Marx e Goethe

di  György Lukács

Titolo originale “Marx und Goethe”, testo della conferenza che Lukács pronunciò, ricevendo il premio “Goethe” dalla città di Francoforte il 28 agosto 1970 [L. non si presentò alla cerimonia per motivi di salute, ma inviò la relazione. Il premio consisteva allora in una somma di 50 mila marchi – nota di gyorgylukacs.wordpress.com].

Ora in G. Lukács, Revolutionäres Denken, Darmstadt und Neuwied, Luchterhand, 1984, pp. 154-162. In italiano in G.L., Dialettica e razionalismo. Saggi 1932-1970, a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano 2020.


Se parlo in questa circostanza, in primo luogo mi si impone come tema la mia relazione con Goethe, con la sua opera, con il suo stile di vita e la sua visione del mondo; relazione che possiede una grande importanza per me, per il mio lavoro e per la mia relazione con il mondo. La concessione del Premio “Goethe” ha, per quanto mi riguarda, un significato molteplice. Vorrei tentare di esprimere il mio ringraziamento per questo grande onore in un modo, in una certa forma, appropriato.

Comprendete, per favore, che cominci in maniera autobiografica, con ricordi che rimontano alla mia lontana gioventù. Continua a leggere

La teoria lukacsiana del rispecchiamento estetico

di Béla Királyfalvi

da Lukács negli scritti di..., a c. di G. Oldrini, ISEDI, Mondadori, Milano 1979.


Béla Királyfalvi, di origine ungherese, insegna letteratura drammatica alla Wichita State University del Kansas.
Diamo qui di seguito la versione integrale di un capitolo, il IV («The Theory of Aesthetics Reflection»), del suo volume The Aesthetics of Gydrgy Lukacs, Princeton University Press, Princeton-London, 1975, pp. 54-70.

* * *

Una volta che Lukács comincia a dare contributi sistematici all’estetica marxista (dall’inizio degli anni trenta), la teoria del rispecchiamento estetico acquista un’importanza centrale nelle sue opere. Quattro decenni di scritti contengono innumerevoli esempi, illustrazioni, chiarificazioni, definizioni negative, analogie e riferimenti alle precedenti e contemporanee autorità in argomento, mai però l’ultima definizione conclusiva al modo, poniamo, di Aristotele. Il motivo è semplice: la dialettica materialistica non permette definizioni conclusive (che sono statiche), bensì soltanto «determinazioni» flessibili. La teoria continua a evolversi in lui fino all’Estetica (1963) e, mentre il concetto di rispecchiamento estetico è, nel suo nocciolo, semplice, la sua interrelazione con altri importanti principi estetici è notevolmente complessa. A causa della complessità del problema, quanto qui segue è un che di mutilo, benché speriamo non di distorto, senza il beneficio del contenuto dei tre capitoli successivi. Eppure è necessario, per amor di chiarezza, iniziare con una discussione relativamente isolata del concetto, perché la teoria del rispecchiamento estetico forma senza dubbio l’ossatura e la spina dorsale dell’intero sistema estetico di Lukács. Continua a leggere

Questioni essenziali della forma drammatica

di György Lukács

[Da A modern dráma fejlödésének története (Storia dello sviluppo del dramma moderno), Budapest, Kisfaludy, 1911 – in G. L., Arte e società, Editori riuniti, Roma 1968]

L’obiettivo del dramma è l’effetto di massa, e le circostanze in cui esso deve conseguire questo obiettivo sono in realtà già presenti nel concetto di effetto di massa, cioè il tempo disponibile deve essere relativamente breve. Che cosa deriva, dal rapporto fra questo obiettivo e le circostanze, rispetto alla natura della materia (su cui per ora non intendiamo scendere ai particolari) che suscita tale effetto? Continua a leggere

Lukacs sui problemi del realismo

di Rosario Assunto

«Tempo Presente»,  I, n. 2 – maggio 1956

Una conferenza di Lukács sui problemi del realismo nella letteratura contempora­nea. Aula assai grande, gremita di ascoltatori; il pubblico traboccava dalla porta, si accalcava nei vani delle finestre; esaurite le sedie, quelli che non si rassegnavano a rimanere in piedi si contendevano due tavoli disposti in fondo alla sala. Dobbiamo chiederci che cosa cercas­sero, che cosa si aspettassero gli ascoltatori professionalmente e ideologicamente disponibili, che prestarono attenzione per due ore filate. Non credo che il nome di Lukács fosse, di per sé solo, un richiamo così potente, e nemmeno ritengo che la parola realismo basti da sola a spiegare un interesse così diffuso.

In termini opinabilissimi Lukács parlava di letteratura decadente e letteratura realista, e con­cluse indicando le condizioni alle quali deve sottostare uno scrittore che oggi voglia fare let­teratura realista, non senza collegare tutte le sue proposizioni a riferimenti politici, alla guer­ra, alla pace, alla lotta per la pace, al mondo borghese e al mondo socialista. Non cera molto di nuovo, per chi già conosceva, in tutto o in parte, l’opera di Lukács, le sue pagine felici e le sue pagine infelici (infelicissime fra tutte, forse, quelle sul Werther di Goethe, il saggio su Hölderlin…); e non possiamo dire che, ad ascoltarlo, la sua immagine si modificasse ri­spetto al ritratto che di lui traccia Victor Serge nelle Memorie di un rivoluzionario. Più di una volta, soprattutto verso la fine, la sua maniera di argomentare faceva tornare alla mente quel professore di filosofia del quale racconta, mi pare, il Croce, che usava dedurre i romanzi di Balzac a colpi di tesi antitesi e sintesi. Ma il pubblico era numeroso e prestava attenzione.

Se i ragionamenti di Lukács erano, e rimangono, opinabili, non meno opinabile è la nozione di realismo, che tanto inchiostro ha fatto versare. Letteratura della realtà, realtà della let­teratura? E quale realtà, quale letteratura? So­no questioni estremamente complesse, che ad affrontarle si rischia di perdersi dentro una spugna. Ma nessuno può negare che siano questioni importanti, se tanta gente accorre ad una conferenza nella quale esse vengono affrontate. Importanti, soprattutto, nella misura in cui l’in­teresse che esse suscitano va oltre il tema ri­stretto di realismo o no e investe quello dei rapporti fra letteratura e condizione umana.

La letteratura come interpretazione della condizione umana, uno sforzo dì capire e di aiutare a capire la condizione umana; e di capire aiutando a modificare. Uno sforzo di intervenire nella condizione che è sempre condizione situata, e attraverso la comprensione aiutarla a situarsi diversamente. Questo chiedono oggi i lettori, e non è improbabile che l’avvertenza più o meno esplicita di questa esigenza abbia condotto tanta gente, pubblico autentico, ad accalcarsi entro la sala in cui Lukács parlò così a lungo, il cinque maggio millenovecentociquantasei, a Roma. Non è azzardato supporre che se lo stesso oratore, o un altro ancora più noto di lui, avesse parlato intorno al bello e al brutto della letteratura contemporanea, proponendo un ulteriore criterio di antologizzazione, gli ascoltatori sarebbero stati un decimo di quelli
che erano. Lukács parlava da filosofo e da uomo interessato alla situazione, e come tale decifrava, a suo modo, la letteratura contemporanea. Per questo la gente era andata a sentirlo, e sopportava anche le soperchierie da lui usate agli autori e ai libri, il suo modo di tirare il collo a uno e di allungare le gambe a un altro, per farli corrispondere alle sue misure di realismo e di decadentismo.

Lukács e i decadenti

di Nicola Chiaromonte

«Tempo Presente»  II, n. 8 – agosto 1957

Dopo l’onorevole parte da lui presa alla rivolta ungherese, il 25 novembre scorso Georg Lukács  era stato onorato d’arresto insieme con Imre Nagy, con la vedova Raik e con gli altri che si erano rifugiati presso l’ambasciata iugo­slava, e deportato con loro in Romania. Il 10 aprile, per grazia speciale, egli ha fatto ritorno a Budapest. Senza onore. Evidentemente, il teorico del realismo socialista ha giudicato più realistico continuare a proprio agio le speculazioni di filosofia letteraria che rimanere solidale con gli sconfitti.

Il numero di luglio-agosto di Nuovi argo­menti ci offre la primizia dei pensieri cui si è affaticato Lukács in questi mesi. Si tratta delle «Basi ideologiche dell’avanguardia». Il tratto più notevole dello scritto è che in esso, ormai, il realismo socialista non ha più che una parte di comparsa: esce di scena appena en­trato (alla prima pagina) e, per il resto, la questione è di difendere il realismo borghese contro l’avanguardia decadente. Il realismo bor­ghese è epico e dinamico mentre l’avanguardia è statica: il realismo borghese radica i perso­naggi «nei ranporti concretamente storici, uma­ni, sociali della loro esistenza», mentre l’avan­guardia rappresenta «l’individuo eternamente, essenzialmente solitario, svincolato da tutti i rapporti umani e a maggior ragione da tutti i rapporti sociali»: il realismo borghese rappresenta la possibilità concreta, l’avanguardia la possibilità astratta; il realismo borghese attinge al tipico, l’avanguardia cerca rifugio nell’allegoria. Il realismo borghese infine, secondo Lukács, s’incarna ai tempi nostri (come si sape­va) principalmente in Thomas Mann e subor­dinatamente anche in Sciolokhov e in Moravia; l’avanguardia invece in Beckett, in Joyce, in Kafka, in Musil, in Gottfried Benn, in Hei­degger e, risalendo per li rami, in Hofmannsthal.

Nel seguire il laborioso, e non poco ambiguo, discorso di Lukács, non si può non cominciare coll’osservare che, per legittima che possa esse­re in astratto, o da un diverso punto di vista, nell’argomento del marxista ungherese la di­stinzione fra realismo e avanguardia regge assai male, sia in diritto che in fatto. In diritto, per­ché la latitanza dell’imperativo realista-socialista («non immediatamente applicabile», dice Lukács con cauto eufemismo) priva non solo il censore di ogni base per insegnare all’artista il vero senso della «realtà», ma anche l’artista della bussola che dovrebbe guidarlo a fare arte «dinamica», «sociale» e progressiva. In fatto, perché gli esempi addotti da Lukács sono spes­so altrettanto rozzi che discutibili, e il suo ra­gionare grossolano e tentennante.

Per opporre il «dinamico» Mann allo «sta­tico» Joyce, Lukács non trova di meglio che contrastare i celebri monologhi interiori dell’Ulysses con quello del risveglio di Goethe in Lotte a Weimar: in Joyce, il monologo inte­riore sarebbe fine a se stesso e rivelerebbe «una dinamica permanente ma senza mèta», ossia una concezione dell’uomo come essere informe; in Mann, per contro, il libero gioco delle asso­ciazioni è veramente solo pura tecnica, che vie­ne utilizzata per scoprire e mettere in luce qualcosa che va molto al di là dell’immedia­tezza di quello» e «rappresenta i trapassi di­namici».

A parte ogni giudizio sul valore rispettivo delle due opere, qui Lukács dimentica semplicemente che Lotte a Weimar è di una ventina d’anni posteriore a Ulysses. Il che rende poco mirabile il fatto che l’invenzione di Joyce sia usata da Mann come «pura tecnica». E se non ci fosse questo, rimarrebbe pur sempre che Leopold Bloom è un personaggio plasmato dalla fantasia di Joyce mentre il Goethe di Mann si appoggia alla struttura del Goethe storico, le cui componenti intellettuali e morali l’artista poteva interpretare, ma non aveva da crearle, e nelle quali non è davvero meraviglia che si ritrovassero, già date, una gerarchia di valori e una «storia». Dire che il Bloom di Joyce è avulso dalla storia mentre il Goethe di Mann rivela «le tendenze più profonde di sviluppo della sua personalità… in vista del passato, del presente e dell’avvenire» è una scoperta da rinviare per competenza ai medici di Molière. Se invece di Goethe, Lukács avesse preso ad esempio, fra i personaggi di Mann, Tonio Krö­ger, vi avrebbe trovato non poca staticità, non poco egocentrismo, e anche non poca indiffe­renza ai «trapassi dinamici».

Naturalmente, il problema di quella che Ortega y Gasset chiamò la «disumanizzazione dell’arte» esiste, ed è serio; è anche vero che l’arte di Joyce ne è un esempio eminente. Ma il problema è intellettuale: di accordo col mon­do nella verità. Non si riduce certo al contra­sto fra Joyce e Mann, e nemmeno a quello fra «realismo» e «avanguardia». Anzi, messo in questi termini, esso scompare, perché è molto (troppo) facile scoprire in questi due scrittori il fondo «decadente» che, se non li accomuna, certo non permette di opporli l’uno all’altro con tanta assolutezza; ed è egualmente facile vede­re quel che c’è di rigorosamente «realistico» nell’avanguardia (?) di un Kafka o di un Musil e, per converso, di «avanguardistico» in un Moravia, scrittore il cui mondo è molto dub­bio che sia «dinamico» ed esprima una gerar­chia di valori. Molto facile è, ad esempio, a proposito della frase di Kafka a Max Brod: «Oh, molla speranza, infinita speranza – ma non per noi», citata da Lukács come prova della disperazione «statica» dell’autore del Processo, ritorcere che, anzi, essa è squisita­mente realistica e «concreta». L’artista moder­no è assai più filosofo, e assai più cosciente dei limiti «storici» della sua condizione, che non voglia concedergli il professor Lukács.

Ancora più facile sarebbe mostrare (nel suo linguaggio) quanto di «decadente», di «avanguardistico», di «astorico» si riveli dal modo di argomentare del professor Lukács medesimo. Se Joyce appiattisce la coscienza dell’indi­viduo e ne fa un continuum amorfo, non meno amorfo (quanto ai valori della cultura) è il risultato degli «amalgami» di scrittori, epo­che e tendenze diversissime di cui si compiace il celebre marxista. Mettere nello stesso sacco dell’elemento «storico-sociale» Achille e Wer­ther, Edipo e Tom Jones, Antigone e Anna Karenina, Don Chisciotte e Vautrin, come perso­naggi «realistici», significa obliterare tutto quello che hanno di specifico, e specificamente umano, queste creazioni culturali: non tener al­cun conto di quel che ciascuno di essi signifi­ca, onde farli servire da materiale cementizio a sostegno di una tesi astratta e astorica. Per scrivere una frase come: «Dall’Achille di Ome­ro all’Adrian Leverkühn del Doktor Faustus di Mann, fino a Grigorij Melvekon del Placido Don di Sciolokhov, il gioco vivente delle con­traddizioni di volta in volta centrali è il prin­cipio in ultima istanza determinante dell’essenza…» eccetera, non ci vuole soltanto un’insigne pedanteria: bisogna anche essere infetti da quella particolare specie di «avanguardismo» che non teme gli accostamenti cervellotici e le formule arbitrarie. E che dire della speciosis­sima sforzatura per cui Lukács pretende di da­re come esempio della preferenza borghese (e avanguardistica) per la «pura possibilità» con­tro la «possibilità concreta» un passo in cui Faulkner descrive individui che, nel calore dì una disputa, «facevano di un’irrealtà una pos­sibilità, poi una probabilità, poi un fatto irre­futabile, come fanno appunto gli uomini quan­do lasciano che i loro desideri diventino pa­role»?

In sostanza, per quanto cerchi di evitare quel che v’è di più grossolano nella formula del realismo socialista, l’argomento di Lukács si ridu­ce pur sempre a predicare all’artista l’obbligo «morale» di adottare l’estetica «realista» e di mantenersi nella tradizione, ossia di esprimere sentimenti «positivi» e di reprimere i senti­menti «negativi»: l’obbligo, insomma, di esse­re insincero, giacche altrimenti la predica non avrebbe senso. Ma a noi la verità, comunque detta, importa più del realismo.

L’uso che, da buon marxista, Lukács ha fatto in passato e continua a fare in quest’articolo dell’argomento ad hominem, ci suggerisce di terminare queste note con un’immagine ad hominem: l’immagine di Georg Lukács, tornato a Budapest per grazia speciale, e lì occupato a considerare il pericolo grave d’informità e d’indifferentismo morale che si nasconde nell’arte d’avanguardia. Ebbene, se si dovesse immaginare il «flusso di coscienza» del professor Lukács a Budapest mentre scriveva il suo saggio, si dovrebbe necessariamente immaginare una coscienza nella quale Thomas Mann e Kadar, le sottigliezze su Kafka e le ombre di centinaia di impiccati, il ricordo di un momento di rivolta e l’acquiescenza muta di oggi, le preoccupazioni accademiche e l’immagine dei colleghi imprigionati, si susseguono in una giustapposizione statica «senza mèta né direzione». Qualcosa di molto simile al monologo di Leopold Bloom. Ma molto meno animato ed animoso.

Lo straniamento nella polemica con Bertolt Brecht

di Luciano Albanese

«Il Contemporaneo-Rinascita», 30 luglio 1971.


Una discussione che toccò i grandi temi dell’estetica marxista e che non si è conclusa con la morte dei protagonisti

I termini della polemica tra Brecht e Lukács sono noti, ma sarà opportuno ricordarli brevemente. Nella Breve storia della letteratura tedesca Lukács parla in tal modo dell’opera di Brecht: «Brecht crede che un’arte ‘radicalmente nuova’ abbisogni di mezzi espressivi del tutto diversi e originali per eliminare l’indegnità e l’influsso socialmente nocivo del ‘culinario’ [cioè l’effetto ‘magico’ del teatro sullo spettatore moderno, che lo priva di ogni capacità di riflessione – n.d.r.] nell’arte (soprattutto nell’arte drammatica), e per reintegrare quest’ultima nella sua necessaria funzione sociale. Così anche la critica di Brecht rasenta il contenuto sociale senza toccarlo e riduce l’auspicato rinnovamento sociale della letteratura a un esperimento formale: indubbiamente interessante e intelligente»1. Continua a leggere

Georg Lukács e il patto col diavolo

di George Steiner

[Georg Lukacs and His Devil’s Pact, «The Kenyon Review» Vol. 22, No. 1 (Winter, 1960), pp. 1-18, trad. it. Ruggero Bianchi, in G. Steiner, Linguaggio e Silenzio, Rizzoli, Milano 1972, pp. 327-342]

Nel ventesimo secolo non è facile per un uomo onesto fare il critico letterario. Vi sono tante cose più urgenti da fare. La critica è un’aggiunta. Giacché l’arte del critico consiste nel sottoporre le opere di letteratura proprio all’attenzione di quei lettori che forse hanno meno bisogno di un tale aiuto: forse che un uomo legge critiche di poesia o teatro o narrativa se non possiede già per conto suo una cultura letteraria di notevole livello? Su l’un lato e l’altro, per giunta, vi sono due tentatori. A destra, la Storia Letteraria, con la sua aria solida e le sue credenziali accademiche. Alla sinistra, la Recensione, non proprio un’arte, ma piuttosto una tecnica devota alla teoria poco plausibile che ogni giorno dell’anno viene pubblicato qualcosa che vale la pena di leggere. Anche la critica migliore può soccombere all’una o all’altra di queste tentazioni. Ansioso di raggiungere la rispettabilità intellettuale, la posizione salda dello studioso, il critico può diventare, come Sainte-Beuve, quasi uno storico della letteratura. O può cedere alle pretese del nuovo e dell’immediato: una parte significativa delle dichiarazioni critiche di Henry James non è sopravvissuta ai luoghi comuni di cui esse erano molto prodighe. Le buone recensioni sono ancor più effimere dei brutti libri.

Ma vi è ancora un’altra ragione importante per cui è difficile a una mente seria, nata in questo secolo tormentato e periglioso, dedicare il grosso delle proprie energie alla critica letteraria. La nostra è, in maniera preminente, l’epoca delle scienze naturali. Il novanta per cento di tutti gli scienziati vive oggi. Il ritmo delle conquiste in campo scientifico, il ritrarsi dell’orizzonte davanti allo spirito che indaga, non è più assolutamente confrontabile con quello del passato. Ogni giorno si scoprono nuove Americhe, sicché la tempra della nostra epoca è permeata di valori scientifici. Questi estendono la propria influenza e il proprio fascino molto al di là dei confini della scienza intesa in senso classico. La storia e l’economia sostengono di essere, in qualche misura fondamentale, delle scienze; e così pure la logica e la sociologia. Lo storico dell’arte affina strumenti e tecniche che considera scientifici. Il compositore di musica dodecafonica collega i suoi esercizi austeri a quelli della matematica. Durrell ha scritto nella prefazione all’Alexandria Quartet che il suo tentativo è quello di tradurre nel linguaggio e nello stile della sua narrativa la prospettiva della relatività. Vede la città di Alessandria in quattro dimensioni.

Tale ubiquità della scienza ha recato con sé nuove modestie e ambizioni nuove. Diffidando del semplice istinto, la scienza esige una mitologia di rigore e di prova. Come splendido compenso, offre il miraggio della certezza, della conoscenza sicura, del possesso intellettuale salvaguardato dal dubbio. Lo scienziato grandissimo rifiuterà tale prospettiva; persevererà nel dubbio anche nel cuore della scoperta. Ma la speranza della verità oggettiva e dimostrabile è sempre presente e ha attirato a sé le menti più vigorose dei nostri tempi.

Nella critica letteraria non vi sono terre promesse di fatti stabiliti, né utopie di certezza. Per la sua stessa natura, la critica è personale. Non è suscettibile di dimostrazione né di prova coerente. Non dispone di strumenti più esatti della barba di Housman che si rizzava quando la grande linea di poesia gli saettava nella mente. In tutta la storia, i critici hanno cercato di dimostrare che il loro métier era una scienza in fin dei conti, che aveva canoni oggettivi e strumenti per pervenire alle verità assolute. Coleridge imbrigliò il proprio genio intensamente personale e spesso instabile al giogo di un sistema metafisico. In un celebre manifesto, Taine proclamò che lo studio della letteratura non era meno esatto di quello delle scienze naturali. I. A. Richards ha sottoscritto la speranza che vi sia un’oggettiva base psicologica all’atto del giudizio estetico. Il suo discepolo più eminente, W. Empson, ha applicato alle arti della critica letteraria le modalità e i gesti della matematica.

Resta però il fatto: il critico letterario è un uomo singolo che giudica un dato testo secondo l’attuale disposizione del proprio spirito, secondo il proprio umore o l’edificio delle proprie convinzioni. Può darsi che il suo giudizio abbia un valore maggiore del vostro o del mio soltanto perché si basa su una gamma più vasta di conoscenze o perché è presentato con chiarezza più convincente. Non lo si può dimostrare in maniera scientifica, né può pretendere di essere durevole. I venti del gusto e della moda sono incostanti e ogni generazione di critici ricomincia da capo a giudicare. Le opinioni sui meriti di un’opera d’arte sono, per giunta, inconfutabili. Balzac riteneva che la Radcliffe fosse grande come Stendhal. Nietzsche, una delle menti più acute che mai si siano occupate di musica, finì per sostenere che Bizet era un compositore più genuino di Wagner. Possiamo essere profondamente convinti che tali opinioni sono ingiuste ed erronee. Ma non possiamo rifiutarle come uno scienziato può rifiutare una teoria falsa. E chissà che una qualche epoca futura non concordi con giudizi che oggi sembrano insostenibili? La storia del gusto è un po’ come una spirale. Le idee che in un primo momento vengono considerate oltraggiose o di avanguardia diventano le credenze reazionarie e consacrate della generazione successiva.

Il critico moderno si trova dunque doppiamente in pericolo. La critica ha intorno a sé qualcosa di un’epoca più agiata. È difficile, su basi morali, resistere alle fiere sollecitazioni dei problemi economici, sociali e politici. Se vi è la minaccia di una qualche forma di barbarie e di autodistruzione politica, lo scrivere saggi sulle belles-lettres pare un’occupazione piuttosto marginale. Il secondo dilemma è di natura intellettuale. Per eminente che sia, il critico non può partecipare all’avventura principale della mente contemporanea: l’acquisizione della conoscenza positiva, il dominio del fatto scientifico o l’esplorazione della verità dimostrabile. E se è onesto con se stesso, il critico letterario sa che i suoi giudizi non hanno una validità duratura, che domani possono essere capovolti. Una cosa soltanto può conferire alla sua opera un po’ di durevolezza: il vigore o la bellezza del suo stile. Grazie allo stile, la critica può a sua volta diventare letteratura.

I maestri della critica contemporanea hanno cercato di risolvere questi dilemmi in modi differenti. T. S. Eliot, Ezra Pound e Thomas Mann, per esempio, hanno fatto della critica un’appendice alla creazione. I loro scritti critici sono commentari alle proprie opere poetiche; specchi che l’intelletto presenta alla fantasia creativa. In D. H. Lawrence, la critica è autodifesa: pur discutendo apparentemente di altri scrittori, di fatto Lawrence stava difendendo il proprio concetto dell’arte del romanzo. Leavis ha accettato la sfida a testa bassa. Ha posto le sue energie critiche al servizio di un’appassionata visione morale. È tutto intento a stabilire standard di maturità e di ordine in letteratura perché la società nel suo complesso possa procedere in una maniera più matura e ordinata.

Ma nessuno ha offerto ai dilemmi morali e intellettuali che assediano la critica letteraria una soluzione più radicale di quella di Georg Lukács. Nelle sue opere si concretizzano due convinzioni. La prima, che la critica letteraria non è un lusso, che non è quello che il più sottile critico americano ha definito «un discorso per dilettanti». Ma che, al contrario, è una forza militante e fondamentale per la formazione della vita degli uomini. In secondo luogo, Lukács afferma che l’opera del critico non è né soggettiva né incerta. La critica è una scienza con un proprio rigore e una propria precisione. La verità del giudizio si può verificare. Georg Lukács è, naturalmente, marxista. Anzi, è l’unico grande talento critico che sia emerso dal grigio servaggio del mondo marxista.

II

In un saggio che risale al 1948, Lukács tracciò un’analogia significativa. Disse che la fisica newtoniana aveva dato alla coscienza settecentesca il suo principale impulso liberatore, insegnando alla mente a vivere la grande avventura della ragione. Secondo Lukács, tale ruolo dovrebbe essere svolto ai giorni nostri dall’economia politica. È attorno all’economia politica, in senso marxista, che dovremmo ordinare la nostra comprensione delle vicende umane. Lukács stesso giunse alla letteratura attraverso l’economia, così come si può dire che Aristotile si accostò al dramma tramite un’indagine sistematica in campo morale.

Il materialismo dialettico sostiene che la letteratura, come tutte le altre forme d’arte, è una «sovrastruttura ideologica», un edificio dello spirito costruito sulle fondamenta del fatto economico, sociale e politico. Nello stile e nel contenuto l’opera d’arte riflette esattamente la sua base storica e materiale. L’Iliade non era meno condizionata dall’ambiente sociale (un’aristocrazia feudale frantumata in piccoli regni rivali) di quanto non lo fossero i romanzi di Dickens, che riflettono con tale vigore l’economia della produzione in serie e la crescita di un nuovo pubblico di massa. Pertanto, sostiene il marxista, il progresso dell’arte è sottoposto alle leggi della necessità storica. Non possiamo concepire Robinson Crusoe prima della nascita dell’ideale mercantile. Nel declino del romanzo francese dopo Stendhal osserviamo l’immagine di un più vasto declino della borghesia francese.

Ma dove c’è legge c’è scienza. E quindi il critico marxista nutre la convinzione di essere impegnato non in cose opinabili ma in determinazioni di realtà oggettiva. Senza tale convinzione, Lukács non avrebbe potuto dedicarsi alla letteratura. Raggiunse la maturità intellettuale in mezzo alla ferocia caotica della guerra e della rivoluzione nell’Europa centrale. Giunse al marxismo per la strada tortuosa della metafisica hegeliana. Nei suoi primi scritti vi sono due note dominanti: la ricerca di una chiave per comprendere l’apparente tumulto della storia e il tentativo dell’intellettuale di giustificare la propria scelta della vita contemplativa. Come Simone Weil, cui egli spesso mi fa pensare, Lukács ha l’anima di un calvinista. Si può immaginare come abbia dovuto lottare per disciplinare in se stesso l’inclinazione naturale alla letteratura e all’aspetto estetico delle cose. Il marxismo gli offrì la possibilità fondamentale di restare critico letterario senza aver l’impressione di aver dedicato le proprie energie a uno scopo piuttosto frivolo e impreciso. Nel 1918 Lukács aderì al partito comunista ungherese. Durante il primo breve periodo di governo comunista a Budapest, prestò servizio come commissario politico e culturale con la quinta Armata Rossa. Dopo la caduta di Béla Kun, Lukács andò in esilio. Rimase a Berlino fino al 1933 e quindi si rifugiò a Mosca. Là rimase e lavorò per dodici anni, facendo ritorno in Ungheria soltanto nel 1945.

È questo un fatto di ovvia importanza. Il tedesco è la lingua principale di Lukács, ma l’uso che ne fa è diventato fragile e sgradevole. Il suo è lo stile dell’esilio; ha perso i caratteri della parlata viva. Più essenzialmente: tutto il tono di Lukács, il tenore fervido e a volte angusto della sua visione, riflette il fatto dell’esilio. Da Mosca, circondato da una piccola cerchia di compagni d’esilio, Lukács osservò l’estendersi della crisi sull’Europa occidentale. I suoi scritti sulla letteratura francese e tedesca divennero una difesa appassionata contro le menzogne e la barbarie del periodo nazista. E ciò spiega un grosso paradosso nella produzione di Lukács. Pur essendo comunista per convinzione, materialista dialettico in virtù del suo metodo critico, egli ha tenuto lo sguardo decisamente fisso al passato. Thomas Mann vide nelle opere di Lukács un senso eminente della tradizione. Nonostante le pressioni dei suoi ospiti russi, Lukács prestava soltanto un’attenzione distratta alle conquiste celebrate del «realismo sovietico». Insisteva invece sulla grande tradizione della poesia e della narrativa europea del Settecento e dell’Ottocento, su Goethe e su Balzac, su Walter Scott e Flaubert, su Stendhal e Heine. Quando scrive di letteratura russa, Lukács tratta di Puškin o di Tolstoj, non dei poetastri dell’epoca staliniana. La prospettiva critica è rigorosamente marxista, ma la scelta dei temi è «centroeuropea» e conservatrice.

In mezzo all’apparente trionfo del fascismo, Lukács mantenne una serenità appassionata. Si sforzò di scoprire la tragica pecca, il seme di caos, da cui era scaturita la follia di Hitler. Una delle sue opere, un libro in se stesso stridulo e spesso mendace, s’intitola La distruzione della ragione (1955). È il tentativo filosofico di risolvere il mistero drammatizzato da Thomas Mann nel Dottor Faustus. Come si scatenò l’ondata di tenebre sull’anima tedesca? Lukács fa risalire le origini del disastro all’irrazionalismo di Schelling. Ma al tempo stesso insisteva sull’integrità e la forza vitale dei valori umani. Essendo comunista, Lukács non dubitava che il socialismo avrebbe finito per prevalere. Considerava suo compito particolare quello di organizzare in vista del momento della liberazione le risorse spirituali presenti nella letteratura e nella filosofia europee. Quando le poesie di Heine tornarono a essere lette in Germania, era disponibile un saggio di Lukács che tracciava un ponte tra il futuro e il mondo semidimenticato del liberalismo cui Heine era appartenuto.

Lukács dunque ha offerto una soluzione al duplice dilemma del critico moderno. In quanto marxista, scorge nella letteratura l’azione delle forze economiche, sociali e politiche. Tale azione si basa su certe leggi di necessità storica. Per Lukács la critica è una scienza ancor prima di essere un’arte. La sua preferenza per Balzac su Flaubert non dipende dal consenso o dal gusto personale. È una determinazione oggettiva cui si è pervenuti tramite un’analisi del fatto materiale. In secondo luogo, Lukács ha conferito al suo stile un’intensa immediatezza. Affonda le proprie radici nelle battaglie e nelle circostanze sociali del tempo. I suoi scritti sulla letteratura, come quelli su Tolstoj, sono strumenti di combattimento. Comprendendo la dialettica del Faust di Goethe, dice Lukács, si è meglio attrezzati a leggere gli enigmi sanguinosi del presente. La caduta della Francia nel 1940 è scritta a grossi caratteri nella Comédie humaine. Gli argomenti di Lukács hanno a che fare con problemi fondamentali della nostra vita. Le sue critiche non sono una semplice eco alla letteratura. Anche quando è settario e polemico, un libro di Lukács ha sempre una curiosa nobiltà. Possiede quella che Matthew Arnold chiamò «alta serietà».

III

Ma, in pratica, quali sono i grossi risultati di Lukács come critico e storico delle idee?

Ironicamente, una delle sue opere più influenti risale a un periodo in cui il suo comunismo era venato di eresia. Storia e coscienza di classe (1923) è un caso quasi leggendario. È un livre maudit, un libro dato alle fiamme, di cui sono rimaste relativamente poche copie1. Si trova in esso un’analisi fondamentale della «reificazione» dell’uomo (Verdinglichung), della degradazione della persona umana a oggetto statistico tramite i processi industriali e politici. L’opera fu condannata dal partito e ritirata dall’autore. Ma ha portato a una tenace vita sotterranea e taluni scrittori, come Sartre e Thomas Mann, l’hanno sempre considerata il capolavoro di Lukács.

A mio parere, tuttavia, la sua preminenza si trova altrove: nei saggi e nelle monografie da lui scritte durante gli anni Trenta e Quaranta, che cominciarono a uscire in una sfilza di volumi imponenti dopo la fine della guerra. L’essenza di Lukács si trova nello studio di Goethe e i suoi tempi (1947), nei saggi sul Realismo russo nella letteratura mondiale (1949), nel volume intitolato Realisti tedeschi dell’Ottocento (1951), nel libro su Balzac, Stendhal e Zola (1952) e nella grande opera su Il romanzo storico (1955). A ciò bisognerebbe aggiungere alcuni volumi massicci di carattere più squisitamente filosofico, quali Contributi a una storia dell’estetica (1954), e quello che è forse il magnum opus di Lukács, lo studio di Hegel (di cui apparve il primo volume nel 1948).

È impossibile dare una descrizione breve e tuttavia accurata di una gamma così vasta di materiale. Ma vi sono alcuni motivi che emergono come classici arricchimenti della comprensione che noi abbiamo della letteratura.

Vi è l’analisi lukacsiana del declino del romanzo francese. Lukács è il più grande studioso vivente di Balzac e vede nella Comédie humaine il massimo monumento del realismo. La sua interpretazione di Les illusions perdues è un esempio perfetto del modo in cui la visione dello storico vien fatta pesare sulla struttura di un’opera d’arte. È questa visione a indurre direttamente Lukács a una condanna di Flaubert. Tra Balzac e Flaubert vi è la sconfitta del 1848. Lo splendore delle speranze liberali era sbiadito e la Francia si stava dirigendo verso la tragedia della Comune. Balzac guarda il mondo con l’ardore primitivo della conquista. Flaubert guarda il mondo come attraverso una lente, con disprezzo. In Madame Bovary il bagliore e l’artificio delle parole sono diventati fini a se stessi. Quando Balzac descrive un cappello, lo fa perché un uomo lo porta. La descrizione del berretto di Charles Bovary, dal canto opposto, è un pezzo di virtuosismo tecnico; sfoggia la padronanza che Flaubert ha del vocabolario dei sarti francesi. Ma la cosa è morta. E dietro questo contrasto nell’arte del romanzo, Lukács scorge la trasformazione della società attraverso il capitalismo maturo. In una società preindustriale, o in una società in cui l’industrialismo rimane su piccola scala, il rapporto dell’uomo con gli oggetti fisici che lo circondano ha un’immediatezza naturale. Questa viene distrutta dalla produzione in massa. L’arredamento della nostra vita è il frutto di processi troppo complessi e impersonali perché qualcuno li possa dominare. Isolato dalla realtà fisica, respinto dalla trasandatezza disumana del mondo delle fabbriche, lo scrittore cerca rifugio nella satira o nelle visioni romantiche del passato. Tutte e due le ritirate sono esemplificate in Flaubert: Bouvard et Pécuchet è un’enciclopedia del disprezzo, mentre Salammbô può essere considerato il sogno a occhi aperti di un antiquario un po’ sadico.

Da tale dilemma scaturì quella che Lukács definisce l’illusione del naturalismo, la convinzione che l’artista possa ricatturare un senso di realtà con la semplice forza dell’accumulazione. Mentre il realista seleziona, il naturalista enumera. Come l’insegnante di Hard Times di Dickens, esige fatti e ancora fatti. Zola aveva una fame inesauribile di particolari circostanziati, una passione per gli orari e gli inventari (viene in mente il catalogo dei formaggi in Le ventre de Paris). Provava piacere a infondere la vita in una citazione della Borsa valori. Ma la sua teoria del romanzo, sostiene Lukács, era radicalmente falsa. Porta alla morte della fantasia e al reportage.

Lukács non scende a compromessi con la propria visione critica. Esalta Balzac, realista e animato da princìpi clericali; e condanna Zola, progressista in senso politico e precursore del «realismo socialista».

Ancor più autoritario e originale è il trattamento che Lukács fa del romanzo storico. È questo un genere letterario la cui critica occidentale ha dedicato soltanto un’attenzione superficiale. È difficile focalizzare bene la sfera del romanzo storico. A volte, la sua testa è nelle stelle mitologiche, ma più sovente il grosso si può trovare nella buona terra della letteratura commerciale. Il concetto stesso evoca alla mente improbabili amorosi che inseguono giovinette terrificate eppure vestite vaporosamente attraverso copertine di libri riccamente decorate. Solo rarissimamente, quando interviene uno scrittore come Robert Graves, comprendiamo che il romanzo storico ha virtù ben precise e una nobile tradizione. È a queste che Lukács si rivolge in uno studio importante, Il romanzo storico.

Tale forma nacque da una crisi della sensibilità europea. La rivoluzione francese e l’epoca napoleonica avevano diffuso nella coscienza della gente comune un senso dello storico. Mentre Federico il Grande aveva chiesto che le guerre fossero condotte in maniera tale da non disturbare il corso normale degli eventi, le armate di Napoleone marciarono su e giù per l’Europa riplasmando il mondo lungo la strada. La storia non era più qualcosa che riguardava archivi e principi; era diventata la struttura della vita quotidiana. A tale mutamento i romanzi di Waverley reagirono in maniera profetica e diretta. Anche qui, Lukács si muove su un terreno fresco. Noi non prendiamo Walter Scott con assoluta serietà. Con ogni probabilità, commettiamo un’ingiustizia. Se ci teniamo a sapere che artista attento fosse Scott e quale penetrante senso storico sia all’opera in Quentin Durward o The Heart of Midlothian, la cosa migliore è leggere un libro scritto a Mosca da un critico ungherese.

Lukács prosegue esplorando l’evoluzione della narrativa storica nell’arte di Manzoni, Puškin e Victor Hugo. La sua lettura di Thackeray è particolarmente suggestiva. Egli sostiene che gli elementi archeologici in Henry Esmond e The Virginians esprimono la critica di Thackeray alle condizioni sociali e politiche dei suoi tempi. Togliendo la parrucca al Settecento, il romanziere satireggia la falsità delle convenzioni vittoriane (ciò che i marxisti chiamano zeitgenössische Apologetik). Personalmente ritengo che Lukács interpreti male Thackeray. Ma si tratta di un errore fruttuoso, come lo sono spesso gli errori della buona critica, e conduce a un’idea originalissima. Lukács nota che il discorso arcaico, per abilmente maneggiato che sia, di fatto non avvicina il passato alla nostra fantasia. I maestri classici del romanzo storico scrivono narrativa e dialogo nel linguaggio dei propri tempi. Creano l’illusione del presente storico tramite la forza della fantasia realizzata e perché essi stessi sperimentano il rapporto tra la storia passata e il proprio tempo come un rapporto di continuità viva. Il romanzo storico vacilla quando questo senso di continuità non è più prevalente, quando lo scrittore sente che le forze della storia trascendono la sua comprensione razionale. Egli allora si rivolge a un passato sempre più remoto o esotico per protestare contro la vita contemporanea. Invece del romanzo storico, troviamo laboriosa archeologia. Si confronti la poetica della storia implicita in La certosa di Parma con l’artificio erudito di Salammbô. Tra artefici meno abili di Flaubert questo senso dell’artificio è rafforzato dall’uso arcaico del linguaggio. Il romanziere si sforza di rendere autentica la propria visione del passato scrivendo i dialoghi in quella che suppone sia stata la sintassi e lo stile del periodo in questione. È, questo, un debole artificio. Forse che Shakespeare avrebbe fatto meglio a far parlare Riccardo II in inglese chauceriano?

Ora, come osserva Lukács, questo declino del concetto classico del romanzo storico coincide esattamente con il passaggio dal realismo al naturalismo. In entrambi i casi, la visione dell’artista perde la propria spontaneità: in un certo modo, egli è estraneo al proprio materiale. Ne consegue che i problemi di tecnica diventano predominanti a spese della sostanza. L’immagine di Glasgow in Rob Roy è storicamente percettiva, ma scaturisce in maniera più significativa dai conflitti sociali e personali della narrazione. Non è un pezzo di restauro antiquario. Ma questo è proprio ciò che è l’immagine di Cartagine in Salammbô. Flaubert ha costruito un sontuoso guscio vuoto attorno a un’azione autonoma. Come osservò Sainte-Beuve, è difficile conciliare le motivazioni psicologiche dei personaggi con l’ambiente storico presentato. Walter Scott credeva nello spiegarsi razionale e progressivo della storia inglese. Vedeva negli avvenimenti dei propri tempi una conseguenza naturale di energie liberate nel corso del Seicento e del Settecento. Flaubert, al contrario, si volse all’antica Cartagine o ad Alessandria perché trovava insopportabile la propria epoca. Non essendo in sintonia con il presente – vide nella Comune un tardo spasimo del Medioevo – non riuscì a raggiungere una comprensione fantastica del passato.

Si concordi o no con questa analisi, la sua originalità e la sua ampiezza di riferimenti sono evidenti. Essa illustra l’esercizio essenziale di Lukács: lo studio attento del testo letterario alla luce di problemi politici o filosofici di vasta portata. Lo scrittore o l’opera singola sono il punto di partenza. Di qui la discussione di Lukács si muove all’esterno attraverso un terreno complesso. Ma il tema o l’idea centrale sono tenuti continuamente di vista. Infine, la dialettica si fa serrata, ordinandone gli esempi e le convinzioni.

Analogamente, il saggio sulla corrispondenza tra Goethe e Schiller verte soprattutto sulla discussa questione della natura delle forme letterarie. La discussione dell’Hyperion di Hölderlin dà il via a uno studio del ruolo cruciale e tuttavia ambiguo svolto dall’ideale ellenico nella storia dello spirito tedesco. Nelle sue numerose considerazioni su Thomas Mann, Lukács s’interessa di quello che considera il paradosso dell’artista borghese in un secolo marxista. Lukács sostiene che Mann decise di star fuori dalla corrente della storia, pur rendendosi conto del carattere tragico della propria scelta. Il saggio su Gottfried Keller è un tentativo di chiarire il difficilissimo problema dell’arresto dello sviluppo della letteratura tedesca dopo la morte di Goethe. In tutti questi esempi, non è possibile separare il singolo giudizio critico dal più ampio contesto filosofico e sociale.

Essendo la sua discussione così serrata e fitta, è difficile offrire citazioni significative dalle opere di Lukács. Forse un breve passo tratto da un saggio su Kleist può comunicarne il tono dominante:

Il concetto di passione di Kleist porta il dramma vicino all’arte del racconto. Una singolarità intensificata è presentata in una maniera che ne sottolinea la unicità accidentale. Nel racconto ciò è assolutamente legittimo. Questo è infatti un genere letterario concepito appositamente per rendere reale il ruolo immenso della coincidenza e della contingenza nella vita umana. Ma se l’azione rappresentata resta al livello di coincidenza… e se riceve la dignità di dramma tragico senza prova alcuna della sua obiettiva necessità, si avrà inevitabilmente un effetto di contraddizione e di dissonanza. I drammi di Kleist, di conseguenza, non indicano la strada maestra del dramma moderno. Tale strada va da Shakespeare, attraverso gli esperimenti di Goethe e di Schiller, al Boris Godunov di Puškin. A causa del declino ideologico della borghesia, essa non ebbe un seguito adeguato. I drammi di Kleist rappresentano una strada laterale irrazionale. La passione individuale isolata distrugge il rapporto organico tra il fato della persona individuale e la necessità sociale e storica. Con la dissoluzione di tale rapporto, le basi poetiche e filosofiche del genuino conflitto drammatico sono a loro volta distrutte. La base del dramma si fa esile e angusta, esclusivamente privata e personale… Le passioni kleistiane rappresentano senza dubbio una società borghese. La loro dialettica interna riflette conflitti tipici di individui che sono diventati «monadi senza finestre» in un ambiente borghese.

Il riferimento a Leibniz è tipico. La qualità della mente di Lukács è filosofica, nel senso tecnico della parola. La letteratura concentra e concretizza quei misteri di significato che costituiscono l’interesse principale del filosofo. Sotto questo aspetto, Lukács appartiene a una tradizione notevole. La Poetica è critica filosofica (il dramma visto come il modello teorico dell’azione spirituale); come lo sono gli scritti critici di Coleridge, Schiller e Croce. Se l’andatura è pesante, è perché la materia in discussione è insistentemente completa. Come altri critici filosofi, Lukács affronta problemi che hanno tormentato l’indagine dai tempi di Platone. Quali sono le distinzioni fondamentali tra epica e dramma? Che cos’è la «realtà» in un’opera d’arte, l’antico enigma dell’ombra che pesa di più della sostanza? Qual è il rapporto tra la fantasia poetica e la percezione comune? Lukács solleva il problema del personaggio «tipico». Perché certi personaggi letterari – Falstaff, Faust, Emma Bovary – possiedono una carica di vita maggiore di quella di una moltitudine di altre creature fantastiche e anzi della maggior parte degli esseri viventi? È perché sono archetipi in cui i caratteri universali convergono e ricevono una forma memorabile?

Le indagini di Lukács attingono a un campo straordinario di documentazione. Egli dà l’impressione di possedere tutta la letteratura europea moderna e tutta la letteratura russa. Questo consente una rara combinazione di robusta esattezza filosofica e di ampiezza di visione. Per contrasto, Leavis, che non è meno moralista né lettore meno attento di Lukács, è cautamente provinciale. In fatto di universalità, l’equivalente di Lukács sarebbe Edmund Wilson.

Ma la medaglia ha un suo rovescio. La critica di Lukács ha la sua parte di cecità e di ingiustizia. A volte scrive con oscurità astiosa quasi ad affermare che lo studio della letteratura non dovrebbe essere un piacere ma una disciplina e una scienza, difficile da accostare come le altre scienze. Questo l’ha reso insensibile ai grandi musicisti del linguaggio. Lukács manca di orecchio; non possiede quel diapason interiore che consente a Ezra Pound di scegliere senza sbagliare l’istante di gloria di un lungo poema o di un romanzo dimenticato. Nell’omissione di Rilke da parte di Lukács vi è un’oscura protesta contro la meraviglia del linguaggio del poeta. In un certo senso, scrive troppo mirabilmente. Anche se lo negherebbe, inoltre, Lukács tende davvero all’errore fondamentale della critica vittoriana: il contenuto narrativo, la qualità della favola, influenza la sua valutazione. La sua incapacità di includere Proust, ad esempio, getta il dubbio su tutta la visione che Lukács ha del romanzo francese. Ma la trama della Recherche du temps perdu, il fasto e le perversità che Proust descrive, offendono ovviamente il moralismo austero di Lukács. Il marxismo ha un credo puritano.

Come tutti i critici, anch’egli ha le sue avversioni particolari. Lukács detesta Nietzsche ed è insensibile al genio di Dostoevskij. Ma essendo un marxista coerente, fa della cecità una virtù e attribuisce alle sue condanne un valore oggettivo e sistematico. Leavis si trova evidentemente a disagio con le opere di Melville. T. S. Eliot ha condotto una lunga e sottile polemica con la poetica di Milton. Ma in essa le cortesie fondamentali vengono rispettate. Le argomentazioni di Lukács sono ad hominem. Infuriato dalla visione del mondo di Nietzsche e Kierkegaard, egli ne consegna le persone e le fatiche all’inferno spirituale del prefascismo. Questa, naturalmente, è un’interpretazione erronea e grottesca dei fatti.

Di recente, questi difetti di visione si sono fatti più drastici. La distruzione della ragione e i saggi di estetica apparsi da allora, ne sono guastati. Senza dubbio, vi è un problema di età. Lukács aveva settant’anni nel 1955 e i suoi odii si sono irrigiditi. Vi è in parte il fatto che Lukács è ossessionato dalla rovina della civiltà della Germania e dell’Europa occidentale. Va a caccia dei colpevoli da consegnare al Giudizio Finale della storia. Ma vi è soprattutto, a parer mio, un intenso dramma personale. All’inizio della sua brillante carriera, Lukács strinse un patto con il demone della necessità storica. Il diavolo gli promise il segreto della verità oggettiva. Gli diede il potere di impartire benedizioni o pronunciare condanne in nome della rivoluzione e delle «leggi della storia». Ma dal ritorno di Lukács dall’esilio, il diavolo è rimasto in agguato nei dintorni, chiedendo il proprio onorario. Nell’ottobre del 1956, ha picchiato con forza alla porta.

IV

Accenniamo qui a fatti di natura personale. La parte svolta da Lukács nell’insurrezione ungherese e il monachismo successivo della sua vita personale hanno un ovvio interesse storico. Ma contengono un elemento di agonia privata cui un estraneo difficilmente può accedere. Un uomo che perde la propria religione perde le proprie convinzioni. Un comunista per cui la storia si mette a fare salti mortali corre il rischio di perdere la ragione. Forse, è peggio così. Quanti non l’hanno provato, tuttavia, difficilmente possono capire che cosa significhi un simile crollo di valori. Inoltre, nel caso di Lukács, i moventi dell’azione sono oscuri.

Accettò il posto di ministro della Cultura nel governo di Nagy. Non, ritengo, per essere tra le guide di un movimento antisovietico, bensì piuttosto per conservare il carattere marxista della vita intellettuale ungherese e proteggerne l’eredità fondamentale contro le forze rinascenti della destra agrario-cattolica. Più essenzialmente, forse, perché un Lukács non può aderire a un solo lato della storia anche quando questa assume forme assurde. Non può essere uno spettatore. Ma il 3 novembre, un giorno prima che l’Armata Rossa riconquistasse Budapest, Lukács si dimise. Perché? Aveva deciso che un marxista non deve opporsi alla volontà dell’Unione Sovietica in cui s’incarna, nel meglio e nel peggio, il futuro del materialismo dialettico? Fu convinto a ritirarsi da una causa persa da amici che temevano per la sua vita? Non sappiamo.

Dopo un periodo di esilio in Romania, Lukács ottenne il permesso di tornare in patria. Ma non gli fu più consentito di insegnare e la sua opera passata divenne oggetto di attacchi e di scherni sempre più feroci. Tali attacchi in realtà sono anteriori all’insurrezione di ottobre. L’Ungheria aveva la sua versione in miniatura di Ždanov, un omuncolo feroce di nome Joseph Revai. Dapprima allievo di Lukács, ma poi geloso della celebrità del maestro, Revai pubblicò un opuscolo sulla Letteratura e democrazia popolare nel 1954. In esso redasse un atto d’accusa stalinista di tutto il lavoro di Lukács. Accusò Lukács di aver costantemente trascurato la letteratura sovietica contemporanea. Lo accusò di essere pericolosamente antiquato nella sua concentrazione su Goethe e Balzac. Persino un romanzo mediocre di un comunista, sostiene Revai, è infinitamente preferibile a un grande romanzo di un reazionario o di un premarxista. Lukács pone gli ideali letterari «formalistici» al di sopra degli interessi di classe e di partito. Il suo stile è inaccessibile al lettore proletario.

Dopo ottobre, tali accuse si fecero meno stridule. I pubblicisti ungheresi e tedesco orientali tirarono fuori di nuovo le vecchie accuse di eresia rivolte ai primi scritti di Lukács. Rievocarono la sua ammirazione giovanile per Stefan George e scorsero tracce di «idealismo borghese» nelle sue opere mature. Il vecchio tuttavia non fu toccato e per uno di quei giudizi strani, kafkiani, ammessi a volte dai regimi comunisti, gli fu persino consentito di pubblicare un volumetto di saggi presso una casa editrice della Germania Occidentale (Wider den missverstandenen Realismus, Amburgo, 1958).

Può darsi che la relativa immunità di Lukács sia dovuta all’interesse che gli intellettuali socialisti al di fuori della cortina di ferro hanno avuto per il suo caso. Ma certamente il problema più importante è questo: come considerò Lukács stesso le sue convinzioni e i suoi risultati alla luce della tragedia di ottobre? Fu attirato dal grande limbo della delusione? I suoi dei finirono per abbandonarlo?

Questioni del genere non possono essere spinte molto lontano senza cadere nella futilità: esse coinvolgono quel luogo intimo di illusione vitale che conserva la coscienza religiosa o rivoluzionaria. Il giudizio espresso da Lukács sulla rivoluzione ungherese si trova in una prefazione da lui scritta nell’aprile del 1957: «Avvenimenti importanti si sono verificati in Ungheria e altrove, costringendoci a rimeditare molti problemi connessi con l’opera di tutta la vita di Stalin. La reazione a quest’ultimo, sia nel mondo borghese che nei paesi socialisti, sta assumendo la veste di una revisione degli insegnamenti di Marx e di Lenin. E ciò costituisce certamente la minaccia principale al marxismo-leninismo». Queste parole sembrano eludere disperatamente il punto. Ma teniamo bene in mente una cosa soltanto: per uomini come Koestler o Malraux, il comunismo fu un espediente temporaneo di passione. Il comunismo di Lukács è la fibra stessa della sua intelligenza. La sua interpretazione della crisi dell’ottobre 1956, qualunque possa essere, sarà stata ottenuta entro la cornice di una visione dialettica della storia. L’uomo che ha perso la vista continua a vedere quanto gli sta intorno in forma di immagini ricordate. Per sopravvivere intellettualmente, Lukács deve aver elaborato un compromesso interiore di qualche genere: simili spedizioni punitive nella propria coscienza sono tipiche della condizione marxista. Il suo commento sulla minaccia del revisionismo ci indica la strada. Se lo interpreto in maniera corretta, Lukács sta dicendo che l’episodio ungherese è un’estensione finale, una reductio ad absurdum della politica stalinista. Ma tale politica era una falsa partenza dalla dottrina marxista-leninista e la violenza con cui venne attuata ne prova soltanto il fallimento. La giusta reazione al disastro ungherese non implica pertanto un abbandono dei princìpi primi marxisti. Al contrario, bisogna tornare a tali princìpi nella loro formulazione genuina. O, come si esprimerebbe uno dei capi dell’insurrezione: «Opponiamoci all’Armata Rossa in nome del Soviet dei lavoratori di Leningrado del 1917». Vi è forse, in questa idea, l’antico, ingannevole sogno del comunismo separato dall’oscurantismo e dalle ambizioni particolari della dominazione russa.

Lukács si è sempre ritenuto responsabile verso la storia. Ciò gli ha consentito di produrre un corpo di opere critiche e filosofiche che esprimono intensamente lo spirito crudele e serio dell’epoca. Che noi ne condividiamo o no le convinzioni, non c’è dubbio che egli ha conferito alla Musa minore della critica una notevole dignità. Gli ultimi anni di solitudine e di pericolo ricorrente non fanno che sottolineare quanto ho osservato all’inizio: nel Novecento non è facile per una persona onesta fare il critico letterario. Ma, del resto, non lo è stato mai.

1 Storia e coscienza di classe è ora reperibile in francese. Viene inoltre ristampato anche nell’edizione tedesco-occidentale delle opere complete di Lukács, insieme con altri saggi giovanili che sono tra i suoi migliori prodotti in campo filosofico e fanno di lui un autentico predecessore di Walter Benjamin. Le autorità culturali dell’Est permettono queste pubblicazioni occidentali di libri marxisti eretici ma prestigiosi: è questo un tocco caratteristico di politica «bizantina».

Il campione del realismo socialista

di David Pike

«Lettera Internazionale, n. 23, 1990.

Nel saggio Il romanzo storico Lukács forniva una sua interpretazione della letteratura moderna, secondo la quale un nuovo culto dei fatti si era affermato nell’età dell’imperialismo. Nel naturalismo, in particolare, e in seguito anche nella letteratura della «Neue Sachlichkeit», si erano formate «correnti pseudorealistiche», sulla base di un culto dei fatti isolati, avulsi dal contesto, culto culminato nella teoria del montaggio come arte. Ma il montaggio, come surrogato dell’arte, era il condensato delle false tendenze del naturalismo – in quanto, a differenza del naturalismo originale, rinunciava persino a osservare la realtà empirica – e rappresentava al tempo stesso il trionfo del formalismo, perché la connessione tra i dettagli non aveva niente a che fare con la dialettica interna oggettiva dei personaggi e dei loro destini.

In una letteratura così decadente, secondo Lukács, non poteva esserci spazio per il realismo, dato che un tale genere di scrittura priva di intreccio era incapace di verificare la validità delle esperienze e delle emozioni dei personaggi al confronto col mondo esterno: «La dialettica intrinseca ai loro destini non può quindi trascendere le intenzioni dello scrittore, i suoi pregiudizi di fondo, né può sconfessare tali pregiudizi per mezzo dell’analisi coraggiosa del genuino processo della vita». Le prospettive di un trionfo del realismo, irrealizzabili fin tanto che il «mondo del capitalismo» veniva descritto in una condizione statica, finale, erano inversamente proporzionali alla capacità dello scrittore di manipolare arbitrariamente i propri personaggi e le loro azioni.

Le buone intenzioni dello scrittore, la sua scelta di essere politicamente e socialmente «rivoluzionario» restavano, secondo Lukács, del tutto irrilevanti al riguardo. Le intenzioni di molti autori che si ritenevano sinceri e appassionati avversari del capitalismo si limitavano a galleggiare in superficie, come un’astratta tendenza politico-sociale. Il grande realismo si era concluso, dunque, in un’era di declino ed era stato soppiantato da una letteratura apertamente reazionaria e apologetica, come pure da una lunga scia di correnti letterarie che «con uno stile molto radicale e di avanguardia, si sforzavano in realtà di sradicare le ultime tracce di realismo». Quali che fossero le intenzioni dei rappresentanti di questa scuola, concludeva Lukács, essi erano oggettivamente alleati della borghesia nella sua lotta contro il vero realismo.

La condanna dell’espressionismo

Il fatto che l’attacco di Lukács al modernismo – non importa che lo chiamasse naturalismo, formalismo, montaggio, reportage, surrealismo, soggettivismo o semplicemente decadenza – abbia avuto come punto di partenza il dibattito sull’espressionismo, fu probabilmente il risultato di una coincidenza iniziale. Già nel 1932, nel suo articolo su Ottwalt, Lukács aveva affrontato il tema dell’espressionismo, che considerava soltanto come una delle molte correnti antirealistiche. Più tardi, nel 1933, aveva scritto un saggio dedicato esclusivamente all’espressionismo, definito una forma letteraria dell’imperialismo avanzato, facilmente asservita alla demagogia fascista e alla combinazione di decadenza e regressione propria del fascismo. Il soggetto fu abbandonato fino al settembre 1937, quando Klaus Mann pubblicò su Das Wort un saggio dedicato alla breve infatuazione di Gottfried Benn per il nazionalsocialismo. Questa fu la coincidenza. Ma, nello stesso numero della rivista, all’articolo di Mann ne seguiva «casualmente» uno di Alfred Kurella, che conteneva una condanna sommaria dell’espressionismo e riprendeva molti dei giudizi espressi nel 1933 da Lukács. E questa non fu una coincidenza. Das Wort infatti pubblicò entrambi i saggi con l’annuncio che «l’espressionismo» era l’argomento di «discussione».

Kurella, scrivendo con lo pseudonimo di Bernard Ziegler, aggiungeva agli argomenti di Lukács un tema tipico del realismo socialista; l’opposizione tra popolarismo e formalismo. Per Kurella la letteratura antifascista doveva chiarire la propria posizione nei riguardi della storia dell’arte recente, di cui l’espressionismo costituiva l’ultimo movimento significativo. Avanzava quindi la seguente osservazione provocatoria: «In primo luogo, oggi è evidente quale spirito abbia prodotto l’espressionismo, e dove questo spirito ci abbia condotti: al fascismo. Inoltre … tutti noi dobbiamo ammettere onestamente di essere stati in qualche modo segnati da quegli anni». Se la letteratura antifascista doveva essere «qualcosa di più di un momento nella decadenza generale della letteratura tedesca», se si trattava di «dare inizio a una grande arte in grado di riprendere le autentiche tradizioni della cultura nazionale e internazionale»; ciò sarebbe dipeso in gran parte dalla capacità di eliminare i residui espressionisti. Kurella, sostenendo che l’espressionismo aveva contribuito alla «liquidazione» dell’eredità classica e non aveva offerto alcun contributo alla lotta antifascista, domandava agli scrittori emigrati di prendere posizione su tre problemi che riguardavano: l’atteggiamento verso i classici, il formalismo («il principale nemico di una letteratura che aspira veramente alle grandi vette»), e il popolarismo, cioè l’attenzione per il popolo («criterio di base di ogni autentica grande arte»).

L’intenzione di Mosca era certamente quella di far scoppiare una polemica e di utilizzarla per imporre anche agli scrittori che non vivevano in Urss un codice letterario già imperativo per i letterati sovietici. I moscoviti contavano, senza dubbio, su una grande reazione alla provocazione di Kurella; ma, almeno all’inizio, ve ne furono ben poche. Ernst Bloch domandò se l’articolo di Ziegler fosse stato scritto prima o dopo il discorso di Hitler a Monaco che denigrava l’espressionismo come «arte degenerata», una coincidenza imbarazzante che tuttavia non fu sufficiente a impedire agli esiliati in Unione Sovietica di portare avanti la loro polemica. Erpenbeck rispose che in effetti l’articolo di Ziegler era stato scritto prima del discorso di Hitler e invitò quindi Bloch a contribuire con un suo articolo.

Bloch e l’arte d’avanguardia

Bloch ne scrisse due, in collaborazione con Hanns Eisler, ma le aspettative di Mosca circa l’apertura di un dibattito rimasero ugualmente deluse. Infatti, non solo gli articoli furono inviati al Die neue Weltbühne invece che al Das Wort, ma per di più in essi si ignorava volutamente la questione dell’espressionismo. Bloch e Eisler si erano resi conto che l’articolo di Kurella sull’espressionismo non rappresentava che un modo indiretto e poco significativo di riproporre il punto di vista di Lukács sul realismo e sulla decadenza, senza coinvolgere almeno per il momento lo stesso Lukács. Nel primo dei saggi, dal titolo Avantgardekunst und Volksfront (Arte d’avanguardia e fronte popolare), Bloch e Eisler sottolineavano l’esigenza di un’incessante sperimentazione nell’arte d’avanguardia: «Oggi un artista può dirsi d’avanguardia solo se riesce a mettere le nuove tecniche artistiche al servizio della vita e della lotta delle masse». Il saggio seguente, Die Kunst zu erben (l’Arte da ereditare), centrava l’attenzione sulla lotta per il riscatto della tradizione dalla manipolazione fascista. L’obiettivo all’ordine del giorno al di fuori della Germania era quello di contribuire a «selezionare e a preparare il materiale classico utilizzabile ai fini di questa lotta». Per quanto riguardava Lukács, Eisler e Bloch osservavano che gli artisti non erano certo incoraggiati dall’affermazione che tutta l’arte moderna non poteva che essere decadente e che sempre lo sarebbe stata. Gli artisti avevano bisogno della comprensione e della consapevolezza dei problemi specifici in cui si imbattevano nello scrivere. «Per questo motivo, sarebbe opportuno che il teorico, che, per di più, si compiace a volte di vestire i panni del maestro di scuola, fosse più cauto nei suoi consigli agli artisti moderni», continuavano Bloch e Eisler, aggiungendo: «Che ignoranza dell’arte moderna traspare dalle loro (di Lukács e dei suoi sostenitori) prese di posizione! Che pregiudizi, che cecità! Tutto quello che accade nella nostra epoca viene considerato qui come pura e semplice putrefazione, sommariamente, a priori, senza fare nessuna distinzione». Era del tutto assurdo invitare tutti gli scrittori a prendere a modello i classici: «Si tratta di un nuovo tipo di donchisciottismo, ma di genere tutt’altro che cavalleresco».

Thomas Mann e la barbarie fascista

Un vasto dibattito si sviluppò ugualmente sui numeri successivi di Das Wort, sebbene dovessero passare alcuni mesi prima che Bloch mutasse opinione e accettasse di contribuirvi. Nel frattempo Das Wort ricevette e pubblicò nel numero di dicembre del 1937 e nei numeri di febbraio, marzo e maggio del 1938, cinque diversi saggi sull’espressionismo, dichiarando infine chiuso il dibattito con la pubblicazione di altre sette saggi nel fascicolo di giugno. Fino a giugno Lukács rimase in silenzio, seguendo quasi certamente un piano d’azione preordinato. Una risposta a Eisler e Bloch, intitolata Wozu brauchen wir das klassische Erbe (Perché abbiamo bisogno dell’eredità classica), non venne mai pubblicata. In questo saggio Lukács si mostrava più rude del solito, aggredendo Bloch per aver giudicato figure come Dos Passos e Brecht rappresentative dell’arte contemporanea e aver ignorato, invece, «i realisti veramente significativi della nostra epoca»: Romain Rolland, Thomas Mann e Heinrich Mann. Le tendenze progressive dell’arte contemporanea si riducevano dunque unicamente alla distruzione delle forme antiche, «quale veniva massicciamente praticata da Dos Passos nella prosa epica e da Brecht nella drammaturgia?» L’arte narrativa tradizionale di un Gor’kij, di un Rolland, o di un Thomas Mann non si era forse mostrata di gran lunga superiore, tanto nei suoi esiti artistici quanto in rapporto agli obiettivi democratici e culturali del fronte popolare, al confronto con questi esperimenti di distruzione della forma? Egli non intendeva affatto respingere in blocco l’arte contemporanea, ma solamente l’influsso delle «correnti antirealistiche». Bloch e Eisler, faceva quindi notare Lukács, avevano espresso la propria soddisfazione per la lotta condotta in Urss contro la sociologia volgare, ma avevano ignorato il risultato più significativo di questa lotta, «cioè, il concetto secondo il quale l’atteggiamento politico o ideologico di uno scrittore nei confronti di un certo sistema sociale non offre alcuna garanzia che la sua descrizione di questa società sia profonda e veritiera». Alcuni scrittori potevano essere politicamente e socialmente radicali, combattere contro le tendenze reazionarie della loro epoca e, nel contempo, aderire a correnti artistiche antiumanistiche. Di contro, esistevano scrittori politicamente molto meno radicali che opponevano tuttavia un’ostinata resistenza alle tendenze barbariche della loro epoca, attraverso un’analisi approfondita dei personaggi. Thomas Mann, per esempio. La sua opposizione alla barbarie, culminata nel fascismo, era stata «molto più radicale, determinata e coerente di quella di Brecht o di Dos Passos». La soluzione non era un astratto pro o contro, ma il «come sia possibile realizzare una forma di scrittura realista». In Brecht Lukács si esprimeva così:

Non discutiamo il talento. Brecht è uno scrittore estremamente dotato. Ma esaminiamo attentamente la sua interpretazione della Madre di Maksim Gor’kij, opera meravigliosa, umanamente matura e profonda. Il ritratto penetrante di Gor’kij, così ricco di prospettive, è stato tradotto da Brecht in un concitato e insipido dialogo attorno ad alcune tesi plagiate dal Das Kapital e dalla tattica comunista. Nella descrizione dei personaggi, Brecht si è sottomesso coscientemente a quelle tendenze dell’evoluzione moderna che soffocano tutto ciò che è umano e che accettano come esito immutabile, come «fato» la riduzione dell’uomo a numero. So bene che Brecht, sia come individuo sia come politico, è un accanito oppositore di questa evoluzione; tutta la teoria e la prassi della sua drammaturgia «anti-aristotelica» si basano, tuttavia, sull’accettazione dogmatica e acritica dell’attuale situazione sociale.

Gli scrittori contemporanei, presi nella morsa dei pregiudizi barbarici dell’epoca dell’imperialismo, avevano virtualmente perduto, secondo Lukács, ogni criterio qualitativo della narrazione; prendevano per vita reale un’accumulazione di dettagli superficiali e insignificanti, oppure scambiavano, uno schema astratto per la quintessenza della realtà. Diverso era il caso di Gor’kij, di Rolland, di Thomas e Heinrich Mann, che avevano passato la vita a combattere contro queste tendenze antiumanistiche e acritiche. Proprio per questo motivo «le loro opere sono intrise dello spirito grande, vitale e liberatorio del periodo classico». Bloch avrebbe dovuto riflettere un istante sul «popolarismo dell’arte classica», che nasceva dalla capacità degli autori classici di descrivere quelle energie umane, insite nel popolo, a cui era sufficiente una scintilla per diventare forze produttive e creative nella vita della società. «Osservare con occhio attento e descrivere il risveglio di queste forze nei popolo tedesco asservito dal fascismo, in modo tale che ne possa derivare un incitamento per le masse popolari», era questo il compito della letteratura del fronte popolare.

Realismo e tradizione

Anche se quest’articolo non fu mai pubblicato, Lukács ebbe ugualmente l’ultima parola nei dibattito sull’espressionismo con un altro saggio che fece seguito alle Diskussionen über Expressionismus di Ernst Bloch. Bloch aveva esordito dichiarando il suo proposito di riprendere le fila dell’intero dibattito, partendo dal saggio del 1933 di Lukács sull’espressionismo che, affermava Bloch, era alla base degli articoli di Ziegler e di Franz Leschnitzer. Bloch ribadiva il suo stupore per le scarse conoscenze mostrate da Lukács nel campo dell’arte moderna che «egli consegna, senza molti rimpianti, alla putrefazione capitalistica – e non solo, come sarebbe accettabile, in parte, ma completamente, in toto». Bloch comprendeva benissimo cosa si nascondeva dietro quest’atteggiamento intransigente: «La volontà di classificare la quasi totalità delle manifestazioni di opposizione alla classe dominante, che non siano sin dal principio comuniste, come espressioni della stessa classe dominante». Bloch affermava che la prosecuzione di una «tecnica del bianco e nero» era inappropriata all’epoca del fronte popolare. Respingeva, inoltre, le «tre domande» poste da Kurella-Ziegler facendo notare che erano state formulate in modo sleale, allo scopo di insinuare che chi rispondeva negativamente a quelle domande, o le considerava semplicemente malposte, nascondesse dentro di sé «vestigia espressioniste».

Lukács colse così l’opportunità per intervenire nel dibattito con il suo saggio Es geht um den Realismus. Il contrasto di opinioni non riguardava la letteratura moderna in opposizione ai classici, bensì la seguente domanda: «Quali autori, quali correnti letterarie rappresentano il progresso nella letteratura contemporanea? È una questione di realismo». Lukács ripeteva poi i concetti già esposti in altri suoi saggi: la letteratura come riflesso della realtà obiettiva; l’unita dialettica dell’apparenza e dell’essenza; la tendenza soggettiva, antirealistica, delle tecniche letterarie moderne a rimanere a livello della realtà immediata, superficiale; e l’idea centrale che, da un lato, uno scrittore non aveva bisogno di essere cosciente del suo ruolo per scoprire le tendenze segrete della realtà oggettiva ma che, dall’altro lato, il desiderio più fervido di rivoluzionare l’arte e di creare qualcosa di «radicalmente nuovo» non era sufficiente a fare di uno scrittore un anticipatore delle future tendenze dello sviluppo.

«La via che porta all’inferno è lastricata di buone intenzioni» scriveva Lukács, inoltrandosi in una disamina del popolarismo e della tradizione. «Essere in un rapporto profondo con la tradizione significa essere figlio di un popolo, essere trascinato dalla corrente dello sviluppo di un popolo». L’atteggiamento dell’avanguardia nei confronti della tradizione era invece l’opposto; gli artisti d’avanguardia si avvicinavano alla storia popolare «come a un gigantesco mercato di cianfrusaglie», continuava Lukács, e denunciava l’uso da parte di Bloch di espressioni quali: «parti utilizzabili della tradizione». Per lo stesso motivo criticava Hanns Eisler che proponeva, secondo Lukács, di rubacchiare qua e là dai classici e poi di amalgamare tra loro «i pezzi idonei» per impiegarli nella lotta antifascista. Lukács riconosceva che lo sviluppo popolar-realista della letteratura contemporanea tedesca non era così pronunciato come in altri paesi, ma proprio per questo motivo si doveva concentrare l’attenzione sulla «letteratura popolar-realista tedesca del passato»; questa letteratura esisteva, e il Simplizissimus di Grimmelhausen ne costituiva un esempio di rilievo. «Lasciamo pure agli Eisler gli apprezzamenti sul valore del montaggio delle parti smembrate di questo capolavoro – per una letteratura tedesca viva esso continuerà ad esistere … in tutta la sua grandezza come una totalità vitale e simbolica».

Opere di questo genere, consentendo la comprensione delle epoche democratiche e progressive dell’evoluzione umana, preparavano, secondo Lukács, tra le grandi masse un terreno fertile per «una democrazia rivoluzionaria di un nuovo tipo, rappresentata dal fronte popolare». Quanto più profondamente la letteratura militante antifascista era radicata in questo suolo, tanto maggiore sarebbe stata la sua influenza sul popolo. «Il fronte popolare significa: lotta per un autentico popolarismo, abbondanza di legami con l’intera vita del proprio popolo; significa individuare linee d’azione, parole d’ordine che, sulla base di questa vita del popolo, risveglino le inclinazioni verso una vita nuova, politicamente attiva». L’emigrazione e la lotta per il fronte popolare in Germania avevano rafforzato queste tendenze, benché esistessero ancora tradizioni antirealistiche che avevano profonde radici tra molti progressisti e leali militanti del fronte popolare.

La protesta di Brecht

I redattori moscoviti speravano ancora di indurre Bertold Brecht a una replica, alla quale avrebbero senza dubbio ribattuto con una risposta adeguata di Lukács. L’ironia era che tutto ciò avveniva sul giornale di Brecht! Quest’ultimo però si rendeva lucidamente conto dell’inutilità di un dibattito pubblico con Lukács e con i suoi sostenitori. L’approccio di Lukács alla letteratura era talmente estraneo all’estetica di Brecht da rendere inutile ogni discussione, per quanto prolungata. Tuttavia, il saggio di Lukács Es geht um den Realismus, e in particolare i pesanti commenti su Eisler, avevano provocato la sua ira. Venuto a conoscenza del manoscritto destinato al numero di giugno di Das Wort e, almeno teoricamente, in attesa della sua approvazione per essere pubblicato, Brecht protestò, ma la sua protesta fu ignorata: il saggio di Lukács fu pubblicato contro la sua volontà. Poco tempo dopo, Brecht scrisse di nuovo a Kurella, evidentemente in risposta a una lettera che gli era stata indirizzata. Brecht allegava una breve nota destinata ad essere pubblicata su Das Wort, riguardante il passo del saggio di Lukács che si riferiva a Eisler, e comunicava a Kurella il prossimo invio di un suo saggio dal titolo Volkstümlichkeit und Realismus (Popolarismo e realismo).

La voce di Brecht non fu l’unica a levarsi in segno di protesta. Il 20 agosto Hanns Eisler inviò a Das Wort un Antwort an Lukács (Risposta a Lukács), esprimendo la speranza che la sua replica fosse immediatamente pubblicata. Sarebbe stato «assolutamente imperdonabile» che gli fosse negata l’opportunità di rispondere all’«incredibile ingiuria» di Lukács, tanto più che «il mio amico Brecht mi ha scritto che avete rifiutato di pubblicare le sue considerazioni sull’argomento».

Ma Erpenbeck, il direttore di fatto della rivista moscovita, si rifiutò di pubblicare anche l’Antwort di Eisler, con il pretesto di averla ricevuta in ritardo, a dibattito ormai concluso. Se fosse arrivata prima, assicurava Erpenbeck, «l’avremmo senz’altro pubblicata … Non c’è bisogno di dire che tutti i nostri collaboratori, compreso Lukács, hanno un uguale diritto ad esprimere le loro opinioni», in cambio, si chiedeva ad Eisler di scrivere un saggio sul popolarismo o Volksnähe, poiché il dibattito sarebbe continuato in questa direzione, e Eisler avrebbe avuto migliori opportunità di polemizzare con Lukács con un articolo su questo tema, che non nella Antwort. Erpenbeck suggeriva ad Eisler di esporre il proprio punto di vista seguendo queste linee: «si può porre questa equazione: realismo equivale a popolarismo, ma quest’equazione è schematica». Avrebbe potuto usare Lukács come «esempio negativo».

Il compromesso proposto da Erpenbeck non riuscì a placare Eisler. Questi si diceva disposto a scrivere un articolo sul popolarismo, ma ciò non aveva niente a che fare con una replica a Lukács, una «risposta necessaria, una volta per tutte, ad un modo inaccettabile di discutere e di travisare le cose». Inutile a dirsi, Eisler avrebbe potuto in qualsiasi momento pubblicare l’Antwort sulla Neue Weltbühne; ma ciò avrebbe dato l’impressione che esistessero delle divergenze tra le due riviste e vi avrebbe quindi fatto ricorso solo in caso estremo. Finì per pubblicarlo sulla Neue Weltbühne.

Nel frattempo, Lukács aveva espresso un altro giudizio sprezzante su Brecht. Nel numero di luglio dell’«Internationale Literatur», Lukács aveva pubblicato la traduzione tedesca di Marx und das Problem des ideologischen Verfalls. Si diceva in essa che gli scrittori antirealisti potevano essere «onesti e appassionati oppositori del capitalismo» ma che queste inclinazioni socio-politiche rimanevano al livello di una tendenza socialmente e politicamente astratta. «Il risultato è, in casi del genere, un utilitarismo letterario astrattamente rivoluzionario, come in certi drammi di Brecht o nei romanzi di Erenburg». La pubblicazione di questo scritto, che faceva seguito all’apparizione del saggio di Lukács nel numero di giugno di Das Wort, colmava veramente la misura per Brecht. In una lettera a Willi Bredel, a Parigi, egli scrisse che il lavoro a Das Wort diveniva sempre più problematico; la rivista sembrava aver preso un andamento strano in cui «una ristretta cerchia, capeggiata evidentemente da Lukács e Hay, sta costruendo una forma ideale ben definita, che implica l’opposizione a
tutto ciò che non si accorda con questo tipo di forma, che si rifà sostanzialmente ai romanciers borghesi del secolo scorso». L’importante battaglia contro il formalismo stava per trasformarsi a sua volta in formalismo. Brecht così continuava:

Nel settimo numero dell’«Internationale Literatur» c’è un nuovo attacco di Lukács, che mi definisce un decadente borghese … Ogni tanto ricevo da Erpenbeck la richiesta di partecipare al dibattito, ma non ho alcun interesse a farlo, ovviamente; considero infatti questi dibattiti dannosi e generatori di confusione, in particolare in un momento come questo, in cui l’opinione del virtuoso Lukács finisce sempre per essere apprezzata (almeno dallo stesso Lukács) come l’autentica posizione marxista.

Per il momento, continuava Brecht, non riceveva da Das Wort che materiale già selezionato e le sue obiezioni non venivano mai prese in considerazione. «Posso assicurarti» diceva a Bredel, «che non sopporterò a lungo questo stato di cose. Dopo tutto, per noi è importante avere questo giornale ed è estremamente importante che sia un buon giornale. Cosa si può fare?» Non venne fatto nulla, e nessuno degli articoli e delle note di Brecht fu mai pubblicato, né Volkstümlichkeit und Realismus, il pezzo su Eisler, né la monografia di Brecht su di lui, mentre non è ancora chiaro se l’articolo sul popolarismo sia mai stato spedito a Mosca. Dopo l’articolo di Lukács del luglio, Brecht potrebbe aver deciso che ormai fosse inutile inviarlo a Erpenbeck.

Questioni di potere

Brecht rispose però privatamente agli affronti subiti, con vari articoli e con i commenti dei suo Arbeitsjournal. Lesse inoltre i suoi saggi a Benjamin, chiedendogli un consiglio sull’opportunità di pubblicarli. Dal momento che Lukács occupava a Mosca «un’importante posizione», come gli aveva detto Brecht, Benjamin ne concluse che si trattava di questioni di potere; era necessario che a Mosca qualcuno si alzasse in piedi per far sentire la sua voce. «Hai ancora degli amici laggiù, dopo tutto», disse Benjamin a Brecht, che rispose: «Al momento non ho più amici laggiù. Neppure i moscoviti ne hanno – come i morti». Così i saggi in questione rimasero tutti inediti, con una sola eccezione, fino al 1966. In essi Brecht ribadiva un unico concetto: «Fare del realismo una questione di forma, legarlo a una sola e unica forma (e per di più antiquata), significa sterilizzarlo», scriveva in Die Expressionismusdebatte. In un secondo articolo aggiungeva che «il realismo non è una questione di forma. Non si può prendere la forma da un autore realista … e chiarmarla la forma realista. Non è realistico … Nella critica occorre guardarsi dal formalismo. È una questione di realismo». In un terzo saggio, invitava i critici a comprendere che, rifiutandosi di considerare le questioni formali nell’ottica della lotta per il socialismo, condannavano se stessi al formalismo critico.

Questi articoli, per quanto fossero, come disse Benjamin, «veementi», conservavano ancora una sorta di riserbo e di correttezza, né contenevano giudizi sprezzanti su Lukács. Ben diverso è il tono degli appunti del diario di Brecht dei mesi di luglio, agosto e settembre 1938 e di un ultimo commento del gennaio 1939. Lukács, la cui «importanza consiste nel fatto che scrive da Mosca», era un «morxista», affermava Brecht, e aggiungeva sardonicamente: «Nelle pagine letterarie dei giornali pubblicati dai marxisti è riaffiorato frequentemente, di recente, il concetto di decadenza. Ho scoperto che anch’io sono parte di questa decadenza. Naturalmente la cosa mi ha interessato moltissimo. Leggendo Marx und das Problem des ideologischen Verfalls di Lukács, Brecht ne criticava il concetto di rappresentazione (Gestaltung). Balzac e Tolstoj «rappresentavano» e quindi riflettevano la realtà, proprio come Šolochov e Thomas Mann. Ma in questo modo, scriveva Brecht, «non c’è più conflitto tra il realismo della borghesia e quello del proletariato … per rappresentare non c’è bisogno di sapere nulla (Thomas Mann, per esempio, rappresenta e, in fin dei conti, non sa nulla). Mentre rappresentano, questi half-wits lasciano che la realtà abbia il sopravvento sui loro pregiudizi, senza accorgersene. È un processo di esperienza diretta: prendi un calcio, dici ahi! Lui prende un calcio e dirà ahi! O beata semplicità!» Per «i Lukács» la lotta di classe era un concetto svuotato, prostituito, saccheggiato: nient’altro che un vuoto principio. Dal momento che la lotta di classe esisteva realmente, allo scrittore bastava ritrarre la realtà per catturarla nelle sue opere. Dopotutto, era noto che la lotta di classe era presente ovunque, proseguiva ironicamente Brecht: «Una tale ottusità è gigantesca».

Scrittori e professori

Brecht comprendeva perfettamente il significato della distinzione tra narrazione e descrizione operata da Lukács, ma riteneva che la forma narrativa di Balzac e di Tolstoj fosse stata definitivamente superata da un «prosaico complesso di cose» quali le miniere, il denaro e così via – i temi di Zola. Gli ammonimenti dei «professori» non avrebbero rimesso insieme i pezzi della vecchia forma narrativa realista, diceva Brecht, aggiungendo in inglese: «all the king’s horses and all the king’s men couldn’t put Humpty Dumpty together again». Brecht comprendeva, inoltre, perfettamente il carattere intimidatorio degli articoli di Lukács. Se avesse seguito questa falsariga, il dibattito sul realismo avrebbe finito col bloccare la produzione letteraria, confidava Brecht a Benjamin; e, riferendosi a Lukács, Gábor e Kurella, aggiungeva: «Questi sono nemici della produzione. Ai loro occhi, la produzione è sospetta: è l’imprevedibile. Non se ne possono conoscere in anticipo i risultati. Per quello che li riguarda, non vogliono produrre niente. Vogliono giocare agli apparatčik e controllare gli altri. Ciascuna delle loro critiche contiene una minaccia».

Alla fine dell’estate del 1938 il dibattito sull’espressionismo, che i Moscoviti si sforzavano di orientare sulla questione del «popolarismo», cominciò a dare segni di stanchezza, nonostante la recensione dell’Enrico Quarto di Heinrich Mann pubblicata da Lukács nel numero di agosto di Das Wort, che ripeteva sostanzialmente gli argomenti a favore del popolarismo esposti precedentemente in Der Historische Roman. Nel numero di settembre egli pubblicò, inoltre, un articolo sul popolismo di Tolstoj, estratto dal suo lungo saggio sullo scrittore russo. Il dibattito vero e proprio si concluse con un articolo ipocrita di Kurella, che dichiarava di non aver voluto, con quanto aveva scritto su Benn e con le successive osservazioni sull’espressionismo, dare il via a una polemica. Erpenbeck tentò quindi di aprire un nuovo dibattito sul tema del popolarismo, sottolineandone il ruolo centrale nell’arte antifascista. Ma con gli scritti di Kurella e di Erpenbeck, il dibattito sull’espressionismo e il popolarismo si chiuse definitivamente, probabilmente per lo scarso interesse degli interlocutori occidentali; dopo tutto, non aveva molto senso impegnarsi in una discussione su Das Wort o su Internationale Literatur con emigrati tedeschi a Mosca che non avrebbero potuto o voluto comunque dissentire su questi temi. La questione si riaffacciò brevemente nel maggio 1939, quando I.L. pubblicò uno scambio di lettere tra Anna Seghers e Lukács. In seguito, dopo la guerra, gli stessi temi furono di nuovo ripresi e dibattuti nella Germania orientale.

Le illusioni di Roth

Verso la fine del 1939, Lukács prese parte all’ultimo dibattito letterario del suo esilio sovietico. Questa volta, però, le parti si erano invertite. Il primo segnale che mise a repentaglio il prestigio goduto da Lukács nei tre anni precedenti venne da un editoriale della Literaturnaja gazeta del 10 agosto 1939. L’editoriale attaccava le idee della sociologia volgare come «antimarxiste e perniciose», «sebbene non se ne debba trarre la conclusione che una caduta nel sociologismo volgare trasformi automaticamente qualcuno in un nemico dei popolo». La rivista aggiungeva che la sociologia volgare aveva utilizzato un’analisi di classe per «smascherare» i grandi artisti del passato. Ora, però, si stava verificando l’opposto: qualsiasi forma di analisi di classe era stata bandita dalla critica letteraria e l’uso eccessivo dei «concetti di “umanesimo” e “popolarismo”» aveva tolto loro ogni significato; «la sociologia volgare e l’umanesimo volgare sono due manifestazioni di una stessa debolezza, il passaggio da un estremo all’altro», concludeva l’editoriale.

Cinque giorni dopo, Lukács pubblicò sulla stessa rivista un breve articolo su Marcia di Radetzsky di Joseph Roth, nel quale fece un’osservazione che gli si ritorse immediatamente contro: «È un fenomeno curioso: i significativi meriti artistici di quest’opera, anche se non derivano dalla debolezza ideologica dell’autore, sono, tuttavia, ad essa intimamente connessi. Se Roth non avesse sofferto a causa delle proprie illusioni, difficilmente avrebbe saputo penetrare così profondamente nel mondo interiore dei suoi funzionari e ufficiali».

Questa affermazione fu la fonte principale dell’accusa rivolta a Lukács di mettere in relazione la mentalità reazionaria di un autore con i suoi meriti artistici. Vladimir Ermilov la isolò e se ne servì per il primo importante attacco contro Lukács e contro le «idee perniciose di Literaturnyj kritik. Secondo Ermilov, Lukács riteneva che la capacità di descrivere veridicamente la realtà fosse proporzionale alla quantità di false illusioni coltivate da un autore. Non era certamente questo che Lukács aveva inteso dire, almeno non in questa forma volgarizzata e ipersemplificata, tuttavia, si era servito di una «frase pericolosa», come la definì Lifšic nel 1977, e aveva scritto in modo troppo «incauto, senza considerare le circostanze» (3). Come ebbe a dire, poi, Igor Sac, segretario di redazione della Literaturnyj kritik, il dibattito che seguì fu talmente fumoso che gli stessi contendenti non riuscivano a distinguere chiaramente la posizione dei propri avversari (4).

Spengler sul trono

La disputa vera e propria si accese intorno a K istorii realizma (Per la storia del realismo) una raccolta di saggi scritti e per la maggior parte già pubblicati da Lukács negli anni 1934-36. Le idee contenute in quei saggi divennero improvvisamente sospette. Evgenija Knipovič attaccò il volume e lo stesso Lukács, accusandolo di aver sostenuto, nel suo saggio su Balzac e Stendhal, che la posizione «più aperta, più limpida, più progressista» di Stendhal, rispetto a quella di Balzac, gli aveva impedito di divenire uno scrittore autenticamente realista. Si trattava, dunque, del ribaltamento della tesi secondo la quale l’ideologia reazionaria di uno scrittore ne favoriva il realismo. Lifšic rispose alla Knipovič all’inizio del 1940, sempre sulla Literaturnaja gazeta, che conduceva ora il dibattito, con un articolo intitolato Basta, nel quale sosteneva che la Knipovič non era seriamente interessata a un sincero scambio di opinioni. Le basi per una vera discussione erano pregiudicate da «accuse politiche sotterranee». In passato, la Knipovič aveva sostenuto la tesi della sociologia volgare ma ora, dopo la sconfitta di quest’ultima, aveva mutato di 180 gradi la propria posizione. Secondo Lifšic, alle analisi di classe della sociologia volgare e al settarismo autocompiaciuto nei riguardi degli scrittori occidentali, ormai screditati e sconfitti, si era sostituita adesso una «terminologia liberal-democratica volgare e non-marxista», che adottava un atteggiamento acritico nei confronti della rivoluzione francese e accusava Lukács di essere un «termidoriano».

Con l’intensificarsi degli attacchi, gli avversari di Lukács battezzarono «Corrente» o «Nuova corrente» la scuola di Lukács, Lifšic e di Literaturnyj kritik. Nessun critico, però, si mostrò così abile come N.N. Viljam-Vilmont, che usò contro Lukács e Lifšic le loro stesse dottrine. In un articolo il cui titolo illustrava eloquentemente il contenuto (L’intronizzazione di Oswald Spengler), Viljam-Vilmont denunciava la «revisione del marxismo-leninismo che da diversi anni era stata pilotata da Lifšic e da Lukács». Le teorie di Lifšic non erano dissimili da quelle degli «ideologi della decadenza»: Lifšic era il «revisionista». Erano proprio Lukács e Lifšic, irriconciliabili nemici di ogni «volgarizzazione», che interpretavano la teoria leninista del rispecchiamento in «maniera volgare». Le loro «chiacchiere sui benefici di una Weltanschauung reazionaria», sull’ibrido incrocio tra «reazionario e plebeo» erano comprensibili solo nei termini di Spengler. L’arte, ammoniva Viljam-Vilmont, non si limitava a rispecchiare la lotta di classe, ma era anche l’«arena» della lotta di classe. Infine, concludeva Viljam-Vilmont, i rappresentanti della Corrente non solo avevano soppresso e mutilato con i loro «gelidi schemi» la grande eredità del passato, ma cercavano anche di «distorcere le impressioni dei lettori sovietici sugli sviluppi della letteratura occidentale contemporanea». Il «marxismo leninismo» di Lukács e Lifšic era completamente fagocitato dalla filosofia di Spengler.

Lukács rispose agli attacchi. Questa volta, però, i ruoli assunti da Brecht e da Lukács ai tempi del dibattito sull’espressionismo si invertirono: nessuno dei cinque saggi scritti da Lukács fu pubblicato, tranne uno, dal titolo Prinzipielle Fragen einer prinzipienlosen Polemik (Questioni di principio di una polemica senza principi). «Uno spettro di aggira per la nostra teoria letteraria – scriveva Lukács –. La sociologia volgare, sconfitta in seguito ai dibattiti degli anni Trenta, ha ammesso saggiamente di essere morta, ha rinunciato alle sue indifendibili posizioni e ha mutato la sua terminologia, anzi si è perfino appropriata, con consumata abilità mimetica, di quelle dei suoi avversari. Ma il suo modo di pensare è rimasto sostanzialmente lo stesso». Che cos’è che stava più a cuore alla sociologia volgare? «I dibattiti degli anni Trenta» lo avevano rivelato chiaramente: il progresso non contraddittorio che, avviato dalla borghesia liberale, procedeva fino al socialismo. Era questo il punto su cui Lukács concentrò i suoi attacchi contro la nuova sociologia volgare: la sua inclinazione a giudicare acriticamente la borghesia liberale e progressista, denunciando qualsiasi critica alla borghesia come un attacco al progresso in generale, come pessimismo, come reazione. «Una ritirata strategica è sempre la preparazione di una nuova offensiva», affermava Lukács, «ed ecco che gli assalti dei sociologi volgari si sono fatti da qualche tempo più frequenti». L’articolo della Knipovič costituiva un esempio interessante di questi «assalti» condotti dalla risorta sociologia volgare. Criticando l’articolo di Lukács su Balzac, la Knipovič resuscitava («contraddicendo Engels») la tesi obsoleta della supremazia di Zola su Balzac, del naturalismo sul realismo autentico. Alcuni anni prima la stessa tesi, sostenuta in un assalto frontale, aveva dovuto subire una disastrosa sconfitta. Si assisteva ora ad un mutamento di tattica: Stendhal non significava nulla per la Knipovič; il suo «grande nome è stato strumentalizzato per una manovra sul fianco».

Contro il sociologismo volgare

In Verwirrungen über den Sieg des Realismus, Lukács tornava a precisare la sua interpretazione del concetto engelsiano di trionfo del realismo. Tale trionfo poteva assumere forme diverse in scrittori diversi appartenenti a differenti epoche e classi. Gli avversari della Corrente, rifiutando di ammettere le limitazioni, le inesattezze, le illusioni della Weltanschauung progressista-borghese e credendo, invece, a uno sviluppo storico lineare e non contraddittorio, dividevano meccanicamente la letteratura e gli scrittori in due gruppi: quelli con una visione del mondo progressista, che potevano favorire la letteratura, e quelli con una visione reazionaria, che potevano solo danneggiarla. Questa concezione chiaramente si scontrava con la dottrina di Lukács, secondo la quale una visione reazionaria non riusciva a volte a nascondere la veridicità di una rappresentazione, mentre una Weltanschauung progressista non offriva di per sé nessuna garanzia di realismo. Per i «compagni» Knipovič e Kirpotin non esisteva su questo punto nessuna difficoltà: né una contraddizione dialettica tra Weltanschauung, realtà e letteratura, né un insieme di problemi artistici. Essi potevano ragionare soltanto in termini di «solo reazionario» o «solo progressista».

Secondo Lukács, tutti i suoi avversari applicavano alla letteratura uno «standard democratico-formale» che li spingeva ad assumere come figure letterarie centrali Byron, Hugo e Zola, invece di Goethe, Puškin Shelley, Balzac e Tolstoj. Questi critici (chiamati da Lukács «progressivisti») giudicavano ancora le opere sulla base delle concezioni dell’autore. Kirpotin, per esempio, prendeva le mosse dallo studio del punto di vista intellettuale di uno scrittore e delle sue opinioni politiche. In seguito, ricercava l’espressione di queste opinioni nella sua opera, negando ogni possibile influenza diretta della realtà stessa. Le cose erano cambiate soltanto in questo, continuava Lukács: che Kirpotin e C. non avevano più il coraggio di rifiutare in toto Shakespeare o Balzac a causa delle loro concezioni, come ai tempi d’oro della sociologia volgare. Si trattava, però, di una riconciliazione superficiale con il marxismo, che non intaccava la sostanza del loro modo di valutare la letteratura.

In realtà, che cosa avevano fatto i collaboratori di Literaturnyj kritik? Essi avevano semplicemente epurato la loro estetica da espressioni di decadenza letteraria, anche quando i singoli scrittori, nel corso della loro «zigzagante carriera», esprimevano concezioni che avevano conquistato i «progressivisti». Ma Lukács era sicuro che, anche questa volta, «come nei dibattiti sulla Rapp», i metodi poco scrupolosi dei sociologi volgari nulla avrebbero potuto contro la verità del marxismo-leninismo.

Lukács riassumeva, così, la sua posizione: l’ingenuo errore dei «volgarizzatori» consisteva nel situare le Weltanschauungen al di fuori del tempo, dello spazio e delle circostanze sociali; essi consideravano solo l’astratto schema «reazionario o progressista» e abbassavano le opere d’arte al loro volgare livello. Ma l’elemento progressista di un Balzac o di un Tolstoj era invece intimamente connesso con i limiti, e le idee di retrività pure presenti in questi autori, così come avveniva per qualsiasi corrente progressista borghese. Occorreva sottolineare con forza questo punto, proseguiva Lukács. I suoi avversari invece procedevano da una visione assiomatica secondo la quale le concezioni progressiste in senso borghese, non hanno alcun limite, e l’engelsiano trionfo del realismo – la vittoria della verità della vita sui pregiudizi di uno scrittore – è possibile e necessario solo nel caso di scrittori reazionari (sempre in senso borghese). Lukács concludeva esprimendo la convinzione che si dovesse combattere l’applicazione meccanica di standard democratico-formali, perché avrebbe condotto alla liquidazione del marxismo-leninismo.

La liquidazione della Corrente

Fu la Corrente, invece, e non il marxismo-leninismo ad essere liquidata, in seguito a una risoluzione speciale del Comitato Centrale del Soviet che stabiliva la cessazione della Literaturnyj kritik con il numero di marzo. Il mese successivo Krasnaja nov riassumeva così tutte le «perniciose opinioni» di Literatumyj kritik: sotto il «vessillo della lotta contro l’ipersemplificazione della sociologia volgare» la rivista aveva sostenuto che la storia dell’arte e della letteratura è estranea alla lotta di classe. «Il gruppo riunitosi attorno a Literaturnyj kritik ha rimpiazzato le classi e la lotta di classe con i concetti astratti di “popolo” e di “popolarismo”» – scriveva Krasnaja nov, precisando che tutto ciò che Engels aveva scritto su Balzac e Lenin su Tolstoj (le citazioni preferite di Lukács) contraddicevano apertamente le asserzioni della Corrente lukacciana. Citando il commento di Lukács su Joseph Roth, la rivista sottolineava, come aveva già fatto Ermilov, che Balzac e Tolstoj avevano scritto grandi opere non «grazie» alla loro concezione reazionaria, ma «nonostante» ciò. Naturalmente, questa era sempre stata la posizione di Lukács, ma lo scopo del dibattito non era quello di ristabilire la verità storica.

L’accusa più grave rivolta contro la Corrente fu, comunque, quella di essersi isolata dal mondo della letteratura sovietica e dalla maggioranza degli scrittori sovietici. Basando le loro idee su una teoria del declino, Lukács e Lifšic erano indotti a vedere anche l’arte sovietica come una manifestazione decadente (6). Literatumyj kritik e i suoi redattori, concludeva Krasnaja nov, avevano «un atteggiamento sprezzante nei confronti della letteratura sovietica».

Il realismo socialista e l’Occidente

Non c’è alcun dubbio sull’influenza esercitata da Lukács nell’ambito della Sezione tedesca dell’Unione degli scrittori sovietici: su tutte le questioni di teoria letteraria, era lui il portavoce del gruppo. I suoi saggi lasciano poco spazio a speculazioni sulle sue opinioni, alla letteratura sovietica sia su quella occidentale. Resta, invece, aperta la questione della connessione tra gli sviluppi politico-letterari in Occidente e quelli in Unione Sovietica, e del ruolo che Lukács ebbe in questo contesto. Fu soltanto una coincidenza che il fronte popolare politico-letterario sostenuto dall’Unione Sovietica si affermasse in Occidente nei 1936, contemporaneamente all’avvento in Urss di una nuova scuola di pensiero teorico-letteraria che rinnegava in gran parte quei concetti di teoria letteraria il cui perdurare avrebbe creato una contraddizione tra la politica letteraria sovietica e la politica culturale del fronte popolare? E sarebbe stata possibile la formazione in Occidente di un fronte popolare sostenuto dall’Urss, finché in Unione Sovietica si fosse continuato a basare la valutazione della letteratura borghese classica su una volgarizzazione dell’analisi di classe marxista? Nel 1936, c’era urgente bisogno di un «metodo creativo» che potesse essere applicato sia alla letteratura sovietica, sia, mutatis mutandis, agli scrittori borghesi occidentali.

Il metodo materialistico dialettico della Rapp, che esigeva da tutti gli scrittori una coscienza marxista, era chiaramente inutilizzabile in Occidente. Nel 1931-32 Lukács poteva ancora applicare, nei saggi di Linkskurve, degli standard estetici virtualmente identici a quelli della Rapp agli scrittori rivoluzionari proletari, ma gli sarebbe stato impossibile applicare gli stessi criteri ai compagni di strada occidentali. C’era bisogno di un nuovo metodo creativo, che potesse essere interpretato come un ridimensionamento degli imperativi del marxismo: «scrivi la verità», «rifletti la realtà». Il realismo socialista sovietico non si limitava a sostenere dei concetti moderati come «umanesimo» e «popolarismo», ma implicava anche dei tabù – il formalismo, il naturalismo, l’estremismo radicale di sinistra – e perciò rappresentava per l’appunto quell’arma a doppio taglio che le autorità letterarie sovietiche stavano cercando: uno strumento più tollerante, in linea teorica, del programma della Rapp, grazie all’enfasi posta sul retaggio sul popolarismo e sul trionfo del realismo, ma ugualmente autoritario e censorio nella sua foga «antidecadente».

E in seguito fu soltanto un caso che, non appena il patto Hitler-Stalin ebbe definitivamente seppellito il fronte popolare, Lukács, Lifšic e la Corrente fossero posti sotto accusa per le stesse tesi che avevano goduto dell’approvazione ufficiale negli anni dal 1936 al 1939; e il che, nel giro di pochi mesi, la Corrente venisse disciolta e che l’intera controversia scoppiasse improvvisamente intorno a un libro che conteneva saggi scritti fra il 1934 e il 1936? Perché queste idee non erano mai state giudicate pericolose prima dei 1939? Con ciò non si intende suggerire che Lukács abbia formulato la propria dottrina estetica per seguire delle direttive politiche. Le sue teorie erano già ampiamente maturate prima del 1936, anno in cui venne formulata la dottrina del realismo socialista, e anche in seguito la relazione tra Lukács e il realismo socialista ufficiale fu di simbiosi più che di identità. Ma, se è vero che i concetti teorici di Lukács emersero indipendentemente dal realismo socialista, sta di fatto che essi si prestarono perfettamente ad essere impiegati nella politica culturale del fronte popolare e, probabilmente, la loro specifica applicazione venne studiata a livello strategico nei circoli politici. Nessun altro critico sovietico o marxista avrebbe potuto sostituire Lukács in questo compito. Se Lukács non fosse esistito, negli anni dal 1933 al 1939, i sovietici avrebbero dovuto inventarlo.

  1. L’articolo di Brecht fu effettivamente spedito a Mosca. In marzo, Ruth Berlau inviò due aggiunte dello stesso Brecht, che avrebbero dovuto essere la conclusione dell’articolo.
  2. Venne discussa l’opportunità di pubblicare l’articolo di Erpenbeck con uno pseudonimo. Ma Erpenbeck telegrafò da Jaita: «Mettete senz’altro il mio nome sotto l’articolo, personalmente non ho nessuna intenzione di identificarmi con la visione teorica di Brecht».
  3. Dalla conversazione dell’autore con Lifšic nel 1977.
  4. Dalla conversazione dell’autore con Igor Sac nel 1979.
  5. Lukács si riferisce qui agli attacchi rivolti contro la Rapp, in particolare al dibattito sul Litfront. La Rapp era l’agguerrita Associazione degli scrittori proletari che si richiamava programmaticamente all’ortodossia ideologica. La Rapp esercitò la propria egemonia sulla letteratura sovietica dal 1925 al 1932, quando venne disciolta dal partito. Ricordando il dibattito di quegli anni, Lukács non dice che all’epoca la sua posizione era molto vicina a quella della Rapp.
  6. Lukács aveva scritto in Su i due tipi di artista (Liateratunyj kritik, I, 1939) che il socialismo aveva distrutto le basi economiche e sociali del sistema capitalistico: «Soltanto le vestigia borghesi ancora presenti nello spirito degli artisti sovietici, soltanto la loro arretratezza culturale può renderli sensibili alla crescente influenza del decadentismo e spingerli ad ammirare le “innovazioni” e le “conquiste” estetiche prodotte dagli artisti dell’Occidente capitalistico».

Solženitsyn: Una giornata di Ivan Denisovič

di György Lukács

[Solschenizyn «Ein Tug in Leben des Iwan Denissowitsch» (1964), trad. it. di Fausto Codino, in «Belfagor», n. 3, 1964, ora in G. L., Marxismo e politica culturale, Einadui, Torino 1968].


1. Il rapporto estetico della novella col romanzo è già stato studiato più volte, anche dall’autore di queste pagine. Molto meno si è parlato del suo rapporto storico, dei suoi effetti alterni nel corso dello sviluppo letterario. Eppure questo è un problema quanto mai interessante e istruttivo, che illumina e caratterizza particolarmente proprio la situazione attuale. Intendiamo accennare al fatto, spesso ricorrente, che la novella appare o come anticipatrice di una conquista della realtà da parte delle grandi forme epiche e drammatiche, o alla fine di un periodo, come retro-guardia, come un’ultima eco. Cioè: o nella fase del non-ancora, nel dominio poetico universale sul mondo sociale di una data epoca, o in quella del non-più.

Sotto questo aspetto il Boccaccio e la novella italiana appaiono come i precursori del moderno romanzo inglese. Essa rappresenta il mondo in un’epoca in cui le forme di vita borghesi avanzano vittoriose, in cui esse cominciano a distruggere sempre più, nei campi più diversi, le forme di vita medievali e a prenderne il posto, mentre tuttavia non può esistere ancora una totalità degli oggetti, una totalità delle relazioni umane e dei comportamenti nel senso della società borghese. Dall’altra parte, la novella di Maupassant appare come un’eco affievolita del mondo di cui Balzac e Stendhal avevano descritto la nascita, Flaubert e Zola il molto problematico compimento.

Questo rapporto storico può sorgere solo in virtù di peculiarità del genere. Si è già detto della totalità degli oggetti come tratto caratteristico dell’universalità estensiva del romanzo; la totalità drammatica ha un altro contenuto e un’altra struttura, ma entrambe sono rivolte all’integrità comprensiva della vita rappresentata, in entrambe il pro e contra universalmente umano di fronte alle questioni centrali del tempo produce una totalità di tipi che contrastandosi e integrandosi a vicenda occupano i posti giusti negli avvenimenti del tempo. La novella muove invece dal caso singolo e, nell’estensione immanente della raffigurazione, resta ferma ad esso. La novella non pretende di raffigurare completa la realtà sociale, neppure in quanto questa totalità risulta dall’aspetto di un problema fondamentale e attuale. La sua verità deriva dal fatto che un caso singolo – per lo più estremo – è possibile in una società determinata, e nella sua mera possibilità è caratteristico di essa. Perciò essa può tralasciare la genesi sociale degli uomini, delle loro relazioni, delle situazioni in cui agiscono. Perciò non ha bisogno di mediazioni, per avviare i fatti, e può rinunciare a prospettive concrete. Questa particolarità della novella, che tuttavia dal Boccaccio a Čechov ammette variazioni interne all’infinito, consente che storicamente essa appaia tanto come anticipatrice quanto come retroguardia delle forme grandi, come espressione artistica del non-ancora o del non-più della totalità rappresentabile.

Qui naturalmente non cercheremo di discutere, neppure per accenni, questa dialettica storica. Ma dobbiamo dire, per evitare malintesi, che l’accennata alternativa di non-ancora e non-più, importantissima per le considerazioni che faremo più avanti, non esaurisce affatto i rapporti storici di romanzo e novella. Ne esistono numerosi altri che questa volta dobbiamo tralasciare. Per accennare alla molteplicità dei nessi possibili, basterà ricordare Gottfried Keller. Enrico il Verde, per potersi sviluppare come totalità di romanzo, dovette abbandonare la Svizzera del giovane Keller. La gente di Seldwyla presenta come ciclo, nel contrasto e nell’integrazione reciproci, il quadro di quella totalità non rappresentabile in forma di romanzo. E la patria diventata capitalistica non può offrire, corrispondentemente alla visione kelleriana dell’uomo, alcuna totalità ricca e non artificiosamente articolata; invece le novelle tra loro polemiche dell’Epigramma, considerate come cornice narrativa, sanno mostrare gli alti e bassi, i pro e contra della maturazione di una coppia che si sviluppa verso il vero amore, mentre la vita immediata del mondo accessibile a Keller non avrebbe permesso di riuscirvi in forma di romanzo. Qui dunque si ha uno specialissimo intreccio di non-ancora e di non-più, che non sopprime radicalmente i nessi storici sopra accennati fra romanzo e novella, ma non può affatto trovare immediatamente il suo posto in essi. E la storia letteraria presenta altre alternative, affatto diverse, sulle quali non ci possiamo soffermare.

Con questa riserva, si può dire che l’epica contemporanea e recente, nei suoi tentativi di rappresentare affermazioni umane autentiche, spesso recede dal romanzo alla novella. Penso a capolavori come Tifone e La linea d’ombra di Conrad, al Vecchio e il mare di Hemingway. La recessione appare già nel fatto che la base sociale, l’ambiente sociale del romanzo scompare, e le figure centrali devono fare i conti con un mero fenomeno naturale. Questo duello dell’eroe isolato, affidato a se stesso, con la natura, per esempio con la tempesta o la bonaccia, può anche finire con la vittoria dell’uomo, come in Conrad, ma anche se la fine è una sconfitta, come in Hemingway, l’affermarsi degli uomini è il contenuto centrale della novella. Con queste novelle, i romanzi degli stessi scrittori (e anche di altri) stanno in netto contrasto: i rapporti sociali divorano, schiacciano, distruggono, falsificano ecc. l’uomo. Su questo terreno non sembra che si possa trovare una forza di resistenza efficace, sia pure condannata a una tragica rovina. E siccome scrittori di talento non possono rinunciare a qualsiasi integrità umana, a qualsiasi grandezza interiore, essi ricorrono a questo tipo di novella, combattimento di retroguardia nella lotta per la salvezza dell’uomo.

Anche nella letteratura sovietica oggi le forze del progresso si concentrano sulla novella, oltre che sulla lirica. Solženitsyn non è certo l’unico, ma è quello che, per quanto sappiamo, è riuscito ad aprire una vera breccia nel baluardo ideologico della tradizione stalinista. Nelle considerazioni seguenti vogliamo mostrare che nel suo caso – e nel caso di chi si muove nella stessa direzione – si tratta di un inizio, di un primo sondaggio della realtà, e non della conclusione di un periodo, come nel caso dei notevoli narratori borghesi sopra ricordati.

2. Oggi il problema centrale del realismo socialista è l’elaborazione critica dell’età staliniana. Questo naturalmente è il compito principale di tutta l’ideologia socialista, ma qui mi limiterò al campo della letteratura. Se il realismo socialista, che a causa del periodo staliniano è diventato talvolta un termine offensivo e dispregiativo, anche nei paesi socialisti, vuole risalire all’altezza che aveva raggiunto negli anni venti, esso deve ritrovare la strada della rappresentazione dell’uomo contemporaneo. Ma questa strada deve passare inevitabilmente attraverso una fedele descrizione dei decenni staliniani, con tutti i loro aspetti disumani. I burocrati settari obiettano: non si deve rivangare il passato, ma soltanto rappresentare il presente; il passato è passato, già del tutto superato, scomparso dall’oggi. Tale affermazione non è solo falsa – il solo fatto che venga enunciata dimostra che la burocrazia culturale staliniana è ancora presente con tutta la sua influenza –, ma è anche priva di qualsiasi senso. Quando Balzac o Stendhal descrivevano il periodo della Restaurazione, sapevano di rappresentare uomini che in maggioranza erano stati formati dalla rivoluzione, dal Termidoro e dalle sue conseguenze, dall’Impero. Julien Sorel o Père Goriot sarebbero semplici ombre e schemi se fosse descritta soltanto la loro esistenza presente nella Restaurazione, senza le loro vicende, il loro sviluppo, il loro passato. Tanto vale anche per il periodo di ascesa del realismo socialista in letteratura. Le figure principali di Šolochov, di A. Tolstoj, del giovane Fadeev ecc. provengono dalla Russia zarista; nessuno potrebbe capire il loro comportamento nella guerra civile senza aver visto come essi, attraverso l’anteguerra, le esperienze della guerra imperialista, i mesi della rivoluzione, siano arrivati alla posizione in cui si trovano, e soprattutto al modo in cui vi si trovano.

Nel mondo attuale del socialismo ancora pochi vivono attivamente che non abbiano vissuto in qualche modo il periodo staliniano, pochi che non siano stati formati dalle esperienze di quegli anni nella loro odierna fisionomia spirituale, morale e politica. «Il popolo» che si sarebbe sviluppato socialisticamente e che avrebbe edificato il socialismo restando «immune» dagli eccessi del «culto della persona» non è neppure una falsa utopia; proprio quelli che fanno queste affermazioni e che operano con esse sanno meglio di tutti – per propria esperienza – che il sistema dell’autorità staliniana aveva penetrato tutta la vita quotidiana, che tutt’al più i suoi effetti si sentivano con minor forza in villaggi remoti. Detto così, questo sembra un luogo comune. Ma nelle diverse persone esso è stato sentito in modo diverso, e nelle reazioni degli individui appare una varietà infinita di prese di posizione. Le alternative di tanti ideologi occidentali, come: Molotov o Köstler, solo nelle sfumature sono più irreali e stupide dell’atteggiamento burocratico che abbiamo detto.

Se questo riuscisse a dirigere la letteratura, avremmo una continuazione diretta della «letteratura illustrativa» dell’età staliniana. La quale era una manipolazione grossolana del presente: non nasceva dalla dialettica del passato e degli obiettivi reali, delle azioni di uomini reali, ma era determinata di volta in volta, nel contenuto e nella forma, dalle risoluzioni dell’apparato. Poiché la «letteratura illustrativa» non nasceva dalla vita, ma serviva a commentare le risoluzioni, le marionette costruite per questo scopo non dovevano e non potevano avere un passato, a differenza degli uomini. Esse invece avevano soltanto personality tests che venivano riempiti a seconda che si dovesse considerarle «eroi positivi» o «cattivi».

La manipolazione grossolana del passato è soltanto una parte della generale manipolazione grossolana delle figure, delle situazioni, delle vicende, delle prospettive ecc. nelle opere della «letteratura illustrativa». Perciò l’insensato indirizzo cui sopra abbiamo accennato è soltanto una continuazione coerente, e adeguata ai tempi, della politica letteraria staliniano-ždanoviana, un nuovo impedimento contro la rinascita del realismo socialista, contro la riconquista della sua capacità di rappresentare tipi autentici di un periodo, che prendano posizione di fronte ai problemi grossi e piccoli del loro tempo movendo dalla necessità della propria personalità, dalla necessità della loro esistenza passata. Che in ultima analisi la loro personalità sia socialmente e storicamente condizionata, appare soprattutto chiaro nel rapporto passato-presente-prospettiva del futuro. Proprio se fa sorgere gli uomini di oggi dal loro passato vissuto, la letteratura porta alla superficie sensibile con la massima chiarezza il rapporto fra uomo e società all’interno della sua personalità. Infatti un passato uguale – dal punto di vista storico – assume in ogni vita umana una forma variata: gli stessi avvenimenti sono vissuti in modo diverso da uomini diversi per origine, per cultura, per età ecc. Ma anche lo stesso avvenimento ha sugli uomini effetti straordinariamente differenziati: vicinanza o lontananza, centro o periferia, anche la pura e semplice casualità dei momenti della mediazione personale, creano un più vasto campo di variazioni. E di fronte a questi avvenimenti nessun uomo è proprio spiritualmente passivo; ma si trova sempre di fronte ad alternative, le cui conseguenze possono portare dalla fermezza fino a compromessi astuti o sciocchi, giusti o falsi, e fino alla capitolazione. Ma avvenimenti e reazioni non sono mai fatti isolati: essi sono concatenati, e la reazione passata è sempre un momento non trascurabile di quella successiva. Se non si mette in chiaro il passato, dunque, non si può scoprire il presente. Una giornata di Ivan Denisovič, di Solženitsyn, è un notevole avviamento a questo reperimento letterario di se stessi nel presente socialista.

Non si tratta, almeno principalmente, delle rivelazioni sugli orrori dell’età staliniana, sui campi di concentramento ecc. Queste rivelazioni esistevano già da lungo tempo nella letteratura occidentale, ma hanno perduto l’iniziale capacità di sbalordire, specialmente nei paesi socialisti, dopo che il XX Congresso ha messo all’ordine del giorno la critica del periodo staliniano. Il merito di Solženitsyn è di aver fatto di una giornata priva di avvenimenti, in un campo qualsiasi, il simbolo letterario del passato non ancora superato, non ancora rappresentato nella letteratura. Benché i lager siano un aspetto estremo dell’età staliniana, il settore da lui scelto, e ritratto artisticamente tenendosi al grigio su grigio, diventa un simbolo della vita quotidiana sotto Stalin. Ciò perché egli si è posto da poeta queste domande: quali esigenze ha posto questo periodo agli uomini? Chi ha superato positivamente la prova, da uomo? Chi ha salvato la propria dignità e integrità umana? Chi ha resistito, e come? In chi si è conservata la sostanza umana? E dove, invece, essa è stata deformata, spezzata, distrutta? Limitandosi rigorosamente alla vita immediata del lager, Solženitsyn ha potuto porre la questione in maniera affatto generale e concreta nello stesso tempo. Naturalmente restano escluse le sempre mutevoli alternative politico-sociali di fronte alle quali la vita metteva gli uomini rimasti in libertà, ma la resistenza o il crollo sono così immediatamente concentrati sull’essere o non essere concreto di uomini vivi, da elevare ogni singola decisione al livello di una generalizzazione e di una tipizzazione aderenti alla vita.

L’intera composizione, di cui più avanti vedremo i particolari, serve a questo scopo. La sezione ivi descritta della vita quotidiana del lager rappresenta in essa una «buona» giornata, come dice alla fine il personaggio centrale. E in realtà quel giorno non avvengono fatti eccezionali, non ci sono atrocità particolari. Vediamo soltanto l’ordinamento normale del campo e le reazioni tipiche dei suoi abitanti. Così i problemi tipici possono assumere una figura ben delineata, e si lascia alla fantasia del lettore d’immaginare gli effetti provocati nei personaggi da costrizioni più gravi. A questa semplicità della composizione, a questa concentrazione quasi ascetica sull’essenziale, corrisponde esattamente l’estrema economia dell’esecuzione letteraria. Del mondo esterno è mostrato solo ciò che è indispensabile, per gli effetti che suscita nella vita interna degli uomini; di quest’ultima solo quelle reazioni – e anch’esse in una scelta estremamente sobria – che sono legate direttamente, attraverso mediazioni subito perspicue, al loro nucleo umano. Così quest’opera – non nata da un’impostazione simbolica – può avere forti effetti simbolici; e questa rappresentazione può valere anche per i problemi quotidiani del mondo staliniano, anche per quel che essi non hanno rapporti immediati con la vita dei lager.

Già da questa descrizione sommaria e astratta della composizione di Solženitsyn appare che stilisticamente essa è un racconto, una novella, e non un breve romanzo, benché la narrazione tenda concretamente ad essere il più possibile completa, a giungere all’integrazione reciproca dei tipi e delle vicende. Solženitsyn rinuncia di proposito ad ogni prospettiva. La vita del lager è vista come condizione permanente; i rari cenni alla scadenza del periodo di reclusione per alcuni restano quanto mai indeterminati (l’idea di una soppressione dei lager non affiora neppure nei sogni ad occhi aperti); nella figura centrale si fa vedere solo che intanto il paese è molto cambiato e non può affatto tornare al vecchio stato: e anche per questa via si mette in risalto l’isolamento del lager. Così il futuro resta avvolto, sotto ogni aspetto, da una fitta oscurità. Si possono soltanto prevedere giorni simili, migliori o peggiori ma non radicalmente diversi. Anche il passato affiora raramente. Un paio di cenni sul modo in cui alcuni sono finiti nel lager rivelano, proprio nella loro oggettiva laconicità, l’arbitrio delle autorità giudiziarie, amministrative, militari e civili. Nessuna parola sulle questioni politiche di fondo, per esempio sui grandi processi, che sono scomparsi in un buio passato. E anche l’ingiustizia personale della deportazione, solo sfiorata in momenti isolati, non è criticata direttamente, ma appare come una dura realtà, come un presupposto necessariamente accettato di questa esistenza da lager. Si esclude dunque – con piena consapevolezza artistica – tutto ciò che in futuro potrebbe e dovrebbe essere compito di grandi romanzi o drammi. Si ha qui una somiglianza stilistica formale – ma meramente formale – con le notevoli novelle che sopra abbiamo ricordato. Ma in questo caso non si ha una recessione dalle forme grandi, bensì un primo sondaggio della realtà nella ricerca delle forme grandi ad essa adeguate.

Oggi il mondo socialista è alla vigilia di una rinascita del marxismo, che non solo è chiamata a restaurarne i metodi deformati da Stalin, ma soprattutto tenderà ad afferrare adeguatamente i nuovi fatti della realtà col metodo antico e nuovo del marxismo autentico. Altrettanto avviene, in letteratura, per il realismo socialista. Una continuazione di ciò che nell’età staliniana veniva lodato ed esaltato come realismo socialista sarebbe un’impresa disperata. Ma crediamo che si sbaglino anche quanti vorrebbero seppellire prematuramente il realismo socialista, quanti ribattezzano realismo tutto ciò che è sorto nell’Europa occidentale dopo l’espressionismo e il futurismo, e vogliono anche sopprimere l’attributo «socialista». Se la letteratura socialista riprende coscienza di se stessa, se torna a sentire una responsabilità artistica di fronte ai grandi problemi del suo presente, possono liberarsi grandi forze che spingerebbero verso una letteratura socialista attuale. Sulla via di questo processo di trasformazione e di rinnovamento, che rappresenta una netta svolta di fronte al realismo socialista dell’età staliniana, ci pare che il racconto di Solženitsyn costituisca una pietra miliare.

Queste prime rondini di una primavera letteraria possono certo avere un’importanza storica, per quello che annunciano, senza avere tuttavia un particolare valore artistico. Si possono ricordare Lillo e dopo di lui Diderot, come primi scopritori del dramma borghese. Ma crediamo che la posizione storica di Solženitsyn sia diversa. Ponendo teoricamente al centro dell’interesse drammaturgico le circostanze (conditions) sociali, Diderot conquistò alla tragedia un repertorio importante di temi: la sua parte di scopritore, limitatamente al riconoscimento astratto di una tematica, non appare diminuita se si ammette la mediocrità dei suoi drammi. Ma Solženitsyn non ha conquistato alla letteratura, come repertorio di temi, la vita nei campi di concentramento. Il suo modo di esporre, orientato verso la vita d’ogni giorno nell’età staliniana e le sue alternative umane, indica invece una reale terra vergine nei problemi umani del successo e del fallimento; il campo di concentramento, come simbolo della vita d’ogni giorno nell’età staliniana, permetterà in futuro di ridurre proprio questa vita di lager a un mero episodio nell’universalità della nuova letteratura che ora si annuncia, in una universalità in cui tutto ciò che ha importanza per la prassi individuale e sociale del presente deve prendere forma come sua preistoria individuale.

3. In quest’unica giornata di Ivan Denisovič i lettori hanno visto il simbolo dell’età staliniana. Tuttavia la maniera narrativa di Solženitsyn non contiene traccia di simbolismo. Egli presenta una sezione autentica, reale della vita, in cui nessun elemento cerca di acquistare una speciale evidenza, un’eccessiva evidenza, di assumere un valore simbolico. D’altra parte in questa sezione è conservato e concentrato il destino tipico, il comportamento tipico di milioni di persone. Questa schietta verità naturale di Solženitsyn non ha niente del naturalismo immediato, né del naturalismo mediato da una tecnica raffinata. Le discussioni attuali sul realismo e soprattutto sul realismo socialista tra l’altro ignorano la vera questione centrale perché non tengono conto dell’antagonismo fra realismo e naturalismo. Nella «letteratura illustrativa» dell’età staliniana si sostituiva il realismo con un naturalismo di Stato, combinato con un cosiddetto romanticismo rivoluzionario, statale anch’esso. È vero che in sede di teoria astratta, negli anni trenta, si contrapponeva il naturalismo al realismo; ma solo in astratto, e questa astrazione poteva acquistare vera concretezza solo in un’opposizione alla «letteratura illustrativa», perché nella prassi la manipolazione della letteratura diffamava come naturalismo tutti i fatti non conformi alle prescrizioni, e solo questi; in omaggio a questa prassi, un superamento del naturalismo si poteva avere soltanto se lo scrittore per la sua opera sceglieva esclusivamente fatti che direttamente o indirettamente giustificassero quelle risoluzioni che la sua opera era chiamata a illustrare sul terreno letterario. La tipizzazione diventava così una categoria meramente politica. Indipendentemente dalla dialettica particolare dei personaggi, della loro sostanza umana, nella tipicità s’incarnava un giudizio universale positivo o negativo su atteggiamenti considerati utili o sfavorevoli per l’esecuzione di una data risoluzione. Intrecci e figure erano costruzioni estremamente artificiose, ma dovevano essere naturalistici in quanto questo modo di procedere ha proprio di caratteristico che i particolari non sono collegati, per organica necessità, né tra loro né con i personaggi, con le loro vicende ecc. Essi restano sbiaditi, astratti o eccessivamente concreti, a seconda del carattere dello scrittore, ma non si compongono in unità organica col materiale creativo, poiché per principio vi sono introdotti dall’esterno. Ricordo quando si discuteva scolasticamente fino a che punto un eroe positivo potesse o dovesse avere anche qualità negative. Ciò significa negare che in letteratura l’uomo concreto, particolare, sia l’elemento primario, il punto di partenza e d’arrivo, della creazione. Qui uomini e vicende possono e debbono essere manipolati a piacere.

Se ora, come molti desiderano, modi poetici moderni, occidentali, devono prendere il posto dell’invecchiato realismo socialista, resterà fuori causa in generale, nell’uno e nell’altro campo, il fondamentale carattere naturalistico delle correnti dominanti nella letteratura moderna. Io ho fatto osservare più volte, in vari contesti, che i diversi ismi che a suo tempo hanno preso il posto del naturalismo vero e proprio hanno lasciato immutata proprio questa interna mancanza di nessi, questa incoerenza compositiva del naturalismo, la rottura dell’unità immediata di essenza e fenomeno. Se si supera l’aderenza naturalistica alle osservazioni immediate, se la si sostituisce con proiezioni unilateralmente oggettive o unilateralmente soggettive, non si tocca, in linea di principio, questo problema fondamentale del naturalismo. (Parliamo della generale prassi letteraria, non dei notevoli casi eccezionali). Nei Tessitori o in Pelle di castoro Gerhart Hauptmann non è naturalista, in senso estetico, mentre la gran massa degli espressionisti, dei surrealisti ecc. non ha mai superato il naturalismo. Pertanto è facile capire, da questo punto di vista, perché gran parte dell’opposizione al realismo socialista dell’età staliniana cerchi e creda di trovare un rifugio nella letteratura moderna. Si può infatti compiere questo passo sul piano di una spontaneità meramente soggettivistica, senza rovesciare il rapporto degli scrittori verso la realtà sociale, senza uscire dalla fondamentale attitudine naturalistica, senza vivere e meditare a fondo i grandi problemi dell’epoca. Non è neppure necessario romperla con la «letteratura illustrativa»; già negli anni trenta c’erano romanzi dell’industrializzazione «fedeli alla linea», che usavano tutti i ritrovati dell’espressionismo, della neue Sachlichkeit, del montaggio alla moda, ma si distinguevano dalla media della produzione ufficiale di allora solo per questa tecnica esteriore. Da certi indizi appare che il fatto si può ripetere anche oggi, per quanto si debba dire che un puro rifiuto di tipo meramente soggettivo è ben lungi dal significare un superamento ideale e artistico dell’accettazione delle linee ufficiali.

Il racconto di Solženitsyn sta in netto contrasto con tutte le tendenze interne del naturalismo. Abbiamo già parlato dell’estrema parsimonia del suo stile. In virtù di essa, tutti i particolari sono in lui altamente significativi. Come in ogni opera d’arte autentica, la particolare sfumatura di questo significato scaturisce dalla peculiarità della materia. Ci troviamo in un campo di concentramento: ogni pezzo di pane, ogni straccio, ogni frammento di pietra o di metallo che possa servire da utensile serve a prolungare la vita; il raccoglierlo mentre si va al lavoro, il nasconderlo da qualche parte comporta il rischio di essere scoperti, di subire la confisca o anche la cella di rigore; ogni espressione, o gesto di un superiore esige una reazione specifica immediata, che se è sbagliata può provocare anch’essa i più gravi pericoli; d’altra parte ci sono situazioni, per esempio nelle ore dei pasti, in cui con un atteggiamento opportunamente risoluto si può ottenere una porzione doppia, ecc. Hegel osserva che la grandezza epica dei poemi omerici deriva anche dall’importanza che ha in essi la vistosa e giusta descrizione del mangiare, del bere, del dormire, del lavoro materiale ecc. Nella vita borghese ordinaria queste funzioni perdono per lo più questo peso specifico e solo i grandissimi, come Tolstoj, sono capaci di restaurare queste mediazioni complicate. (Naturalmente questi confronti servono solo a chiarire il problema letterario che c’interessa e non devono essere presi come giudizi di valore).

In Solženitsyn il particolare significativo ha una specialissima funzione, derivante dal carattere speciale della materia: esso rende concreta l’angustia soffocante di questa giornata nel lager, la sua monotonia sempre avvolta da pericoli, gl’incessanti movimenti capillari che tendono a salvare la pura sopravvivenza. Qui ogni particolare è un’alternativa fra salvezza o rovina; ogni oggetto un suscitatore di fatti salutari o funesti. Così la natura peculiare dei singoli oggetti, in sé sempre casuale, è visibilmente e inseparabilmente legata alle singole curve dei destini umani. Da mezzi maneggiati con parsimonia sorge così la totalità concentrata della vita nel lager: la somma e il sistema di questi dati di fatto semplici e miseri costituisce una totalità simbolica, umanamente significativa, che illumina una tappa importante della vita umana.

Su questa base di vita sorge qui una forma speciale di novella; se la mettiamo a confronto e in contrasto con le grandi novelle del mondo borghese che abbiamo citato, riusciamo a chiarire la situazione storica dell’una e delle altre. Nell’uno e nell’altro gruppo si lotta con un ambiente sopraffattore e nemico di una crudeltà e disumanità che ne rivelano il carattere «naturale». In Conrad o Hemingway questo ambiente ostile è realmente la natura. (In Conrad la tempesta o la bonaccia, ma, quando operano destini puramente umani, come nella Fine del canto, anche la cecità, la crudeltà della propria natura biologica, con cui il vecchio capitano deve lottare). La socialità delle relazioni umane si ritira sullo sfondo, spesso sbiadisce fino a scomparire. L’uomo è contrapposto alla stessa natura, di fronte alla quale egli deve salvarsi con le proprie forze o perire. Perciò in questo duello ogni particolare è importante: oggettivamente incarna il destino, soggettivamente pone un’alternativa di salvezza o di rovina. Ma siccome qui l’uomo e la natura sono direttamente contrapposti, le immagini naturali possono conservare un’ampiezza omerica senza che si attenui la loro intensità fatale, perché proprio in questo modo il rapporto fatale col personaggio torna sempre a condensarsi in decisioni importanti. Ma proprio per questo le relazioni eminentemente sociali tra gli uomini sbiadiscono, e queste novelle diventano fenomeni conclusivi di uno sviluppo letterario.

Anche in Solženitsyn la totalità rappresentata ha caratteri «naturali». Essa semplicemente esiste, come factum brutum, senza genesi apparente dai moti della vita umana, senza ulteriore sviluppo in un’altra forma dell’essere sociale. Tuttavia essa è sempre e dovunque una «seconda natura», un complesso sociale. Per quanto i suoi effetti possano apparire affatto «naturali», spietati, crudeli, insensati, disumani, essi derivano pur sempre da azioni umane, e l’uomo che si difende deve atteggiarsi di fronte ad essi in modo affatto diverso che di fronte alla natura. Il vecchio pescatore di Hemingway può provare addirittura simpatia e ammirazione per il grosso pesce che con la sua tenace resistenza gli fa correre gravi rischi. Di fronte ai rappresentanti della «seconda natura» ciò non sarebbe possibile. Solženitsyn evita ogni espressione troppo aperta di rivolta interiore; ma essa è contenuta implicitamente e compostamente in tutte le parole e in tutti i gesti. Infatti le manifestazioni naturali della vita fisica, come il freddo, la fame ecc., in ultima analisi procedono attraverso relazioni fra uomini. Anche il riuscito o mancato superamento della prova è sempre immediatamente sociale: anche se non è mai detto apertamente, esso si riferisce sempre alla futura vita reale, alla vita nella libertà fra altri uomini liberi. Qui naturalmente è presente anche l’elemento «naturale» della salvezza o della rovina fisica immediata, ma il motivo dominante è, oggettivamente, quello sociale. La natura, infatti, è realmente indipendente da noi uomini: può essere sottoposta alla conoscenza umana, trasformatasi in pratica, ma per necessità la sua essenza non è modificabile. La «seconda natura», per quanto «naturale» possa apparire a prima vista, è però formata da relazioni umane, è opera nostra. Perciò verso di essa appare sensato, in ultima istanza, l’atteggiamento di chi la vuole mutare, migliorare, rendere umana. Anche la verità dei particolari, la loro sostanza, il loro manifestarsi, i loro influssi reciproci, i loro nessi ecc. sono sempre di carattere sociale, anche se la loro genesi non sembra avere direttamente questo carattere. Anche qui Solženitsyn, nella sua riservatezza ascetica, si astiene da qualsiasi presa di posizione. Ma proprio l’oggettività del suo stile, la crudeltà e disumanità «naturali» di un’istituzione umano-sociale, rappresentano un giudizio più distruttivo di quello che potrebbe enunciare qualsiasi declamazione patetica. E, del pari, nel silenzio ascetico in fatto di prospettiva è tuttavia contenuta una prospettiva latente. Tutte le prove superate e non superate additano tacitamente i modi futuri e normali delle relazioni umane; esse sono anticipazioni silenziose di una futura vita reale fra uomini. Perciò questa sezione della vita rappresenta non una fine, ma il prologo di un avvenire sociale. (In un ambito puramente individuale anche la lotta con la natura reale può essere in qualche modo umanamente formativa, come nella Linea d’ombra di Conrad, ma solo limitatamente a un individuo. Il comportamento positivo del capitano in Tifone resta un episodio interessante senza conseguenze, e come tale lo stesso Conrad lo mette in evidenza).

Si torna così all’effetto simbolico del racconto di Solženitsyn: esso ci offre, tacitamente, un’anticipazione concentrata della futura resa dei conti poetica con l’età staliniana, in cui queste sezioni rappresentavano realmente un simbolo della vita quotidiana. Esso anticipa la rappresentazione poetica del presente, del mondo degli uomini che sono passati per questa «scuola» – direttamente o indirettamente, attivamente o passivamente, uscendone rafforzati o spezzati –, che in essa sono stati preparati alla vita odierna, all’attività. Questa è la sostanza paradossale della posizione letteraria di Solženitsyn. La sua espressione laconica, il suo astenersi da ogni allusione che esca dalla vita immediata dei lager, delineano però i contorni dei fondamentali problemi umano-morali senza i quali gli uomini del presente sarebbero oggettivamente impossibili, soggettivamente incomprensibili. Proprio per il suo riserbo parco e concentrato questa sezione limitatissima della vita anticipa la grande letteratura del futuro.

Le altre novelle a noi note di Solženitsyn non sono di un’apertura così compenetrata dal simbolo. Ma proprio per questo forse, il sondaggio del passato, alla ricerca della strada che guidi alla comprensione del presente, vi appare con chiarezza non minore e infine, come vedremo, anche maggiore. Nella bella novella La casa di Matrjona questo orientamento verso il presente è meno sensibile che altrove. Qui Solženitsyn, come alcuni contemporanei, descrive un remoto mondo rurale, le cui genti e le cui forme di vita sono state scarsamente influenzate dal socialismo e dalla sua forma staliniana. (Per il quadro complessivo del presente l’esistenza di simili possibilità ha qualche importanza, ma non centrale). È il ritratto di una vecchia che ha molto vissuto e sofferto, è stata spesso ingannata, sempre sfruttata, ma nulla ha potuto scuotere la sua profonda bontà e serenità interiore. È il modello di una persona di cui nulla poteva spezzare o deformare l’umanità; un ritratto nello stile della grande tradizione realistica russa: ma in Solženitsyn si sente soltanto la tradizione in generale, non l’influsso stilistico di un determinato maestro. Questo legame con le migliori tradizioni russe è sensibile anche in altre novelle. Per esempio la composizione di Una giornata di Ivan Denisovič poggia sulle somiglianze e gli antagonismi morali di più figure centrali. La principale figura di contadino, saggio, tatticamente abile, contrasta da un lato col passionale capitano di fregata che rischia tutta la sua esistenza perché non vuole lasciar passare senza protesta un’indegnità, dall’altro con l’astuto capo della brigata che di fronte ai superiori rappresenta abilmente gli interessi dei suoi collaboratori, ma si serve anche di loro per consolidare la propria posizione relativamente privilegiata.

Più dinamica e molto più legata alla problematica dell’età staliniana è la novella Alla stazione di Krecetovka, al centro della quale sta l’aspetto etico-sociale del periodo di crisi, la «vigilanza». Essa mostra da due lati, dialetticamente, come la trasformazione in routine delle parole d’ordine staliniane distorca tutti i veri problemi della vita. Anche qui – secondo il principio autentico della novella – c’è soltanto un conflitto unicamente individuale e la sua soluzione immediata, senza che si accenni ai successivi effetti che la decisione qui presa avrà avuto nella vita, nello sviluppo ulteriore degli interessati, fino ad oggi. Ma qui la collisione è tale che la tensione da essa provocata solleva onde più ampie, oltre l’ambiente vero e proprio della novella. L’alternativa della «vigilanza», la spinta alla «vigilanza», non fu soltanto un problema scottante di quei giorni scomparsi: le sue ripercussioni agiscono anche oggi, come forze che hanno formato la personalità morale di tante persone. Il racconto del lager, nella sua coraggiosa rassegnazione, poteva rinunciare non solo a fare qualsiasi riferimento esplicito al presente, ma anche a ispirare di questi riferimenti nella fantasia integratrice del lettore; qui invece ci è posta alla fine, con una chiarezza volutamente dolorosa, la domanda: come verrà a capo di questa esperienza il giovane ufficiale entusiasta? Che uomo diventerà – e tanti altri come lui – dopo aver commesso quest’azione?

Questo tipo di novella, che è di una forma artistica riuscita come l’altro tipo, appare anche più nettamente delineato nell’ultimo scritto di Solženitsyn, Per la causa, che nella stampa sovietica è stato accolto con grande entusiasmo e violenta disapprovazione. Qui egli raccoglie coraggiosamente il guanto gettato dai settari agli amici della letteratura progressista: cioè l’invito a rappresentare anche per il periodo del «culto della persona», «indipendentemente» da esso, l’entusiasmo con cui le larghe masse costruivano. Si tratta della costruzione di una nuova scuola tecnica in una città di provincia; i vecchi locali sono del tutto insufficienti, gli scolari non vi possono trovar posto, e le autorità ritardano burocraticamente i lavori necessari per la nuova scuola. Ma c’è un autentico collettivo d’insegnanti e scolari, legati da fiducia e amore reciproco: durante le ferie essi compiono volontariamente la maggior parte dei lavori e li completano all’inizio del nuovo anno scolastico. L’inizio della novella descrive con vivacità la conclusione dei lavori, i rapporti di schietta fiducia, le discussioni leali fra insegnanti e scolari, la lieta attesa di una vita migliore nell’ambiente creato con le proprie mani. All’improvviso compare una commissione statale che, dopo un’ispezione più che superficiale dei vecchi locali, trova tutto «in perfetto ordine» e assegna il nuovo edificio a un altro istituto. I tentativi disperati del direttore, che persino un funzionario benevolo dell’apparato del partito cerca di aiutare, sono naturalmente inutili: contro l’arbitrio burocratico dell’apparato dell’età staliniana è inutile lottare anche per la causa più giusta.

Questo è tutto. Anche così è confutata, in maniera definitivamente giusta, la leggenda settario-burocratica dell’entusiasmo autentico e attivo nell’età staliniana. Nessuna persona ragionevole ha mai contestato che esso ci fosse sempre. La leggenda comincia quando si vuole che questo entusiasmo socialista possa svilupparsi produttivamente «accanto» al «culto della persona», non ostacolato (ma anzi stimolato) da esso. In Solženitsyn vediamo divampare una di queste fiammate di entusiasmo, ma seguita dalla sorte tipica che l’apparato staliniano le riserva. Come gli altri scritti di Solženitsyn, la novella si conclude al punto in cui il problema sta di fronte a noi con tutto il suo rilievo, ma anche qui senza che siano indicate, neppure per accenni, le fila del destino umano che porta all’uomo di oggi. Anche i limiti esterni sono molto stretti, sempre secondo il principio della novella autentica: né il sabotaggio precedente delle autorità, né l’atto arbitrario finale dell’apparato superiore si concretizzano in una descrizione che non sia strettamente oggettiva, seppure quanto mai convincente. Anche qui Solženitsyn, con i mezzi della sua narrazione scarna e oggettiva, senza commenti, riesce a mettere in luce il tipico in una descrizione di puri fatti. Non è una questione meramente tecnica, senza dubbio: questo risultato importante può essere raggiunto solo in quanto Solženitsyn è capace di conferire per mezzo di accenni una vitalità tipica a tutti i suoi personaggi e alle loro situazioni. La genesi e l’articolazione interna della burocrazia, gl’interessi personali di carriera che operano dietro la «sublime» oggettività della «causa», restano al difuori della cornice narrativa; nella novella essi compaiono soltanto come un presupposto evidente ma generico. I burocrati ci sono si presentati con la massima evidenza – nella loro disumanità mascherata dall’oggettività – ma non sono illuminati dall’interno, né dal punto di vista sociale né da quello umano. Più individualizzato, sempre però nei limiti di questo laconismo novellistico, appare l’entusiasmo iniziale degli insegnanti e degli scolari: al punto che l’occasionale ricordo dei «sabati comunisti» del periodo della guerra civile non suona affatto retorico. Ancora una volta la conclusione è improvvisa, come è giustificata dalla forma della novella: il sipario cade dopo che i puri fatti si sono svolti, e non c’è risposta per i problemi attuali e urgenti: che influsso hanno avuto queste e simili esperienze su maestri e scolari? In che senso esse hanno formato la loro esistenza successiva? Che uomini sono diventati nella vita di oggi? La conclusione si concretizza solo fino al momento che queste domande si pongono nei lettori accorti, nei quali esse riecheggeranno e resteranno vive per lungo tempo. Ancora una volta, dunque, dal passato staliniano si leva un accenno imperativo ai problemi centrali di oggi; ma questa volta esso appare molto più concreto, più forte, più autoritario, più inequivocabile che in tutti i racconti precedenti. Perciò questa novella non può essere intimamente conclusa e perfetta come Una giornata di Ivan Denisovič, e dal punto di vista puramente artistico non sta allo stesso livello. Ma come anticipazione di sviluppi futuri questa novella costituisce un grande passo avanti rispetto alle precedenti.

4. Oggi nessuno può dire quando si compirà un altro passo avanti, e se lo farà lo stesso Solženitsyn, o altri, o un altro. Solženitsyn non è l’unico che saggia questi nessi fra l’ieri e l’oggi. (Basta pensare forse a Nekrasov). Oggi nessuno può ancora sapere come riuscirà questo deciso avvio alla decifrazione del presente attraverso la chiarificazione dell’età staliniana, di quella che è la preistoria etico-umana di quasi tutte le persone che oggi agiscono nella realtà. Sarà decisivo il corso dell’esistenza sociale, dell’auto-rinnovamento e del rafforzamento della coscienza sociale nei paesi socialisti, soprattutto nell’Unione Sovietica, ma ogni marxista dovrà tener conto dello sviluppo ineguale dell’ideologia, in particolare della letteratura e dell’arte.

Nelle nostre considerazioni dobbiamo dunque fermarci a constatare che per la nostra questione è inevitabile il «che cosa», e lasciare completamente da parte le questioni del «come» e del «chi». Certo è che questo nuovo sviluppo del realismo socialista incontra forti ostacoli e impedimenti, soprattutto la resistenza di quanti sono rimasti fedeli alle dottrine e ai metodi di Stalin o almeno agiscono così. Intanto la loro opposizione aperta contro ogni rinnovamento è stata bensì attenuata da molti fatti, ma alla scuola staliniana essi hanno imparato l’abilità tattica, e in certe circostanze gli ostacoli creati per via indiretta possono arrecare al nuovo che deve ancora venire, e che spesso è intimamente malsicuro, più danni dei provvedimenti amministrativi vecchio stile (sebbene anche questi non manchino e possano fare i loro danni).

D’altra parte questo movimento verso qualche cosa di veramente nuovo può essere ostacolato e sviato dalle contese intellettualmente provinciali, oggi prevalenti, sulla modernità in senso tecnico-espositivo. Abbiamo già accennato che per questa via non si può ottenere alcunché di essenziale, giacché sul piano artistico ciò che interessa è di superare – nel senso più largo – quella visione della vita donde sono scaturiti in maggior parte gli stili di base naturalistica. Finché tanti scrittori restano fermi a queste soluzioni tecniche, se i seguaci settari di Stalin adottano una tattica un poco più elastica può ripetersi molto facilmente l’accennata situazione degli anni trenta, cioè si può utilizzare lo «stile» durrelliano, per esempio, per eludere i problemi reali del tempo. Anche in questo campo, naturalmente, ci sono fenomeni da prendere sul serio. In tante persone il periodo staliniano ha scosso la fede nel socialismo. I dubbi e le delusioni che così sono sorti possono essere affatto onesti, soggettivamente, ma quando cercano di esprimersi possono portare assai facilmente a una semplice imitazione di tendenze occidentali. E anche quando queste opere sono interessanti, come prodotti artistici, per lo più non riescono a superare il livello di un certo epigonismo. La visione di Kafka era rivolta in realtà al tenebroso nihil dell’età hitleriana, a qualche cosa di fatalmente reale; il nulla di Beckett invece è un mero gioco con abissi fittizi, ai quali nella realtà storica non corrisponde più nulla di essenziale. So che da oltre un secolo in certi ambienti intellettuali lo scetticismo e il pessimismo sono considerati molto più rispettabili della fede in una grande causa dello sviluppo del genere umano, la quale per suo conto, in certe fasi di transizione, può certo avere assunto aspetti problematici. Tuttavia le parole di Goethe a Valmy indicano il futuro più chiaramente di una trasformazione di donne in iene e anche nell’opera di Goethe esse rinviano all’ultimo monologo del Faust. Shelley è più originale e durerà più a lungo di Chateaubriand; Keller ha tratto dal 1848 insegnamenti maggiori e più fecondi di Stifter. Allo stesso modo oggi interessano soprattutto – in senso storico e letterario universale – coloro che dall’età staliniana sono stati stimolati ad approfondire e attualizzare la loro convinzione socialista. Anche i più onesti e i più dotati fra quelli che hanno perso questa convinzione e che producono cose «interessanti» sulla scia di tendenze occidentali, sembreranno semplici epigoni quando si spiegheranno le forze oggi nascoste, che ancora si devono rivelare.

Ripetiamo che qui non è nostro compito di porre il problema dell’avanguardismo. Sappiamo che scrittori come Brecht, l’ultimo Thomas Wolfe, Elsa Morante, Heinrich Böll e altri hanno creato opere importanti, originali e destinate probabilmente a durare. Ma qui vogliamo soltanto dire che quando una convinzione socialista delusa s’incontra con forme stilistiche dello scetticismo estraniato occidentale, alla fine ne risulta di solito un epigonismo. Non sarà necessario dire che solo nella vita stessa, nella propria vita, nel confronto con la realtà storico-sociale, le persone oneste possono superare le delusioni provocate in loro da fenomeni della vita. Qui le argomentazioni letterarie devono restare impotenti e le misure amministrative servono soltanto a rafforzare la moda come esoterismo aristocratico e ad allontanare ancor più dal socialismo chi si dedica a oneste ricerche.

Ci pare che Solženitsyn e quanti nutrono le stesse aspirazioni siano lontani da tutti gli esperimenti formali che abbiamo detto. Essi cercano di aprirsi la strada, sul piano umano e intellettuale, sociale e artistico, verso quelle realtà che nell’arte hanno sempre costituito il punto di partenza per rinnovamenti formali autentici. Ciò appare finora nella produzione di Solženitsyn, i cui nessi con i problemi di un rinnovamento attuale del marxismo potrebbero del pari essere illustrati senza difficoltà. Ma ogni ulteriore giudizio che volesse anticipare il futuro, prevedere lo stile del prossimo periodo, sarebbe teoricamente pura scolastica, artisticamente meschina pedanteria degna di un Beckmesser. A tutt’oggi si può constatare quanto segue: in avvenire la grande letteratura del socialismo oggi rinnovantesi non può essere – proprio nei suoi ultimi e decisivi aspetti formali – una continuazione diretta del primo slancio degli anni venti, un ritorno ad esso: infatti la struttura delle collisioni, la sostanza qualitativa degli uomini e le loro relazioni sono radicalmente mutate da allora. E ogni stile autentico sorge in quanto gli scrittori colgono nella vita del loro presente quelle specifiche forme dinamiche e strutturali che la caratterizzano più profondamente, in quanto essi sono capaci – qui si rivela l’originalità autentica – di trovare per esse una forma equivalente di rispecchiamento, in cui abbia espressione adeguata la loro peculiarità più profonda e più tipica. Gli scrittori degli anni venti rappresentavano il passaggio tempestoso dalla società borghese a quella socialista. Dalla sicurezza del tempo di pace, sia pure oggettivamente malsicura, a quell’epoca si andava attraverso la guerra e la guerra civile verso il socialismo. Gli uomini si trovavano in una situazione manifestamente drammatica, dovendo decidere per proprio conto da che parte stare; spesso dovevano passare – e anche in modo assai drammatico – da un’esistenza di classe in un’altra. Questi e simili fatti della vita determinavano lo stile del realismo socialista degli anni venti.

Oggi struttura e dinamismo delle alternative hanno una natura affatto diversa. Le collisioni esteriormente drammatiche sono rare eccezioni. La superficie della vita sociale sembra mutare di poco anche in periodi lunghi, e anche i mutamenti visibili procedono lentamente, per gradi. Da decenni invece, nella vita interiore degli uomini avviene un rivolgimento radicale che naturalmente influenza già ora anche la superficie della società e che in seguito plasmerà in misura sempre crescente le forme di vita. Ma nel passato, come oggi, l’accento cade sulla vita interiore, etica, degli uomini, sulle loro decisioni morali, che però possono non manifestarsi all’esterno. Ma si sbaglierebbe a vedere in questa predominanza artistica dell’interiorità un fatto analogo a certe tendenze occidentali, nelle quali l’assoluto dominio dell’estraniazione genera una vita interiore apparentemente illimitata, in realtà impotente. Qui noi pensiamo a una catena di decisioni interiori che – per il momento – non può scaricarsi, se non in casi eccezionali, in azioni visibili. Ma il suo aspetto caratteristico è una drammaticità che spesso può elevarsi a tragedia. Ciò che interessa è di vedere con quale rapidità e fino a che profondità questi uomini riconoscono il pericolo del periodo staliniano, come reagiscono ad esso e in che modo le esperienze così accumulate, le prove superate con successo o con la sconfitta, la loro fermezza, il loro crollo o il loro adattamento, la loro capitolazione, influiscano sul loro modo di agire attuale. Ed è chiaro che la soluzione più giusta consiste nel rifiutare le deformazioni staliniane per consolidare la certezza realmente marxista, realmente socialista, approfondirla e in pari tempo aprirla a nuovi problemi.

Non occorre proseguire, perché qui non possiamo pretendere di delineare neppure sommariamente tutta la situazione attuale, la sua genesi storica, le variazioni tipiche dei comportamenti umani. La nostra intenzione era di mostrare che oggi la base di esistenza impone assolutamente al realismo socialista uno stile diverso da quello che la realtà degli anni venti prescriveva alla letteratura di allora; e ci sembra che ciò risulti chiaro anche da questi scarsi cenni. E questo risultato deve bastare. Possiamo solo aggiungere che la forma novellistica di Solženitsyn nasce realmente da questo terreno. La scelta dei prossimi spunti è cosa che riguarda gli scrittori. «Je prends mon bien où je le trouve» è sempre stato il motto degli scrittori importanti e originali, che hanno sempre accettato volentieri e con responsabilità il rischio celato in ogni scelta: se cioè il «mon bien» sia realmente un bene; per i minori questo rischio può essere anche inconsistente e superficiale. Per quanto la teoria sia in grado di tracciare in anticipo i più generali lineamenti sociali di un simile mutamento, essa tuttavia è costretta a parlare solo post festum di tutti i fatti artistici concreti.