Il dialogo nella corrente

di György Lukács

da Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2019.

L’intervista è stata raccolta e pubblicata da Béla Hegyi in A dialógus sodrában (Il dialogo nella corrente), Budapest, Magvető Kiadó, 1978. È stata tenuta nel 1970.


Fu György Lukács a lanciare l’idea del dialogo. In una conferenza tenuta durante l’estate del 1956, egli richiamò l’attenzione sul fatto che «qualche rilevante teologo non desidera ignorare ancora a lungo il marxismo come una variazione del materialismo volgare, ma sente la necessità di un serio dibattito centrato sui suoi problemi. L’“attitudine conciliatrice” del cattolicesimo offre un’opportunità per entrare in contatto, per far partire un dialogo o un dibattito che cinque o dieci anni fa sembrava impensabile».

Lukács non solo fece pressione per il dialogo, ma egli stesso fu attivamente coinvolto in esso. Egli era aperto alla discussione da ogni lato. Sebbene non si stancasse mai nell’argomentare le sue posizioni, rispettò sempre le opinioni delle altre parti, in particolare quando queste convinzioni erano fondate in una fede vissuta e in un orientamento intellettuale e non coinvolgevano una flagrante contraddizione tra fede e azione.

Oggi, a 85 anni, egli è l’uomo più famoso in Ungheria. Per chiunque – marxista e non marxista, credente o non credente – è appassionante ascoltare le sue concezioni.

All’inizio della nostra conversazione egli mi ricorda: «Non do interviste, ma lei può prendere nota».

Più tardi ammorbidisce la sua attitudine: «Non mi importa se pubblicate tutto, a patto che non sia sotto forma di intervista. Durante il mese scorso, così tanti giornalisti sono venuti a vedermi che ne ho avuto abbastanza di loro. Dopo tutto, non sono una stella del cinema, né sono un Nixon che ha risposte stereotipate per tutte le domande, cioè un “immagine”. Sono uno scrittore, risolva questo problema …» Continua a leggere

Crisi parallele. Intervista a György Lukács

di György Lukács

in «L’utopia concreta. Rivista quadrimestrale», I, n. 1, ottobre 1993
[da «New Left Review», n°60, marzo – aprile 1970].


Compagno Lukács, come giudica la sua vita e l’epoca storica in cui ha vissuto? In cinquantanni di lavoro scientifico e rivoluzionario ha avuto la sua parte di onori e di umiliazioni. Sappiamo anche che è stato in pericolo dopo l’arresto di Béla Kun nel 1937. Se dovesse scrivere un’autobiografia o delle memorie personali, quale lezione fondamentale ne trarrebbe?

Per rispondere brevemente, direi che è stata una mia grande fortuna aver vissuto una vita intensa e densa di avvenimenti. Lo considero come un particolare privilegio di cui ho avuto esperienza negli anni 1917/1919. Poiché provenivo da un ambiente borghese – mio padre era un banchiere di Budapest – e pur attuando un’opposizione piuttosto individuale in «Nyugat»1 – facevo parte tuttavia dell’opposizione borghese. Continua a leggere

Un manifesto estetico

di George Steiner

[An aesthetic manifesto (1964); trad. it. Linguaggio e silenzio, Rizzoli, Milano 1972, pp. 343-350].

A Georg Lukács si possono muovere e sono state mosse molte accuse. Ma il provincialismo non è una di queste. La geografia del suo spirito è grande. È uno degli ultimi «centroeuropei», con la loro caratteristica, appassionata conoscenza della cultura classica e delle lingue e letterature europee. Ha mantenuto fede con l’impegno marxista originario a una visione internazionale e all’eredità del passato classico, radicale. Come Marx stesso, Lukács è imbevuto di filosofia postkantiana, di Hegel e di Feuerbach. La sfera dei suoi riferimenti immediati va dai presocratici e da Aristotile a Vico, Spinoza e Lessing. Comprende i philosophes, il romanzo francese da Lesage a Zola, la sensibilità storica del romanticismo europeo – Scott, Manzoni, Puškin – il romanzo russo dell’Ottocento. Soprattutto, ha una conoscenza profonda di Goethe, del lirismo razionale di Goethe e della sua percezione dell’energia organica.

Nella carriera di Lukács, come in quella di Brecht, vi sono tratti di intolleranza dogmatica, vi sono momenti di paura e indegnità. La distruzione di Weimar e la sconfitta totale del partito comunista tedesco – una sconfitta in cui le follie ciniche dello stalinismo ebbero un ruolo importante – spinsero Lukács a un lungo esilio. Ma fu proprio a Mosca, isolato e continuamente sospettato, che egli scrisse su Shakespeare e Balzac anziché su Fadeev. Fu là che egli ribadì la struttura e le origini essenzialmente umanistiche ed europee del pensiero marxista.

In tale pensiero esiste da tempo un vuoto riconosciuto. Pur avendo intenzione di farlo, Marx non scrisse mai un’estetica vera e propria. Le numerose osservazioni teoriche e pratiche che lui ed Engels fecero sull’arte e la letteratura sono state raccolte da Michail Lifschitz in un compendio ufficiale. Esse assommano a un’avvincente miscellanea di argomentazione dialettica e di gusto personale. Negli scritti di Mehring, Plechanov e Kautsky vi è dell’altro materiale per una filosofia dell’arte. Grazie alle riflessioni individuali, spesso eretiche, di Caudwell, Adorno e Walter Benjamin, l’estetica marxista è stata collegata all’antropologia, alla psicologia e a taluni elementi della linguistica moderna.

Ma nel complesso – e questo vale per gran parte della produzione migliore di Lukács – il critico marxista ha operato con gli strumenti dello storicismo ottocentesco. Quando non ha fatto da portavoce alla propaganda di partito o non si è limitato a dividere l’arte in progressista e decadente in una parodia di giudizio finale, ha applicato, con maggiore o minor talento e finezza, quei criteri di causa e di condizione storica già impliciti in Herder, Sainte-Beuve e Taine. Nella misura in cui colloca l’artista e la sua produzione in un ambiente materiale di forze economiche e sociali, nella misura in cui insiste sul carattere essenzialmente sociale e storicamente determinato della percezione artistica e del responso pubblico (un’insistenza fondamentale anche nell’assunto di storici dell’arte come Panofsky e Gombrich), la critica marxista fa parte di un più vasto Historismus.

A questa tradizione, essa ha contribuito con importanti affinamenti: la distinzione di Lukács tra realismo e naturalismo; le intuizioni di Benjamin sull’influsso della tecnologia e la riproduzione in massa dell’opera d’arte singola; l’applicazione dei concetti di alienazione e disumanizzazione alla letteratura e alla pittura del Novecento. Ma sostanzialmente il marxismo ha contributo all’estetica con una coscienza storica disciplinata e un generico ottimismo radicale – ne è prova Letteratura e Rivoluzione di Trotskij – più che con un’epistemologia coerente. Non vi è stato nessun Longino marxista, nessun Laocoonte che esponesse una teoria completa della forma estetica nel quadro del materialismo dialettico.

Le difficoltà sono evidenti. I concetti di spontaneità, di formulazione irrazionale o subconscia, di disperazione e di «reazione», che sono tutti attinenti all’arte, stentano ad adattarsi al «materialismo scientifico». Vi è l’enigma dell’anacronismo con cui Marx dovette lottare: come mai alcune delle forme d’arte più mature e definitive scaturiscono da società la cui struttura economica e di classe è arcaica o moralmente inammissibile? Come si concilia Sofocle, la cui Antigone significò per Marx qualcosa di ciò che aveva significato per Hegel, con la schiavitù? Come la fisica einsteiniana, inoltre, l’arte, la letteratura e la musica moderna si sono rivelate indocili agli assunti marxisti del realismo umanistico. Un vocabolario sentimentale sviluppatosi in rapporto a Rembrandt e a Balzac, un canone in cui le reciprocità tra la normale percezione sensoriale e la comprensione artistica sono esplicite, troverà difficile occuparsi, se non abusivamente, del mondo di Klee o di Beckett.

Lukács se ne rende conto, anche se forse non coglie pienamente la contraddizione tra l’impegno del marxismo a una forma storica di giudizio e l’incapacità dei marxisti di venire a patti con i moderni. Die Eigenart des Äesthetischen, le cui 1700 pagine stampate fitte sono soltanto la prima parte di una summa progettata, cerca di fondare una filosofia inclusiva dell’arte, un’epistemologia delle forme d’arte e della creazione artistica su una base rigorosa di materialismo dialettico e di fenomenologia hegeliana. Di fatto, ciò significa la fondazione di un’estetica coerente in armonia con lo storicismo marxista, la psicologia pavloviana e le teorie marxiste-leniniste del linguaggio e della società. Va ascritto a merito di Lukács l’essersi accinto all’intero lavoro. Egli comprende pienamente che un’estetica marxista dev’essere una parte integrale e convincente di una visione completa del mondo marxista e di un’esauriente analisi marxista della condotta umana. Altrimenti la critica marxista rimarrà un aggregato di polemica partigiana o ideologica, di intuizioni locali e di gergo preso a prestito.

L’aspirazione a una Ästetik sistematica è visibile in quasi tutta la produzione di Lukács. Se ne trova traccia fin dal 1911 in Die Seele und die Formen. Se ne parla da un punto di vista storico e comparativo negli scritti raccolti nel 1956 sotto il titolo Beiträge zur Geschichte der Ästhetic. I Prolegomeni a un’estetica marxista di Lukács apparvero a Roma nel 1957. In effetti, lo schema iniziale dell’impresa attuale risale a Firenze e all’inverno del 1911-12: la discussione di Lukács conserva echi remoti di impressioni visive colte allora. Egli stesso direbbe che il vasto corpus della sua critica pratica e il grosso studio incompleto di Hegel sono stati preliminari logici a un’esposizione formale e sistematica di valori.

Non è facile dare un sommario di questi due volumi. Il programma che ne sta alla base è analitico: Lukács si propone di discriminare e quindi definire la categoria specifica della estetica dalla totalità delle funzioni umane, e più particolarmente dalle altre forme di percezione e di azione mentale quali la religione e le scienze storiche e naturali. Partendo dalla legge basilare del marxismo secondo cui l’essere determina la coscienza – die Priorität des Seins – e dall’assioma materialista che tutta la comprensione umana riflette la realtà oggettiva, Lukács cerca di definire la particolare «natura oggettiva-soggettiva» della creazione e del responso artistico. L’arte è un «rispecchiare» realtà oggettive, ma vi è in essa una componente soggettiva irreducibile e vitale. Al di sotto degli argomenti epistemologici vi è l’asserzione che la religione «da Tertulliano a Kierkegaard» è fondamentalmente e necessariamente antiestetica. La sensibilità religiosa ha riconosciuto nell’arte un nemico mortale. «Da Epicuro a Goethe fino a Marx e Lenin», l’arte offre un’alternativa umanistica e radicale alle pretese della rivelazione.

Il metodo di Lukács è eminentemente storico. Argomentando lungo linee già stabilite da Marx, Lévy-Bruhl e Gordon Childe, cerca di dimostrare la genesi storica della funzione estetica. Concorda con Ernst Fischer (Kunst und Menschheit) che la relazione soggetto-oggetto è essa stessa il frutto di lunghi processi storici, che il nostro senso dell’identità personale e della realtà «esterna» è una risultante graduale dell’esigenza di lavorare, di usare strumenti, di riconoscere e perfezionare divisioni di capacità nei nostri sensi e, finalmente, nel gruppo sociale. La percezione e gli usi della realtà sotto il particolare aspetto dell’arte sono, a loro volta, il prodotto di un lungo processo di specializzazione e affinamento della coscienza. È questo processo e, più particolarmente, la separazione della comprensione estetica dalle fantasie religiose antropomorfiche da un lato e dalla «scienza oggettiva» dall’altro, che Lukács analizza in buona parte del primo volume. Sia la religione che la scienza esigono un assenso positivo che l’arte invece non chiede.

Cinque capitoli sono dedicati allo studio delle origini e dell’evoluzione della mimesi. Partendo dalla documentazione offerta dalla Poetica di Aristotile, da Frazer e da Man Makes Himself di Gordon Childe (un libro di cui ha subito massicciamente l’influsso), Lukács cerca di mostrare come la dissociazione graduale della rappresentazione mimetica da un immediato proposito utilitaristico (magia) abbia portato allo sviluppo di una condizione artistica e di un senso dell’arte ben precisi. Al tempo stesso mette in rilievo la misura in cui le convenzioni spazio-temporali dell’arte anche «più pura» siano legate a esigenze e possibilità materiali, ai donnèes sociali ed economici dell’evoluzione umana.

Il primo volume si chiude con un esame complicato del rapporto soggetto-oggetto alla luce particolare della catarsi, degli effetti diretti e postumi dell’opera d’arte sul «ricevente». Qui Lukács dà il meglio di sé. Esamina il concetto di catarsi da Aristotile a Goethe e a Lessing e sostiene l’importanza universale del «processo catartico» in relazione alla definizione stessa dell’arte, del modo in cui essa plasma i nostri sentimenti e i nostri pensieri. La discussione termina con una formula schiettamente arnoldiana dell’arte come critica vissuta della vita. In effetti vi sono frequenti punti di contatto tra Marx e Matthew Arnold in questa sezione conclusiva, quasi a ricordare che tutti e due, proprio come Lukács, sono per molti aspetti moralisti vittoriani ed eredi comuni dell’umanesimo classico.

Il secondo volume si propone di modificare e arricchire la psicologia pavloviana con particolare riferimento all’invenzione e al responso artistico. Lukács rifiuta la tendenza di Pavlov a identificare l’artista con un puro organismo senziente. Avanza l’ipotesi di una forma di comunicazione linguistica e plastica situata tra il mondo dei dati oggettivi e quello dei riflessi mentali determinati. Questo linguaggio intermedio o «segno dei segni» (das Signalsystem), con il proprio carattere soggettivo e non utilitaristico, è la matrice particolare dell’arte. Tra il riflesso condizionato e l’astrazione verbale associata vi è una zona speciale di spontaneità e di ricreazione. Il riconoscimento e lo sfruttamento da parte dell’uomo di questo settore estetico è il risultato di un processo piuttosto lungo di divisione del lavoro mentale ed emotivo. Una notevole digressione di questa sezione tratta del crollo della logica e del controllo negli ultimi componimenti poetici di Hölderlin. La storia di questo caso fa pensare che la mimesi plastica sopravviva più a lungo della mimesi linguistica allorché i centri più complessi del riflesso condizionato vengono indeboliti.

Dopo un’analisi dell’opera d’arte come Fürsichseiendes – un’attività integrale diretta totalmente al mondo dell’uomo e non a quello dei fenomeni naturali (una distinzione tracciata la prima volta da Vico e ripresa da Marx) – Lukács prende in esame parecchie «aree marginali» della mimesi. Il capitolo sulla musica ha un debito nei confronti di Adorno e contiene alcune idee stimolanti. La mimesi musicale sarebbe un’imitazione della cinetica interiore della nostra coscienza per analogia di ritmo, chiave e cambiamento di tonalità. La discussione sul film ribadisce una distinzione fondamentale in tutta la teoria critica di Lukács, quella tra il realismo, con il suo ordinare e selezionare creativamente i valori, e il naturalismo, con la sua accumulazione inerte e seriale dei particolari. L’argomento si basa sulla brillante opera pionieristica di Benjamin. Il volume si chiude con una serie di considerazioni postkantiane quasi impenetrabili sulla bellezza naturale e il suo ruolo nei canoni estetici.

Vi è un epilogo affascinante sull’arte e la liberazione dello spirito umano dalla religiosità antropomorfica. Qui Lukács affronta il problema dello stalinismo che sin dal 1956 assorbe le sue principali energie morali. Costringendo l’arte a essere programmatica e ideologicamente didattica, Stalin rese impossibile l’effetto catartico: l’impulso a un approfondimento e una chiarificazione della coscienza che liberi la mente dalle speranze e dai legami della religione. Tramite lo shock catartico, l’uomo giunge a scorgere nella vita la lotta complessa per valori più alti. Giunge a vedere la realtà come un processo di crisi dinamica, un concetto affine alla dialettica utopica di Ernst Bloch, Das Prinzip Hoffnung. Semplificando la realtà e imponendole una sanzione di verità realizzata, lo stalinismo rese il posto dell’uomo nella storia statico e, letteralmente, non bisognoso di speranza. Nell’arte staliniana l’uomo non era un essere concreto dotato di possibilità e di impulsi contraddittori, ma uno zero in un’equazione a una soluzione. In breve, il regime staliniano era un tentativo sostanzialmente irrazionale di arrestare il processo dinamico hegeliano dell’esperienza umana. Malgrado ciò – e il fatto è caratteristico – il libro si chiude con l’osservazione che il periodo stalinista portò alla «maggior forza e sicurezza del socialismo». La storia è più potente di quanti ne vorrebbero violare le leggi.

Un sommario siffatto non rende adeguatamente giustizia all’importanza fondamentale e alla vastità della discussione di Lukács. In uno stile di visione che fa pensare a quello di Auguste Comte, Lukács sta tentando di documentare la liberazione della psiche umana dalle fantasie religiose, dal servaggio intellettuale e morale che nasce da una vana fiducia in un «vuoto trascendente». In tale documentazione l’arte e l’evoluzione dell’oggettività creatrice hanno una parte dominante. Ma vi sono poche aree di metafisica, epistemologia, storia sociale e psicologia non attinenti al discorso generale. L’ampiezza di riferimenti precisi è formidabile. Lukács attinge a Wagner e Tolstoj, a Strindberg e Tertulliano. Ha preso come sua provincia una grossa parte del pensiero russo e del pensiero classico europeo. Come avviene quasi sempre nella sua opera, la tendenza essenziale è una tendenza di conservatorismo sovversivo e radicale. Invoca il futuro rivoluzionario in nome degli ideali umanistici classici, molti dei quali appartengono alla civiltà agiata e alle liberalità del passato borghese. Questi ideali implicano un’ampiezza di cultura letteraria che fa sembrare provinciale gran parte della critica occidentale dopo Taine e Saintsbury.

Ma Die Eigenart des Äesthetischen è un’opera diseguale. Vi sono lunghi tratti così enfatici da esser quasi illeggibili. Il libro è mostruosamente prolisso. Soffre per un’effusione coercitiva di parole. L’attenzione annega in un grigio diluvio di pagine stampate. La tradizione tedesca dell’ampiezza filosofica, della Werk esauriente e suprema, ha lasciato il segno. Sembra inoltre che la solitudine sempre più profonda della vita di Lukács, il suo lungo isolamento dalla viva corrente della lingua tedesca, abbia dato vita a un immenso monologo. La parola stampata è diventata la sua sola azione e l’unica sua compagnia.

Come marxista, Lukács si affida allo storicismo, alla collocazione della coscienza in un ambiente di concreti fatti temporali. Eppure, in questa grande impalcatura di generalizzazioni e di proposizioni assiomatiche, non vi è quasi mai il profilo di una realtà specifica. Dove appaiono considerazioni storiche reali, come nei capitoli sulla magia e la mimesi primitiva, la documentazione è spesso vaga e di seconda mano. Lukács non si consente quasi mai riferimenti a un settore o un’opera d’arte particolare. Vorrebbe dire che non è questo il lavoro che sta facendo, che sta cercando di dare una forma esauriente e sistematica alle idee e alla sensibilità implicite o sparpagliate in tutta la sua produzione di critico pratico. Ma il risultato è un compromesso travagliato tra l’astrazione particolareggiata e la prova generalizzata. Paradossalmente, questo apparato austero e incolore di argomentazioni filosofiche finisce per somigliare ai fuochi d’artificio di Les voix du silence di Malraux. Lukács confonde le cose con la generalizzazione, Malraux con la singolarità estatica. Né l’uno né l’altro convincono. Vi è spesso maggior sostanza generale, scrupolosamente messa a fuoco, in un saggio breve di E. H. Gombrich, che in questa immensa opera incompiuta.

Le osservazioni di Lukács sulla letteratura recano il peso di un’intimità palese e rinnovata. Ma la sua visione dell’arte, dell’architettura e della musica moderna è vaga e priva di vita, come se attingesse, quasi interamente, a ricordi lontani e testimonianze di seconda mano. Quand’è, ci si chiede, che il professor Lukács ha visto un film? Fino a pochissimo tempo fa, l’occhio e la fantasia dell’Europa orientale erano rigorosamente esclusi dalla tradizione del nuovo. Alcuni dei nomi necessari appaiono nell’indice analitico di Lukács, ma la maggior parte di essi – Klee, Webern, Frank Lloyd Wright – no. L’equipaggiamento di coscienza e di risonanza emotiva con cui Lukács si accosta alle arti visive, non si spinge quasi mai oltre il 1935. Vi è in lui, come in altri esponenti della retroguardia del marxismo filosofico europeo, un esilio dal presente.

Ma è possibile imbarcarsi in un immane compendio di proposizioni astratte sulla lingua, l’arte e la coscienza, come se Wittgenstein non fosse esistito (è una delle antipatie più oscure di Lukács)? Come se non fossero state lanciate sfide all’autorità e alla verificabilità della descrizione linguistica? È possibile, nel 1964, liquidare Freud con un brusco a solo – che, assurdamente, paragona la sua opera a quella di Jung – e chiedere che il proprio psicologizzare venga preso sul serio? La concezione stessa di una Ästhetik formale non è forse un anacronismo, un ossario di ossa metafisiche?

Sono domande spiacevoli da rivolgere a un uomo che ha compiuto una tremenda fatica intellettuale in circostanze politiche e personali estremamente difficili, e per giunta a un’età a cui quasi tutti gli uomini riposano. Ma allorché si confrontano le immensità vuote dell’Ästhetik con la vitalità e il mordente della critica vera e propria di Lukács, è impossibile sfuggire a una sensazione di spreco. Il pubblico stesso per cui tale leviatano è concepito, i giovani artisti e intellettuali dell’Europa orientale che si chiedono se sia rimasto un po’ di vita e di incoraggiamento nell’eredità marxista, chiuderanno il libro di Lukács disorientati. Non vi è quasi nulla in esso che risponda al panorama delle loro esigenze. Appartiene al mondo di Richard Hamann, l’incarnazione dell’estetica accademica degli anni Venti, e gli innumerevoli trattati dimenticati su le vrai et le beau; non a quello di Kafka e di Jackson Pollock. Né, invero, a quello di Brecht.

Lukács al Rencontre Internationale de Genève (1946)

di G. Contini

da Dove va la cultura europea?, a c. di Luca Baranelli, Quodlibet, Macerata 2012. Il testo è la ripubblicazione dei resoconti dell’incontro scritti dal trentaquattrenne Contini per conto de «La fiera letteraria».

La relazione di L. aveva come titolo La vision democratique et aristocratique du monde.


[…]

Duello oratorio tra Jaspers e Lukács

Gli Entretiens si sono ridotti in sostanza a un dialogo fra l’esistenzialista Karl Jaspers e il marxista Lukács György. Jaspers è popolarissimo in Europa, Lukács infinitamente meno. Personalmente, io cedevo un poco all’influsso della rappresentazione mitica che me n’aveva fornita l’amico Theophil Spoerri, assiduo ed entusiastico frequentatore dell’unico esemplare del capolavoro di Lukács che figuri in una biblioteca pubblica svizzera1. Quando codesta opera, su marxismo e coscienza di classe, fu giudicata eterodossa dalle supreme istanze del partito, Lukács si sottomise alla condanna e sottrasse alla circolazione quante più copie gli fu possibile, tanto che il libro è diventato una rarità: dimostrando per tal modo di non essere soltanto, teoreticamente, la testa più forte del marxismo, ma, nei fatti, un fedele senza riserve. E si capisce come, esule in Russia dopo la disfatta del regime Bela Kun in cui era stato sottosegretario2, vi abbia esercitato funzioni direttive della propaganda; e come da poco sia tornato in Ungheria, quale professore di estetica (forse noi gli avremmo preferito un’altra cattedra, ma non più «utile») all’università di Budapest. Mentre Jaspers, gentiluomo altissimo, esile, pallido e canuto, figurino impeccabile in nero o in grigio, possedeva il capitale d’un volto amabile a priori all’uditorio e lasciava visibilmente trasparire sotto l’eleganza letteraria la nobiltà d’una gradevole personalità morale, il piccolo Lukács, col suo volto di asceta magro e duro, con la bocca larghissima e piatta, gli occhiali ampî, la zazzera centroeuropea appena contenuta e un vestitino color senape, di sé offriva crudelmente sempre e soltanto la lama. Con ciò, non so su quanti ascoltatori potesse contare disposti a provare, non dirò attrattiva, ma addirittura simpatia, verso lo spettacolo dell’intelligenza pura, intendo anche scevra d’ogni altra qualità umana. Comunque, c’era chi scrive, affetto di codesta infrenabile debolezza. S’aggiunga che non è diffusa la sensibilità al rigore del ragionamento. Il discorso di Jaspers era benissimo composto e sistematico, ma si può dubitare che un’interiore coerenza e necessità speculativa legasse alle premesse esistenzialistiche i corollari di fraternità universale e di vago liberalismo (Jaspers s’inibiva ogni preciso esame politico) che egli offriva come coronamento della sua etica. (Poiché a un filosofo non chiederemo né di condurre né di predicare una vita irreprensibile, ma di produrre una morale teoreticamente soddisfacente). La chiusura era invece totale dalla parte di Lukács, fra l’elogio del razionalismo cartesiano, illuministico e hegeliano e il riscontro di simile tradizione nella sola società organizzata se non altro come germe di democrazia reale e non formale, o addirittura la ricorrente applicazione della formula d’alleanza del ’41 fra i due generi di democrazie3. Lukács, voglio dire l’intelligenza di Lukács, è stato il trionfatore ideale di questa corrida filosofica, e con lui qualche marxista francese passabilmente eterodosso, da buon intellettuale; o diciamo che, sia pure per l’interposta persona dei marxisti, ha trionfato Hegel. Si potrà deplorare la lacuna aperta fra le due concezioni, l’assenza della «terza» voce, per esempio del hegelismo liberale, il silenzio del pensiero italiano; ma i fatti son questi.

Che gli Entretiens dovessero liquidare la cultura in politica, era nel loro stesso impianto. Naturalmente, la maggiore o minore totalità dell’idea della vita influiva sulla maggiore o minore esaustività esplicita di tale equivalenza. Per un democratico occidentale nel tenore medio di questa formula, il residuo di disinteresse della cultura, in quanto beninteso non si attui cultura ma se ne discuta, è, attraverso le nozioni stesse di libertà e distinzione che suscita, uno strumento di difesa, un pretesto alla conservazione, un incentivo al complesso di superiorità: il rifiuto a parlare di politica (la distinzione jaspersiana di politica e spirito) diventa, portato in questa sede, non meno rigorosamente politico di quel discorso soltanto politico che monotonamente sorte fuori dalle bocche marxiste. Sono state esposte a Ginevra le opinioni più divergenti sullo stato di salute, florida o periclitante, dell’Europa come entità spirituale. Ma non è dubbio che, come i fenomeni tipicamente moderni della poesia della poesia o della critica della critica, la cultura della cultura costituisce un passaggio al limite, e perciò non è affatto un indizio di giovinezza. (Lo stesso pensiero del pensiero, che sembra rappresentare l’inevitabile definizione di ogni filosofia, in realtà ha toccato il suo estremo solo con la teologia dell’idealismo, e ha trovato la sua controparte e insieme il suo sfogo nell’eruzione delle forze irrazionali e nella loro capacità di non lasciare fisicamente immune e riparato nessun essere umano). Quell’operazione probabilmente «europea» di autocoscienza che consiste nel porsi il problema della cultura, invece di viverne semplicemente in atto la spontaneità e l’immanenza, equivale a situarla nel circolo spirituale, a misurarla in un’azione, ed è perciò prassi e politica della cultura. Porre il problema della cultura è già dunque, per definizione, optare per una concezione in qualche modo totale della vita. Non si rattiene lo strale quando dell’arco uscì4, ed è ingenuità riunire un congresso sullo «spirito europeo» per poi consigliargli (come è stato fatto, se per esempio se n’è lagnato Spender) di espungere la politica dalla propria competenza. A meno che la cultura non pretenda di giungere al suo estremo della presa di coscienza per isolarsi e trovare nella propria giustificazione un alibi e un pretesto all’inazione, contemplativa di non so che verità noumenica, fides sine operibus. In senso peggiorativo, potrebbe ben darsi che questa fosse una definizione dell’Europa; e in assenza della «terza» soluzione, non è da escludere che essa sia questo scadimento (che è morale) d’una cultura a metodo scolastico. Se la reazione consiste nel frenare arbitrariamente lo sviluppo d’un processo dialettico, nel rifiutarsi alle deduzioni necessarie, sarà lecito senza peccato di demagogico vocabolario chiamare reazionaria una cultura che, giunta alla sua presa di coscienza, si rifiuti di convertirsi in azione.

Residui snobistici

Almeno le frustate di Lukács fossero un ammonimento in questa direzione! Quando egli si domanda dove il razionalismo di Cartesio, di Voltaire, della Rivoluzione francese e di Hegel sia «am lebendigsten», importa poco che la Russia sovietica coincida o non coincida, com’egli asserisce, con questa sede. Importa che si affermi la Lebendigkeit d’una cultura (per di più razionale). Un’operazione meramente poetica o scientifica si soddisfa nella sua formalità. Ma una cultura è il prolungamento attivo d’una filosofia, e il suo primo requisito è la vitalità, il movimento. Io sono il primo a sapere, ad esempio, che «Il Politecnico» formicola di residui ingenui e snobistici (come il credito aperto a Sartre), che gli ortodossi hanno piena ragione di repellere quali borghesi. Ma il segreto della sua superiorità complessiva sopra un ambiente che si accontentasse di possedere la verità senza imporre di renderle testimonianza, è, con tutti i suoi spropositi e le sue coartazioni dell’autonomia spirituale, almeno per quanto è merito di Vittorini, la vitalità. Una rivista (e in genere un organo della cultura) si giudica da questo, non mica dall’esattezza astratta dei suoi teoremi; e per confutare una vitalità ce ne vuole una superiore. Mi rincrescerebbe che il mondo si fermasse a Lukács, ma ben maggior rovina sarebbe che si fermasse prima, magari drappeggiandosi nell’ostentazione di questo arresto, e non attraversasse una così decisa esperienza. Alla quale, se religione è il trasferimento totale d’una «teoria» in verificazione pratica, sarebbe difficile non concedere in qualche modo il predicato di religiosa. Da un rispetto religioso, l’ateismo per assorbimento di Dio del marxista è di certo preferibile all’ateismo per assenza e ignoranza di Dio che colpisce il mondo liberale e democratico quando, e non è altra la sua decadenza, vi si sia estinto ogni effettivo culto della libertà e della democrazia. E davvero terrificante, bisogna confessarlo, era l’assenza di Cristo dalla calvinista Ginevra, e d’ogni voce dichiaratamente religiosa. (Almeno nelle giornate in cui io fui presente – che però non udii la comunicazione del protestante de Rougemont, atletico teoreta, si mormora con applicazioni pratiche, dell’amore occidentale). Capisco che «Cristo non è cultura», secondo la suggestiva formula di Bo (certo, certo, ma è un po’ più grave che la cultura non sia Cristo). Percepii qualche «Jesus» fra le sillabe d’un maniaco germanofono, al quale non era decente prestare attenzione; e sentimmo sì Jaspers discorrere d’un «Gott» molto vago, la cui idea deve consolarci se la nostra azione è limitata e sterile (una specie di dio d’Epicuro fra gli intermundii, estraneo e irraggiungibile?), ma per lui si trattava di culturalizzare, se posso dir così, come componente europea quella ch’egli chiamava ostentatamente la religione ebraica. Tanto che, per lui, Gerusalemme è città europea allo stesso titolo di Atene o di… Ginevra; e, più stranamente, la scienza ha come presupposto necessario e sufficiente la nozione ebraica di Dio creatore, per cui ogni suo prodotto, riflesso della sua bontà, merita di essere studiato. (Salvo errore, qui si dimentica d’introdurre la nozione di Logos). Quanto diverse le cose se si fosse visto agli Entretiens, e cito apposta nomi lontanissimi, un Maritain, un Berdjaev (peraltro rientrato in patria), un Mounier, un Capitini. Karl Barth e don Charles Journet5 non hanno loro stanza troppo lontano da Ginevra. Quale fiducia merita una cultura che, proprio al momento della riflessione, cioè della «crisi», respinge o peggio ignora l’azione e l’istanza religiosa? Una cultura che nutre e incoraggia una società di dove è sparito, e presso vinti e presso vincitori (cominci ognuno a provarne angoscia per il proprio paese), il sentimento di colpevolezza?

Legittimità del razionalismo

Il passaggio al limite che vale per la cultura vale anche, secondo il commento che a queste osservazioni faceva un interlocutore intelligente, per il razionalismo. Giustissimo; e ciò val quanto dire, in ultima analisi, che l’esistenza del razionalismo è profondamente storica e va riconosciuta nella necessità di dominare, in una battaglia non esauribile, le forze e le posizioni irrazionali di cui è tessuta la nostra trama quotidiana. (Anche le nozioni «assurde» di persona, di amore bilaterale – o per il cristiano di grazia necessaria, di peccato originale – sono non già dedotte ma «delimitate» razionalmente). La volontà di razionalizzazione e di superamento dialettico appartiene insomma al dover essere prima che all’essere. Ecco una risposta che, come fondata su questa distinzione, Lukács non poteva evidentemente dare a Jaspers, ma forse la più pertinente. (Jaspers antepone il pragmatismo al hegelismo, certo al più teologizzante e deduttivo, ma non è nella sintesi di questo come un superiore fermento pragmatico?). Il tema essenziale del dissidio, acuito anzi aizzato da Jean Starobinski6, verteva nel concetto di totalità. La totalità è per Jaspers proprio l’attributo dell’irraggiungibile: di quel cerchio od orizzonte («das Umgreifende») che perennemente ci trascende. La frattura, la parzialità, l’insufficienza segnano invece la nostra situazione. Che di qui Jaspers ricavi un’etica plausibile, non si direbbe davvero: il suo spunto più felice è che il potere agire qui ed ora debba indurci ad agire subito, nei termini di qui ed ora, perché la nostra azione modifica il mondo e il futuro, ma di fronte ai dati concreti della storia Jaspers sembra solo suggerire all’individuo una privata azione caritativa e all’Europa la neutralità (accettabile, s’intende, in quanto neutralità fra due forze esposte in meri termini di potenza, quando questa neutralità riesca a porsi essa stessa in termini di potenza; cioè neutralità in una guerra non santa, come la prima mondiale, e non passibile, come invece la seconda, d’interpretazione santa). La debolezza di Jaspers sta nell’affermare la trascendenza totale invece che la trascendentalità dell’Assoluto, senza una mediazione (o un mediatore). Lukács non poteva che respingere, un poco a priori, questo dogmatismo della crisi (e nei corridoi dichiarava che come avversario avrebbe preferito un Heidegger), ma anche il suo concetto di totalità è dogmatico. Quando egli obbietta a Jaspers che l’esistenzialismo è una soprastruttura della «Atomisierung, Zerstückelung, Privatisierung» della società borghese al suo culmine d’individualismo, o, ritorcendo ad hominem l’empirismo della situazione, replica che l’impossibilità di bere una tazza di caffè come conseguenza d’una lite salariale negli Stati Uniti è pure, per l’operaio europeo, una prova diretta dell’unità e solidarietà del mondo, egli mette il dito sulla piaga del moralismo astratto di Jaspers e di molti europei. Ma quando egli interpreta semplicemente la totalità come un’inclusione del citoyen nell’uomo rimedio meritorio ma ovvio (o piuttosto non tanto ovvio se la sua affermazione stonava come estranea nel nobile consesso), la nozione di totalità come attributo perpetuo, perennemente smarrito e perennemente da ritrovare, dell’atto spirituale ne risulta lesa. La concretezza significa di necessità univocità d’interpretazione, nel senso dell’ortodossia leninista? Che si tratti di necessità logica secondo Lukács, si vedeva dal modo come deduceva la tattica, cioè l’alleanza, sempre attuale, del 1941 tra l’Unione Sovietica e le democrazie formali; fino al punto da affermare, paradossalmente diceva lui (in risposta alle domande indiscrete quanto precise di Merleau-Ponty), che chi volesse attuare oggi una società socialista nei paesi occidentali (con ciò portando esca, date le condizioni obbiettive, al fuoco della reazione) andrebbe annoverato tra i «Gegner», gli avversari. In alcuni fra i non moltissimi uditori pratici di tedesco quest’affermazione antitrotzkista (non figurante nel riassunto della pur prodigiosa traduttrice Jeanne Hersch, una studiosa ginevrina di Jaspers7) fece correre un brivido di emozione. A parte gli ovvi riflessi, come dire?, proudhoniani, c’era la conferma e della situazione di Lukács come una sorta di Molotov8 filosofico e del carattere pateticamente intellettuale, il che sfugge alla comprensione borghese, della deformazione professionale dei marxisti ortodossi, la quale suona: in una data situazione esiste una sola linea di condotta (scientificamente determinabile) che sia in sostanza, nella totalità della storia (non già all’apparenza momentanea), rivoluzionaria, ed è quella individuata dalla direzione del partito. Il che, se corregge opportunamente il moralismo e il dilettantismo degli ideologi, in quanto sui binari d’un massimalismo utopistico menano dritto alla rovina della causa, sposta però la totalità fuori dell’atto spirituale, della presenza assoluta, dell’hic et nunc a cui richiamava Jaspers.

Gli intellettuali e il comunismo

E forse a questo punto non è inutile analizzare sommariamente l’equivoco che intercorre fra un «ufficiale» del tipo di Lukács e un’intera classe di adepti occidentali della stessa fede. Da una parte, in occidente, l’intellettuale, nell’accezione più larga del termine, non s’è curato troppo di comprendere che la sua adesione al comunismo doveva essere anche adesione a una dottrina razionalistica, cioè a una volontà di addomesticare e dominare l’impulso irrazionale. Al massimo, egli avrà inteso di castigarsi di fatto nell’obbedienza, non già di castigare il suo intelletto; non avrà affatto capito che si tratta di necessità e deduzione. In Francia, per la verità, l’ingenuità è stata minore: un Malraux, un Sartre hanno ritratto il piede dal passo estremo. Ma in Italia, dove imperversa il dilettantismo esistenzialistico? A meno che si sia pensato come il brillante e leggero Jean Wahl9, al quale, sollevando la sua cresta ricciuta come un agnellino di Persia, toccò di chiudere la discussione (e che «spera», sincretisticamente e direi parlamentaristicamente, che sia ancora possibile l’accordo del ’41): anche il marxismo sarebbe una forma di esistenzialismo, in quanto stabilisce la trascendenza della massa. Ma d’altra parte è innegabile che l’uomo «ufficiale» non s’è reso adeguato conto che innumerevoli adesioni di giovani movevano essenzialmente da un impulso religioso; e proprio da istanze di carità e, in sua funzione ma in sua funzione soltanto, di giustizia, che cercavano di attuarsi concretamente in un’azione immediata e in un’organizzazione, preludio d’una società desiderabile. Forse che il prestigio della Russia, come osservava opportunamente Guéhenno, è solo nell’essere un regime e una scienza, non anche una speranza e la vettrice di quell’anima del «sottosuolo» che ha impregnato lo spirito europeo da Dostoevskij in giù? Un attraente inventario di tali elementi è stato redatto, come si sa, da Berdjaev, nelle Sources et le sens du communisme russe10, e io sarei curioso di sapere, per esempio, come reagirebbe Lukács davanti ai saggi neogalileiani (Novissimum Organum!) di Felice Balbo che si batte (e non importa che come «filosofia» in senso stretto sia ancora molto indigente, ma forse un arazionalismo non ne permette di meno povera) per una concezione meno «metafisicistica», è la sua parola, e più aperta e sperimentale del marxismo11. Il marxista puro rischia, infatti, di lasciarsi sfuggire il proprio della Resistenza, e magari della sua Resistenza. La Resistenza è stata molte cose: ci saranno entrati spirito d’avventura, forza maggiore e infiniti altri ingredienti; ma è stata soprattutto impulso religioso. Ciò almeno vale per la gioventù italiana. (Jean Guéhenno, che dovrebbe intendersene perché insegna letteratura francese a Normale Supérieure, m’ha risposto di no, dei giovani francesi. Sostiene anzi che, benché enormi differenze dividano un anno dall’altro, nel complesso i giovani si riconoscono in Sartre. Fatta ogni riserva circa la sua profondità di lettura nei cuori, è però da congratularsi che i nostri non si ravvisino affatto negli «indifferenti» di Moravia; anche perché Moravia ha avuto il merito di non cavarne né un ideale né una filosofia). La Resistenza coltivava una libertà per poterla sacrificare a un oggetto che ne decidesse degno, come sa chi ama o compie atti politici o pratica vita religiosa. Alla crisi dei «resistenti» è stato alluso anche negli Entretiens, non fosse che per bocca dei francesi. E uno dei suoi termini, certo involontariamente, è stato toccato da Lukács, quando, nell’additare il pericolo della reazione (sempre in funzione del famoso fronte del ’41), ha negato che il solo «dir di no» sia una difesa politica sufficiente. Lukács si riferiva, quanto giustamente, all’opposizione meramente negativa e privata; ma neanche la Resistenza può continuare nella sua forma eroica ma semplice se non si tecnicizza, se non sente l’obbligo morale di acquistare la competenza a governare. Qui interverrebbe l’opposto pericolo, indicato da Guéhenno, quello della «politicisation de la Résistance». Questo è un vizio, chissà perché, per Guéhenno: ma gli applausi che accolsero la sua affermazione d’un’esigenza sintetica di giustizia e di libertà, d’una politica dei mezzi non meno che del fine, volevano salutare la freccia indicatrice, e sarebbero prontamente ritirati se ciò dovesse rimanere letteratura, filantropia, «mystique» alla Péguy che non si faccia «politique». Per chi è convinto che la Resistenza debba politicizzarsi, ciò può avere un senso solo. Il resistente, si diceva, coltivava la libertà per sacrificarla: situazione eminentemente dialettica. Bisogna che la società che lo accoglie viva una vita profondamente dialettica, che essa accetti, soddisfi e componga ogni istanza irrazionale, che non si ossifichi in una teologia della dialettica, che coniughi il suo entusiasmo con principii di validità generale, che storicizzi l’illuminismo. Qui riacquistano pieno senso il gusto europeo (o umano semplicemente?) della Polarität e il sentimento dell’estremo, designati da Jaspers. È probabile, poiché si tratta di graduare gli ostacoli, e il primo è il Faschismus in accezione estesa, che l’alleanza del ’41 possa ritenere un valore, ma solo come metafora di ben altra alleanza: la lega degli uomini religiosi contro gli atei, nel senso morale chiarito sopra.
A proposito della guerra al moralismo astratto (comprendiamo benissimo che chi sente ragionare come se il mercato nero e la prostituzione fossero curabili con le prediche e il buon esempio, possa provare la tentazione di precipitarsi a chiedere una tessera compromettente), debbo segnalare l’interessante intervento d’un italiano, il dottor Campagnolo, direttore dell’ISPI12: fatto anche in buon francese (poiché siamo al punto che perfino questa circostanza diventa motivo di lode). Il Campagnolo se la prende con chi dei mali attuali vede responsabile una crisi della cultura. No, egli asserisce, questi guai – che sono poi europei, non mondiali – dipendono tutti da fattori tecnici: da istituzioni che, nate in situazioni determinate, si sono svelate inadeguate alla nuova situazione. La malattia è nel mercato, e il rimedio (ma potrei semplificar troppo il suo ragionamento, perché il presidente, stretto dal tempo, costringeva l’oratore a sforbiciare tutta la dimostrazione) consiste nella fusione dei mercati europei, nella federazione europea. Era la voce (quanto rara e benefica) di un giurista e tecnico, che tende a ridurre ogni cosa a fatti professionali, come per parte loro il professore di filosofia e l’uomo di lettere. Con ciò, non credo che il Campagnolo sia riuscito a sottrarre del tutto la faccenda dal campo che c’interessa: i miti nazionalistici, per esempio, sono una soprastruttura piuttosto insigne e micidiale dell’errore tecnico, e d’altronde la negligenza della tecnica rientra agevolmente nel vizio del moralismo astratto e nella mentalità conservatrice. Importa, comunque, che egli negasse la sufficienza di palliativi pedagogici alla situazione; anche se sia prevedibile che non esistano sufficienti rimedii senza una cultura, filosofica o mitica, corrispondente. Cavour era un tecnico: rinunciava per questo a ogni idée générale? Auguro a tutte le generazioni qualche comprensione, per esempio, di Virgilio: ma come non accorgersi che un certo culto di Virgilio (della bellezza immobile, prodotto oggettivo, con sede fisica) ha correlati politici inevitabili? D’altra parte, non è che il dato di cultura resti invariabile, quanto a efficacia, mentre la situazione politica muta: basti pensare a qualche nome (non uno solo) che fu essenziale durante l’opposizione – e anzi dalla compressione, dal dir di no, cavò motivi di sua affermazione o suo rinnovamento –, che perciò fu tra i viatici della Resistenza, e la cui presenza oggi (e per il momento) non si rivela più d’aiuto.

[…]

note

1 G. Lukács, Geschichte und Klassenbewusstsein. Studien über marxistische Dialektik, Malik Verlag, Berlin 1923 (trad. it. Storia e coscienza di classe, Sugar, Milano 1967). Lo svizzero Theophil Spoerri (1890- 1974), filologo romanzo ed esponente della critica stilistica, insegnò a Theophil Spoerri (1890- 1974), filologo romanzo ed esponente della critica stilistica, insegnò a lungo letteratura francese e italiana all’università di Zurigo. Dell’«unico esemplare del capolavoro di Lukács che figuri in una biblioteca pubblica svizzera» scriverà Cesare Cases: «A Zurigo, durante gli ultimi anni di guerra, frequentavo spesso il Sozialarchiv, una biblioteca di storia e politica del movimento operaio […] Dunque al Sozialarchiv trovai per un caso fortunato nell’inverno 1944-45 l’unica e richiestissima copia di quel libro tanto decantato da Goldmann e la presi in prestito palpitando di gioia» (Su Lukács. Vicende di un’interpretazione, Einaudi, Torino 1985, pp. VII-VIII). In Confessioni di un ottuagenario (Donzelli, Roma 2003, pp. 81-89), lo stesso Cases racconta di avere conosciuto a Zurigo sia Lucien Goldmann (Bucarest 1913 – Parigi 1970) sia Spoerri, frequentando il seminario e il salotto di quest’ultimo.

2 Nella repubblica consiliare ungherese proclamata da Béla Kun (1886-1937?) e durata dal 21 marzo al 1° agosto 1919, Lukács era stato commissario all’Istruzione.

3 L’«alleanza del ’41» fra l’Unione Sovietica e le democrazie occidentali, cui Contini allude in seguito chiamandola anche «accordo» e «fronte» del ’41, fu determinata dall’invasione nazista dell’Urss che, nel giugno 1941, pose fine al patto di non aggressione sovietico-tedesco firmato a Mosca nell’agosto 1939 dai ministri degli Esteri Vjačeslav Molotov e Joachim von Ribbentrop. L’alleanza del ’41 «fra il socialismo e la democrazia […] contro il fascismo» è una formula usata spesso da Lukács a Ginevra: «… dire che bisogna mantenere l’alleanza del 1941 significa che la si vuole mantenere fra socialisti e non socialisti; e poco importano le differenze che sussistono in seno all’alleanza purché si resista al pericolo più grande: il fascismo».

4 La seconda quartina di una celebre arietta di Pietro Metastasio (Ipermestra, I, 1) recita: «Voce dal sen fuggita / poi richiamar non vale; / non si trattien lo strale, / quando dall’arco uscì».

5 Karl Barth (Basilea, 1886-1968) è considerato il principale teologo riformato dai tempi di Giovanni Calvino. Charles Journet (1891-1975), sacerdote e teologo ginevrino, sarà fatto cardinale da Paolo VI nel 1965.

6 Jean Starobinski (Ginevra 1920), critico letterario e medico, autore di numerosi libri tradotti anche in italiano, è una delle maggiori personalità della cultura contemporanea (si veda la nota 2).

7 Jeanne Hersch (1910-2000), seguace e traduttrice francese di Jaspers, insegnò filosofia all’università di Ginevra dal 1956 al 1977.

8 Vjačeslav Michajlovič Molotov (1890-1986, pseudonimo di V.M. Skrjabin), rivoluzionario e uomo politico bolscevico, fu a lungo ministro degli esteri dell’Urss (si veda la nota 2).

9 Jean André Wahl (1888-1974), filosofo francese, professore alla Sorbona dal 1936 al 1967 (ma esule negli Stati Uniti dal 1941 al 1945), si occupò nei suoi studi di Hegel, Descartes, Kierkegaard e Heidegger.

10 Il filosofo Nikolaj Aleksandrovič Berdiaev (1874-1948), esponente dell’esistenzialismo cristiano con trascorsi giovanili marxisti, lo aveva scritto in russo nel 1935 e pubblicato in traduzione francese (Gallimard, Paris 1938; trad. it. Le fonti e lo spirito del comunismo russo, Corticelli, Milano 1945; poi Le fonti e il significato del comunismo russo

11 Il riferimento è al libro che Felice Balbo (1913-1964) aveva appena pubblicato: Il laboratorio dell’uomo (Einaudi, Torino 1946), e in particolare al saggio Il metafisicismo del materialismo dialettico (pp. 76-89).

12 Umberto Campagnolo (1904-1976), esule a Ginevra dal 1933 al 1941, dal 1943 al 1974 insegnò storia delle dottrine politiche e filosofia della politica all’università di Padova. Durante la guerra lavorò a Ivrea per Adriano Olivetti; nel dopoguerra militò nel Movimento federalista europeo e diresse a Milano l’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale). Segretario generale della Société européenne de culture, creata a Venezia nel 1950, ne diresse la rivista «Comprendre».

Il paradigma inattuale: Pirandello, Lukács e la tragedia

di Gaetano Compagnino

da «Letterature e lingue nazionali e regionali. Studi in onore di Nicolò Mineo»
a cura di S. C. Sgroi e S. C. Trovato, Roma 1996, pp. 89-119.


C’è, per Pirandello, un luogo in cui la sfera dell’arte e quella della ‘vita’ si intersecano e sembra si sovrappongano fin quasi a coincidere: è il luogo in cui si produce la rappresentazione di sé e del mondo – da parte degli uomini in carne ed ossa nella vita, da parte dell’artista nella creazione dei personaggi e del mondo dell’arte sua.

Dall’Umorismo del 1908 a Trovarsi (del 1932), lo scrittore torna di frequente sulla questione e spesso con le stesse parole1. Se mai, fra le pagine di un testo e quelle dell’altro è possibile trovare delle differenze di tono, poiché ora, come nella prima edizione del saggio sull’Umorismo, egli sottolinea (più di quanto non accada nella seconda) la comune natura illusoria delle due rappresentazioni2, ora ne accentua la differenza, come in Trovarsi, precisamente in relazione alla ‘libertà’ che è propria della disinteressata creazione dell’artista e agli ostacoli cui invece non riesce a sottrarsi la interessata rappresentazione della propria ‘realtà’, che è poi il problema donde prende le mosse Il fu Mattia Pascal3: Continua a leggere

«Rischio calcolato» del pensiero rivoluzionario

di Mario Spinella

«l’Unità» 7 gennaio 1969


La «teoria critica della società» da Lukács a Marcuse

L’opera di un giovane studioso ricostruisce le linee del dibattito che la cultura marxista ha affrontato con slancio e rigore a partire dagli anni venti del nostro secolo – Lenin e l’Ottobre: il vero punto di partenza

La situazione attuale del movimento operaio, caratterizzata, a livello internazionale, da divergenze e contrasti anche profondi, rende più che mai necessaria l’esigenza di uno sviluppo teorico impetuoso del marxismo. E non vi è dubbio che un tale sviluppo esiga, tra l’altro, anche una approfondita conoscenza, e un ripensamento, della stessa storia del marxismo e della sua influenza sulla cultura contemporanea e sulla nostra immagine del mondo.

In questo quadro, anche i contributi che alla storia del marxismo provengono da ambiti che non coincidono, o non coincidono interamente, col movimento operaio, vanno valutati e apprezzati al loro giusto valore: per il loro impegno conoscitivo e critico, per l’atteggiamento aperto e appassionalo che talvolta – o forse spesso – li caratterizza. Tale è certo il caso del libro di un giovane studioso milanese, Gian Enrico Rusconi, La teoria critica della società (Bologna, Il Mulino, 1900, pagg. 304, L. 3000), dedicato allo svolgimento di quella vasta corrente culturale, fondamentalmente ispirata al marxismo, che va dal Lukács di Storia e coscienza di classe, e dal Karl Korsch di Marxismo e filosofia (l’una e l’altra opere del 1923-24), attraverso un ricchissimo dibattito filosofico e sociologico, sino ai recenti scritti di Herbert Marcuse, che tanta influenza sembrano avere nelle spinte intellettuali dei gruppi di avanguardia degli studenti in rivolta contro la società dei consumi e contro l’imperialismo americano.

Non solo Lukács e Korsch, ma anche altri esponenti di questo filone della cultura contemporanea, sono stati – più o meno a lungo – militanti attivi del movimento operaio o suoi simpatizzanti; e con le correnti ideologiche che nel movimento stesso hanno finito per dominare, si sono in vario modo scontrati. E tuttavia, nell’insieme, sarebbe giudizio superficiale attribuire solo a torti di questi intellettuali il difficile rapporto con la realtà del socialismo e del comunismo: vero è, semmai, che proprio non aver saputo sempre operare con l’intelligenza e la duttilità necessarie nei confronti di questa, o di altre, correnti di pensiero simpatetiche, almeno, nei confronti del marxismo, è uno di quei problemi di autocritica e di valutazione storica che si pongono forse come necessari per gli ulteriori sviluppi della teoria nel movimento operaio.

E resta comunque il fatto che l’itinerario culturale culminato in quella che si definisce la «Teoria critica della società», e che ha come più noti esponenti Horkheimer, Adorno, Marcuse, si è sempre posto, almeno come momento di autocoscienza dei suoi esponenti, contro la società capitalistico-borghese e per una rivoluzione radicale che riaprisse all’uomo – secondo le tesi di Marx – le prospettive di un enorme ampliamento della sua libertà e delle sue possibilità di espansione.

Questo itinerario culturale è seguito con estrema attenzione nel libro di Rusconi. La crisi politica e sociale della borghesia nel primo dopoguerra, le immense speranze suscitate dalla Rivoluzione di Ottobre, la decadenza teorica e pratica della socialdemocrazia, diedero, agli inizi degli anni venti del nostro secolo, un immenso slancio alla ricerca marxista. Il dibattito teorico e culturale raggiunse un grado altissimo, e, specialmente in Germania, influenzò alcune tra le più spiccate personalità intellettuali del momento – come Karl Mannheim, per esempio – e costituì il terreno di formazione del giovani studiosi più aperti al nuovo e più drammaticamente impegnati, con tutta la loro personalità, nella lotta contro le categorie del pensiero borghesi, figlie, a loro volta, della oppressione e della repressione del capitale.

Punto di partenza ideale, al livello della elaborazione teorica e concettuale, fu la battaglia leninista contro il marxismo della Seconda Internazionale. Questo non appare, in verità, dalla ricerca di Rusconi – ed è probabilmente il più serio appunto che potremmo muovergli: ma vero è che senza Lenin e senza l’Ottobre non si spiegherebbero quel Lukács, quel Korsch, e in genere quelle ricerche intorno al marxismo come teoria rivoluzionaria, e non solo come teoria immediata della rivoluzione politica, che così attentamente ed acutamente sono state ripercorse nel libro di Rusconi.

Momento chiave del nesso tra marxismo e «teoria critica» è certo – come bene individua l’Autore – la dialettica; e, più precisamente, la comprensione, che è propria della dialettica di Marx, che l’uomo conosce il mondo (e se stesso) sempre attraverso una mediazione specifica, che è di carattere socio-economico. («I fatti, che i sensi ci trasmettono, sono socialmente preformati in doppio senso: attraverso il carattere storico dell’oggetto percepito e il carattere storico dell’organo percettivo. Ambedue non sono meramente naturali ma formati attraverso l’attività umana», scrive Horkheimer nel 1937, riprendendo il Marx dei Manoscritti del ’44 e della Ideologia tedesca). Contro il positivismo, l’obbiettivismo, lo scientismo, il falso realismo, borghesi, la polemica è implacabile: e non è una polemica inutile se ancora oggi, e spesso tra i più avanzati teorici del marxismo contemporaneo (quale, ad esempio, Althusser in Francia) l’influenza del positivismo – nella sua odierna variante europea che è lo strutturalismo – appare non del tutto debellata.

Certo, privilegiare la dialettica, significa muoversi sempre su un filo di rasoio tra Hegel e Marx: e, a partire dal Lukács di Storia e coscienza di classe, questo ha voluto dire scivoloni e ricadute indietro, da Marx a Hegel. Ma oseremmo dire che questo è «un rischio calcolato»: al contrario del pensiero borghese, tronfio di sé e dei propri schemi, il pensiero rivoluzionario, come la prassi della rivoluzione, sceglie continuamente il rischio e l’insicurezza. È proprio della conservazione privilegiare la sicurezza, gli schemi formali apparentemente perfetti, la predeterminazione del futuro. Noi – aveva detto Marx – non siamo i cuochi della cucina dell’avvenire: sappiamo soltanto che il sistema borghese va distrutto, per impedire che esso distrugga l’uomo. Aver sempre tenuto ferma questa consapevolezza, davanti alle delusioni e alle sconfitte personali e ideali, non è il minor merito della scuola della «teoria critica della società». E va ringraziato un giovane studioso, quale è Rusconi, di aver ricostruito per noi con esattezza scientifica e rigore di metodo, questo drammatico ma vivente itinerario del pensiero moderno.

György Lukács. Pubblicato un volume che raccoglie scritti inediti del filosofo ungherese

di Antonino Infranca

il manifesto 03/01/2004

petoefi03

Al circolo Petöfi

L’ACCUSA DI CONNIVENZA CON LO STALINISMO FU SEMPRE RIFIUTATA DAL FILOSOFO UNGHERESE. SOLO NEL LUNGO SAGGIO, SCRITTO AGLI INIZI DEGLI ANNI SETTANTA E DAL TITOLO FORTEMENTE PROGRAMMATICO «TESTAMENTO POLITICO», L’AUTORE DI «STORIA E COSCIENZA DI CLASSE» AMMISE APERTAMENTE DI AVER COMPIUTO ALCUNI COMPROMESSI, IN NOME DI UN MARGINE DI LIBERTÀ PER DENUNCIARE IL CARATTERE ILLIBERALE E AUTORITARIO DEL REGIME SOVIETICO

Il libro di György Lukács (Testamento politico, Buenos Aires, Herramienta, pp. 188), pubblicato di recente in Argentina in lingua spagnola, contiene materiale in parte del tutto inedito e in parte inedito in italiano. Si tratta di documenti imprescindibili per ricostruire una vicenda esistenziale e una stagione di pensiero importanti di un filosofo del calibro di Lukács, pensatore che è un vero e proprio paradigma del rapporto tra intellettuali e stalinismo. In Italia, la condanna all’oblio decretata da alcuni intellettuali nei suoi confronti è dovuta proprio all’accusa di essere stato uno stalinista. Ma è vero piuttosto il contrario. Vale la pena a questo proposito di leggere alcuni brani tratti soprattutto dall’ultimo saggio del libro, Testamento politico, che dà titolo all’intera raccolta. Il volume contiene scritti che risalgono al periodo post-bellico, dal 1946 al 1971. Tre di essi sono stati pubblicati da tempo in italiano: La visione aristocratica e democratica del mondo, I compiti della filosofia marxista nella nuova democrazia, La responsabilità sociale del filosofo, che risalgono agli anni compresi tra il 1946 e il 1950. Pubblicata per la prima volta è una lettera a Cesare Cases dell’8 giugno 1957, cioè dopo il ritorno di Lukács dalla deportazione in Romania, dopo la Rivoluzione Ungherese del 1956. Inediti in italiano sono un’intervista del 1969, il saggio Al di là di Stalin (1969) e uno scambio espistolare con János Kádár, l’allora segretario del Partito comunista ungherese. Il carteggio avvenne nel 1971 in seguito all’intervento di Lukács a favore di due giovani dissidenti ungheresi, Dalos e Haraszti, accusati di maoismo e arrestati. Da questo scambio epistolare nacque l’idea di intervistare il vecchio filosofo per raccogliere le sue ultime riflessioni politiche. Ne sortì il Testamento politico apparso finora soltanto in ungherese nel 1990, cioè dopo la fine del regime, che ne aveva vietato la pubblicazione. Per comprendere che tipo di lotta che Lukács condusse contro lo stalinismo è sufficiente limitarsi a narrare i fatti. Lukács entrò a far parte del Partito comunista ungherese nel dicembre 1918. Partecipò alla Rivoluzione ungherese dei consigli del 1919 e per questo fu condannato a morte dal governo reazionario di Horthy. Fu così costretto a rifugiarsi prima in Austria e poi in Germania. Durante questo periodo (1919-1930) i suoi rapporti con la maggioranza del partito comunista, guidata da Béla Kun, furono sempre cattivi anche perché Lukács sosteneva l’alleanza con i socialdemocratici contro la politica di Kun e di Stalin. A causa della salita al potere di Hitler, dalla Germania fu costretto a rifugiarsi in Unione Sovietica, dove rimase fino al 1946, quando fece ritorno nell’Ungheria liberata dall’Armata Rossa. In Urss i suoi rapporti con il regime stalinista furono tanto cattivi che lo stesso Lukács fu arrestato nel 1941 per un mese. In Ungheria la posizione di Lukács rimase «tranquilla» soltanto per pochi anni, dal 1946 al 1949, quando le sue aperture politiche nei confronti dei partiti cosiddetti «borghesi» e la democrazia occidentale furono dichiarate eccessivamente eclettiche e quindi condannate. Nel 1949 si scatenò nei suoi confronti una offensiva di stampa da parte del regime comunista che portò alla sua destituzione dall’Università di Budapest. Lukács si fece «dimenticare», dedicandosi alla stesura della sua Estetica, salvo tornare all’attività politica intensa nel 1955. I suoi discorsi, tenuti presso il Circolo Petöfi, erano diretti contro il regime stalinista ungherese, messo in crisi dalla morte di Stalin e da una forte crisi economica, ed erano talmente affollati che era necessario affittare un teatro per contenere la folla. Nell’ottobre 1956 lo scoppio della rivoluzione permise a Lukács di entrare nel governo Nagy e nel Comitato centrale del Pcu. Particolarmente drammatica fu la riunione nella notte tra il 3 e il 4 novembre, quando il Comitato centrale doveva decidere l’uscita o meno dell’Ungheria dal Patto di Varsavia. Kádár, che diverrà poi segretario del partito, votò a favore dell’uscita per offrire ai sovietici un pretesto per giustificare l’invasione dell’Ungheria, che era stata già decisa. Lukács votò, invece, a favore della permanenza nel patto di Varsavia per non offrire questo pretesto. La decisione di uscire fu presa con 3 voti contro 2 e da lì la tragedia dell’Ungheria con la pretesa giustificazione sovietica. A seguito della sua partecipazione al governo Nagy, Lukács fu deportato con tutto il governo in Romania. Dopo sei mesi, fu riportato a Budapest e ritornò ai suoi studi, pur non volendo una «riconciliazione con la realtà alla maniera del vecchio Hegel» e mantenendosi fedele al motto di Zola, «La verità è lentamente in marcia e alla fine nulla la fermerà», come scrive nella lettera a Cases. Nel 1967 gli fu chiesto dal Comitato centrale di rientrare nel partito e Lukács accettò, salvo uscirne nuovamente il 24 agosto 1968 a seguito dell’invasione della Cecoslovacchia. Gli ultimi anni di vita – Lukács morì il 4 giugno 1971 – il filosofo li trascorse impegnato nella stesura dell’Ontologia dell’essere sociale, ma sempre pronto a partecipare alla vita politica del paese in posizione critica, come conferma il carteggio con Kádár. Costante fu il suo rifiuto di accettare i diktat del regime stalinista, come conferma il saggio Al di là di Stalin, che è una sorta di bilancio dei suoi rapporti con lo stalinismo. Saggio che deve essere costato tantissimo al filosofo ungherese, perché vi è anche il riconoscimento di qualche compromesso con lo stalinismo, ma sempre al fine di guadagnare posizioni per ottenere maggiori spazi di libertà. Spazi che poi furono patrimonio comune degli intellettuali ungheresi, che poterono godere delle maggiori aperture di un regime post-stalinista come quello kadarista. Conferma ne è, paradossalmente, la stessa vicenda Dalos e Haraszti, quando Lukács interviene per protestare contro la condanna a 25 giorni di prigione inflitta ai due dissidenti. Paragoniamo la vicenda di Lukács a Ernst Bloch, altro grande pensatore marxista che fu coinvolto in vicende drammatiche di contrasti con il regime comunista tedesco-orientale e che preferì fuggire in Germania occidentale dopo la costruzione del Muro di Berlino: la posizione di Lukács invece fu quella di rimanere a lottare contro il regime ungherese perché ritenne che questa era la sua lotta per la libertà e la «democrazia socialista» nel suo paese. Una scelta che non può essere scambiata per un atto di compromesso con lo «stalinismo» e con il «socialismo reale», come i nuovi documenti di cui sopra contribuiscono a confermare.

Sulla povertà di spirito. Scritti (1907-1918)

psicoA nessun pensatore espressionista spetta una particolare dignità nell’ambito della filosofia sistematica. E ciò non tanto per cattiva disposizione dei singoli, ma perché è nella finalità naturale di un pensare «per espressione» il rifiuto di un ordine del pensiero «per sistema», che richiama la tradizione, e in definitiva ciò che della poligrafia dell’espressione viene negato. Da Bloch al giovane Horkheimer, e fino al primo Lukács, questa disposizione è spinta al punto da farli apparire dei mediocri pensatori, poco costanti e ordinati. In effetti, l’imprecisione è una delle caratteristiche più evidenti della fenomenologia di pensiero del giovane Lukács: nessuno dei concetti chiave a cui si rivolgono i saggi di L’anima e le forme è definito con precisione, al punto che ogni tentativo di una sua ripetizione da parte di un commentatore sfiora il limite dell’arbitrio e della ridefinizione. Ed è significativo che questa disposizione lukacsiana si accompagni a un furor raziocinante continuo; non è dunque una mancata volontà di esattezza concettuale, ma piuttosto una scelta di metodo, necessariamente subita, se non avviata da un’opzione prestabilita. Si deve comunque concludere che la disposizione sistematica e la precisione definitoria non sono per il giovane Lukács buone vie verso la verità. La volontà razionalizzatrice e la predilezione per il pathos del concetto sono i due veicoli privilegiati del procedere del suo pensiero, e la loro coesistenza fa pensare direttamente a quel dualismo tra spirito geometrico e intenzione espressiva che si è voluto vedere come anime irrinunciate del primo espressionismo tedesco. Esattamente come nella poesia e nella pittura espressioniste, anche nei saggi di Lukács queste due componenti giocano in compresenza l’una dell’altra, piuttosto che indicare i termini di una divaricazione formale.