Il filosofo innamorato

di Oreste del Buono

«Corriere d’informazione», 30-31 maggio 1963


Un vecchio libro che resta vivo

Il saggio sulla vicenda di Kierkegaard e di Regina Olsen è uno dei capitoli più affascinanti del volume «L’anima e le forme» dello studioso ungherese Lukács

* * *

Esistono nella routine di un lettore di professione, di un recensore di libri, rari momenti d’entusiasmo, intensi proprio perché rari, momenti in cui tocca dar conto di qualche opera capitale, momenti in cui il discorso tende naturalmente a superare i limiti della segnalazione. Il libro che oggi vi consigliamo con entusiasmo non è recente (i capitoli che lo compongono risalgono a cinquantatré, cinquantaquattro, cinquantacinque e anche cinquantasei anni fa); non è neppure un romanzo o una raccolta di racconti (è una antologia di saggi): costituisce, tuttavia, la lettura più appassionante che ci sia stata offerta in questi anni, la lettura ideale, capace di illuminare vecchie nozioni e di spalancare nuove prospettive. Dobbiamo essere grati all’editore Sugar che nella sua bella collana critica “Argomenti” ci ha proposto la traduzione italiana del primo gran testo di György Lukács, L’anima e le forme.

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Formalisti che ignorano le forme

di Vittorio Saltini

«L’Espresso», n. 21, 26 maggio 1968


Boris Ejchenbaum, Il giovane Tolstoj La teoria del metodo formale, De Donato, Lire 2000.

Ancora una volta la lettura d’un formalista russo, in questo caso Ejchenbaum, è deludente. Ejchenbaum qui affronta Tolstoj, ma la sua analisi si mostra di troppo inadeguata all’oggetto. Sarebbe utile confrontare queste pagine col più ampio giudizio di Lukács su Tolstoj (nei Saggi sul realismo): si scoprirebbe che proprio sulle differenze formali fra l’epica tolstoiana e le altre forme romanzesche dell’Ottocento, il contenutista Lukács (malgrado lo svantaggio iniziale di voler partire da una tesi di Lenin) ci sa dire cose ben più precise del formalista Ejchenbaum.

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Tecnica, contenuti e problemi di linguaggio

di György Lukács

[Intervista di Yvette Biró e Szilárd Ujhelyi a Lukács apparsa sulla rivista ungherese “Film Kúltura” e poi in traduzione italiana su “Cinema nuovo”, n. 196, novembre-dicembre 1968]


Nei mesi scorsi il filosofo György Lukács ha assistito alla proiezione di quei nuovi film ungheresi che hanno ottenuto particolari riconoscimenti in patria e all’estero, e che sono considerati tra i più rappresentativi. Tra le opere di Miklós Jancsó, Igy jöttem (Sono venuto così), Szegénylegények (I disperati di Sandor), Csillagosok, katonák (Stellati, soldati [L’armata a cavallo, Ndr]) e Csend és Kiáltás (Silenzio e grido); tra quelle di András Kovács, Nehéz emberek (Uomini difficili), Hideg napok (I giorni freddi) e Falak (I muri); di István Szabó, Apa (Il padre); e di Zoltán Fábri, Húsz óra (Venti ore); di Ferenc Kósa, Tizezer nap (Diecimila soli). Il complesso dei film ungheresi con i loro temi variati solleva un grande numero di problemi sia artistici, sia legati alla nostra società di oggi, sui quali “Film Kúltura” ha posto alcune domande a Lukács. L’intervista – che pubblichiamo integralmente, per gentile concessione della rivista ungherese e nella traduzione di Ivan Lantos – ha avuto luogo il 10 maggio in casa del filosofo; le domande sono state poste dai redattori Yvette Biró e Szilárd Ujhelyi.

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Diavolo azzurro o diavolo giallo?

di György Lukács

[risposta di Lukács alle critiche rivolte da Umberto Barbaro all’articolo Lukács, il film e la tecnica, apparse sul quotidiano “L’Unità” il 22 gennaio 1959. Il testo è stato pubblicato su “Cinema nuovo”, n. 154, novembre-dicembre 1961]


Ne “L’Unità” del 22 gennaio Umberto Barbaro dedica un articolo ad alcune mie osservazioni provvisorie, in origine puramente epistolari (erano espresse in una lettera al mio ex-scolaro István Mészáros), intorno al film, che sono state pubblicate dalla rivista “Cinema nuovo”1. L’articolo stesso, come si mostrerà subito, non meriterebbe una replica. Tuttavia la sede in cui è apparso gli conferisce un certo peso, e può forse essere utile rimettere a posto i problemi che in quell’articolo sono stati interamente capovolti. Umberto Barbaro cita alcune righe della presentazione redazionale che introduceva le mie osservazioni senza nemmeno addentrarsi nel testo vero e proprio (il lettore vedrà che si tratta qui del metodo critico da lui costantemente adoperato). Egli cita dunque le parole della presentazione secondo cui io do ragione a Mészáros quando egli distingue la tecnica dalla forma, e aggiunge subito la conseguenza che io contesterei senz’altro l’importanza della tecnica nell’arte. Devo confessare che, benché non nutra un’opinione troppo alta della logica dei neopositivisti, questo volo pindarico mi ha egualmente sorpreso.

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Tribuno di popolo o burocrate?

di György Lukács

in Il marxismo e la critica letteraria

I testiIl marxismo e la critica letteraria>Tribuno di popolo o burocrate?


«La letteratura si corrompe solo nella misura in cui gli uomini diventano più corrotti».

GOETHE

I. Il significato generale dell’impostazione leniniana.

L’opera di Lenin Che fare? servì a smascherare la filosofia opportunistica, assai diffusa al momento della sua pubblicazione (1902), degli «economisti». Costoro protestavano contro l’unità del movimento rivoluzionario russo sul piano teorico e su quello organizzativo; secondo loro, la sola cosa che contava era la lotta dei lavoratori per i loro interessi economici immediati, la loro spontanea rivolta contro le rappresaglie dei padroni delle fabbriche. Essi limitavano il compito del rivoluzionario cosciente all’aiuto da dare ai lavoratori nelle lotte locali, immediate. Interpretare i singoli scontri di classe come parti della generale missione storica del proletariato; chiarire i singoli momenti della lotta, mediante la propaganda politica, alla luce della dottrina socialista; unificare i singoli movimenti di resistenza in un moto politico rivoluzionario diretto al crollo del capitalismo e al trionfo del socialismo: tutto ciò significava, per gli «economisti», «far violenza» alle masse lavoratrici, col pericolo di isolare gli intellettuali rivoluzionari dalle masse. Gli «economisti» assicuravano che il movimento spontaneo diventa consapevole attraverso il suo stesso processo di crescenza. Continua a leggere

Una storia di maschere?

di Franco Fortini

«Avanti!» 3 luglio 1949

[Avvertenza: riprendiamo il testo di questo articolo da una copia cartacea rovinata, per cui alcuni passi non sono leggibili. In quel caso è posta il simbolo […] ad indicare la mancanza. Inoltre – piccola nota filologica – quando Fortini usa l’aggettivo “virtuistico”, fa riferimento alla terminologia di Vilfredo Pareto e lo mutua dal suo maestro Giacomo Noventa, che ne fece grande uso. In generale l’aggettivo vale come “moralistico”, nel senso negativo del termine].


M’è avvenuto di leggere, nei giorni passati, la Breve storia della letteratura tedesca del critico e filosofo marxista Georg Lukács, tradotto in francese nelle edizioni Nagel. È questa una storia sociologica e politica della letteratura tedesca, un’essenziale discorso sulle vittorie e sugli errori di una cultura, espressa nelle forme letterarie, equivalenti, se non esattamente paralleli alle rare vittorie e ai molti funesti errori della evoluzione democratica tedesca. La leggevo con particolare attenzione, perché, da noi, si può dire quasi inesistente, o appena i suoi inizi, una critica letteraria di ispirazione marxista; e poi, perché è questo, di una critica letteraria ispirata a quei principi (ma bisognerebbe dire persino di una estetica rinnovata, di contro alla tradizione dell’idealismo; vedi l’importante lavoro di Galvano Della Volpe) uno degli argomenti di più frequente riso e critica, fra uomini non solo delle altre, ma anche delle nostre tendenze politiche.

E in questi giorni l’Avanti! ha ospitato una «Breve storia degli intellettuali italiani» che mi ha dato molto da riflettere. Iniziativa, quella di G. Peirce, lodevole, soprattutto se la sua forma giornalistica fosse stata la conseguenza di uno studio vero e proprio; ma, diversamente da quella del Lukács, molto pericolosa e ricca di equivoci. Diciamo subito che fare della critica “marxista” (metto deliberatamente tra virgolette questa parola per indicare il riferimento più o meno preciso al complesso della tradizione marxista, mentre parlando di marxismo tout court oggi, è impossibile non intendere il marxismo-leninismo nell’interpretazione stalinista, cioè comunista, e nelle sue applicazioni più recenti) non può voler dire cercare delle semplici corrispondenze e dei rapporti di causa-effetto tra fattori sociali e politici e strutture economiche, da una parte, e opere d’arte o di letteratura (espressioni delle sovrastrutture) dall’altra. Dire, come fa Peirce, e come molti dicono, che il movimento letterario e culturale rappresenta il tal momento politico o la tal altra esigenza di difesa o di offesa di classe (e dirlo, poi, con esasperante schematismo) non può non ridurre opere di pensiero e di letteratura a maschere ideologiche da “smascherare” secondo una locuzione troppo frequentemente e imprudentemente; in questo caso la storia di una letteratura sarà ridotta a una storia di maschere e di burattini; e la storia della filosofia ad una storia di ideologie, cioè di filosofia considerate soltanto nella loro fase di decadenza e di “applicazione” (e mi si permetto, a questo proposito lamentare che i socialisti stiano confermando l’uso improprio di chiamare “ideologica” ogni attività culturale e teorica di partito). Una critica di tal genere sembra covare in chiunque si illude che il marxismo sia una “riduzione all’economico” e in chi porta una intima incomprensione e forse un segreto dispetto e odio alla letteratura e all’arte, (che sono senza dubbio, uno dei più vistosi strumenti e aspetti della iniquità sociale e dello sfruttamento); una critica di tal genere non sarà una critica “partitica”, ma soltanto una critica virtuistica (e finalmente ingenua) che non potrà far altro se non “smascherare” falsità, menzogne, errori e brutture, tesa all’auspicio di una letteratura che…non mascheri nulla. Io mi permetto di consigliare (per qualche esperienza che ho di questo genere di discorsi) di stare molto attenti: si rischia di dire alcune clamorose sciocchezze, di ingannare dei compagni che mancano del modo di controllare i nostri errori, e di disgustarne inutilmente altri. Voglio dire che queste «storie brevi» sarebbe meglio considerarli saggi di sociologia delle lettere e delle arti. Se si dichiara che l’opera letteraria non ha altro senso che quello di rappresentare un momento della struttura economica e politica, non capisco perché si studino i grandi poeti e gli scrittori e non già la minore pubblicistica o le opere di mero successo che quei momenti rappresentano, documentano o denunciano tanto più chiaramente. Se invece (pur con la necessaria prudenza dopo i recenti abusi delle alleanze crociano-cattoliche e della critica idealistico-mistica) si maneggi il criterio della distinzione estetica, si arriverà forse ad una conclusione che si può sì compendiare come segue.

L’indagine dei rapporti fra la espressione artistica (nelle forme che siamo soliti chiamare «poesia» e «letteratura») e il mondo della società storica (indagine che non è nata con le ultime leve!) è una forma di filologia, serve cioè da strumento per una più esauriente comprensione di quella espressione, e, correlativamente, di quel mondo. Si tratta di stabilire anzitutto i limiti di questa, come di qualsiasi altro strumento di interpretazione. Cioè, se l’attività critica deve soltanto tradurre in termini di sociologia, di politica, di «sovrastrutture» l’opera letteraria, la categoria estetica sarà negata; se invece essa deve introdurre (e non sostituirsi), la sua indagine dovrà essere molto più profonda e delicata di quel che certa gente creda. Per fare un esempio: dire che la tal poesia di X è l’espressione della borghesia imperialista del paese Y nella fase Z è fare un giro inutile e costoso quando sarebbe infinitamente più semplice e redditizio ricercare altre forme di espressione della borghesia di Y in Z. Serve comunque a poco; e ci preclude […]biamente ogni possibile avvicinamento alla poesia di […] Bisognerà invece, servendosi naturalmente di tutti i mezzi filologici a nostra disposizione, avvicinarci alla differenza specifica che c’è tra l’espressione X, e le espressioni N, S, […] di Y in fase Z. Arriveremo molto probabilmente ad accertare in ogni espressione di arte e di poesia una certa particolare tensione ed equilibrio dinamico tra elementi volontari e involontari, fra plurimi significati ed echi fra valori «espressivi» e «comunicativi», ecc. in che facciamo consistere propriamente l’espressione artistica e (con le dovute distinzioni) quella cosiddetta letteraria. Insomma, per dirla molto grossolanamente, non si tratta di «passare» dal cosiddetto «contenuto» alla cosiddetta «forma»; ma da un contenuto esplicito ad uno implicito, e al rapporto tra i due. Vedremo che X «significa», « rappresenta», «maschera» Y in Z (e anche ben altro!) in modo, però, tale che, per comprenderlo e sentirlo convenientemente, (perché insomma il composto chimico, che X è, diventa disgregabile e assimilabile) è necessario un tempo diverso da quello che solitamente si impiega per comprendere manifestazioni e le espressioni, N.S.R… Tempo che nessuna sociologia può accelerare. Si potrà fabbricare il grano che, cresce in tre settimane ma non una autentica poesia capace di risolversi, di comunicarsi a favore della fretta dei distratti.

Affermazioni di questo genere ci paiono abbastanza ovvie, ed è abbastanza penoso che si sia ancora a doverle ripetere quando sarebbe tanto necessario lavorare molto seriamente a mettere in pratica critica una revisione, della nostra letteratura, specie contemporanea. Speriamo, paradossalmente, che la dichiarata fine delle speranze e delle illusioni di garibaldinismo culturale, il visibile trionfo della reazione culturale ci costringa a vendette non verbali, a serietà e furore di studi, per distruggere, ma davvero, quel che avevamo creduto sufficiente dimenticare, (e soprattutto per evitare che alcuni santoni naviganti eternamente fra due acque piangano le loro lacrime di coccodrillo sulla letteratura e sulla critica rivoluzionaria).

In quanto alle storie o alle cronache meramente sociologiche, esse sono necessarie, se condotte con l’opportuno senso dei loro limiti. E anzi bisognerebbe che le «piccole storie» dei letterati italiani fossero condotte fino ai nostri giorni, con fredda accettazione dello scandalo, descrivendo le subordinazioni economiche alle potenze politiche, i rapporti con il fascismo, con l’editoria, il costume, le bizze, i falsi scandali, le conversioni, i mestieri, i premi ecc. della casta letteraria. Proseguire Gramsci, insomma, non in modo aneddotico, naturalmente, ma come descrittiva di un «ceto» organico. Ma non dimenticavo davvero i fini di una simile indagine: una critica ad uomini-istituti, che non è, o non basta per essere, una critica alla loro poesia o letteratura. Apparirà allora chiaro quello che andiamo ripetendo da tanto tempo: che il mondo della cultura e della politica italiana seguitano, e volutamente, a giuocare con un equivoco; gli uni e gli altri, in fondo, lietissimi che l’equivoco si perpetui. «Impegnati» e «impegnatori», avversari o no dell’«impegno», tutti però concordi, in silenzio, su di un punto: gli uomini di cultura a non parlare mai della cultura dei loro politici, e i politici a non prender mai sul serio la cultura dei loro uomini di cultura. Questi solo desiderosi di lasciare la loro «organizzazione» in mano ai «pratici». E i «pratici», felicissimi, sempre, di tenersela.

Il giovane Lukács

di Elémire Zolla

«Tempo presente», III/n. 7 – luglio 1958.

Uno studio di Marris Watnik, apparso recen­temente nella Soviet Survey, illumina i primi scritti di Lukács, anteriori alla conversione del 1918, e offre modo di determinare i filoni delle influenze neokantiane più tardi trasferite nel suo particolare marxismo.

Nelle prime opere Lukács, poco più che ven­tenne, propone una teoria della poesia come idea motrice e formatrice alla quale tendono le singole opere poetiche, come valore verso cui la società industriale si mostra inospitale. Le espe­rienze tragiche, l’incontro con il fato sono mo­menti rivelatori dell’essenza umana, che sfugge al dramma borghese, moralistico e razionale in­vece che religioso e mitologico, analitico invece che simbolico. La critica della società industria­le del giovane Lukács segue la falsariga dei suoi maestri del tempo, Weber e Simmel. Dal loro insegnamento egli trae le categorie sociologiche per giudicare la poesia di George come lirico della nuova solitudine dell’individuo. La teoria estetica platoneggiante si convertiva necessaria­mente in un problema morale: che cosa rende essenziale la vita?

La soluzione del giovane Lukács mostra una evidente influenza kierkegardiana:  «La vita è la forma meno reale e viva dell’esistenza. La vita genuina è sempre… impossibile sul piano empirico. Nella vita quotidiana ci esprimiamo solo marginalmente»; esiste una «gerarchia di vite» corrispettiva alla gerarchia dei generi let­terari, a partire dalla vita quotidiana in cui tutte le scelte sono parimenti possibili e in cui nulla è attuato, fino alla vita in cui l’uomo è impe­gnato pienamente dinanzi a norme assolute. C’è un’ascesa gerarchica dalla vita in cui i valori sono sacrificati ai bisogni a quella in cui i bi­sogni sono sacrificati ai valori: soltanto in que­sto caso si vive veramente, realmente. Nella fase marxista, questo salto necessario dal quotidiano all’etico, nel quale l’uomo diventa reale, viene trasferito dall’ambito del meramente individuale all’ambito della coscienza di classe.

Fino a qual punto il Lukács marxista ha oggettivato il criterio del realismo (che egli de­finiva «medievale e scolastico» in contrapposto al realismo dei naturalisti moderni), nella lotta di classe? Fino a qual punto il tipico sociale rivela l’essenza? Il rifiuto della realtà oggetti­vamente e «brutta» e meschina, quotidiana, del mondo borghese-industriale è ancora il criterio operante del Lukács marxista.

Sull’ultimo numero di Dissent, anche L. Stern si occupa dello sviluppo del pensiero di Lukács dalle origini pre-marxiste a oggi. Nel suo primo libro, L’evoluzione del dramma moderno, del 1908, Lukács sostenne che attraverso la forma si attinge la vita e attraverso la vita la forma: ogni forma letteraria è un grado della gerarchia delle possibilità di vita. Come è possibile vivere oggi? È questa la domanda etica che informa l’estetica del giovane Lukács, per il quale la tragedia e l’epica sono le forme che consentono di vivere senza cadere nella mortuaria «quotidianità». L’analisi di Stern mostra come l’iniziale impulso continuasse a operare nel Lukács marxista e co­me le teorie del primo suo libro siano alla radice anche di pensatori vicini al marxismo, seppure non ortodossi, come Lucien Goldmann, Hork­heimer e Adorno. La grande Estetica, che Lukács sta ora completando, verrà impedita di uscire ora che certi giornali comunisti lo denunciano come «transfuga nel campo nemico»?

Tra Hegel e Marx l’estetica di Lukács

di Ferruccio Masini

«Il Contemporaneo-Rinascita», n. 6, 5 febbraio 1971.


Pubblicato in italiano il fondamentale studio del filosofo ungherese

«(…) Soltanto apparentemente la storia della cultura rappresenta un balzo in avanti della comprensione, e nemmeno apparentemente un balzo in avanti della dialettica. Ciò che le manca è il momento distruttivo, il quale garantisce l’autenticità del pensiero dialettico come l’autenticità dell’esperienza del dialettico. Certo, essa accresce il peso dei tesori che gravano sulle spalle dell’umanità. Ma non dà a quest’ultima la forza di scuoterseli di dosso e quindi di farli suoi. Lo stesso vale del lavoro culturale socialista verso la fine del secolo, che seguiva appunto la guida della storia della cultura»1. Questo pensiero di Walter Benjamin potrebbe essere assunto come l’espressione più matura, nell’avanguardia, di una dialettica marxista rivoluzionaria volta a rovesciare quella autocomprensione del fenomeno estetico in termini di giustificazione storicistica della cultura e quindi dei momenti eterni, «classici», dello sviluppo umano, alla quale approda la gigantesca costruzione lukacsiana della prima parte (Die Eigenart des Aesthetischen) dell’Estetica (1963)2.

A chi conosce le importanti prese di posizione teoriche, di critica e di scienza della letteratura del filosofo marxista ungherese – dalla lontana discussione epistolare con Anna Seghers (1938-1939) ai Contributi a una storia dell’estetica (1952) fino ai Prolegomeni ad una estetica marxista e ai Significato attuale del realismo critico (1957) – non potrà passare inosservato il fatto che le linee maestre del pensiero estetico di Lukács confluiscono nella imponente architettura sistematico-concettuale dell’Estetica senza sostanziali squilibri e ulteriori ripensamenti, raggiungendo una integrazione d’analisi che tradisce, nel vecchio filosofo, un’ambizione costruttiva di vasto respiro. Quella cioè di elaborare, sulla base dei materialismo storico, e dialettico, una sintesi fondativa delle categorie strutturali e dei processi genetici propri di un’estetica normativa marxista. Va da sé che per quanto si possano avanzare non poche riserve sulle ambiguità e sulle contraddizioni dell’estetica lukacsiana (basti rinviare ai giudizi accentuatamente critici di Galvano della Volpe, ripresi e arricchiti con finezza d’osservazioni da Giuseppe Bedeschi nella sua recente Introduzione a Lukács), un’opera tanto vasta e impegnativa come questa non può non costituire un indispensabile polo di riferimento per chi voglia misurare le tappe di tutta quella vasta elaborazione teorico-scientifica delle categorie estetiche marxiste che dalle tesi engelsiane sul «realismo» dell’opera letteraria e sulla sua distinzione dal concetto di «tendenza», dalla polemica di Marx-Engels contro Lassalle sul concetto rivoluzionario dell’eroe tragico alla, nozione leninista di «particità» e di «rispecchiamento» (Tolstoj specchio della rivoluzione russa) rappresenta lo sfondo su cui si muove la problematica di questo libro.

Pur tuttavia, il limite più evidente della trattazione sta nella preoccupazione sistematica d’inverare e di superare, in una sorta di sintesi hegeliana, gli elementi peculiari di un’eredità storica singolarmente e anche fecondamente ricca di contrasti, e quindi nella funzione frenante che esercita il modello «teoretico» nell’ambito per sé dinamico di una metodologia marxista. Privilegiare i problemi categoriali, per cui la sfera estetica è vista come «un caso di rispecchiamento unico nel sistema delle relazioni tra l’uomo e la realtà oggettiva»3 potrebbe far nascere, infatti, il sospetto di uno slittamento della dialettica della coscienza, sia pure materialisticamente interpretata come Widerspiegelung (rispecchiamento) dell’essere sociale, sul piano ontologico-fondativo, con il rischio di una possibile identificazione strutturale di coscienza ed essere4 e quindi con la riemergenza dell’elemento quietistico-contemplativo che si annida in ogni ontologia, sia essa о no di carattere immanentistico. Prima ancora di questo «sospetto», già il confronto con Hegel sembra orientare sul piano di un transfunzionamento piuttosto che di un rovesciamento delle categorie hegeliane la stessa articolazione storico-sistematica dell’opera. La quale appunto si muove in vista di una fondazione della «verità» dell’opera d’arte concepita piuttosto che sulla base dialettica degli antagonismi di classe e della demistificazione anti-ideologica della catarsi e dell’«universale» estetico, come astratta autocoscienza dell’umanità proiettata nell’eterno presente di un’immanenza dei valori (le «qualità categoriali essenziali dell’opera d’arte»: «il carattere definitivo, l’autonomia, la perfezione immanente, l’ubiquità»)5 articolati come concrezioni tipiche della «particolarità». Ma proprio perché il momento della rottura, della tensione creativa interna al divenire storico della lotta di classe e della stessa costruzione del socialismo vengono spostati sullo sfondo delle operazioni genetico-categoriali si direbbe che per Lukács sia l’arte (al posto della filosofia, come accade invece in Hegel) la nottola di Minerva che si leva nell’ora del crepuscolo, quando la realtà è giunta al suo compimento e quello che «doveva» essere fatto è già dietro le nostre spalle e può quindi essere «pensato» (nel senso del theorein). Non a caso tutta la ricchezza estremamente pregnante e non di rado esemplare, dal punto di vista critico-letterario, delle esemplificazioni storiche è profusa da Lukács con preminente riguardo al passato e ai suoi autori classici prediletti, da Goethe a Balzac a Tolstoj.

In questo senso, sebbene densa di articolazioni, specie per quanto attiene la individuazione genetica dei modi di rispecchiamento all’interno dell’orizzonte immanente della storia, la «posizione estetica» teorizzata da Lukács non riesce a sottrarsi all’ipnosi di una superiore «conciliazione» già presente in Hegel nella forma di saldatura speculativa tra componente idealistico-conservatrice e dialettico-storicista potenzialmente rivoluzionaria. Indubbiamente in Lukács questa «conciliazione» – trasferita, come ovvio, in una problematica ideologica interna al marxismo – corrisponde all’importante fase di passaggio (e anche di crescita) dell’estetica marxista dopo il XX Congresso, allorché alla rigida antitesi tra le prospettive ottimistico-dogmatiche di una rappresentazione «positiva» della realtà e i processi dissolutivi-nichilisti della letteratura d’avanguardia subentrava una mediazione sul terreno concreto di esperienze difformi e pluralistiche, sia in campo «occidentale» che in campo socialista, capace di restituire alla riflessione estetica quella tensione dialettica tra il politico e l’artista, tra il realismo dell’arte e il realismo della politica da cui scaturisce il fermento espansivo di una cultura socialista egemone nel senso gramsciano.

Quando Lukács afferma che il realismo «(…) non è uno stile speciale tra molti altri», ma è «la base artistica di ogni creazione valida», in quanto esso soltanto vale come perfetto rispecchiamento dei «momenti essenziali della realtà, riferiti al contenuto di umanità», o meglio come coincidenza della «forma estetica» con «la forma di un contenuto concreto determinato»6, viene riconfermata, a mio parere, l’assunzione di un concetto, quello appunto di realismo, che nella sua estrema genericità potrebbe benissimo essere accolto in quella estetica desanctisiana-crociana per la quale «la forma non è a priori, non è qualcosa che stia da sé e diversa dal contenuto, quasi ornamento o veste e apparenza o aggiunta di esso; anzi è essa generata dal contenuto, attivo nella mente dell’artista: tal contenuto, tal forma»7.

L’equivoco di Lukács sta nel vedere il realismo come polo opposto all’avanguardia e cioè nel collegare a determinati mezzi espressivi, che vengono poi ipostatizzati, la possibilità o meno di uno stile realistico. Nell’avanguardia si ha la decomposizione dell’«essere per sé dell’opera d’arte» e cioè una visione mutila o deformata della realtà, appunto perché sono abbandonati quei determinati mezzi espressivi su cui si impianta la categoria normativa del «tipico», che sono i soli, secondo Lukács, a consentire uno stile realistico. Si ha così la riduzione di una nozione «aperta» del realismo (Brecht) alla cristallizzazione categoriale di un modello che pur nel mutare dei mezzi espressivi – come riconosce lo stesso Lukács – taglia fuori tutti quegli approcci alla realtà che non passano attraverso la sua intelaiatura storicamente esemplare. La mancata problematizzazione del concetto di realismo inteso come fedeltà statica all’essere e all’essenza dell’oggetto, dalla quale è escluso il momento della rottura e quindi della sperimentazione delle possibilità dialettiche operanti nel divenire di quello (compresa dunque la benjaminiana politicizzazione dell’arte), riflette lo scotto pagato da Lukács alla sua giusta lotta contro il formalismo degli estetologi borghesi (W. Kayser, Ingarden), ma anche al suo fraintendimento delle ragioni storiche (crollo dei contenuti borghesi) che spingevano l’avanguardia a radicalizzare l’inimicizia borghese contro l’arte rivolgendola, per così dire, contro se stessa, a questo punto si comprenda come solo attraverso la liquidazione di una Kulturgeschichte borghese-occidentale, capace d’infiltrarsi negli stessi procedimenti storico-deduttivi di una fondazione materialista dell’opera d’arte, è possibile il ricupero di quell’autenticità del pensiero dialettico di cui parlava Benjamin come di uno strumento necessario per integrare la soggettività in una totalità in progress; non predeterminata in configurazioni categoriali offerte dal passato come «immagine eterna». In tal modo anche il momento della riflessione estetica potrà risolvere la sua specificità nella nuova dimensione storica di un’esperienza per la quale le stesse opere d’arte «divengono», cioè nel continuo confronto creativo della coscienza rivoluzionaria del proletariato e delle sue realizzazioni politico-sociali con i movimenti contraddittori e diversi, una pur sempre carichi di futuro, della realtà.

1 W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, trad. it. di E. Filippini, Torino 1966, p. 92.

2 György Lukács, Estetica, 2 voll., trad. it. di A. Marietti Solmi e F. Codino, Torino, Einaudi, 1970, pp. XLII-1612 (Biblioteca di cultura filosofica).

3 Ivi, II, p. 1564.

4 Si vedano a questo proposito le aspre accuse d revisionismo mosse a Lukács, non senza ingiustificata malevolenza, da Wilhelm R. Beyer, «Marxistische Ontologie – eine idealistische Modeschöpfung», in Deutsche Zeitschrift für Philosophie, 17 (1969), II, p. 1310 e ss.

5 Estetica, it., II, p. 1564.

6 Ivi, pp. 1573-1574.

7 La citazione desanctisiana (dai Nuovi saggi critici) sta in B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione, ecc. Bari 1928, II, p. 409.

Lukács, Benjamin e il problema delle avanguardie

di Ferruccio Masini

«Il Contemporaneo-Rinascita», 30 luglio 1971.

In un’intervista a Der Spiegel, apparsa in Italia nel 1970, György Lukács dichiarava: «Lenin ha sempre affermato che non esiste una muraglia cinese tra rivoluzione borghese e rivoluzione proletaria. Infatti nel 1917 una rivoluzione socialista nacque proprio dal fatto che non erano state soddisfatte alcune rivendicazioni borghesi rivoluzionarie, quali la pace e la distribuzione delle terre ai contadini»1. È in questa prospettiva di giudizio storico-politico che, sia pure contraddittoriamente, tende a collocarsi il Lukács critico-teorico dell’estetica e della letteratura allorché denuncia il «settarismo pseudomarxista» – che «ha cancellato dalla storia tedesca tutto quello che non è immediatamente attinente alla rivoluzione proletaria» – e l’altro «settarismo», quello dei «buongustai “d’avanguardia”, che mettono nello stesso sacco la scultura negra e Fidia, i disegni degli alienati e Rembrandt, e magari preferiscono i primi ai secondi»2.

A questa presa di posizione, in sé corretta, non si riconnettono coerentemente le valutazioni sostanzialmente omogenee, anche se con parziali rettifiche di mira, espresse da Lukács in ordine alla letteratura d’avanguardia, giacché proprio quello schematismo ottimistico-contenutista che talora egli rimprovera agli «ingegneri dell’anima» è alla base dei suoi fraintendimenti e delle sue drastiche condanne. È nota l’incomprensione lukacsiana per Proust, Joyce, Kafka, condizionata appunto dall’ipnosi dei modelli realistico-ottocenteschi e, più in generale, la perentoria scomunica degli autori d’avanguardia presi in un fascio, nei quali si compirebbe quel la «diffamazione della realtà» che eliminando il tipico, attraverso l’allegoria, involge la distruzione del particolare, base della letteratura realistica. Indubbiamente l’ossessione di Lukács per lo spettro della decadenza che in varie guise mistificanti (la falsa autocritica, l’apologia indiretta della reazione, ecc.) contrabbanda ideologie e preconcetti borghesi e piccolo-borghesi all’interno della stessa avanguardia rivoluzionaria antifascista, ha le sue precise motivazioni storiche che se riguardano, per un certo aspetto, la posizione radicalmente e sinceramente autocritica dello stesso Lukács nei confronti del suo periodo «protoesistenzialistico» (da L’anima e le forme alla Teoria del romanzo) fino alla svolta marxista di Storia e coscienza di classe, affondano peraltro le loro radici nella necessaria intransigenza degli anni di lotta contro il fascismo. Ed è innegabile che proprio questa intransigenza, la cui severa venatura morale ricorda il rigorismo estremistico-tragico del giovane Lukács de L’anima e le forme, ha avuto il merito di sgombrare il campo da molti feticci metodologici (come quello dell’apartiticità dell’arte o l’altro della neutralità ideologica della teoresi) in un tempo in cui l’unico antidoto alle suggestioni irrazionaliste e neoromantiche era costituito proprio da quella mancanza di «timida prudenza» con cui il critico marxista deve «gettarsi a corpo perduto nella mischia mandando al diavolo le preoccupazioni per la sua reputazione, per la sua “infallibilità”, per la sua “fama”, pur di compiere un’opera utile battendosi contro tendenze nocive e contribuendo alla indispensabile chiarificazione»3.

A distanza di anni l’affettuoso ammonimento di Anna Seghers acquista, ciononostante, tutta la sua forza e vale a richiamare la nostra attenzione anche sul limite teorico-rivoluzionario di quella dura intransigenza: «Lukács, caro Lukács, non ti arrabbierai se ti dico che nel ricorso a una citazione qualsiasi [in questo caso un passo di Gorkij], pur imponente che sia, c’è sempre qualcosa che ricorda la scopa fatata. In altre parole, c’è ancora la possibilità di illudersi che siccome un uomo saggio e prudente ha finalmente trovato la chiave di una certa porta, sarà possibile servirsene per aprire tutte le porte simili a questa»4.

Il confronto con Walter Benjamin – al quale Lukács dedicherà alcune pagine singolarmente equilibrate e penetranti della sua Estetica5 – potrà forse essere istruttivo proprio per rilevare i termini di una questione che trascende, in definitiva, la stessa posizione lukacsiana, quella, cioè, delle avanguardie dai punto di vista di una analisi marxista.

Giustamente – ci sembra – Ernst Bloch rilevava in Benjamin una caratteristica macroscopicamente assente in Lukács: la straordinaria sensibilità per il dettaglio marginale, per la sfumatura significativa, per «i freschi elementi che partendo di qui si dischiudono nel pensiero e nel mondo»6, per quelle singolarità che spezzano in maniera inconsueta e paradossale la levigata superficie di un tutto, la capacità, insomma, di costruire i problemi attraverso un «montaggio reale» di parti in apparenza estranee o irrilevanti o lo «smontaggio» di quanto sembra, a prima vista, strettamente connesso. La secolarizzazione della preghiera nella «attenzione» (lo diceva Scholem a proposito di Benjamin) sta in questa acribia del dettaglio, in questa «micrologia filologica» che coglie nel particolare la chiave interpretativa di un intero processo, o meglio, si vale di quel particolare, risolvente in sé una pregnanza emblematica di rimandi, per cristallizzare quel processo in un evento carico di significati. Sotto questo punto di vista il metodo storiografico lukacsiano, disteso per scorci panoramici e ampie campate sistematico-concettuali, è ben distante da quello sinuoso e flessibile di Benjamin, in cui il pensare critico è sempre un pensare «per figure», un pensare semantico-dialettico dove alla presa «soggettiva» dell’interprete si sostituiscono le fluide articolazioni dell’oggetto che si espone da sé, nell’ambito di una prospettiva «tendenziosamente» determinata.

Lukács avverte acutamente che nella teoria benjaminiana della allegoria, in cui l’analisi del dramma barocco tedesco ribalta esemplarmente in quella delle avanguardie con temporanee, si nasconde la «autodissoluzione dell’estetico»7. Ed è evidente che siffatta «dissoluzione» risulta inaccettabile per il filosofo marxista al quale importa una fondazione materialistica dell’estetico che, chiusa nella fortezza del realismo, costituisca una barriera insormontabile per le tendenze reazionarie dell’arte d’avanguardia, prigioniera dei suoi inframondi nichilistici e dei suoi cieli orribilmente vuoti. Lukács, in realtà, non sa rassegnarsi di fronte ad una «dissoluzione dell’estetico» che tende a coinvolgere, in una sorta di apocalittico e macabro naufragio, la visione paradigmatica di un’arte che rispecchia le mediazioni sociali «porta; te» dai particolari e quindi reintegra in se stessa l’ideale di una humanitas sottratta alla reificazione. Per questo egli rimprovererà a Benjamin di limitarsi a «descrivere», affermando che «in un contesto allegorico anche l’emblema non esprime altro che una feticizzazione acriticamente approvata»8. Ma nella descrizione benjaminiana, che è poi – come osserva Bloch – un descrivere includente in un cerchio, e cioè in una costellazione di significati, proprio quella feticizzazione comporta la dissoluzione dell’estetico, cioè il problematizzarsi della stessa progettazione artistica aggredita dalle implicazioni ideologiche, vale a dire dai fantasmi della falsa e anche cattiva coscienza. Quella feticizzazione è, nella trasparenza critica in cui la fa emergere Benjamin, precisamente la crisi di quell’immagine universale dell’uomo o, in altre parole, di quel «contenuto universale di umanità che – secondo Lukács – implicite è presente e dappertutto nel rispecchiamento estetico»9. Per Benjamin questo contenuto e questo rispecchiamento sono comunque indistinguibili dalla falsificazione ideologica di una società divisa in classi, dall’interno sfacelo di quel patrimonio culturale» che lo storicismo ha canonizzato mentre si tratta invece di mostrare come lo scheletro dell’allegoria realizza appunto l’autodecomposizione di quel contenuto, scoprendo l’oggettiva deformazione di quei rispecchiamento.

La descrizione di Benjamin non è dunque solo una «descrizione»: essa decifra il geroglifico marxiano della merce trasferito in quelle ipostasi ormai vacillanti e disgregate della falsa coscienza che sono appunto nascoste negli emblemi strutturali-allegorici dell’avanguardia, cogliendo al tempo stesso la temperatura critica della decadenza in quel momento di choc che la distacca, con una salutare estraneazione, dall’approdo finale di un’arte che non è più pacificazione nella humanitas e non può più assorbire le lacerazioni della realtà.

In questo senso i procedimenti allegorizzanti dell’avanguardia – al cui inventario di morti oggetti il nano piccolo e brutto della teologia10 dà una mano preziosa, alleandosi nella lotta di classe – mettono la borghesia contro se stessa, smantellando i suoi alibi storicisti, l’ipocrisia della sua fede «socialdemocratica» nel progresso. È evidente che sono gli stessi strumenti categoriali presenti nella officina critico-estetica del Lukács a impedire a quest’ultimo, diversamente da quanto avviene per Benjamin, di «decifrare» il paesaggio per geroglifici e monogrammi dell’avanguardia. Esso si presenta agli occhi del filosofo di Budapest come quell’inferno della compiuta peccaminosità borghese in cui Benn si incontra “con Kafka, Musil con Joyce, e sul quale grava la caligine del «nichilismo estetico»11, dove – ahimè – tutte le vacche sono nere. Ma è proprio l’avanguardia che, mettendo in questione tutto il passato, mette implicitamente in questione «le vittorie dei dominatori». Sotto il patrimonio culturale, di fronte al quale – dirà Benjamin – «il materialista storico non potrà comportarsi come un osservatore distaccato», ci sono appunto queste vittorie, c’è un’origine a cui quest’ultimo «non può pensare senza orrore»: quel patrimonio, infatti, «deve la propria esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che lo hanno creato, [sembra quasi di ascoltare il discorso brechtiano sui grandi condottieri della storia], ma anche alla schiavitù senza nome dei loro contemporanei»12. È al preciso scopo di reimpostare, in termini di unità teoria-prassi il discorso sull’arte, che Benjamin utilizza la teologia al servizio della lotta di classe, giacché il tema messianico della redenzione di un mondo contaminato dalla colpa della soggettività diventa il catalizzatore di un processo rivoluzionario in cui l’arte può giustificarsi solo in via negativa come allegoria di un «cattivo sguardo» – che è anche uno sguardo critico sulla decadenza – e, al tempo stesso, come allegoria utopica di un rovesciamento liberatore.

È ancora una volta, questo, il discorso sulla prospettiva. Il problema della prospettiva costituisce un discrimine fondamentale, in Lukács, per identificare nell’ambito del realismo socialista la fonte dello schematismo («configurazione meccanica», «meccanica definizione della prospettiva»). Ma si potrebbe ricondurre a una questione di prospettiva anche il problema dell’avanguardia, così come si configura in Benjamin, per cui potremmo dire, rovesciando le parole di Lukács, che le tragedie individuali non escludono l’ottimismo storico-universale13. È quanto fa Benjamin, che radicalizza appunto la tragedia individuale nell’ambito di una prospettiva dove il materialismo storico si incontra con la speranza utopica, «la piccola porta» da cui può entrare il Messia14, la tempesta spirante dal paradiso, che spinge irresistibilmente nel futuro l’angelus novus, l’«angelo della storia»15. Mentre la prospettiva lukacsiana privilegia il momento dell’evoluzione sociale oggettiva, che sul piano letterario si manifesta oggettivamente nello sviluppo di una serie di caratteri agenti in situazioni determinate»16, e quindi si riconduce a modelli storico-letterari desunti dai classici del realismo (Tolstoj), quella di Benjamin è una «costellazione carica di tensioni»17 in cui sta la possibilità di una «chance rivoluzionaria nella lotta per il passato oppresso»18. Evidentemente la categoria benjaminiana del «tempo-ora» (Jetztheit) gioca nella dialettica rivoluzionaria un ruolo di primo piano proprio nell’ambito della liquidazione dei modelli, che è poi la liquidazione di una determinata «aura» umanistico-borghese.

Il passato, «carico di tempo-ora», non è «giudicato» nel senso hegeliano di una verità-totalità che privilegia il «risultato» dell’accadere; la dialettica della prassi storica rivoluzionaria spezza quel continuum e non si sottomette al ritmo di un processo che vede nel presente il frutto maturo del passato, il realizzarsi della sua verità. «Al concetto di un presente che non è passaggio, ma è in bilico nel tempo ed immobile, il materialista storico non può rinunciare»19.

Non riteniamo sia nostro compito, in questa sede, confrontare Lukács a Benjamin in rapporto al dibattito sul «marxismo occidentale» o sul «materialismo storico», magari andando alla ricerca del «vero Marx», che non è in ogni caso quello dei professori o dei pretenziosi depositari di «verità rivelate», ma l’altro, ben più vivo, incarnato nella teoria-prassi dei partiti storici della classe operaia. La legittima diffidenza di Lukács per l’intelligenza borghese critica ed evoluta, che di fronte alla nuova situazione mondiale determinata dalla Rivoluzione d’ottobre, dal crollo del fascismo e dalla costituzione di nuovi Stati socialisti, si foggia o tenta di foggiarsi armi adeguate al suo «panico elementare di impotenza» o alla sua angoscia nullificante, tende spesso a risolversi in una formula monolitica di giudizio sui prodotti artistici dell’avanguardia, non sufficientemente mediato dall’analisi delle fasi storiche della lotta di classe a cui corrispondono momenti diversi nel processo d’ideologizzazione e quindi di riassesto o di disintegrazione soprastrutturale. A questa angustia di prospettiva sulla letteratura del Novecento a cui – come giustamente è stato notato – concorre «l’attaccamento tenace ad un certo tipo di narrativa epica e ad un certo tipo di letteratura che, in un secondo tempo, avrebbe consentito la saldatura con certe componenti caratteristiche del marxismo lukacsiano (umanesimo, gnoseologia)»20, corrisponde l’ipoteca formalistica nascosta nel concetto di «realismo critico» in T. Mann e nel conseguente disinteresse per le stesse posizioni progressiste-materialiste dell’avanguardia (Brecht, Maiakovskij).

Questo atteggiamento si riconduce al cardine centrale dell’estetica lukacsiana per il quale esiste una «grande letteratura» il cui valore paradigmatico-catartico è di sempre. «La grande letteratura ha sempre ottenuto i suoi effetti catartici rivelando le contraddizioni centrali di una fase dell’evoluzione dell’umanità sotto forma di conflitti tipici di figure umane elevate alla tipicità poetica»21. La stessa partiticità dell’arte si giustifica, per Lukács, solo attraverso questa mediazione catartica, nel senso che l’oggettività estetica, su cui si impianta il rispecchiamento di una «totalità intensiva» della realtà, è strettamente connessa alla necessità di prender partito di fronte alla dialettica fondamentale, al movimento e alle contraddizioni profonde di questa realtà. Ma l’errore di Lukács non sta tanto, a nostro avviso, nelle implicazioni riduttive della sua «problematica contenutistica» (Galvano della Volpe), quanto nel fatto che a queste si aggancia una predeterminazione forrnale-strutturale del fenomeno estetico come cosmo in se stesso conchiuso, nel senso che precostituisce il margine in cui la storicità stessa della realtà può investire la storicità delle categorie estetiche. Beninteso, lo stesso Lukács sottolinea giustamente che «un’autentica storicità non può mai consistere in una mera trasformazione dei contenuti, mentre le forme resterebbero perfettamente identiche, le categorie sarebbero assolutamente immutabili»22; ma, di fatto, egli riconduce alla «oggettiva struttura-categoriale dell’opera d’arte», come conversione nella immanenza di «tutti i movimenti della coscienza verso il trascendente»23, e quindi alla priorità del simbolo sull’allegoria, il limite invalicabile del realismo, al di là del quale non può esistere che uno «sperimentalismo problematico», destinato a restare, nella migliore delle ipotesi, confinato nell’assolutizzazione dell’immediatezza. «L’avanguardia fa di un – necessario – riflesso soggettivo una realtà, anzi la realtà autentica, un’oggettività presuntamente costitutiva, e dà quindi un’immagine deformata della realtà considerata nel suo complesso»24. E tuttavia questo «sperimentalismo problematico», che pure riflette, come variante deformata e deformante del realismo, la realtà, può riproporre, sotto l’allegoria della trascendenza, una conversione ad un’immanenza divenuta sempre più enigmatica ed insondabile e può dialettizzarsi al di là del codice linguistico di un realismo incapace di accogliere nelle sue procedure gnoseologiche-selettive (il tipico) l’esperienza di nuove articolazioni semantiche.

Il fatto che questa dialettica, imposta, tra l’altro, dal terreno di lotta su cui si muove l’offensiva neocapitalistica dell’industria culturale, possa spostare e non soltanto mutare di funzione la nozione stessa dell’arte o addirittura comprometterla radicalmente sulla base del movimento di una realtà non sussumibile in un concetto di «totalità» ancora per molti riguardi legato alla tradizione umanistico-borghese, riapre il problema di fondo del superamento rivoluzionario della cultura attraverso una reinvenzione del suo senso e quindi mediante il passaggio dall’accentuazione gnoseologico-sistematica a quella critico-ideologica dei marxismo.

1 G. Lukács, Cultura e potere, a cura di C. Benedetti, Roma, 1970, p. 170.

2 Id., «Una discussione epistolare tra A. Seghers e G. Lukács», in G. Lukács, Il marxismo e la critica letteraria, trad. it. di C. Cases, Torino, 1964, p. 397.

3 Ivi, p. 398.

4 Lettera di A. Seghers. del febbraio 1939, ivi, p. 402.

5 G. Lukács, Estetica, 2 voll., trad. it. di A. Marietti Solmi, Torino, 1970, II, pp. 1502-07; ma si veda anche Il significato attuale del realismo critico, trad. it. di R. Solmi, Torino, 1957, pp. 45-48 e passim.

6 In AA. VV., Uber Walter Benjamin, Frankfurt a.M., p. 17.

7 G. Lukács, Il significato attuale, cit., p. 51.

8 Estetica, cit., II, p. 1506.

9 Ivi, p. 1505.

10 W. Benjamin, «Tesi di filosofia della storia» in Angelus Novus, Saggi e frammenti, trad. it. e introd. di R. Solmi, p. 72.

11 G. Lukács, Estetica, cit., II, p. 1511.

12 W. Benjamin, «Tesi di filosofia della storia», in op. cit., pp. 75-76.

13 G. Lukács, «Il problema della prospettiva», in Il marxismo, cit., p. 460 e 464.

14 «Tesi di filosofia», in op. cit., p. 83.

15 Ivi, pp. 76-77.

16 «Il problema della prospettiva», in op. cit., pp. 460-61.

17 «Tesi di filosofia», in op. cit., p. 81.

18 Ivi, p. 82.

19 Ivi, p. 81.

20 M. Vacatello, Lukács da “Storia e coscienza di classe” al giudizio sulla cultura borghese, Firenze 1968, p. 105.

21 G. Lukács, Estetica, cit., II, p 1598.

22 Ivi, prefazione, p. XXVI

23 Ivi, pp. XXX-XXXI.

24 Il significato attuale, cit., p. 58.

György Lukács inattuale? Una teoria politica del romanzo

di Emanuele Zinato

L’immaginario politico. Impegno, resistenza, ideologia, Eds. S. Albertazzi, F. Bertoni, E. Piga, L. Raimondi, G. Tinelli, Between, V.10 (2015), http://www.Betweenjournal.it/ 30/11/2015


I rapporti sociali sono sfuggiti al controllo degli uomini stessi assumendo la forma di cose.
G. Lukács, Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale

I. Il termine inattuale, presente nel titolo del mio intervento in forma interrogativa, vorrebbe risultare doppiamente sibillino. Al suo significato più comune, di segno negativo, che sta per “invecchiato”, come si sa, si affianca un senso orgogliosamente apologetico e irriverente, quello delle Considerazioni inattuali di Nietzsche o dell’inattualità come valore paradossale del saggismo frammentario di Karl Kraus.

In questo mio intervento, per azzardare delle risposte, cercherò innanzitutto di mettere a fuoco alcuni punti di forza di Lukács, limitatamente alla teoria del romanzo, degni di considerazione nel campo teorico attuale.

Come ha osservato Vittorio Strada (Strada, 1986: 21), i due maggiori teorici novecenteschi del romanzo, Lukács e Bachtin, si potrebbero leggere come una delle coppie oppositive su cui si fondano le Vite parallele di Plutarco. Lukács, infatti, è noto come il fautore di un’estetica normativa del marxismo ufficiale; Bachtin è stato viceversa una vittima, deportato e costretto al silenzio dallo stalinismo.

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