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György Lukács

~ il primo blog in progress dedicato a Lukács

György Lukács

Archivi tag: fenomeno

La teoria lukacsiana del rispecchiamento estetico

08 domenica Mar 2020

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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Tag

antirealismo, antiumanesimo, Aristotele, astrazione, avanguardia, azione, Balzac, catarsi, Cervantes, classico, Dante, Dickens, dramma, Eschilo, espressionismo, essenza, fantastico, fenomeno, fiaba, Goethe, Hauptmann, Ibsen, Jocyce, Kafka, Mann, Molière, musica, naturalismo, Orazio, piuttra, prospettiva, realismo, realtà empirica, realtà oggettiva, rispecchiamento artistico, romanzo, Shakespeare, Sofocle, soggettivismo, spazio, stile, Strindberg, Tempo, tipo, Tolstoj, unità, Virgilio, Zola


di Béla Királyfalvi

da Lukács negli scritti di..., a c. di G. Oldrini, ISEDI, Mondadori, Milano 1979.


Béla Királyfalvi, di origine ungherese, insegna letteratura drammatica alla Wichita State University del Kansas.
Diamo qui di seguito la versione integrale di un capitolo, il IV («The Theory of Aesthetics Reflection»), del suo volume The Aesthetics of Gydrgy Lukacs, Princeton University Press, Princeton-London, 1975, pp. 54-70.

* * *

Una volta che Lukács comincia a dare contributi sistematici all’estetica marxista (dall’inizio degli anni trenta), la teoria del rispecchiamento estetico acquista un’importanza centrale nelle sue opere. Quattro decenni di scritti contengono innumerevoli esempi, illustrazioni, chiarificazioni, definizioni negative, analogie e riferimenti alle precedenti e contemporanee autorità in argomento, mai però l’ultima definizione conclusiva al modo, poniamo, di Aristotele. Il motivo è semplice: la dialettica materialistica non permette definizioni conclusive (che sono statiche), bensì soltanto «determinazioni» flessibili. La teoria continua a evolversi in lui fino all’Estetica (1963) e, mentre il concetto di rispecchiamento estetico è, nel suo nocciolo, semplice, la sua interrelazione con altri importanti principi estetici è notevolmente complessa. A causa della complessità del problema, quanto qui segue è un che di mutilo, benché speriamo non di distorto, senza il beneficio del contenuto dei tre capitoli successivi. Eppure è necessario, per amor di chiarezza, iniziare con una discussione relativamente isolata del concetto, perché la teoria del rispecchiamento estetico forma senza dubbio l’ossatura e la spina dorsale dell’intero sistema estetico di Lukács. Continua a leggere →

Rileggendo Lukács

28 domenica Feb 2016

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

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Tag

arte, concreto, Croce, essenza, fenomeno, generalizzazione, particolarità, rispecchiamento, scienza, Thomas Mann


di Rosario Assunto

«Tempo presente», II/n.1 – gennaio 1957

Dove si trova, in quoti giorni, Giorgio Lukács? E le conclusioni del suo saggio Zur Konkretisierung der Besonderheit als Kategone der Aesthetik, di cui abitiamo letto la prima pane nella berlinese (Berlino-Est) Zeitschrift für Philosophie, sono state pubblicate? Queste domande sono oramai il contrappunto inevitabile di quel nec tecum nec sine te che è nota costante di tutte le nostre letture lukacsiane: anche, e particolarmente, quando ci troviamo di fronte ai saggi su Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna, recentemente pubblicati dall’editore Feltrinelli nella traduzione di Giorgio Dolfini. Per quello che può dipendere da noi, c’è da augurarsi che Concretizzazione della particolarità come categoria dell’estetica trovi presto un solerte traduttore; come vorremmo lo trovasse anche quelli Theorie des Romans che fece epoca, a suo tempo, nello spazio culturale centro-europeo e venne favorevolmente recensita da Karl Mannheim in un articolo, ancora oggi tutto da leggere, apparso su Logos, la rivista che una volta usciva a Tubinga sono l’autorità, fra gli altri, dello Husserl e del Vossler.

In più di una occasione ci è capitato di motivare il nostro dissenso da Lukács per certe sue inadempienze rispetto a quella che il Mannheim lodava nel 1920 (e che di recente ha lodata, con parole analoghe, e riserve da sottoscrivere, il nostro Garetti): una forza che non procede per deduzione da alcuni principi, ma intende quello che vi è di più essenziale e profondo in una forma d’arte e nello spirito da cui essa deve avere avuto origine… Questo dissenso, e la inadempienza che lo giustifica, sono patenti quando si aprano alcune pagine, davvero deduttive, del volume su Goethe e il suo tempo. Ma il volume su Mann è forse l’opera più indicativa a questo riguardo, nella misura in cui il lettore viene portato a meditare sulle doti e sui limiti di Lukács, sull’entità del suo apporto al pensiero contemporaneo, e sulla necessità di appropriarcene appunto prr accrescere le nostre difese contro gli errori nei quali uomini del talento di Lukács sono incorsi non certo per capriccio, ma per effetto di condizioni del nostro tempo e della nostra cultura delle quali, e dei conseguenti errori di Lukács e di altri, noi stessi portiamo una responsabilità che va investigata e chiarita.

La chiave di tutta l’estetica e del procedere critico di Lukács è nella costante ricerca di un rapporto, intrinseco all’opera d’arte e non ad essa artificiosamente imposto, fra qualità e significato. Di questa ricerca, il saggio berlinese recentissimo propone alcune premesse teoriche che ogni lettore di Croce non potrà non compiacersi di trovare in ambiente marxista-leninista, mentre gli scritti su Mann ne additano una puntuale applicazione concreta.

Il problema che Lukács affronta nello studiare Thomas Mann è quello di interpretare Mann pensatore e politico partendo dalla sua opera e non, come spesso si usa, viceversa. Non si tratta dunque di un problema di critica, nel senso di giudizio sul valore estetico dell’opera manniana, ma di un problema che diremmo di filosofia dell’arte: problema la cui legittimità è condizionata dal suo non gabellarsi, nemmeno per sottinteso, come ricognizione di valore, che in ultima analisi farebbe dipendere la qualità dal significato; e dal fatto che la ricerca del significato viene condotta nella regione che unicamente può autorizzarla in arte, nella regione della forma e dello stile, fuori della quale quello che Lukács chiama il rispecchiamento della realtà non avrebbe carattere artistico ma scientifico, dal momento che, come lo stesso Lukács scrive in Zur Konkretisierung der Besonderheit, oggetto della formazione artistica non è il pensiero in sé, nella sua immediata e oggettiva verità, bensì il modo come esso entra in opera in situazioni concrete di uomini concreti, quale concreto fattore di vita. Non c’è bisogno di attardarsi su certi crudi giudizi che Fadcev ebbe ad esprimere su Lukács: «…Molte cose della sua attività suscitano seri dubbi… nega la possibilità che il Partito diriga le cose dell’arte… egli cerca una giustificazione per la ideologia borghese e per la sua coesistenza con la nostra ideologia… Lukács tenta di disarmare i costruttori della cultura socialista nei Paesi di democrazia popolare… ».

A noi interessa qui rilevare, per meglio comprendere e discutere Lukács, come la politicità che egli sostiene sia di tutt’altra natura da quella di Fadeev: politicità, per lui, è la presa di posizione, plasmata nell’opera con mezzi artistici, rispetto al mondo rappresentato. E questa politicità egli cerca di individuare nell’opera di Thomas Mann, scrittore che effettivamente non è possibile leggere e apprezzare se non si tiene presente il nesso strettissimo, nella sua opera, fra qualità e significato: non certo nel senso che il significato determini dall’esterno la qualità, e il nostro apprezzamento qualitativo dipenda dalla misura maggiore o minore in cui accettiamo il significato, bensì nel senso più veritiero che qualità è la presentazione del significato nell’atto formale, creativo, in seguito al quale esso entra in opera, per ripetere qui le parole di Lukács, in situazioni concrete, di uomini concreti, quale concreto fattore di vita.

Dei cinque saggi che il volume comprende (oltre a un’introduzione e a una premessa), il più significativo, dal nostro punto di vista, è forse quello dedicato alla Tragedia dell’arte moderna, dove Lukács prende in esame il romanzo Dottor Faustus, nel quale la raffigurazione plastica e chiara del processo creativo di Adriano Leverkühn viene interpretata dal Lukács come raffigurazione dell’arte contemporanea in quanto espressione concentrata di decadenza. Una interpretazione plausibile, anche se, come suole accadere in simili casi, vuol essere integrata con altre che guardino da vicino altre facce della complessa realtà di questo romanzo.

«Dietro la musica di Leverkühn — osserva Lukács — si cela la disperazione più profonda di un vero artista nella socialità dell’arte, anzi addirittura nella società borghese del nostro tempo… Per quanto si possano decisamente rifiutare gli esperimenti nati in quest’epoca, spesso completamente vuoti, puramente artificiosi, quasi fossero escogitati in un laboratorio, pur è chiaro che questa tendenza… non è affatto stata una semplice stravaganza di letterati, bensì il rispecchiamento artistico (spesso deformato, di maniera, divenuto addirittura un giuoco) del rapporto dell’individuo, della sua vita personale, con il proprio ambiente sociale, più precisamente con l’epoca storica, con quel decorso storico, di cui una frazione, un momento è costituito da questo curriculum vitae individuale… quelle correnti oggettive che economicamente e culturalmente… preparano le due guerre mondiali, prendono, secondo il loro intimo modo di essere, la via verso la trasformazione del mondo in un caos sanguinoso, verso lo sfiguramento dell’umano nell’individuo singolo, nelle classi e nelle nazioni…». Il curriculum di Adriano Leverkühn mostra qui il suo significato, che si traduce, per Lukács, in una possibilità di comprendere l’arte cosiddetta della decadenza, invece di svillaneggiarla e metterla al bando alla maniera di quel Parsadanov per il quale (e si veda La lotta per il realismo in arte in Letteratura e arte nell’URSS) il compito dell’estetica e della critica letteraria si poneva come un analogo della polizia politica.

Ma questo significato trasformerebbe il romanzo in un saggio filosofico, se esso non emergesse nella qualità, in quanto fattore della qualità stessa che trasforma in soggettività individua e non ripetibile l’universalità oggettiva del senso dell’opera: le pagine nelle quali Lukács analizza la struttura temporale del Faustus, la duplicazione della prima persona – Zeitblom e della terza persona – Adriano, il differente caratterizzarsi dei due personaggi, il rapporto interno all’opera fra piccolo mondo e grande mondo come maniera di soggettivarsi del contenuto oggettivo dell’opera sono fra le più persuasive di tutto il libro, anche se non esauriscono la ricognizione della qualità — proprio in quanto metamorfosi estetica del significato — che per esser completa richiederebbe una investigazione stilistica come indagine portata alla presenza reale della qualità in linguaggio e parola.

Dicevamo, le inadempienze di Lukács. Ecco, quando Lukács nel saggio sul Dottor Faustus si appella alla risoluzione del Comitato centrale del partito comunista dell’Unione Sovietica sulla musica moderna, e saluta il romanzo di Thomas Mann come « un’amplissima fondazione artistica e spirituale di quella risoluzione», proprio allora viene al pettine la preminenza del significato sulla qualità, che revoca quasi per intero la finezza delle sue analisi e delle premesse sulle quali esse riposano. Lukács, come tanti altri, ha creduto che fosse possibile difendere e salvare la socialità dell’arte di fronte all’irrompente isolamento accettando una prevaricazione del significato, ed una riduzione della qualità ad appariscenza esteriore, che in ultima istanza equivaleva all’annientamento della qualità come tale. Certe sue successive prese di posizione, la stessa incertezza che oggi avvolge il suo destino, sono la dimostrazione più esauriente che la crisi del rapporto fra arte e società investe tutto intero il mondo contemporaneo, e se da una parte l’attenzione alla qualità fa dimenticare qualche volta che la qualità è tale in quanto significante, sul versante opposto il significato divora la qualità, per la quale potrebbe anche non esserci più posto.

La condizione dell’arte, in quanto arte è qualificazione del significato, potrebbe davvero essere insostenibile in un mondo tutto scientificizzato, fondato sul culto della verità oggettiva, vale a dire sulla preminenza di quella forma scientifica della quale Lukács scrive che «è tanto più elevata quanto più è generale e onnicomprensiva», mentre la categoria estetica è secondo lui quella che, determinando da un lato una generalizzazione della semplice immediata individualità delle apparenze viventi, dall’altro lato risolve in sé quella generalità che se non fosse risolta toglierebbe via l’unità artistica dell’opera. L’essenza, potremmo dire, verrebbe in quest’ultimo caso a ingoiare il fenomeno (sono termini, anche questi, adoperati da Lukács). E forse nel conflitto fra essenza-significato e fenomeno-qualità è da indagare il dramma dell’opera e del destino di Lukács. Un paradigma, probabilmente, della situazione in cui tutti versiamo, di questi tempi, qualunque sia il posto che per se stesso uno abbia scelto.

Le contraddizioni di Lukács

28 domenica Feb 2016

Posted by György Lukács in Bibliografia in italiano, Bibliografia su Lukács

≈ 1 Commento

Tag

astrazione, avanguardia, connessioni, contenuto, determinazioni sociali, elaborazione artistica, essenza, fenomeno, formalismo, Gorki, Lenin, naturalismo, rappresentazione, realismo


di Fernaldo Di Giammatteo

«La fiera letteraria», 23 ottobre 1949, n. 43.

Può darsi che Gorki avesse profondamente ragione quando scriveva che: «Piegandosi all’attrazione delle due forze della storia – del passato piccolo-borghese e del futuro socialistico – gli uomini sono evidentemente indecisi: il principio emozionale attira verso il passato, quello intellettivo verso il futuro. Si grida molto forte ma non si sente la calma sicurezza di chi abbia scelto decisamente e fermamente una via ben determinata, benché essa sia sufficientemente indicata dalla storia»1. Propugnando l’istanza, in Russia tuttora fondamentale, del «realismo socialistico», Gorki rivolgeva un appello ai giovani intellettuali del suo paese per esortarli ad uscire da uno stato di indecisione nella scelta fra il «vecchio» e il «nuovo» che egli considerava quanto mai deleterio; ed è ovvio che por decidersi e por convincere gli altri che la decisione è avvenuta, non basta alzare la voce o simulare una sicurezza tanto più spavalda quanto meno sentita e sofferta. Perciò, l’appellò di Gorki rappresentava un «vi esorto alle storie» di nuovo genere, un invito a prendere innanzitutto coscienza della realtà delle cose (di una determinata realtà, che automaticamente si considerava obiettiva) per riservare ad un tempo successivo la vera o propria espressione – in forma concreta – dell’avvenuta decisione. Sarebbe stato, altrimenti, un parlare a vuoto, un inconscio accumulare confusioni e contraddizioni assolutamente sterili. O diciamo noi, ponendoci da un altro punto di vista, assolutamente retoriche.

Ora fatalmente accade che ogni novatore si senta invaso da una sorta di demoniaco furore, ed usi troppo spesso un linguaggio aspro e sprezzante – nel caso ch’egli non riesca ad ottenere il dominio razionale della propria materia – oppure cerchi malamente di ricoprire con un procedimento solo in apparenza (o solo qualche volta) logico e motivato la materia che gli si agita dentro, in tumultuosa ebollizione. In un caso e nell’altro, è impossibile evitare le contraddizioni, ed è estremamente difficile accingersi a costruire un sistema organico sulla base degli schemi appassionatamente accettati.

Ci sembra che l’opera di Georg Lukács – ritenuto il più vigoroso assertore di un’estetica marxista – costituisca la persuasiva dimostrazione di quella impossibilità e di quella estrema (e dolorosa e terribile) difficoltà. Ingegno troppo solido e mente troppo acuta per rientrare nella categoria dei distruttori e degli innovatori ad ogni costo, temperamento troppo critico e sottile per accettare come indiscriminatamente valido lo schema suggeritogli dall’impulso primitivo. Lukács si trova a combattere la sua battaglia su un terreno che sta in mezzo agli opposti campi, e credendo di combattere contro uno solo dei contendenti non si avvede di combattere contro entrambi e, ancora, contro se stesso. E non si creda che, per stare approssimativamente nel mezzo, egli abbia trovato la possibilità di una sintesi o quanto meno di un compromesso, perché, al contrario, è questa sua posizione che grossolanamente si vuole chiamare mediana a procurargli la maggiore instabilità, la più profonda incertezza, la più grave confusione. Sarebbe ora troppo facile, e sleale ricordare che proprio dal campo dell’ortodossia marxista sono partiti – di recente e, credo, per la prima volta – gli strali più feroci all’indirizzo della sua opera. Dinanzi alle accuse rivolte a Lukács («divisionismo», «cosmopolitismo», idealismo, riformismo, false teorie nel campo dell’arte, analisi superficiale della lotta di classe, e via dicendo), come non riconoscere, infatti, che ciò era inevitabile, e prevedibilissimo per poco che si fosse penetrati sotto la superficie dei saggi che egli era venuto dedicando alla critica della letteratura contemporanea? Quelle accuse non servono nemmeno – dinanzi ai nostri occhi – a dimostrare che la sintesi o il compromesso non sono stati trovati nonostante il lunghissimo e duro lavoro compiuto; la dimostrazione semmai era già contenuta in tutto questo lavoro e non aveva certo bisogno di sanzioni che le prestassero un significato «ufficiale». Il fatto poi che quelle accuse siano giunte a nostra conoscenza attraverso notizie sommarie ci impedisce di tenerne conto, se non come indicazione superficiale di un certo stato d’animo e di una certa evoluzione (o involuzione che sia) che sfuggono ad una comprensione esatta e che – seppure conosciuti esattamente – sarebbero con ogni probabilità estranei al problema.

L’analisi «estetica» che Lukács ha assiduamente compiuto dei fenomeni più singolari della letteratura del Novecento (dall’espressionismo a quel particolare realismo che ha per vessilliferi Thomas Mann e Massimo Gorki) ha sempre mostrato una naturale propensione per i valori contenutistici o, addirittura, per gli antefatti e la materia grezza dell’arte.

Il fondo della realtà sul quale, volontariamente o involontariamente, negativamente o positivamente, riposano le opere d’arte (e le pseudo-opere d’arte) esaminate, ha per Lukács un’importanza grandissima e spesso – lo si comprende – frastornante e in un certo senso ingannatrice. Ma, tutto sommato, questi giudizi sono ancora impropri, fino a quando non si metta in rilievo che il mutamento dell’angolo visuale non proviene da una diversa concezione dell’arte, ma da una diversa concezione della realtà.

Partendo da una concezione rigorosamente marxista della realtà, Lukács crede che – per il fatto stesso di avere assunto tali premesse e per la certezza di non averle travisate – egli possa gettare le basi di una concezione dell’arte di pari ortodossia marxista. Poiché questo passaggio gli sembra inevitabile, e la rispondenza fra luna e l’altra concezione (o, meglio, tra le due facce della stessa concezione) quasi automatica, egli si preoccupa di dimostrare implicitamente la esattezza del processo inverso, per fornire in tal modo la controprova della validità «totale» della concezione originaria. Il fatto è curioso e complicatissimo. Leggendo i saggi di Lukács si ricava questa impressione: se gli interessa stabilire che si può valutare marxisticamente un’opera d’arte (tanto che si sforza di porgere al critico i mezzi per tale valutazione), infinitamente di più gli interessa mostrare che una valutazione marxista dell’opera d’arte dovrebbe rendere un segnalato servizio al marxismo, prestandogli inconsuete e preziose armi per la sua critica sociale. In questa maniera – si potrebbe anche dire – Lukács tenta di mascherare la propria indecisione. Sta di fatto però il risultato di tale fatica non è mai pienamente positivo, in nessuno dei due campi. Anzi, non essendolo nel primo, lo è ancor meno nel secondo: così si può affermare genericamente, ma rientrando il secondo nell’ambito politico, noi non abbiamo la capacità di sondarlo come si dovrebbe. E poi, quella che qui specificatamente interessa, è la prima faccia dell’atteggiamento di Lukács.

Quando la possibilità di esaminare marxisticamente l’opera d’arte sia data quasi per dimostrata, o almeno per innegabile, come fa Lukács, l’accento del discorso cade sul contenuto e non so ne distacca. I cardini del marxismo vengono accettati in tutta la loro pienezza: ammesso questo fatto preliminare, Lukács può passare alla critica di ciò che nella letteratura appare – alla luce di quel marxismo – condannabile in quanto frutto della degenerazione borghese. «Le correnti letterarie moderne del periodo capitalistico – è un concetto che Lukács ha, con poche variazioni, infinite volte ripetuto – che rapidamente si susseguono le une alle altre, dal naturalismo al surrealismo, sono tutte simili, poiché assumono la realtà come essa immediatamente appare allo scrittore e ai suoi personaggi. Questa forma di presentazione (unmittelbare Erscheinungsform) muta nel corso della evoluzione sociale. Ciò avviene oggettivamente, a seconda del mutamenti delle forme obiettive di presentazione immediata della realtà capitalistica e a seconda di come gli spostamenti delle classi e la lotta di classe provocano le varie rifrazioni della realtà. Questi mutamenti generano soprattutto la rapida successione e l’aspra lotta fra le varie correnti. Ma tutte questo correnti si arrestano – sia dal punto intellettivo che sul piano sentimentale – a tale loro immediatezza e non scavano per raggiungere l’essenza, e cioè la reale connessione esistente fra le loro esperienze e la vita reale della società, né per scoprire le cause recondite che provocano queste esperienze ed i rapporti che uniscono le esperienze stesse della obiettiva realtà della società. Esse invece – con maggiore o minore consapevolezza – elaborano spontaneamente il loro stile artistico sulla base di questa «immediatezza». Siamo al punto di frattura. Data per dimostrata la possibilità dell’analisi marxista dell’antefatto, del substrato reale dell’opera d’arte, Lukács si vede costretto a dare per parimenti dimostralo il processo successivo, il passaggio dall’antefatto all’espressione, dalla materia dall’arte stessa. Introduce il concetto di «stile artistico», ma non approfondisce.

Individuato nella concretezza (come riflesso della intima connessione esistente fra la vita reale della società e l’opera d’arte) l’unico modo possibile di espressione secondo uno schema marxista, resta scoperto il secondo problema, il più grave: quello appunto della natura e del significato dell’espressione. Lukács sente la gravità della lacuna.

Due vie ora gli si aprono dinanzi, e da ogni sua pagina ci ci accorge che egli le vede entrambe con molta chiarezza. Ma da ogni sua pagina ci si accorge pure che – paralizzato da un curioso timore astratto – nessuna delle due egli vuole imboccare risolutamente. Condurre sino alle ultime e più coerenti conseguenze l’analisi di tipo marxista che ha iniziato (e questa per lui sarebbe l’unica via logica), oppure ripiegare su .una concezione diversa che giustifichi a suo modo – non marxisticamente – l’espressione artistica. Dinanzi a due vie chiare e sicure, ne sceglie una terza, nebulosa e incerta. «Naturalmente – egli ammette – senza astrazione non vi è arte: come potrebbe altrimenti nascere il tipico? Ma – soggiunge – il processo dell’astrazione ha, come ogni movimento, una direzione, od è ciò che qui importa. Ogni valido realista (s’è già visto che Lukács non concepisce l’arte se non come realismo) elabora – anche con i mezzi dell’astrazione – la materia della propria esperienza, onde raggiungere la legittimità della realtà obiettiva, onde impadronirsi del rapporti profondi, nascosti, mediati, non immediatamente percepibili della realtà sociale. Poiché questi rapporti non si trovano immediatamente alla superficie, poiché questa legittimità si afferma confusamente, senza regola e articolandosi in varie tendenze, al realista incombe la necessità di un immenso lavoro, di un lavoro doppio – sul piano dell’arte e sul piano della Weltanschauung – ossia deve in primo luogo occuparsi del rinvenimento intellettuale della elaborazione artistica di questi rapporti, ed in secondo luogo (tale processo è indissolubilmente legato al primo) del rinvenimento artistico dei rapporti astrattamente elaborati: l’eliminazione dell’astrazione. Da questo doppio lavoro nasce una nuova immediatezza mediata attraverso l’elaborazione, una superficie «elaborata» della vita, la quale – pur lasciando chiaramente emergere ad ogni istante la sua essenza (ciò che non avviene affatto nell’immediatezza della vita) – appare come immediatezza, come superficie della vita. Più precisamente: come l’intera superficie della vita in tutte le sue determinazioni essenziali, e non soltanto un momento soggettivo avvertito ed astrattamente ingigantito ed isolato dal complesso di questi rapporti. È questa l’unità artistica di sostanza ed apparenza. Quanto più essa è molteplice, ricca, complessa, «scaltra» (Lenin), quanto più racchiude la vivente contraddizione della vita, la vivente unità del contrasto fra ricchezza e unità delle determinazioni sociali, tanto più grande e profondo diventa il realismo».

È un passo significativo, per la contorsione del ragionamento e la notevole incertezza nell’affrontarne la parte essenziale; la definizione del valore estetico. Come già prima per lo «stile artistico», così ora per i «mezzi dell’astrazione» e per «l’elaborazione artistica dei rapporti», i concetti restano pressoché imperscrutabili. Proprio nel momento in cui avrebbe dovuto rifondere alle domande fondamentali giunte finalmente alla luce dopo tanto discutere di «materia» e di «contenuti» (quali sono i mezzi dell’astrazione e che valore hanno? Che cos’è l’elaborazione artistica?), Lukács salta a piè pari alla conclusione la quale, pur essendo esatta, non può non risultare manchevole della dimostrazione che la giustifichi. Nella fase intermedia – che è poi quella decisiva – la teoria marxista invocata da Lukács si è mostrata sorda ad ogni sollecitazione, e l’autore ne ha avuto chiarissima la coscienza. Ma, come è stato detto, non aveva altra via per uscire dal cerchio chiuso, e di fatto non ne è uscito.

1 Ettore Lo Gatto ha inserito lo scritto nell’antologia L’estetica e la poetica in Russia, Firenze, Sansoni 1947.

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