza di quello» e «rappresenta i trapassi dinamici».
A parte ogni giudizio sul valore rispettivo delle due opere, qui Lukács dimentica semplicemente che Lotte a Weimar è di una ventina d’anni posteriore a Ulysses. Il che rende poco mirabile il fatto che l’invenzione di Joyce sia usata da Mann come «pura tecnica». E se non ci fosse questo, rimarrebbe pur sempre che Leopold Bloom è un personaggio plasmato dalla fantasia di Joyce mentre il Goethe di Mann si appoggia alla struttura del Goethe storico, le cui componenti intellettuali e morali l’artista poteva interpretare, ma non aveva da crearle, e nelle quali non è davvero meraviglia che si ritrovassero, già date, una gerarchia di valori e una «storia». Dire che il Bloom di Joyce è avulso dalla storia mentre il Goethe di Mann rivela «le tendenze più profonde di sviluppo della sua personalità… in vista del passato, del presente e dell’avvenire» è una scoperta da rinviare per competenza ai medici di Molière. Se invece di Goethe, Lukács avesse preso ad esempio, fra i personaggi di Mann, Tonio Kröger, vi avrebbe trovato non poca staticità, non poco egocentrismo, e anche non poca indifferenza ai «trapassi dinamici».
Naturalmente, il problema di quella che Ortega y Gasset chiamò la «disumanizzazione dell’arte» esiste, ed è serio; è anche vero che l’arte di Joyce ne è un esempio eminente. Ma il problema è intellettuale: di accordo col mondo nella verità. Non si riduce certo al contrasto fra Joyce e Mann, e nemmeno a quello fra «realismo» e «avanguardia». Anzi, messo in questi termini, esso scompare, perché è molto (troppo) facile scoprire in questi due scrittori il fondo «decadente» che, se non li accomuna, certo non permette di opporli l’uno all’altro con tanta assolutezza; ed è egualmente facile vedere quel che c’è di rigorosamente «realistico» nell’avanguardia (?) di un Kafka o di un Musil e, per converso, di «avanguardistico» in un Moravia, scrittore il cui mondo è molto dubbio che sia «dinamico» ed esprima una gerarchia di valori. Molto facile è, ad esempio, a proposito della frase di Kafka a Max Brod: «Oh, molla speranza, infinita speranza – ma non per noi», citata da Lukács come prova della disperazione «statica» dell’autore del Processo, ritorcere che, anzi, essa è squisitamente realistica e «concreta». L’artista moderno è assai più filosofo, e assai più cosciente dei limiti «storici» della sua condizione, che non voglia concedergli il professor Lukács.
Ancora più facile sarebbe mostrare (nel suo linguaggio) quanto di «decadente», di «avanguardistico», di «astorico» si riveli dal modo di argomentare del professor Lukács medesimo. Se Joyce appiattisce la coscienza dell’individuo e ne fa un continuum amorfo, non meno amorfo (quanto ai valori della cultura) è il risultato degli «amalgami» di scrittori, epoche e tendenze diversissime di cui si compiace il celebre marxista. Mettere nello stesso sacco dell’elemento «storico-sociale» Achille e Werther, Edipo e Tom Jones, Antigone e Anna Karenina, Don Chisciotte e Vautrin, come personaggi «realistici», significa obliterare tutto quello che hanno di specifico, e specificamente umano, queste creazioni culturali: non tener alcun conto di quel che ciascuno di essi significa, onde farli servire da materiale cementizio a sostegno di una tesi astratta e astorica. Per scrivere una frase come: «Dall’Achille di Omero all’Adrian Leverkühn del Doktor Faustus di Mann, fino a Grigorij Melvekon del Placido Don di Sciolokhov, il gioco vivente delle contraddizioni di volta in volta centrali è il principio in ultima istanza determinante dell’essenza…» eccetera, non ci vuole soltanto un’insigne pedanteria: bisogna anche essere infetti da quella particolare specie di «avanguardismo» che non teme gli accostamenti cervellotici e le formule arbitrarie. E che dire della speciosissima sforzatura per cui Lukács pretende di dare come esempio della preferenza borghese (e avanguardistica) per la «pura possibilità» contro la «possibilità concreta» un passo in cui Faulkner descrive individui che, nel calore dì una disputa, «facevano di un’irrealtà una possibilità, poi una probabilità, poi un fatto irrefutabile, come fanno appunto gli uomini quando lasciano che i loro desideri diventino parole»?
In sostanza, per quanto cerchi di evitare quel che v’è di più grossolano nella formula del realismo socialista, l’argomento di Lukács si riduce pur sempre a predicare all’artista l’obbligo «morale» di adottare l’estetica «realista» e di mantenersi nella tradizione, ossia di esprimere sentimenti «positivi» e di reprimere i sentimenti «negativi»: l’obbligo, insomma, di essere insincero, giacche altrimenti la predica non avrebbe senso. Ma a noi la verità, comunque detta, importa più del realismo.
L’uso che, da buon marxista, Lukács ha fatto in passato e continua a fare in quest’articolo dell’argomento ad hominem, ci suggerisce di terminare queste note con un’immagine ad hominem: l’immagine di Georg Lukács, tornato a Budapest per grazia speciale, e lì occupato a considerare il pericolo grave d’informità e d’indifferentismo morale che si nasconde nell’arte d’avanguardia. Ebbene, se si dovesse immaginare il «flusso di coscienza» del professor Lukács a Budapest mentre scriveva il suo saggio, si dovrebbe necessariamente immaginare una coscienza nella quale Thomas Mann e Kadar, le sottigliezze su Kafka e le ombre di centinaia di impiccati, il ricordo di un momento di rivolta e l’acquiescenza muta di oggi, le preoccupazioni accademiche e l’immagine dei colleghi imprigionati, si susseguono in una giustapposizione statica «senza mèta né direzione». Qualcosa di molto simile al monologo di Leopold Bloom. Ma molto meno animato ed animoso.